La lezione dei maestri italiani di epoca rinascimentale e barocca, come pure
l’esempio della statuaria antica, costituisce un riferimento di rilevanza assoluta
nell’analisi della produzione
del pittore fiammingo Peter Paul Rubens (1577-1640)
e nell’interpretazione critica sviluppatasi attorno ad essa. Il soggiorno di
Rubens in Italia, dal maggio del 1600 all’autunno del 1608, lasciò una tale
impronta nella teoria e nella prassi artistiche del pittore da suscitare un
interesse immediato nei confronti di quel “putto allevato a Roma”.
Il tema dell’eredità italiana nell’arte di Rubens, introdotto dalla biografia
secentesca di Giovan Pietro Bellori e sviluppato tra Otto e Novecento negli
studi di Max Rooses, Ludwig Burchard e Bernard Berenson, fino ai più recenti
contributi di Michael Jaffé e di Didier Bodart, si è articolato in una fitta
trama di questioni filologiche, di matrice artistica o di natura
socio-culturale. Lungi dal voler affrontare tali problematiche nel loro
complesso, il presente contributo si pone
l’obiettivo di segnalare all’attenzione del lettore alcune opere,
appartenenti al corpus rubensiano
della Courtauld Gallery, che nell’ispirazione e nella rielaborazione dei
“maestri italiani” trovano il loro significato più pieno e la loro ragion
d’essere all’interno della collezione.
Per quanto concerne la tecnica artistica è
possibile bipartire tale gruppo in schizzi ad olio e dipinti su tavola.
I
tre studi preparatori per la pala centrale e per le ali laterali del trittico
destinato alla Cattedrale di Anversa furono eseguiti da Rubens tra il 1611 ed
il 1613. Il programma iconografico delle tre figurazioni, la Visitazione,
la Deposizione
dalla Croce (fig. 1) e la
Presentazione al Tempio, trova una chiave
interpretativa nel riferimento a San Cristoforo, protettore della Gilda degli
Archibugieri che aveva commissionato l’opera. In linea con l’etimologia del
nome del Santo, le scene rimandano in vario modo al trasporto di Cristo: nella Visitazione è la figura della Vergine
Maria che porta il Figlio nel proprio grembo, nella Presentazione Gesù è effigiato tra le braccia dell’anziano Simeone
e nella Deposizione dalla Croce è lo
strumento del martirio che sostiene il corpo senza vita del Salvatore. I
riferimenti all’arte italiana, ed in particolare al Manierismo toscano di
matrice michelangiolesca, sono stati più volte messi in rilievo in sede
critica. Nello studio dedicato allo sviluppo iconografico della Deposizione dalla Croce nella produzione
di Rubens, Białostocki sostiene che lo schizzo ad olio del Courtauld vada
interpretato come una rielaborazione della “tradizione italiana, conosciuta
attraverso le opere dei Manieristi Francesco Salviati, Barocci, Jacopino del
Conte, Cigoli, e Daniele da Volterra, le cui differenti versioni potrebbero
essere state concepite sotto l’influsso delle idee di Michelangelo ed in
relazione agli esempi quattrocenteschi (Filippino, Sodoma)”.
Sebbene questa ipotesi appaia condivisibile, soprattutto nel caso del soggetto
analogo affrescato da Daniele da Volterra nella chiesa romana di Trinità dei
Monti, occorre rimarcare l’autonomia critica con la quale Rubens coniuga
suggestioni eterogenee per riproporle in una composizione inedita.
A
pochi anni dal ritorno in patria dalla Penisola, il pittore fiammingo
rielaborava gli elementi della tradizione rinascimentale con le istanze più
“moderne” conosciute a Roma. Nei pannelli a olio presi in esame, le citazioni
testuali della tradizione toscana, quali la “canefora” alla sinistra della
Vergine nella Visitazione o
l’intelaiatura spaziale formata dalla croce e dalle due scale nella Deposizione, si alternano a sintesi
decisamente originali, evidenti nello schizzo preparatorio per la tavola
centrale. Prendendo le mosse da soluzioni compositive centro-italiane, Rubens
ricerca l’armonia tra le parti, collegando i protagonisti della scena mediante
un coordinamento serrato della gestualità e attraverso un utilizzo teatrale,
più che drammatico, del chiaroscuro caravaggesco. Nonostante la varietà delle
fonti italiane prese a riferimento, la scena presenta dunque un notevole
equilibrio formale e, in linea con l’analisi condotta da Martin, le qualità di
disciplina e di controllo del dipinto possono essere interpretate come
propriamente classiche.
È
probabile, inoltre, che questo carattere di armonia assumesse un particolare
significato nel contesto storico-religioso della città di Anversa, che era
stata teatro di aspre lotte anticattoliche e di violente distruzioni
iconoclaste. Nel concepire la pala d’altare destinata alla Cattedrale, Rubens
deve avere avvertito l’esigenza di riaffermare il primato dell’ortodossia,
rimarcando per visibilia la
centralità del corpo di Cristo, nella duplice valenza di persona della Trinità
e di sacramento eucaristico.
Nello schizzo tutte le figure disposte attorno a Cristo sono rappresentate
nell’atto di protendersi o di toccare il suo corpo, che, da semplice elemento
di raccordo visivo, diviene il perno logico e teologico della storia e della
fede. Stagliandosi contro un cielo oscuro, i testimoni della morte di Cristo si
distribuiscono simmetricamente nell’esiguo spazio della pala: in alto, i due
assistenti giovane e vecchio sono collocati in cima alle due scale; l’elegante
figura di Giuseppe d’Arimatea a sinistra trova un parallelo nel canuto
Nicodemo; la Vergine
Maria e San Giovanni condividono una posizione centrale;
Maria Maddalena e Maria di Cleofa sono inginocchiate ai piedi del Redentore.
