Premessa
Nella monografia dal titolo Pavimenti
Cosmateschi di Roma, Storia, Leggenda e Verità edita recentemente, ho cercato di
raccontare la storia dei pavimenti cosmateschi rilevanti conservati in oltre
quaranta basiliche e chiese di Roma. Insieme alla storia documentale, ho
creduto necessario anche compiere un salto di qualità consistente nel tentativo
di sfatare alcuni luoghi comuni che da sempre hanno accompagnato le descrizioni
di tali opere e soprattutto cercare di leggere nella facies e nei
caratteri stilistici dei reperti oggi visibili ciò che i libri non possono
dirci e ciò che gli autori del passato non hanno ritenuto importante
tramandarci. Se, infatti, la maggior parte dei beni artistici e archeologici di
Roma sono trattati in ogni loro minimo dettaglio nelle migliaia di
pubblicazioni che sono state prodotte dai codici manoscritti ai libri a stampa
e nelle riviste specializzate, quasi nulla ci è stato detto sui pavimenti
cosmateschi che pure tanta bella mostra hanno fatto nel tempo agli occhi di
studiosi, viandanti e turisti.
Tanto meno è stato prodotto su ciò che rimane nella
chiesa di Santa Maria Antiqua, del pavimento musivo, per il quale l’unica
possibilità di interpretazione è un confronto diretto tipologico e stilistico
con altre opere simili. E’ quello che è
stato fatto, per quanto possibile, dai principali autori che hanno trattato di
questo argomento, ad iniziare dai più famosi Giovanni Battista De Rossi,
Gustave Clausse, Gustavo Giovannoni, Edward Hutton, Annamaria Bessone Aureli,
fino ad arrivare alla nota Dorothy Glass, ripresa dagli autori moderni quali
Alessandra Guiglia Guidobaldi, Peter Cornelius Claussen, Enrico Bassan, solo
per citarne alcuni.
Essendomi già occupato in passato della
datazione del pavimento musivo della chiesa in esame, esporrò quanto proposto
anteriormente all’esame autoptico diretto, sulla base delle indagini relative
note dalla bibliografia, in particolare a proposito della lettura di alcune
immagini del repertorio poste a confronto con quelle di altri pavimenti,
proposte nell’articolo di Alessandra Guiglia Guidobaldi, nonché dagli esiti
delle analisi condotte da Alessandro Lugari per la tesi di dottorato.
La mia prima conclusione, differisce
sensibilmente dalla nuova ipotesi proposta in questo ulteriore studio.
Tuttavia, la prospettiva indicata inizialmente non era poi così lontana dagli
esiti qui proposti avendo riconosciuto nel pavimento musivo di Santa Maria
Antiqua, relativamente ai pochi lacerti assimilabili ai pavimenti cosmateschi,
un’opera la cui elaborazione non è riferibile ai secoli tra VI, e VIII, né ad un’opera
tarda dei marmorari romani. Il confronto fotografico tra le immagini proposte
dalla Guiglia Guidobaldi con le immagini da me raccolte dei pavimenti
cosmateschi relativi ad alcune basiliche di Roma e in particolare di quello
della basilica di San Clemente mi avevano indotto a credere dapprincipio che il
pavimento musivo di Santa Maria Antiqua nella seconda zona del presbiterio fino
all’abside, fosse coevo a quello della navata centrale nella basilica di San
Clemente, e quindi risalente alla fine
del XII o all’inizio del XIII secolo.
É bastata una prima semplice osservazione
diretta del pavimento, durante la mia visita alla chiesa, per capire
all’istante che la prima conclusione doveva solo essere corretta di circa un
secolo. Ma la sorpresa è venuta stando sul posto, dopo un’accurata analisi
autoptica.
Come valutare lo stato attuale dei pavimenti
cosmateschi.
1) La simmetria policroma: un elemento
indicatore delle condizioni attuali dei pavimenti realizzati dai maestri
marmorari romani nelle chiese del Lazio.
I pavimenti in musivi realizzati nel Lazio
ad iniziare dal 1071, anno della consacrazione della basilica di Montecassino
dove fu realizzato il primo prototipo di questo genere nello stile che condurrà
all’arte del pavimento cosmatesco, e fino alla fine del XIII secolo, ci sono
pervenuti, a seconda dei casi, in uno stato conservativo che è il risultato
delle numerose vicende che li hanno interessati
nel corso dei secoli. Nella maggior parte dei casi, i reperti originali
hanno subito danni più o meno considerevoli dovuti a una serie di fattori diversi.
Le principali cause del cattivo stato conservativo di questi monumenti, sono
dipese dal naturale degrado dovuto al trascorrere dei secoli e quindi all’usura
stessa a cui furono sottoposti per l’uso, come il calpestio, specie in edifici
religiosi dove i numerosi fedeli vi si recavano quotidianamente. Poi vi è
l’incuria dell’uomo, dovuta all’insensibilità verso ciò che era stato
realizzato in passato e alla stessa mentalità del tempo, non ancora pronta al
concetto di preservazione dei beni culturali e del loro valore artistico e
architettonico. Ma tra le cause più importanti dello stato di degrado in cui ci sono pervenuti i pavimenti cosmateschi, sono senza dubbio le distruzioni
degli stessi dovute a fenomeni naturali come i terremoti, a volte devastanti,
come quello che rase quasi al suolo la basilica di Montecassino nel 1349, e le
guerre che generarono saccheggi, incendi e devastazioni. Ma oltre a ciò, c’è da
annoverare anche l’opera dell’uomo anche quando essa aveva il buon intento di
preservare le opere: il restauro !
I pavimenti cosmateschi restaurati e
rimaneggiati più volte dal XII-XIV secolo e specialmente durante gli anni della
moda barocca, verso la metà del XVII secolo e fino a tutto il XVIII
secolo, hanno subito il torto di essere stati privati del gioco di simmetria
policroma dei colori tra le tessere.
