“Se volessi scegliere un simbolo augurale per l'affacciarsi del nuovo
millennio- scriveva Italo Calvino in Lezioni americane- sceglierei questo : l'agile salto improvviso
del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che
la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti
credono sia vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante,
appartiene al regno della morte, come un cimitero d'automobili “. Era il 1984
ed ora noi siamo oltre quel millennio, eppure colpisce ancora l'immagine
di quella leggerezza che lo scrittore aveva ritrovato studiando la poesia di Cavalcanti, tanto che non ci pare affatto disdicevole conservarla e servirsene per tutte quelle forme espressive in cui il
peso della materia si dissolve in
simulacri fantasiosi, in cui la
leggerezza si associa con la precisione e la determinazione, ma non con la
vaghezza e l'abbandono al caso. Volendo cercare un esempio in questo senso,
ecco che viene in mente l'opera di Luigi
Ontani, il quale in occasione della
mostra AnderSennoSogno, allestita nel museo Henrik Christian Andersen di Roma, è entrato in scena sentendo il
bisogno di rivelare la sua filosofia, non con un discorso retorico, ma raccontando
un viaggio, partendo dalla sua
infanzia fino alla vita più recente, con
immagini di leggerezza che hanno un valore emblematico: metafore che
aleggiano sopra le cose del mondo conservandone lo spessore, la concretezza dei corpi, delle sensazioni.
La scelta del Museo Andersen, un tempo casa studio dello scultore
e pittore norvegese-americano, sembra dettata più che dal desiderio di dialogo con un passato storico definito, monumentale ed esteticamente modesto, dalla volontà di imporre alla memoria la propria invenzione estetica fatta di forme suggestive, dalle cromie sontuose e dalle ibridazioni formali surreali. Un' occasione per Ontani, per spingere l'immaginazione a superare ogni limite, mescolando melanconia e humor in un gioco che da solo è
sufficiente ad illuminare tutte le cose conservate nelle
sale.
Sappiamo che Hendrik Christian Andersen (1872-1940) era un
sognatore affascinato dalle grandiose forme e dalle utopie, come quella di realizzare una città che fosse laboratorio
e fucina internazionale di idee nel campo delle arti, delle scienze e della filosofia; che la collezione di opere (oltre seicento, tra sculture di varia grandezza, pitture e opere grafiche) conservate nello studio-museo, da lui stesso progettato agli inizi degli anni Venti, costituiscono la prova indiscutibile di un sogno mai realizzato, e che nonostante le ambizioni, le sue ossessioni si annullavano nella resa di modeste opere di ispirazione classica. Contestualmente, conosciamo la prolifera produzione di Luigi Ontani (1943), svolta vagliando molteplici direzioni formali e di pensiero, che muovono dall'interesse per l'arte dei musei al mondo mitologico, dall'adesione apparentemente trash verso il ciarpame senza importanza all'azione performativa dei tableaux vivants, fino all'assimilazione rielaborata di costumi delle civiltà extra-occidentali, in particolare asiatiche, che lo vedono rendere omaggio con l'uso folkloristico delle maschere in ceramica, di luoghi conosciuti ed amati nel tempo. Proprio questa particolarità, porta a concentrarci sulla diversità dei linguaggi espressa nelle opere dei due artisti, percepibili soprattutto al piano terra, nella gipsoteca del museo, dove le statue di Andersen, nonostante il loro gigantismo manierato, sembrano fare da sfondo alla mitografia voluttuosa delle maschere musicali di Ontani. Si tratta di maschere prodotte a Bali negli ultimi quindici anni in un allestimento speciale, che, disposte sulle monumentali statue di Andersen, guidano il percorso nella direzione del teatro e dello spettacolo, secondo un procedimento che unisce la figurazione e l'espressione sonora, quella emessa da ogni singola maschera su una partitura composta da Charlemagne Palestine. Siamo dunque in uno di quei casi in cui le opere preesistenti, per quanto imponenti, costituiscono lo spunto per lasciare via libera ad una fantasia di tipo onirico, dove le maschere altro non sono che rivestimenti di involucri immaginosi, affettivi, voci mologanti e dialoganti.
Il curatore della mostra, Luca Lo Pinto, ha motivato questa scelta con la fascinazione e l'interesse manifestato da Luigi Ontani per le opere conservate nel museo e per la figura dell'artista norvegese. Di certo per Ontani, guardare e abitare - seppure per breve - questi spazi, ha significato ricostruire e svelare con assoluta libertà la propria immaginazione antropomorfa, fortemente
mistica e narcisista. Tutto questo è visibile soprattutto nel piano superiore del museo, dove si articola un vero excursus della sua lunga e laboriosa attività artistica, a cominciare dalle opere giovanili poco note o inedite degli anni Sessanta (Mascherone leggio, 1968) e Settanta (Tavolozza-Autoritratto con colori viventi, 1972), fino alle più recenti, dove il suo corpo appare e scompare in mille personaggi, stabilendo relazioni con mondi lontani ed altri
vicinissimi, in cui la realtà spesso si sovrappone e si fonde con la fantasia.
Indipendentemente dalle diverse sfaccettature espressive, diciamo
che tutte le opere sembrano legate da una necessità antropologica che è propria di Ontani: quella che vede l'arte come funzione esistenziale e come ricerca di conoscenza, e che fa della rinuncia alle regole sociali ed estetiche della società, un punto di esibizione, un modo per esternare la leggerezza rispetto al peso di vivere, un po' come certi sciamani ed eroi delle fiabe, per i quali la privazione sofferta permetteva di volare nel regno dove tutto poteva essere magicamente risarcito.
LA MOSTRA Luigi Ontani-
AnderSennoSogno a cura di Luca Lo Pinto Museo Hendrik Christian Andersen 21 novembre 2012 - 24 febbraio 2013
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