Nel rappresentare la triade di personaggi femminili, Rubens non riprende quella
particolare attenzione, squisitamente italiana, alla resa del sentimento di
dolore. Preferendo un pathos misurato
alle espressioni di lacerante sofferenza tipiche dell’Italia del Nord o alle
lacrime di ascendenza fiamminga eseguite con compiaciuto virtuosismo tecnico,
l’artista sintetizza le espressioni di cordoglio nella rappresentazione della
Maddalena. Protesa con entrambe le braccia verso il corpo del Salvatore, la figura
di Maria Maddalena riflette appieno le esigenze compositive ed espressive
analizzate sinora, rendendo superfluo il tentativo di spiegarne la funzione
sulla base di dati esterni all’ideazione del dipinto.
Risale
al terzo decennio del Seicento la serie di schizzi preparatori eseguiti da
Rubens per la decorazione del soffitto della chiesa dei Gesuiti di Anversa, di
cui due esemplari, raffiguranti l’Incontro
di Salomone con la Regina
di Saba (fig. 2) ed Ester e Assuero (fig.
3), sono esposti nella galleria del Courtauld. Il contratto con i Gesuiti,
firmato dal pittore fiammingo nel 1620, menzionava esplicitamente la
realizzazione di trentanove bozzetti autografi, che sarebbero serviti agli
assistenti di Rubens, tra cui Van Dyck, per trasporre il modello a olio sulle
tele destinate ai comparti del soffitto. In questo caso la rilevanza dei
manufatti è duplice, in quanto, oltre a testimoniare la tecnica esecutiva ed il
modus operandi di Rubens, essi
tramandano il programma figurativo e l’impostazione stilistica delle scene, i
cui originali, a causa di un incendio del 1718, sono andati irrimediabilmente
perduti. Il primo di questi due aspetti offre un notevole contributo alla
nostra analisi, mentre risulta opportuno ricordare che alla ricostruzione del
programma iconografico, imperniato sul motivo del trionfo dell’ortodossia
sull’eresia mediante l’alternanza di scene dell’Antico e del Nuovo Testamento,
concorre anche una serie di disegni e di acquerelli di Jacob de Wit, egualmente
confluita nella collezione del Courtauld.
Le
tavolette in legno erano preparate con uno strato di gesso e rivestite da una
sottile pellicola pittorica di colore neutro, sulla quale veniva steso il
colore a olio. Tracce di questa stratificazione compaiono nella scena con l’Incontro di Salomone con la Regina di Saba, nella
quale l’impasto di colore bruno utilizzato per la preparazione della tavola è
lasciato a vista in corrispondenza dell’incarnato scuro della protagonista e
delle sue ancelle.
La tendenza ad utilizzare tonalità brunastre per l’imprimitura della tavola,
percepibile ad occhio nudo nel bozzetto, riflette appieno la ricerca tecnica
che Rubens, primo tra i suoi conterranei, andava sperimentando in quegli anni.
Se, a livello pratico, la funzione dell’imprimitura consisteva nel ridurre il grado
di assorbenza della sottostante preparazione in gesso, sul piano estetico
produceva una serie di effetti materici, cromatici e luministici, di cui Rubens
imparò gradualmente a servirsi per i propri fini espressivi, manipolando gli
schizzi a olio come prodotti di laboratorio. Come sottolineato da van Hout, nei
dipinti a olio, e ancor di più nei bozzetti di Rubens, le striature create
sullo strato di imprimitura con il pennello e l’aggiunta di pigmenti scuri alle
terre con cui questa era preparata incidono sensibilmente sull’impostazione
chiaroscurale delle scene, consentendo al pittore di orchestrare l’intera gamma
cromatica attraverso la regolazione dei “mezzi toni”.
Nell’ideazione
di soluzioni cromatiche e compositive, Rubens rivela una profonda conoscenza
dell’arte veneta, acquisita tramite gli illusionistici teleri di Jacopo
Tintoretto, le profusioni di luce dorata di Tiziano e gli scorci grandiosi di
Paolo Veronese.
Interpretata
come una prefigurazione dell’adorazione dei Magi, l’episodio dell’Incontro presenta il momento in cui la
regina di Saba, accompagnata da uno stuolo di ancelle e di servi, offre in dono
al re Salomone vasi ricolmi dei prodotti della propria terra. La scena,
inquadrata da un perimetro ottagonale, è caratterizzata da uno scorcio “da
sotto in su”, che, in linea con la pittura illusionistica di matrice veneziana,
contribuisce a risucchiare verso l’alto lo spettatore, proiettandolo entro il
sontuoso spazio architettonico che si staglia contro un cielo azzurro striato
di nubi.
I
colori utilizzati, per lo più tonalità di ocra, avorio e beige, sono impastati
di una luce calda e dorata, che amplifica l’impressione avvolgente creata dallo
sfondo o dal baldacchino di velluto rosso e frange dorate che sovrasta
l’imponente trono di Salmone, decorato con protomi leonine in oro massiccio.
Prendendo le mosse dagli effetti teatrali del Manierismo veneto e veicolando
con rapide pennellate un pulviscolo dorato di chiara ascendenza tizianesca,
Rubens porta alle estreme conseguenze il senso di coinvolgimento dell’osservatore,
aggiungendovi un gusto per la meraviglia tipico dell’estetica barocca. Un
saggio di quanto affermato è offerto dalle figure in primissimo piano. Dei due
soldati, quello più a sinistra, poggiato alla lancia disposta obliquamente,
sembra condividere lo spazio dello spettatore, misurando la distanza che lo
separa dalla tavola imbandita, sulla quale sono elencate, con virtuosistica
resa dei riflessi luminosi, le suppellettili d’oro e d’argento offerte dalla
sovrana. Dalla parte opposta, un bambino dalla pelle scura sostiene un pappagallo multicolore, nota cromatica
accesa e autentico elemento di stupor.