Ma ci sono due tipi di interventi da
diversificare:
1) quelli
che miravano a preservare l’intero pavimento, o buona parte di esso, così come
si era conservato fino ad allora. In questo caso esso subiva solo un rimpiazzo
delle tessere andate perdute, specie quelle più piccole e delicate, ma sempre
senza tenere conto dell’ordine simmetrico dei colori delle tessere nei motivi geometrici;
2) quelli
che prevedevano di smontare in parte o totalmente il pavimento per fare spazio ai
rinnovamenti barocchi del Seicento e del Settecento, come il rialzo dei
presbiteri, l’abbattimento delle iconostàsi e delle tribune, lo smembramento
degli amboni e della Schola cantorum. Allora l’antico pavimento veniva
quasi totalmente staccato e, nel migliore dei casi, ricostruito in modo
arbitrario cercando di riprodurre gli stessi disegni geometrici ma mescolando,
per comodità, le tessere lapidee di vario colore che formavano mucchi di pietre
negli angoli della chiesa. Ho visto una situazione simile nella basilica
superiore dell’Abbazia di San Vincenzo al Volturno, dove in uno dei locali a
nord furono ammucchiate, all’epoca degli scavi, gran parte delle tessere
dell’antico pavimento in opus sectile della navata centrale della
chiesa, in attesa forse di un improbabile restauro, o riutilizzo nel pavimento
moderno.
I resti dell’antico
pavimento della basilica di Montecassino, oggi ricollocati in varie cappelle
del monastero, furono rimossi dal loro luogo sotto la direzione del monaco
benedettino Angelo Pantoni
attorno al 1950, nelle ricognizioni effettuate in seguito ai bombardamenti
degli alleati nel secondo conflitto mondiale. Tra i pezzi riportati alla luce
ve ne sono alcuni, di più piccole dimensioni, che furono semplicemente staccati
nella loro integrità. Essi sono esposti nel museo archeologico dell’abbazia e
mostrano chiaramente la regolarità simmetrica nelle disposizioni delle tessere
colorate offrendo quel necessario gioco di simmetria policroma che sta alla
base del concetto stesso dell’ordine geometrico e cromatico di un pavimento in opus
sectile. Diversamente, altri e più ampi riquadri pavimentali furono
smontati e negli anni successivi ricostruiti,
secondo i disegni di Pantoni, in riquadri similari nei pavimenti delle cappelle
del monastero. Ma, a parte la tecnica di intarsio approssimativa che rende il
lavoro in opus sectile poco visibile, con fughe tra le tessere molto
ampie e disegni geometrici spesso contorti e disallineati, si assiste ad un
vero e proprio abbandono del concetto base della simmetria policroma e quindi,
per la gran parte dei riquadri, le tessere sono state mescolate fra loro nei
colori, senza tener conto di questa importante funzione.
La quasi totalità dei pavimenti laziali che oggi
vengono assimilati tutti genericamente, e senza distinzione alcuna, con il
termine “cosmateschi”, mostra molto bene le caratteristiche descritte sopra. Ed
è interessante notare che non solo nel Lazio, ma anche in Campania si riscontra
lo stesso fenomeno, come nel pavimento
del presbiterio della chiesa parrocchiale dei Santi Filippo e Giacomo a Capua, ricostruito
con i resti dell’antico litostrato musivo proveniente dell’ex monastero di San
Benedetto. Oppure nei resti del
pavimento del Duomo, sempre nella stessa città, salvatisi dai bombardamenti
perché sotto il vescovo Caracciolo, nel Settecento, furono rimontati nella
cappella del Sacramento. Infine, nei vari pavimenti della Badia Benedettina di Sant’Angelo in Formis, ancora presso
Capua, e della cattedrale di Caserta Vecchia, solo per citare alcuni esempi.
L’intento dei maestri marmorari, sia romani che
di influenza siculo-campana, che seguirono la scuola dei mosaicisti bizantini
istituita a Montecassino alla fine dell’anno Mille, era quello di riprendere il
concetto di bellezza dell’ordine delle cose, attraverso i concetti geometrici
delle figure rappresentate nei pavimenti, per le quali era necessario
mantenere l’ordine di una perfetta simmetria cromatica delle tessere colorate.
L’alternanza di triangoli di porfido verde, rosso e bianco, oppure dei
quadratini nei motivi delle lunghe fasce che annodano i dischi porfiretici di guilloche e quinconce, specie nei colori
giallo oro e rosso antico, si alternano simmetricamente in modo perfetto e
consecutivo. Mentre nelle ricostruzioni dei pavimenti che subirono restauri o manomissioni,
si osserva una riflessione asimmetrica nei colori dovuta alla mescolanza
casuale di tessere di reimpiego. Tale disordine cromatico, che si osserva
dovunque nei pavimenti cosmateschi attuali, porta alla considerazione finale
che essi sono giunti a noi in uno stato di quasi totale alterazione, a diversi
livelli e di difficile interpretazione.
Nella seconda metà del XIX secolo, si assiste a
restauri pavimentali più mirati rispetto al passato. É probabilmente per questo
motivo che in diverse basiliche romane si osservano pavimenti “cosmateschi” di
nuovissima fattura, come a Santa Prassede, o a Santa Maria in Trastevere, solo
per fare due esempi significativi. Essi,
infatti, ad una analisi autoptica appaiono potersi riferire al XIX secolo, come
si evince dalle fasce marmoree perimetrali e dalle partizioni reticolari
formate da tessere nuove. Solo a tratti e
nella fascia centrale fu reimpiegato parte del materiale lapideo meglio conservato
dell’antico pavimento cosmatesco. Ma ciò che si osserva e che si rende evidente
subito agli occhi, è il ripristino della simmetria policroma nei disegni
geometrici, almeno in gran parte del pavimento. Lo stesso si può vedere in
Santa Maria in Cosmedin, in Santa Croce in Gerusalemme, in San Clemente e in
tutte le basiliche romane dove furono eseguiti importanti restauri dalla fine
del XIX secolo. In altre chiese, invece, esistono pavimenti conservati in
condizioni molto più vicine a come erano stati concepiti in origine. Uno di
questi è quello della chiesa dei Santi Quattro Coronati. Ma, come è facilmente
immaginabile, nessuno degli antichi
litostrati musivi del XII e del XIII secolo, sono arrivati fino a noi intatti. Il
riadattamento degli spazi liturgici deciso a seguito delle riforme in epoca
rinascimentale, hanno circostanziato gli eventi, come i restauri e le
manomissioni, che modificarono l’aspetto dei pavimenti musivi.