Procedendo verso destra, l’attenzione si rivolge al servitore che, con entrambe
le braccia, trasporta un bacile dorato sulle spalle. Il movimento serpentinato
del corpo, di cui sono visibili la gamba sinistra e il possente busto, culmina
nella testa inclinata e rivolta verso il basso e nello sguardo indirizzato direttamente al potenziale interlocutore.
Se
per l’ideazione di questa scena è possibile presupporre che Rubens, assiduo
copista dei maestri veneti (come testimoniato, ad esempio, dalle copie della Diana e Callisto di
Tiziano e dal Miracolo di S. Marco di
Tintoretto), abbia rielaborato varie suggestioni, nel bozzetto per Ester e Assuero il rimando al tema
analogo realizzato da Veronese per il soffitto della chiesa veneziana di S.
Sebastiano si fa esplicito.
In questo caso, il movimento ascensionale è suggerito dalla diagonale che
raccorda le due figure dei protagonisti, cui fa da preludio la balaustra in
primo piano.
Vari
fattori concorrono ad enfatizzare la contrapposizione tra Ester, inginocchiata
per invocare la salvezza del popolo ebraico e il re persiano Assuero, che,
seduto su un vistoso trono a baldacchino, si presenta come una figura
autoritaria, gesticolando con la mano sinistra e impugnando, nella destra, uno
scettro d’oro. La dialettica di luci ed ombre acuisce il contrasto, opponendo
al volto in luce della donna quello in ombra, reso scuro anche dalla folta
barba bruna, del re. Per quanto concerne la tavolozza utilizzata da Rubens, la
dominante ocra esaltata dalla qualità dorata della luce cede il passo al bianco
avorio del vestito traslucido di Ester e al rosso intenso delle vesti di Assuero.
Il
ricordo del soggiorno in Italia appare determinante per l’inserimento di alcuni
dettagli, come il cane in primo piano, collocato su un gradone riccamente
modanato, o la colonna tortile all’estrema destra, entrambi mutuati con gusto citazionistico
dalla grande pittura veneta. Di ispirazione italiana è soprattutto la struttura
architettonica nella quale è ambientata la scena, coperta da una cupola
culminante in un oculo che poggia su un colonnato semicircolare. Appare
plausibile ipotizzare che il modello per l’apertura ad anello della cupola sia
stato il Pantheon, monumento al quale Rubens si ispirò anche per la costruzione
del proprio museo di pitture e antichità. In merito alla struttura e al
successo di questo ambiente, un passaggio della Vita di Rubens di Bellori risulta di particolare rilievo:
"Haveva egli adunato marmi, e statue, che portò, e fece condursi di Roma con ogni sorte
di antichità, medaglie, camei, intagli, gemme e metalli; e fabbricò nella sua
casa in Anversa una stanza rotonda con un solo occhio in cima à similitudine
della Rotonda di Roma, per la perfettione del lume uguale, et in questa collocò
il suo prezioso museo, con altre diverse curiosità peregrine. Raccolse ancora
molti libri, et adornò le camere parte di quadri suoi originali, e parte di
copie di sua mano fatte in Venetia, et in Madrid da Tiziano, da Paolo Veronese,
e da altri pittori eccellenti. Era perciò egli visitato, e da gli huomini di
lettere, et eruditi, e da gli amatori della pittura; non passando forestiere
alcuno in Anversa che non vedesse il suo Gabinetto, e molto più di lui, che
l’animava colmo di virtù, e di fama".
Analogamente,
lo spazio illusionistico di questo schizzo a olio “con un solo occhio in cima,
a similitudine della Rotonda di Roma”, potrebbe essere stato prediletto dal
pittore “per la perfettione del lume”, che, in questo caso, si traduce in una
luce brillante, che si propaga nei caldi bagliori delle superfici dorate e nei
giochi di rifrazioni sulle stoffe dalla resa serica.
Entrambi
i bozzetti esaminati, oltre a fornire preziose indicazioni sulla realizzazione
tecnica e sulla scelta iconografica delle scene, lasciano intravedere il modus operandi di Rubens e dei suoi
allievi, ai quali il maestro, tramite gli schizzi a olio, forniva meticolose
indicazioni sullo stile da adottare nella resa dei personaggi, sulle
caratteristiche del contesto architettonico e sul registro cromatico e luministico.
L’interesse
di Rubens per il tema della conversione di Saulo, reiterato con una certa
frequenza, affonda le proprie radici negli anni di formazione trascorsi in
Italia. Attraverso la rielaborazione di tale soggetto, l’artista fiammingo si
confronta con una tradizione iconografica ormai consolidata, che prevedeva una
scena equestre e notturna ed implicava la problematica della rappresentazione
dei “moti”, dagli umani “affetti” alle più istintive reazioni degli animali. Nello
schizzo a olio della galleria del Courtauld (fig. 4), databile attorno al 1610,
la figura di Saulo è rappresentata nell’attimo immediatamente successivo alla
caduta da cavallo, con le braccia distese, allusive alla croce di Cristo, ed il
volto reclinato verso lo spettatore. Risalendo la diagonale accennata dal corpo
del Santo, si giunge alla causa e alla fonte della luce soprannaturale che
irrompe nell’oscurità notturna, suggerendo la visione di Saulo nel momento
della chiamata. Fiancheggiato da putti che si sporgono da pesanti nuvole color
antracite, Cristo è raffigurato nell’atto di distendere il braccio destro ed
aprire la mano in direzione di Saulo, come per indirizzare verso di lui i raggi
che spiovono obliquamente dalla luminosità indistinta che si fa più intensa al
centro, squarciando la cortina di nubi. La figura di Cristo, per l’energica
solennità del gesto, enfatizzato dal ridondante panneggio rosso che si impenna
all’altezza della spalla destra, sembra paragonabile ad un giovane Giove, la
cui divina bellezza informa di sé l’anatomia armonica delle nudità del busto.
Sul piano iconografico, la posa e le fattezze di Cristo poterebbero invece
rimandare alla Visione di Ezechiele
di Raffaello, con la quale il bozzetto mostra notevoli affinità nella
trattazione della gestualità e del dinamismo impetuoso della figura.
Per
quanto concerne l’impianto compositivo della scena, Rubens effettua una sorta
di tripartizione, creando un nucleo compatto in primo piano, moltiplicando il
numero di personaggi e animali su un piano più arretrato a formare un
semicerchio e, di nuovo, concentrando al centro del cielo le figure di Cristo e
dei putti. Il pittore fiammingo impernia l’intera scena attorno al motivo del
dinamismo improvviso causato dall’evento sovrannaturale della chiamata sulla
via di Damasco. La dialettica tra azione divina e reazione umana, che nella
caduta da cavallo del protagonista trova il picco espressivo più emblematico,
si riverbera in ogni parte del dipinto. Dei servitori in primo piano, un uomo,
visto di schiena, soccorre Saulo, sollevandolo da terra con immenso sforzo,
come testimoniano i muscoli contratti del braccio destro e della schiena,
mentre un giovane vestito di rosso cerca di riprendere il controllo sul cavallo
imbizzarrito, il cui moto di terrore deve essersi trasmesso al vicino cane da
caccia.
Il
groviglio tra cavalli e destrieri è riproposto nel piano più arretrato, nel
quale il ritmo tra reazioni ferine e umane, rese tangibili dall’impennata del
cavallo bianco centrale e dai panneggi vorticosi sulla destra, si fa ancora più
serrato. La problematica riguardante l’intrecciarsi di moti animali e reazioni umane rimanda alla teoria e alla prassi
artistica di Leonardo da Vinci, che, oltre ad avere offerto dettagliate
indicazioni su come trasporre in pittura la foga della battaglia, il sollevarsi
della polvere ed il deformarsi dei volti in ragione delle espressioni più
cariche tra i “moti dell’animo”, si era cimentato nell’affresco, incompiuto,
della Battaglia di Anghiari per il Salone
dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze. Ai tempi del viaggio in Italia di
Rubens l’affresco di Leonardo era già stato coperto dall’intervento decorativo
di Giorgio Vasari, ma il pittore riuscì in ogni caso a scovare le tracce
esistenti dell’invenzione leonardesca, rielaborandone, attraverso disegni e
schizzi, “più lo spirito che la lettera”.
Nello schizzo del Courtauld la furia espressiva che domina la scena, pur
declinata in maniera autonoma, sembra rimandare a quella teorizzata e
sperimentata da Leonardo.
Un’altra
possibile fonte di ispirazione potrebbe essere costituita dall’affresco di
soggetto analogo realizzato da Michelangelo nella Cappella Paolina in Vaticano,
da cui però Rubens differisce per l’utilizzo di una luce dai bagliori violenti,
mutuata dalla lezione caravaggesca.
Il
rapporto dialettico tra l’arte di Rubens e quella di Caravaggio traspare in
misura ancora maggiore nello schizzo preparatorio con la Deposizione di Cristo. La versione caravaggesca
dello stesso tema, realizzata per la cappella Vittrice nella chiesa oratoriana
di Santa Maria della Vallicella attorno al 1603, era certamente nota al maestro
fiammingo, che, tra il 1606 ed il 1608, realizzò la pala d’altare con la Madonna della Vallicella. All’interesse prettamente artistico per le novità
luministiche e compositive introdotte dalla “rivoluzione caravaggesca” Rubens
aggiunge, nel 1607, un apprezzamento critico e collezionistico per la
produzione di Michelangelo Merisi, favorendo l’acquisto, per conto del duca di
Mantova Vincenzo Gonzaga, della Morte
della Vergine, rifiutata dai Carmelitani Scalzi di S. Maria della Scala.
Mentre
nella Deposizione di Ottawa (National
Gallery of Canada), dipinta attorno al 1613, Rubens aveva ripreso fedelmente
tanto il taglio prospettico-compositivo quanto, pur con notevoli varianti, la
disposizione e i tipi dei prototipi caravaggeschi, nello schizzo del Courtauld
(fig. 5) l’autonomia critica ed il desiderio di sperimentazione prevalgono
sull’ambizione di instaurare un dialogo serrato con il Merisi. Sebbene
l’impostazione generale della scena, imperniata attorno al corpo di Cristo ed
introdotta dallo spigolo vivo del sepolcro, sia da ritenersi affine al modello
caravaggesco, la tipologia, il numero e l’ubicazione delle figure nello spazio
risentono di considerevoli cambiamenti. Favorito dalla duttilità tecnica dello
schizzo ad olio, Rubens apporta delle modifiche sostanziali all’impostazione
della scena e alla caratterizzazione delle sue componenti principali,
distanziandosi tanto dal prototipo di riferimento quanto dal proprio iniziale
tentativo di rapportarsi ad esso.
Come
sottolineato da Muller, all’artista fiammingo dovevano essere note le critiche
mosse contro la pittura caravaggesca da Agucchi e da Bellori, che del Merisi
deprecavano, rispettivamente, l’aver “lasciato indietro l’Idea della bellezza”
ed il colorire “tutte le sue figure ad un lume e sopra un piano senza
degradarle”.
Sebbene, dunque, la Deposizione di
Caravaggio fosse ritenuta una delle opere migliori del maestro, in linea con
quanto asserito da Baglione e confermato da Bellori, Rubens avvertiva
l’esigenza di prendere le distanze da un artista stimato “povero d’inventione,
e di disegno, senza decoro, e senz’arte”.