Spesso, gli avanzi dei pavimenti cosmateschi
vennero riutilizzati, nelle loro parti migliori, per la pavimentazione dei soli
presbiteri. Nella basilica romana di Santa Prassede il pavimento della navata è
moderno e fu realizzato con i disegni e la direzione dall’architetto Antonio
Muñoz
agli inizi del ‘900. Sul presbiterio, invece, il pavimento è facilmente identificabile
come una ricostituzione arbitraria che reimpiega parte del materiale originale
dell’antico pavimento cosmatesco. La sistemazione casuale di riquadri
pavimentali musivi, tra i quali vi sono inseriti anche frammenti di lastre con
iscrizioni, è già di per sé una soluzione lontanissima dai canoni dei marmorari
romani. Inoltre, in questi riquadri sul presbiterio si nota, come di consueto,
le suddette caratteristiche di disomogeneità del disegno unitario e l’assenza di
simmetria nella disposizione delle tessere colorate.
Si può dire, quindi, che sono poche le modeste specchiature
pavimentali che ci sono giunte più o meno originali, come concepite e
realizzate dai maestri marmorari.
2) I pavimenti precosmateschi e cosmateschi: una
distinzione inutile.
Raramente negli studî moderni si trova cenno di
una non meglio identificata distinzione tra pavimenti precosmateschi e
cosmateschi. Genericamente si può definire precosmatesco un pavimento
realizzato dalle prime botteghe marmorarie romane, in un periodo compreso tra
la fine dell’XI e la prima metà del XII secolo. Di conseguenza, i pavimenti risalenti
all’ultimo periodo del XII e fino alla metà del XIII secolo, possono essere
definiti come cosmateschi. Questa diversificazione, in realtà poco chiara fino
ad oggi, è servita a distinguere i pavimenti realizzati dalla bottega di
Lorenzo, Iacopo, Cosma e i figli Luca e Iacopo II, prodotti dalla fine del XII
fino alla metà del XIII secolo, da quelli realizzati da altre botteghe
marmorarie nel primo periodo del XII secolo.
Tuttavia, i risultati delle mie ricerche sui
pavimenti cosmateschi di Roma e del Lazio, sono abbastanza sorprendenti perchè
prevedono che i pavimenti di cui trattiamo sono stati realizzati esclusivamente
dalla famiglia di Tebaldo, cioè dai veri Cosmati, per tutto il periodo compreso
tra l’XI e il XIII secolo!
Ciò significa che ogni famiglia di marmorari
svolse un ruolo specifico nelle proprie attività le quali possono essere in
gran parte identificate nelle cronologie dei lavori proposte prima da Maria
Antonietta Bessone Aurelj,
e in seguito da Edward Hutton
dalle quali si evince chiaramente che ciascuna bottega era demandata a compiti
specifici. Sfortunatamente, tra tutti i monumenti cosmateschi che ci sono
pervenuti, i pavimenti sono quelli che meno di tutti recano le firme degli
artisti che li realizzarono. Su oltre quaranta pavimenti solo due sono
attestati da iscrizioni epigrafiche e uno riattribuito per via documentale. I
primi due sono i pavimenti della cattedrale di Anagni, realizzati dal solo
Cosma nella basilica superiore
(1224-1227 circa) e da Cosma e figli nella Cripta di San Magno (1231),
mentre il terzo è quello della
cattedrale di Ferentino, attribuito a Iacopo di Lorenzo (datazione più
probabile tra il 1204-1207) grazie ad un
manoscritto rinvenuto nella Curia. L’assenza di altri attestati epigrafici e
fonti documentali ha fatto sì che il resto dei pavimenti cosmateschi di Roma e
del Lazio fossero attribuiti solo sulla base di una evidenza stilistica spesso
di difficile interpretazione, iniziata con lo studio di Dorothy Glass
nel 1980. Più in generale, invece e in assenza di prove documentali, i
pavimenti sono stati attribuiti agli artefici che si sono firmati su elementi
del mobilio presbiteriale, o nelle opere esterne quali trabeazioni di portici e
portali, come nel caso della basilica di Santa Maria di Castello a Tarquinia e
la basilica di Sant’Andrea in Flumine a Ponzano Romano, dove i pavimenti sono
stati attribuiti alla famiglia di Ranuccio in base alle iscrizioni ivi presenti
su altri monumenti realizzati da artisti di quella bottega.
Dalle indagini da me condotte nell’estate del
2012, però, è emerso che tali pavimenti sono più chiaramente riferibili alla
bottega cosmatesca di Lorenzo e che questa, quindi, ricoprì un ruolo di
assoluto protagonismo in questa specializzazione che si ampliò al massimo anche
negli altri settori dell’architettura cosmatesca solo con l’ingresso in scena
di papa Innocenzo III (1198-1216) per dissolversi poco alla volta con la scomparsa
di Iacopo attorno al 1220. I Cosmati, quindi, quali unici magistri doctissimi
romani ad espletare l’antica
arte quadrataria et musiaria derivata dalla scuola bizantina di
Montecassino, istituita dall’abate Desiderio negli ultimi decenni dell’XI
secolo.
Tutto ciò, porta alla logica considerazione che,
se per “Cosmati” è da intendersi tutta la famiglia dei marmorari romani ad
iniziare dal capostipite Tebaldo e, a seguire, Lorenzo, Iacopo, Cosma e i figli
di quest’ultimo Luca e Iacopo II, o Iacopo alter come spesso viene
denominato per distinguerlo dal nonno, allora i pavimenti in esame realizzati
nel periodo compreso tra il XII e il XIII secolo, sono da definirsi
esclusivamente cosmateschi venendo a cadere il significato stesso del termine “precosmatesco”.