Per
quanto concerne lo schizzo in esame, appare del tutto plausibile l’ipotesi che
Rubens abbia voluto introdurre proprio quegli elementi di cui lo stile del
Caravaggio era stato giudicato sprovvisto: la gradevolezza fisica dei
personaggi, la modulazione dei piani chiaroscurali e la profondità spaziale
suggerita in termini prospettici. Tali esigenze compositive ben si coniugano
con la predilezione rubensiana per una variatio
tipologica e cromatica nella resa delle figure, che, svincolate da
un’espressione collettiva di dolore, sono caratterizzate singolarmente nel loro
patire.
Il
bozzetto del Courtauld con l’Assunzione
della Vergine (fig. 6) nasce come
schizzo preparatorio per la pala dell’altare maggiore della Certosa di
Bruxelles (ora nelle Leichtenstein Collections) ed è databile attorno al 1635.
Rispetto alla precedente Assunzione ed
Incoronazione della Vergine (Hermitage, San Pietroburgo), risalente al
1611, questo schizzo rivela una semplificazione in chiave “ascetica” del tema.
Dal punto di vista iconografico, Rubens si concentra sul solo episodio
dell’assunzione in cielo della Vergine, superando la sintesi
assunzione-incoronazione raggiunta vent’anni prima, per la quale, stando
all’affascinante ricostruzione di Freedberg, il fiammingo si sarebbe ispirato
alla penultima incisione di Hieronymus Wierix, contenuta nelle Adnotationes et Meditationes in Evangelia
di Jerome Nadal (la cui sezione illustrata si intitola Evangelicae Historiae Imagines), pubblicate per la prima volta ad
Anversa nel 1593.
Tralasciando
ulteriori confronti con opere di soggetto analogo, sembra opportuno
sottolineare come in questo bozzetto, testimone della produzione tarda di
Rubens, il pittore ritorni, dopo essersene allontanato, ad un’impostazione
profondamente “italiana” della scena. Il ricorso alla lezione dei Carracci, di
Ludovico e di Annibale in special modo, sembra dettato dalla duplice esigenza
di raggruppare le figure entro l’ideale triangolo centrale e di coinvolgere lo
spettatore nello svolgimento, transitorio, dell’azione. Se tramite la
gestualità dei personaggi si esprime ancora quella mediazione tra spazio reale
e spazio dipinto che, da Alberti a Paleotti, aveva trovato ampia trattazione in
sede critica, nel registro superiore dello schizzo, ove il moto ascensionale
dei putti si confonde con l’andamento spiroidale delle nuvole, Rubens sembra
voler citare il picco proto-barocco delle cupole parmensi del Correggio.
Analogamente, la tavolozza composta da cromie tenui tendenti al bianco avorio o
al rosa aranciato tradisce il ricordo di quegli impasti caldi di colore e luce
che Rubens aveva visto in gran copia a Mantova e dintorni.
La
presenza di una serie di pentimenti nella figura della Vergine, rilevabile con l’ausilio di una lente di
ingrandimento, testimonia il carattere sperimentale
della tecnica dello schizzo ad olio e consente di introdurre qualche
considerazione più generale in merito alle opere analizzate sinora.
Si
è già fatto riferimento alla natura stratigrafica e alla composizione fisica
degli schizzi ad olio, rilevando il peculiare impiego dell’imprimitura
nell’impostazione cromatica delle scene. Volendo ora adottare un approccio più
teorico nei confronti di questo genere di produzione, occorre citare due
rilevanti questioni emerse in sede critica, che scaturiscono da approcci
metodologici differenti.
La
prima, di natura linguistica e filologica, concerne la genesi e la definizione
stessa del termine “schizzo”. Sulla scorta del saggio di Linda e George Bauer
dedicato a tale problematica, si evince che, verso la metà del Seicento,
teorici e artisti provenienti da Francia, Germania, Inghilterra e Paesi Bassi
mostravano una cosciente predilezione per termini derivanti dall’italiano
“schizzo”. Sebbene infatti il registro linguistico (anch’esso di matrice
italiana) offrisse varie possibilità per identificare quel prodotto artistico
che andava distinguendosi sia dalla pratica del disegno che dalla pittura vera
e propria, quali “bozzetto”, “abbozzo”, “sbozzo” o “bozza”, la scelta ricadde
sulla parola “schizzo”. In essa ben poco rimaneva della prassi meccanica di
“abbozzare” un dipinto, a vantaggio di concetti più affini alle proprietà
intellettuali del pittore, tra cui l’invenzione, la fantasia, la macchia e la
leggerezza.
Nel tempo, tuttavia, si è diffusa un’estetica autonoma dello schizzo che, in
linea con la poetica del “pittoresco” di Marco Boschini, ha preferito esaltare
la genialità indomita della pennellata bozzettistica piuttosto che ricondurre
questa prassi al più articolato processo creativo della pittura del XVII
secolo.
La
casistica offerta dalla collezione del Courtauld mostra con chiarezza quali
siano i limiti di tale atteggiamento, dal momento che gli schizzi, lungi
dall’essere opere d’arte a sé stanti, si inseriscono all’intersezione di
complesse questioni stilistiche e compositive. Non diversamente dal disegno, lo
schizzo lascia intravedere il modus
operandi dell’artista, le priorità che lo animano nel processo di
invenzione e le finalità che si prefigge in vista dell’opera finita. Si tratta,
dunque, di una sorta di ragionamento pragmatico, di un’ossimorica combinazione
tra qualità mentali e capacità materiali che ben si coniugano nel secondo
concetto che si intende indagare, quello del “dissegno colorito”.
Il
binomio è introdotto da Rubens stesso, in una lettera datata 19 marzo 1614
indirizzata all’Arciduca Alberto d’Austria. Nell’epistola il pittore fa
riferimento al “dissegno colorito” eseguito due anni prima come schizzo
preparatorio per il trittico destinato all’altare maggiore della cattedrale di
Ghent, che il regnante aveva avuto occasione di vedere.
Nel raccordare i termini “disegno” e “colore”, Rubens esprimeva, in una
sintesi quanto mai efficace, la propria posizione in merito al ruolo
dell’artista, superando l’ormai desueta dialettica tra arti liberali e
meccaniche a vantaggio di una funzione di raccordo tra il mondo delle spirito e
quello della materia. Prendendo le mosse dall’accurata trattazione di Woodall,
si potrebbe concludere che, se a livello storico il ruolo
dell’artista-mediatore trovava la propria ragion d’essere nel rinnovato
significato delle immagini sacre “prescritte” dal cardinal Paleotti, a livello
filosofico il “dissegno colorito” combinava la polarità del controllo apollineo
con quella del furor bacchico, secoli
prima che Nietzsche potesse imporvi una ferrea linea di demarcazione.
Il
costante raccordo di teoria e prassi artistica nella produzione rubensiana
informa di sé anche il nucleo di opere costituito dai dipinti su tavola, nei
quali il rapporto con le fonti italiane sembra farsi programmaticamente più
esplicito.
Il
Ritratto di Baldassar Castiglione (fig.
7), desunto dal prototipo raffaellesco ed eseguito attorno al 1630, offre un
saggio significativo della teoria imitativa di Rubens. Non è
possibile stabilire con certezza quale sia stato il modello effettivo per il
maestro fiammingo, se il ritratto di mano di Raffaello visto in casa
Castiglione a Mantova o ad Amsterdam (ove il modello è attestato tra il 1631 ed
il 1639) o qualche copia di buona qualità e di più facile reperibilità.
Inoltre, la leggendaria memoria di Rubens rende plausibile l’ipotesi che non
esistano disegni preparatori risalenti al viaggio in Italia.
Sarebbe
troppo arduo ripercorrere la sterminata fortuna critica del dipinto, variamente
considerato un autentico manifesto dell’influsso di Raffaello e una prova di
geniale originalità da parte di Rubens. Come testimoniato da centinaia di
copie, schizzi e disegni,
l’esempio dell’Urbinate rappresentava un modello fondamentale per Rubens, che
nella produzione del maestro rinascimentale non soltanto trovava quel sinolo di
disegno e colore di natura quasi divina, ma anche quella versatilità
nell’utilizzo di supporti differenti che egli stesso andava ricercando nella
propria formazione professionale.
Sebbene
non vi sia alcun dubbio sul fatto che il Baldassar
Castiglione di Rubens debba reputarsi un significativo omaggio alla lezione
di Raffaello (e, al tempo stesso, all’illustre autore del Cortegiano), le sostanziali discrepanze rispetto al prototipo
meritano un’attenzione maggiore delle ben più ovvie tangenze. I cambiamenti
introdotti dal pittore seicentesco, segnatamente l’inserimento (o meglio il
“completamento”) delle mani dell’effigiato e l’impercettibile rotazione del
busto che presuppone una veduta di tre quarti della figura, contribuiscono a
scardinare l’equilibrio compositivo raffaellesco, introducendo la componente,
squisitamente barocca, dell’hic et nunc.
L’impressione di vibrante dinamismo è rafforzata da una pennellata libera e
veloce, pure erede, nei virtuosismi delle vesti e della barba, della più fedele
tradizione di Holbein.
Le
ragioni di tali scelte affondano le radici nella profonda conoscenza, da parte
di Rubens, della trattatistica sviluppatasi in Italia attorno alla teoria dell’imitazione
e al ruolo della pittura nella competizione tra le arti. Tralasciando, per ora,
il rapporto con le principali fonti testuali italiane e la fisionomia di Rubens
teorico, appare opportuno, nel caso del ritratto di Castiglione, richiamare le
tre forme di mimesis prescritte in
epoca rinascimentale, ossia la translatio
(un’accurata replica del modello), l’imitatio
(sempre da intendersi come copia, benché meno pedissequa, dell’originale) e l’aemulatio (che consiste nell’eguagliare
e superare gli esiti raggiunti dal modello di partenza). Ciascuna di queste
modalità imitative trova applicazione nello sterminato corpus rubensiano e, come si è visto nel caso del bozzetti
(segnatamente in quello del Seppellimento
di Cristo), l’iniziale adesione al modello di riferimento non esclude in
alcun modo un continuo processo di elaborazione, e per certi aspetti di
interiorizzazione, del modello stesso o della prima copia realizzata.
Il
Ritratto di Baldassar Castiglione sembra offrire una virtuosistica prova di imitatio,
se non addirittura di aemulatio, ove
il superamento del modello, lungi dal potersi esprimere in termini qualitativi,
consiste nell’adozione di un’estetica moderna, nell’inserimento di una fugacità
barocca, che si sostanzia, in ultima analisi, dello stesso furor riscontrato nella produzione degli schizzi a olio. In linea
con le conclusioni di Pilo in merito all’eredità del Rinascimento italiano, è
dunque possibile ribadire che il movimento, per Rubens, “è fattore fondativo
della sua arte e di ogni successivo sviluppo di essa”.
La
tavola ad olio con Caino e Abele
(fig. 8), eseguita non oltre il 1610, tradisce l’influsso della pittura
michelangiolesca e della statuaria antica meticolosamente copiata a Roma. Tema
dominante è la violenta contrapposizione tra i due fratelli, rimarcata tanto
dall’impetuosità dei gesti quanto da contrasti cromatici e chiaroscurali, atti
ad evidenziare le nudità anatomicamente impeccabili dei corpi. Ciononostante, a
livello compositivo le membra arcuate dell’uno e dell’altro si succedono senza
soluzione di continuità, disegnando una linea curva che, dal basso a sinistra
all’alto a destra, si estende per l’intera altezza della tavola. La lotta
fratricida è sintetizzata dalla giustapposizione di due masse muscolari, quella
pettorale di Abele e quella dorsale di Caino, e dalle opposte fattezze dei volti,
imberbe e pallido il primo, torvo e barbuto il secondo. Entrambi hanno il
braccio destro teso verso l’alto, ma mentre la futura vittima apre la mano come
in un disperato tentativo di resistenza alla morsa del fratello che con la mano
sinistra lo tiene fermo stritolandogli il collo, il carnefice impugna la
mascella d’asino con la quale sta per infliggere il colpo mortale.