Se a questo si volesse obiettare che alcuni
studiosi citano il piccolo riquadro del pavimento musivo dell’abbazia di Farfa
in Sabina, come un’opera attribuita ad un membro della famiglia dei Ranucius
per via della lapide con iscrizione ivi sistemata nel pavimento, oppure delle
chiese suddette i cui pavimenti sono attribuiti a membri dei Ranuccio per la
presenza di iscrizioni su elementi dell’arredo presbiteriale, è da tenere
presente che tali pavimenti sono stati da me recentemente riconosciuti, sulla
base di evidenti analogie stilistiche e tipologiche, come lavori della bottega
di Iacopo, mentre il pavimento non cosmatesco dell’abbazia di Farfa è di incerta
attribuzione in quanto l’iscrizione con il nome di Ranucius è dimostrata
provenire da uno smembrato arredo presbiteriale e non dal pavimento in cui si
trova.
Dedotto che la stragrande maggioranza dei
pavimenti musivi medievali di Roma, realizzati tra il XII e il XIII secolo,
sono di esclusiva manifattura dei veri Cosmati, resta da spiegare perchè in
molti di essi si notano alcuni tratti riferibili al XII secolo ed altri,
generalmente costituiti dalle fasce pavimentali delle navate centrali, più
chiaramente riconoscibili come lavori della fine del XII o dei primi decenni
del XIII secolo.
A questa domanda è possibile rispondere
ipotizzando che all’epoca delle consacrazioni delle chiese e delle basiliche di
Roma, furono realizzati i primi pavimenti musivi i quali, deteriorandosi
nell’arco di diversi decenni, a causa di calamità naturali o per l’incuria
dell’uomo, essi arrivarono alla fine del XII secolo in una condizione di
assoluto bisogno di essere risistemati e restaurati. Così, furono i Cosmati
stessi, probabilmente i membri della famiglia di Lorenzo e Iacopo che riprendendo
i lavori dei propri padri, su esplicite committenze, attuarono tali
rifacimenti, preservando quanto di meglio si era conservato dell’antico
monumento e rifacendo secondo i propri canoni e gusti, le aree più importanti
del pavimento, come appunto la fascia longitudinale della navata centrale. É
per tale ragione che spesso si riscontra un buon numero di riquadri musivi di
vecchia generazione, quelli che in genere vengono definiti “precosmateschi”,
composti da larghe fasce marmoree bianche e da grandi disegni geometrici
formati con tessere sovradimensionate, mentre nella fascia centrale si nota il
classico mosaico cosmatesco nello stile della maturità di Lorenzo o del giovane
Iacopo (1185-1210), o nell’opera più moderna di Luca e Iacopo II. Un esempio
del passaggio di mani tra varie generazioni di Cosmati più evidente ed
importante, lo si può osservare nella basilica dei Santi Quattro Coronati, dove
un primo pavimento “precosmatesco” fu realizzato forse da Tebaldo sotto papa
Pasquale II, restaurato poi da Lorenzo e sicuramente anche da Iacopo e Cosma
tra il 1190 e il 1210, mentre, cosa eccezionale, si può notare la continuità
dello stile della bottega nel pavimento dell’Oratorio di San Silvestro la cui
consacrazione del 1246 costituisce una importante datazione ante quem e
permette di riferire l’opera (assodata l’attribuzione per via
stilistica) a Luca e Iacopo II.
Il pavimento della chiesa di Santa Maria Antiqua
Considerazioni sulla base di riferimenti
bibliografici
Per la chiesa di Santa Maria Antiqua gli
studiosi hanno scritto fino ad oggi che
al suo interno vi è una porzione di pavimento “cosmatesco” del VI-VII secolo.
La datazione è stata certamente proposta dagli archeologi che hanno condotto
gli scavi presso l’antico sito romano. La Guiglia Guidobaldi
propone una datazione al sesto secolo del pavimento, ma non può fare a meno di
evidenziare «la parziale identità dei motivi geometrici e del gusto
cromatico fortemente analogo» ai pavimenti delle basiliche dei Santi
Quattro Coronati e di San Clemente arrivando addirittura a dire che «viene
persino fatto di pensare che intere stesure pavimentali del VI secolo siano
state materialmente riutilizzate dai marmorari del XII; il che, peraltro,
potrebbe giustificare la scarsa sopravvivenza a Roma di quei sectilia”, riassumendo poi alla fine che
«il fatto che siano giunti sino a noi soltanto quelli che nel XII secolo non
erano più in vista (per crollo dell’edificio o per altre cause) potrebbe
appunto lasciar supporre che quelli ancora in uso ai tempi dei Cosmati siano
stati totalmente da essi rifusi nelle nuove stesure pavimentali». Non
potendo spiegare come mai nel VI secolo sia esistito un pavimento esattamente
identico a quelli cosmateschi del XIII secolo, la studiosa ipotizza che i
maestri romani abbiano letteralmente segato intere stesure pavimentali
riutilizzandole nei loro pavimenti!
La Glass,
riprendendo il Toesca, dichiara il pavimento di incerta datazione, ma «probabilmente
anteriore all’VIII secolo». Poi lo descrive con qualche dettaglio e
alla fine conclude che «It would seem, then, that many of the
consituent elements of a Cosmatesque pavement were in evidence in Rome by the
ninth century», assumendo così, con qualche incertezza, che pavimenti
esattamente identici a quelli cosmateschi fossero già presenti a Roma prima del
IX secolo. Gli studiosi datano il pavimento di Santa Maria Antiqua al VI-VII secolo
prendendo come terminus ante quem la datazione degli affreschi murali.
Nel settembre 2011 il dott. Alessandro Lugari mi
riferiva in merito che «il pavimento è datato abbastanza precisamente dal
punto di vista archeologico: o è contemporaneo a Maria Regina o successivo, ma
come terminus ante quem abbiamo il ciclo di Martino I (649 – 655).
D'altra parte vi sono decine di pavimenti simili sia a Roma che in Grecia e
Turchia dal V al VII sec. Quelli 'cosmateschi' di cui si parla, sono
tecnicamente un altro mondo, i tagli spesso sono precisi, voluti, lo schema
generale segue una simmetria rispetto ad un asse dell'edificio. In questi più
antichi i tagli non ci sono quasi mai. Le formelle sono tutte di recupero e
spesso provenienti da pavimenti diversi, quindi con misure e spessori
differenti. Tutto questo dà a tali decorazioni una caratteristica
'irregoralità' e asimmetria, cosa che probabilmente, oltre che
una necessità, indica anche uno 'stile' e un 'gusto'».
É forse vero
che in alcuni pavimenti di tarda epoca romana, o comunque del V-VI secolo, si
vedono lacerti musivi molto simili a quelli riprodotti in partizioni reticolari
nei pavimenti cosmateschi, ma, come afferma A. Lugari, quest’ultimi sarebbero «un altro
mondo», e quindi perfettamente riconoscibili rispetto ai primi. Nel caso di Santa Maria Antiqua, la cosa più
sorprendente è che i due pavimenti proposti a confronto
nelle immagini di A. Guiglia Guidobaldi sembrano essere stati realizzati dalla mano dello stesso
maestro tanto sono uguali. Non solo, ma nei frammenti pubblicati si scorge
anche il consueto ritocco operato già poco tempo dopo dell’epoca in cui il
pavimento musivo fu realizzato: tessere originali, si presentano in successione
cromatica giusta e in simili condizioni di stato conservativo, mentre
le stesse file si alternano a tessere tipologicamente diverse, meglio
conservate che indicano forse un restauro antico. La tecnica del sectile
è identica, come gli incastri, i tagli precisi e la grandezza delle tessere,
fino al materiale che sembra identico. Le diverse condizioni di conservazione
che si osservano nelle immagini pubblicate non deve confondere nella
valutazione della datazione perché il pavimento della basilica di San Clemente
è totalmente ricostruito e restaurato, come anche gran parte di quello della
basilica dei Santi Quattro Coronati che la Guiglia Guidobaldi anche prende a
confronto per il litostrato di S. Maria Antiqua.
I confronti con la basilica Emilia a Roma,
taberna VIII, il cui pavimento è anch’esso datato al VI secolo mostra due cose
interessanti: la prima è che esso è diviso in ripartizioni rettangolari del
tutto simili a quelle dei pavimenti cosmateschi, sebbene molto più
approssimative e larghe; la seconda è che i motivi geometrici, pur essendo
analoghi, sembrano essere realizzati con tessere molto grandi e con tecnica
diversa.
Il fatto stesso che la Guiglia Guidobaldi
dichiari, citando altri autori, il pavimento di S. Maria Antiqua, come «uno
dei rari esempi altomedioevali esistenti e quindi accomunato a pavimenti del
tutto diversi oppure, guarda caso, cosmateschi ritenuti però anch’essi di epoca
altomedioevale», fa riflettere sulla possibilità che si stia discutendo di
un caso più unico che raro e che proprio per questo sarebbe da considerare con
grande attenzione e prudenza.
IL PAVIMENTO MUSIVO DI SANTA MARIA ANTIQUA.
Nuove ipotesi dopo l’analisi autoptica
dell’ottobre 2012
Alla luce delle nuove osservazioni prodotte in
seguito all’analisi autoptica diretta del pavimento della chiesa, le precedenti
conclusioni sono risultate imprecise, sebbene l’affinità stilistica con il
litostrato della basilica di San Clemente risulti comunque evidente.
In Santa Maria Antiqua è stato sufficiente vedere
l’insieme del pavimento in opus Alexandrinum che precede il falso
tessellato in stile cosmatesco, di cui solo pochi frammenti rimangono nell’area
immediatamente antecedente l’abside con i noti e più importanti affreschi, per
capire la sostanziale differenza tra i due pavimenti di questa chiesa e quelli
più propriamente cosmateschi dei marmorari romani della bottega di Lorenzo che
si vedono nelle altre basiliche di Roma.
La prima cosa che si evince subito è che questo
pavimento musivo
è stato completamente ricostruito, essendo
anche qui evidenti le stesse caratteristiche dei pavimenti cosmateschi
ricostruiti dal XV al XIX secolo, secondo quanto detto sopra. In Santa Maria
Antiqua non si osserva l’opus tessellatum, o la tecnica dell’opus
sectile tra gli incastri delle tessere che risultano essere semplicemente
pressate nel letto di malta cementizia sottostante e sul quale sono stati completati
i motivi geometrici con il tracciato
reticolato, senza l’aggiunta di tessere, né antiche, né moderne. Non si osserva
la necessaria simmetria geometrica tra i patterns
e policroma nella disposizione delle tessere che compongono i motivi
geometrici, come spiegato nelle pagine precedenti, regola basilare di ogni tipo
di mosaico, sia nell’impiego di paste vitree che di tessere lapidee.
Non sono a conoscenza di dettagli documentali e
storici sulla lenta trasformazione che ha subito questo pavimento dai tempi
antichi fino alla sua prima riscoperta nel 1702 per arrivare nello
stato attuale ed è quindi difficile, se non impossibile, poter dire qualcosa di
preciso su come e da chi sia stato manomesso nel tempo. La chiesa fu appunto
riscoperta per la prima volta nel 1702 e non è improbabile che già secoli
prima, tale pavimento possa essere stato parzialmente rifatto. D’altra parte,
già a vedere la pianta di Petrignani (fig. 1), si può scorgere che qualcosa è cambiato e alcune porzioni sono andate perdute già nel corso dell’ultimo secolo.
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Fig. 1
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Fig. 2
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Il Petrignani disegna 19 frammenti di pavimento
musivo tessellato come furono visti al momento dello scavo. Credo che il suo
disegno sia abbastanza fedele alla situazione reale e ci permette di osservare
le notevoli differenze con il pavimento attuale. Le poche tracce delle fasce
marmoree che contornano i motivi geometrici, corrispondono nella misura e nella
forma a quelle ricostruite, confermando un elemento di grande importanza, quasi
risolutivo per il nostro studio. Nella figura che ripropone la pianta disegnata
dal Petrignani ho messo in evidenza quindici riquadri (fig. 2), di cui quelli corrispondenti ai
numeri 10 e 11 comprendono in realtà diversi frammenti che si trovavano
presumibilmente in riquadri diversi. Attualmente il pavimento è stato
ricostruito ricomponendo una serie di cinque riquadri in senso longitudinale e
sei in senso trasversale per un totale di 30 riquadri. Con buona
approssimazione i motivi geometrici si trovano più o meno nella stessa posizione
indicata dalla mappa del Petrignani, con qualche significativa differenza per
quelli del riquadro 11 nella figura e alcuni frammenti scomparsi, o spostati,
indicati nei riquadri 1, 8, 9 e 10, dove oggi lo spazio è occupato maggiormente
dal gradino dell’altare.