In
secondo piano, dietro alla figura distesa di Abele, vi è un fuoco ardente da
cui si innalza una spessa coltre di fumo, che assolve la duplice funzione di
richiamare il contesto dell’uccisione (Caino e Abele erano in procinto di
compiere un sacrificio a Dio) e di replicare la varietà dei toni bruni e dei
bagliori improvvisi che investono le figure. Per contro, il paesaggio sullo
sfondo, sviluppato nell’angolo in alto a destra, è dominato da fredde tonalità
di azzurro e di verde, di probabile derivazione giorgionesca o tizianesca.
Secondo
Bodart quest’opera deve essere messa in relazione con uno
schizzo, perduto, registrato nella collezione Louis Jay di Francoforte nel 1925.
Il dipinto non deriverebbe dunque dal disegno di soggetto analogo di Amsterdam
(Gemeente Musea), sebbene in entrambi i casi la presenza della mascella d’asino
favorisca la sovrapposizione iconografica tra la lotta di Caino e Abele e
quella tra Sansone e il filisteo. Tuttavia, la datazione del disegno al 1608-9
testimonia come in questi anni Rubens nutra un interesse particolare nei
confronti del tema, per il quale sembra rifarsi alla lotta di Ercole e Anteo, o
a quella di Ercole e Caco, nota attraverso i bronzi di Pollaiolo e gli studi di
Michelangelo e di Baccio Bandinelli.
Le
indagini diagnostiche condotte in occasione del recente restauro
hanno rilevato, oltre ad una serie di pentimenti che interessano la figura di
Caino, la presenza di un disegno preparatorio in corrispondenza degli alberi
sullo sfondo che, poiché difficilmente riconducibile alla prassi esecutiva di
Rubens, lascia supporre la collaborazione con un pittore paesaggista della sua
bottega. Non stupisce, del resto, il fatto che Rubens abbia voluto concentrarsi
sulla resa anatomica e dinamica delle figure, affrontando, in sede pratica, le
questioni teoriche che, proprio negli stessi anni, sviluppava nel De Imitatione Statuarum. Si tratta
dell’unico frammento pervenutoci dell’ampio trattato scritto dall’erudito
pittore che, come riportato da Bellori, includeva “osservationi di ottica,
simmetria, proportioni, anatomia, architettura, et una ricerca de’ principali
affetti, ed attioni cavati da descrittioni di Poeti, con le dimostrationi de’
pittori”.
Fortemente
intrisa di riferimenti alla trattatistica italiana, la teoria imitativa di
Rubens compendia motivi retorici, desunti dell’estetica dell’ut pictura poesis, questioni
metafisiche, connesse all’attività demiurgica dell’artista, e nozioni
fisiognomiche, mutuate dal De Humana Physiognomia di Giovan Battista
Della Porta. L’attenzione rivolta alla statuaria antica sembra rispondere ad
una duplice esigenza avvertita dal pittore: il bisogno “morale” di recuperare
gli esempi virtuosi del passato, radicati in una sorta di età aurea in cui alla
proporzione dei corpi corrispondeva un rigore dei costumi, ed il desiderio
“pratico” di copiare modelli di anatomie perfette, prontuari di muscolature
erculee e torsioni atletiche. Lungi dal divenire un esercizio acritico,
l’imitazione delle statue richiede un costante sforzo da parte del pittore,
primo fra tutti quello di evitare di trasporre su carta, o su altro supporto
bidimensionale, una figura bloccata, quasi si trattasse di una statua colorata.
Compito dell’artista è, dunque, quello di infondere un guizzo vitale nei corpi
raffigurati, ricorrendo al principio del movimento come forza in grado di
unificare la materia e la forma.
La
tavola con Caino e Abele mostra una
felice combinazione tra la componente eroica dei corpi ed il principio dinamico
cui essi sono sottomessi dalla “furia del pennello”.
Altro
esempio di tale dialettica è offerto dal coevo Mosè e il serpente di rame (fig. 9), parimenti eseguito ad olio su
tavola. Ancora una volta, l’episodio è sintetizzato dal momento di maggiore
intensità drammatica: Mosè, al centro della scena, indica il bastone su cui ha
collocato il serpente di rame, che, esprimendo la misericordia del Padre,
restituisce la salute ai peccatori che erano stati morsi da serpenti velenosi.
Alla
base del palo di legno, prefigurazione della Croce di Cristo, i corpi
aggrovigliati di un uomo, di una donna e di un bambino, stritolati dalle spire
dei serpenti, testimoniano la terribilità della punizione divina, mentre sulla
sinistra della scena il gruppo di figure che fissano il serpente di rame
sperimentano la potenza del miracolo. Così concepita, la composizione è
bipartita dal bastone centrale: a destra domina la figura solenne ed
equilibrata di Mosè, seguito da due uomini; a sinistra una massa scultorea di
imponenti nudi è bloccata nell’istante di sovrannaturale passaggio dalla morte
alla vita.