Nella fig. 3,
ho riportato
alcuni dei riquadri disegnati dal Petrignani e quelli che si vedono oggi dal
cui confronto è possibile vedere la differenza dovuta alle aggiunte della
ricostruzione. L’orientamento delle foto rispetto ai disegni non è
corrispondente, ma le differenze si notano comunque.
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Fig. 4
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Fig. 5
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Nelle figg. 4 e 5, si può fare un confronto tra la zona pavimentale
disegnata dal Petrignani e la situazione attuale. Come si può vedere, i motivi
geometrici sono gli stessi, ma le porzioni non corrispondono tra loro in modo
preciso. É evidente che qualcosa del mosaico è andato perduto e il pavimento
manomesso, sebbene in minima parte. In ogni caso, grazie alla mappa del
Petrignani, e visto l’aspetto odierno del litostrato, si possono fare alcune
considerazioni di una certa importanza per approntare le nuove ipotesi.
Le nuove ipotesi
Osservando sul posto questo pavimento, in linea
generale si osserva una forte somiglianza con quello fatto costruire dall’abate
Desiderio nella chiesa abbaziale di Montecassino nel 1071. Le analogie più
forti tra questi due pavimenti sono le seguenti:
1) identità
tipologica e stilistica dei riquadri che comprendono i motivi geometrici,
in entrambi i casi quadrati, più o meno delle stesse dimensioni, comprese le
fasce marmoree;
2) identità
tipologica e stilistica dei motivi geometrici, del tutto ascrivibili alle
prime opere precosmatesche e dal confronto con le foto del pavimento cassinese,
un prototipo di sua derivazione;
3) identità
di patterns nello sviluppo
modulare ed uso di tessere originali di giallo antico o bianche con l’effetto
risaltante del bianco e nero per molti riquadri, cosa che si ritrova nei lacerti
di pavimento più antichi ricostruiti nelle cappelle sotterranee dell’abbazia di
Montecassino;
4) carenza
dei motivi geometrici (solo 4 patterns diversi tra loro su 30 riquadri),
ripetitivi e di semplice concezione;
5) assenza
di patterns evoluti come quelli
sviluppati nella cultura cosmatesca della fine del XII secolo;
Chi ha avuto modo di effettuare un’analisi
autoptica dei resti del pavimento di Montecassino, non può fare a meno di
riconoscere in questo di Santa Maria Antiqua un suo perfetto gemello, forse
coevo, o più probabilmente posteriore di qualche decennio. Un’opera
benedettina, quindi, o almeno derivata dalla cultura musiva che l’abate
Desiderio incentivò grazie alla scuola bizantina istituita nel cenobio
benedettino cassinese e in alcune abbazie da essa dipendenti, al tempo in cui
si lavorava alla decorazione della chiesa sotto la diretta partecipazione degli
artisti bizantini fatti venire dall’abate appositamente da Costantinopoli.
La datazione e la stratigrafia
Per quanto riguarda la questione della datazione
per mezzo dell’analisi stratigrafica degli ambienti interessati, si evidenzia
che se l’esame stratigrafico risulta corretto per la datazione al VI o VII
secolo del pavimento in opus Alexandrinum, non si può dire lo stesso per
quello tessellato, per il quale non sembra evincersi una situazione
stratigrafica convincente. Al contrario, il pavimento tessellato potrebbe
essere stato realizzato tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo da
coloro che diedero un nuovo impulso vitale a questo complesso religioso,
curandone anche parte della ricostruzione dopo la completa distruzione avvenuta
a causa del terremoto dell’847. In quel periodo, quindi, si dovette procedere a
coprire o sostituire l’unico pavimento preesistente in opus Alexandrinum,
questo sì di stile, manifattura e origine bizantina sicuramente databile al
VI-VII secolo, con quello più consono alle esigenze decorative che la cultura
benedettina di allora stava proponendo, cioè in stile precosmatesco. Quindi,
alla fine, il nostro pavimento potrebbe essere considerato come una
testimonianza diretta della ripresa della vita religiosa nel complesso
monastico di Santa Maria Antiqua insieme ai reperti di tipo cosmatesco che
fungevano da arredo liturgico e che oggi si trovano repertati nelle gabbie
metalliche poste nello spazio antistante all’entrata della chiesa, in attesa di
una collocazione museale consona.
A tutto ciò si può aggiungere anche la
possibilità che la piccola porzione di pavimento cosmatesco dell’abside, considerato che essa
è stata ricostruita totalmente, potrebbe essere stata prelevata dal materiale
sopravvissuto di un molto probabile pavimento realizzato per la chiesa di Santa
Maria libera nos a poenis infernis,
ovvero Santa Maria Liberatrice che nel XIII secolo era stata edificata proprio
sopra Santa Maria Antiqua.
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Fig. 6
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Fig. 7
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Nelle figg. 6 e 7 si vede il confronto tra il disegno del Petrignani e
il pavimento attuale nella zona sinistra antistante l’abside. Come si vede, il
muro con gli affreschi ricade sui riquadri appartenenti all’antico pavimento
del VII secolo e tale situazione è identica nel disegno del Petrignani a
conferma che ciò è quanto ci è pervenuto dall’antico, almeno dal XII secolo.
Niente di più probabile che per la caduta sulla chiesa dei palazzi sovrastanti
a causa del terremoto dell’847, il pavimento davanti l’abside andò distrutto,
salvandosi, come può essere logico, solo la parte limitata al perimetro del
muro che in questo caso corrisponde solo al lato sinistro. Durante la ripresa,
la comunità monastica, probabilmente benedettina, fece ricostruire il pavimento
mancante, tra il 1080 e il 1100, secondo lo stile dettato dalla scuola musiva
cassinese e secondo lo standard del
pavimento dell’abbazia di Montecassino del 1071, ragione per cui oggi possiamo
osservare tra i due pavimenti le strettissime analogie viste sopra. Tuttavia è
da rilevare che i muri perimetrali non cadono sul pavimento in modo
correttamente allineato con gli scomparti musivi, né su quelli di tipo
bizantini, né su quelli di tipo tessellato. Questa condizione non è facilmente
spiegabile se non pensando ad un adattamento forzato dei riquadri che però oggi
si vedono in una situazione non di facile lettura. Sul perimetro del muro a
destra, guardando l’abside, invece l’allineamento sembra essere corretto probabilmente
perchè i marmorari iniziarono a ricostruire il pavimento da questo lato,
allineando le fasce marmoree con il lato del muro e arrivando dalla parte
opposta prima del muro, in prossimità della fila di riquadri bizantini che
probabilmente scamparono alla distruzione del terremoto. Infatti, il disegno di
Petrignani lascia intravedere la
giusta corrispondenza delle fasce marmoree originali residue con l’allineamento
di detti riquadri bizantini. E’ anche logico pensare che nel VI-VII secolo il
pavimento bizantino si estendesse a tutta la chiesa e non solo alla zona che
precede il presbiterio.
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Fig. 8. Il pavimento che precede il presbiterio. Non rimane più nulla dell’originale
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Fig. 9. Il pavimento bizantino del presbiterio, risalente al VI-VII secolo
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Fig. 10. Il pavimento tessellato del presbiterio, risalente alla fine dell’XI secolo o ai primi anni del XII
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Nelle figg. 8, 9 e 10, si vede chiaramente la differenza tra i tre
pavimenti: quanto rimane dell’antico e quanto trasformato nel tempo.
Ciò che difficilmente potrà essere svelato,
però, è se il pavimento tessellato fu concepito e realizzato per questa chiesa
o se fu prelevato da un altro luogo ed ivi reimpiegato per il rifacimento del
litostrato dopo il terremoto. Qualche perplessità può derivare dalla
constatazione che la scuola bizantina di Montecassino sembra che avesse già
delineato i canoni stilistici decorativi dei pavimenti musivi di questo genere,
secondo i quali le zone di grande importanza della chiesa, come il presbiterio
e la Schola cantorum, dovevano essere decorati con lavori
sostanzialmente più importanti rispetto a quelli delle zone periferiche. Nel
disegno di Erasmo Gattola,
in cui si può vedere l’unica rappresentazione conosciuta del pavimento antico
di Montecassino fatto realizzare dall’abate Desiderio nel 1071, si vede
chiaramente questa scelta, dove longitudinalmente alla navata maggiore si
estende una larga fascia decorativa ricchissima di motivi musivi, rotae,
tessere a forma di losanghe, oppure oblunghe e intrecci di ogni tipo; mentre
affianco a questa fascia e nelle navate minori vengono sviluppate, in senso
longitudinale, file di partizioni reticolari rettangolari musive con i più
consueti motivi geometrici, la maggior parte dei quali di stile precosmatesco
ma che danno un’idea della ricchezza decorativa dell’opera. Non si comprende,
quindi, il motivo per cui nel presbiterio di Santa Maria Antiqua sia stato
realizzato un pavimento in opus tessellatum con 30 riquadri 19 dei quali
presentano frammenti dei motivi geometrici di cui erano composti e in totale solo
4 patterns, tra i più elementari del
repertorio musivo, risultano essere diversi tra loro. Una scarsità d’arte musiva che non si addice
certo ad un’opera decorativa concepita per un presbiterio di una chiesa così
antica e prestigiosa, come invece gli affreschi stanno a testimoniare.
Perchè un pavimento precosmatesco benedettino ?
Nell’ipotizzare un’opera di cultura benedettina,
viene spontaneo chiedersi se per caso in questa chiesa, o nelle immediate
vicinanze, non si fosse insediata una comunità di monaci benedettini, dopo
l’abbandono della struttura a causa della distruzione del terremoto dell’847.
Al riguardo sembra che non siano note prove documentali, ma la presenza
benedettina è stata accertata da diverse osservazioni. Fra tutte si menziona
quella di J. Osborne
ripreso da Pietro De Leo
secondo cui il monastero greco di Santa Maria Antiqua, dopo il suo abbandono
alla metà del IX secolo, fu occupato da una comunità monastica benedettina. Lo
studio del pavimento della chiesa, potrebbe aiutare nella datazione di tale
insediamento che, secondo una conseguenza logica, dovrebbe essere postumo alla
consacrazione della nuova basilica di Montecassino e corrispondere così con
quella ripresa di vita religiosa del complesso di Santa Maria Antiqua che gli
studiosi riferiscono attorno all’XI secolo. Lo stile del pavimento, nella sua
essenza e nell’analisi dei moduli geometrici dei patterns, confrontati con quelli di Montecassino, anche per quanto
riguarda il taglio e la tipologia delle tessere lapidee, sembrano indicare una
datazione posteriore al pavimento di Desiderio, di un periodo che può essere
stimato non più avanti di mezzo secolo, quindi tra il 1080 e il 1130. Le
analogie, infatti, non sono riferibili solo al pavimento cassinese, ma trovano
corrispondenza, per esempio, anche con alcune parti più antiche del pavimento
della basilica dei Santi Quattro Coronati, i cui elementi precosmateschi sono
riferibili ai primi decenni del XII secolo. Non è un caso che a Roma nella maggior
parte delle basiliche in cui furono realizzati pavimenti precosmateschi e poi
restaurati o rifatti dagli stessi Cosmati del XIII secolo, vi erano insediamenti
benedettini ed è anche ovvio che la cultura del pavimento musivo nello stile
del prototipo cassinese venisse diffusa nell’architettura e nell’arte
decorativa delle comunità monastiche benedettine a Roma, come nel Lazio, nella
Campania e del resto dell’Italia centro-meridionale. Da quanto detto, risulta
ovvio, quindi, l’accostamento per analogia stilistica del pavimento di Santa
Maria Antiqua (solo la parte dei riquadri in tessellato) a quello quasi coevo
di Montecassino e alle produzioni simili della fine dell’XI secolo.