Numerosi
sono i riferimenti presi a modello da Rubens per la resa delle anatomia
corporee: dagli Ignudi della Sistina,
nel caso della figura con le mani alzate in preghiera, al gruppo del Laocoonte, che sembra ispirare da vicino
il possente personaggio sulla destra, che irrigidisce tutti i muscoli del corpo
nello sforzo titanico di liberarsi dalle molte spire che lo avvolgono. Alla
luce delle teorie formulate da Rubens stesso nel De Imitatione Statuarum, verrebbe da chiedersi se questa
contrapposizione fra la staticità dei corpi in primo piano ed il dinamismo
delle figure sulla sinistra, che pure riflette il peculiare resoconto biblico
contenuto nel Libro dei Numeri, possa essere ricondotto al contrasto tra le
statue colorate che derivano da una pedissequa copia della statuaria antica e
le figure cui invece deve ambire l’artista, interessate da un forte dinamismo e
dal superamento, in chiave pittorica, del modello scultoreo.
Se
così fosse, ci troveremmo di fronte ad un arguto metadiscorso del maestro
fiammingo che, se nel caso dei “dissegni colorati” affronta questioni endogene
alla pittura, in quest’opera prende posizione sul più complesso rapporto fra le
arti sorelle di pittura e scultura.
Al
tempo stesso, Rubens dà prova di rielaborare fonti eterogenee, dalla statuaria
antica al linguaggio michelangiolesco (filtrato da Annibale Carracci),
al cromatismo veneto del cielo striato di nubi, incarnando il modello dell’ape
che produce il nettare da una moltitudine di fiori.
L’immagine del miele come frutto del lavoro di riduzione ad unum di fonti molteplici è utilizzata, tanto da Rubens nel De Imitatione Statuarum quanto dallo
scrittore Samuel van Hoogstraeten nel 1678, in riferimento al risultato del processo
artistico. Tuttavia, mentre nel primo caso la similitudine è indirizzata ad un modus operandi ideale, nel secondo è
concretamente rivolta allo stile di Rubens, i cui esiti originali, come si è
visto nelle opere prese in esame, scaturiscono dall’infaticabile, meticolosa
rielaborazione di una ricca varietà di fonti italiane.
Inoltre,
nel caso degli schizzi e delle tavole presi in esame sinora, un denominatore comune è rappresentato dalla medesima provenienza dei pezzi,
lasciati in eredità al Courtauld Institute dal conte Antoine Seilern
(1901-1978).
Questi conferisce al nucleo di opere un significato ulteriore poiché consente
di scoprire come esse non siano solamente frutto di un’intensa attività
collezionistica, ma anche l’oggetto di studi pionieristici sulla tecnica e
sullo stile di Rubens, nonché il risultato di un’attenta e costante valutazione
critica.
Lo
studio sistematico della produzione rubensiana iniziò nel 1937, quando Seilern
intraprese gli studi dottorali presso l’Università di Vienna, dedicandosi
all’influsso della pittura veneziana nell’ideazione dei soffitti dipinti da
Rubens. La parallela attività collezionistica si sviluppò soprattutto dopo la Seconda Guerra
Mondiale, rivolgendosi alle differenti tecniche artistiche sperimentate dal
pittore fiammingo, dallo schizzo a olio, al disegno, ai dipinti su tela e su
tavola.
“Tutto
ciò che riguarda Rubens mi interessa” scriveva Seilern nel 1964, in riferimento ad un
interesse da intendersi come appagamento estetico ed intellettuale al tempo
stesso.
A dimostrazione del vaglio critico cui Seilern sottoponeva le proprie opere
valga come esempio lo studio dedicato alla citata Deposizione di Cristo nel 1953, nel quale l’analisi formale offerta
dal collezionista rivela una profonda comprensione del processo di graduale
autonomia, da parte di Rubens, rispetto al prototipo caravaggesco studiato a
Roma.
Alle
questioni stilistiche Seilern sapeva affiancare raffinati confronti
iconografici, come nel caso della figura di vecchia sulla sinistra della
composizione di Mosè e il serpente di
rame, per la quale lo studioso propone appropriati rimandi sia alla
produzione di Elsheimer che a quella di Rubens stesso, citando l’Adorazione dei Pastori di Fermo.
Inoltre,
il collezionista non mancava di investigare la tecnica, o meglio le tecniche,
di Rubens, rivelando un interesse pioneristico nei confronti del modus operandi dell’artista. Risulta
significativa, in tal senso, la scelta di acquisire, oltre al bozzetto ad olio
con la Conversione di Saulo, due disegni di soggetto
analogo attribuiti a Rubens. Resosi conto che i due disegni non erano che metà
dello stesso foglio, Seilern si pose il quesito del perché la metà sinistra
trovasse delle rispondenze esatte con lo schizzo a olio, mentre la destra
mostrava soluzioni affini al dipinto finito. L’ipotesi che ne derivò fu che
Rubens fosse partito da un disegno (di cui rimaneva la parte sinistra), avesse
proseguito la sperimentazione mediante il bozzetto, e fosse tornato ancora al
disegno per reimpostare la porzione di destra, strappando quella precedente.
Facendo luce su questo iter, Seilern
dimostrava la varietà e la complessità del processo creativo che precedeva
l’esecuzione del dipinto finito, compreso l’insolito passaggio dal bozzetto al
disegno. Infine, l’infaticabile raccolta di schizzi ad olio si lega
indissolubilmente all’approccio metodologico adottato da Seilern, che trovava
nei bozzetti una chiave di lettura efficace per ricostruire la nascita e lo
sviluppo dell’inventio rubensiana e
l’evoluzione stilistica che ne conseguiva.
Applicando
una duplice prospettiva di lettura alle opere analizzate, sarà dunque possibile
ravvisare in esse prove tangibili dell’influsso e dell’originale rielaborazione
delle fonti italiane da parte di Rubens e, al contempo, testimonianze vive di
quegli interessi estetici e scientifici che il conte Antoine Seilern,
attraverso il lascito al Courtauld Institute, ha deciso di condividere con le generazioni
future.
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