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Fig. 11. Roma, Santi Quattro Coronati
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Fig. 12. Roma, Santa Maria Antiqua
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Fig. 13. Montecassino, Frammento del pavimento di Desiderio (1071) nel Museo
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Fig. 14. Roma, Santa Maria Antiqua
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Fig. 15. Montecassino, Museo
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Fig. 16. Roma, Santa Maria Antiqua, pattern derivato da quello della figura seguente di Montecassino
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Fig. 17. Montecassino, Museo. Qui le losanghe sono esagonali e il modulo sovradimensionato
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Fig. 18. Roma, Santa Maria Antiqua
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Fig. 19. Montecassino, Chiesa sotterranea di San Martino, tessitura orizzontale
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Fig. 20. Roma, Santa Maria Antiqua, frammento
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Fig. 21. Roma, Santa Maria Antiqua
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Fig. 22. I due listelli marmorei di giallo antico, resti del reperto probabilmente originale, indicano che quasi sicuramente anche gli altri erano dello stesso colore, formando così una griglia di giallo antico contrapposta al serpentino delle tessere triangolari e quadrate; mentre i quadrati grandi centrali potevano essere di porfido rosso. Sotto, il pavimento misto di frammenti originali e parti moderne
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Ipotesi di attribuzione
Se la datazione del pavimento musivo tessellato
della chiesa di Santa Maria Antiqua presenta difficoltà tali per cui non si
possono avere certezze e l’approssimazione è la sola via di uscita senza prove
documentali sicure, la sua attribuzione è ancora più problematica. Non è
possibile, infatti, individuare con precisione, nell’ambito della cronologia
dei marmorari romani, i maestri a cui l’opera pavimentale può essere riferita.
Tuttavia, se si accetta la sua datazione al periodo compreso tra il 1080 e il
1120, le uniche ipotesi di attribuzioni possibili sono le seguenti:
1) Magister Paulus
2) Tebaldo Marmoraro
3) Giovanni Marmoraro, padre di Ranuccio
4) Christianus magister
Christianus magister è il più antico
marmoraro romano conosciuto, ma egli è attestato attorno al 964 per la
realizzazione della tomba del cardinale Pietro nella basilica di Santa
Prassede, in un’epoca, quindi, troppo anteriore a quella considerata;
Giovanni marmoraro, operante dal 1100, come
generalmente accettato dagli studiosi nella cronologia, è il padre di Ranuccio
le cui famiglie eredi credo abbiano lavorato quasi esclusivamente agli arredi
liturgici e progetti di microarchitetture delle basiliche romaniche, ma quasi
mai ai pavimenti musivi dei quali i pochi oggi generalmente a loro
attribuiti, si sono rivelati come opere della bottega di Lorenzo;
Tebaldo marmoraro, attivo anche lui attorno al
1100, è il padre di Lorenzo della famosa bottega dei Cosmati veri e propri;
Magister Paulus, attivo nel 1106 a
Ferentino, potrebbe essere un candidato probabile. In ultima analisi, i due artisti
più probabili potrebbero essere Tebaldo e Paulus i quali forse frequentarono la
scuola per mosaicisti bizantina istituita dall’abate Desiderio a Montecassino.
I patterns del pavimento sono pochi e
troppo generici, tutti derivati dal repertorio precosmatesco di Montecassino,
ma anche dalla tradizione musiva romana e bizantina. Tra l’altro non si ha la
certezza che il pavimento sia stato concepito in origine per quella chiesa, mentre
se fosse stato trasportato da una delle basiliche romane in tempi precedenti e
coevi al papato di Pasquale II, allora l’attribuzione a uno di questi due
maestri sarebbe ancora più legittima.
In definitiva, non è possibile proporre una
attribuzione che abbia un qualche fondamento sicuro, ma se la datazione è
approssimativamente corretta, il pavimento potrebbe essere o una parte derivata
da un’altra chiesa e realizzato da una delle due famiglie dei marmorari
predetti, o realizzato in situ per S. Maria Antiqua da allievi poco
attenti o da operai che adoperarono materiale di riuso allo scopo di sostituire
il precedente pavimento bizantino del
VI-VII secolo e andato parzialmente distrutto con il terremoto dell’847.
Infine potrebbe affacciarsi la possibilità che la
porzione di pavimento tessellato sia stata prelevata dai resti del pavimento
tessellato che doveva esistere nel monastero benedettino annesso alla chiesa per
il quale sembra documentata una ripresa di vita religiosa nel periodo in esame.
NOTE
Credits
Si ringrazia per la gentile collaborazione:
dott. Giuseppe Morganti, direttore dei lavori di restauro, per le comunicazioni
in merito al pavimento della chiesa, il dott. Alessandro Lugari che ha
pubblicato una tesi di laurea sui pavimenti di S. Maria Antiqua per il
dottorato in Tecnologia dei Beni Culturali all’Università della Tuscia di
Viterbo, per avermi comunicato il proprio parere in merito al pavimento musivo
della chiesa, il monaco benedettino Don Gregorio Don Francesco dell’abbazia di
Montecassino per avermi permesso di studiare ed analizzare il pavimento musivo
di età desideriana, venuto alla luce sotto il pavimento settecentesco della
chiesa abbaziale in seguito al tragico bombardamento della seconda guerra
mondiale, e conservato in diverse cappelle sotterranee dell’abbazia e nel
locale Museo, il monaco benedettino Faustino Avagliano ancora dell’abbazia di
Montecassino, archivio manoscritti, per l’acquisizione dei dati del mio libro Il
pavimento precosmatesco dell’abbazia di Montecassino, infine la dott.ssa
arch. Lucia Prandi, dell’associazione Roma Sparita, per avermi concesso la
possibilità di visitare la chiesa di S. Maria Antiqua nell’ultima apertura
straordinaria al pubblico dell’ottobre 2012.
Roma, 29 ottobre 2012
[10] Da
questo momento per “pavimento musivo” si dovrà intendere qui, a meno che sia
specificato diversamente, la porzione di pavimento che ci interessa
direttamente, essendo essa la sola simile alle opere cosmatesche, e che si
trova dopo l’altare, nell’area antistante l’abside.
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