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Palestrina nel Quattrocento.
Riflessi dell'articolata cultura di un'epoca
 
Sara Esposti
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 15 Agosto 2013, n. 687
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  1. Il palazzo baronale di Palestrina

Il palazzo baronale prenestino (fig. 1), eretto nella parte più alta del centro storico, domina con la sua imponente struttura la città sottostante costituendone l’elemento «scenografico» di maggior rilievo storico-urbanistico, perno dell’intero nucleo abitativo, per il cui sviluppo ha rappresentato un costante punto di riferimento. Il palazzo si fonde con il santuario della Fortuna Primigenia (fig. 2), del quale occupa la parte sommitale, creando un unitario complesso architettonico: l’antico monumento cultuale si chiude e si completa in alto proprio con la dimora baronale che poggia sul criptoportico e sui fornici, che in esso si aprono a livello dell’antichissima piazza della Cortina, e sul podio del doppio portico anulare concavo che coronava il santuario pagano, del quale ha conservato l’andamento semicircolare [1] .

Sono ben evidenti gli elementi architettonici che rivelano che il monumento deve la sua forma attuale ad interventi diversi nel corso del tempo. Il palazzo baronale fu edificato intorno al 1050 dai Colonna; proprio in quegli anni Palestrina e le sue pertinenze diventano feudo di questa famiglia emergente [2] .

Per una migliore comprensione delle vicende che hanno interessato il nostro monumento è opportuno ripercorrere brevemente la storia dei Colonna di Palestrina partendo dal dicembre del 970, anno in cui il papa Giovanni XIII concesse il feudo prenestino ad una senatrice romana di nome Stefania, la cui nipote andrà in sposa a Pietro Colonna [3] . L’atto di infeudazione prevedeva che la concessione fosse a termine, che non andasse quindi oltre i nipoti di Stefania, e che tornasse al pontefice. La feudataria aveva l’obbligo di fortificare la città, provvedendo alle necessarie riparazioni, e di pagare un canone annuo di dieci soldi d’oro alla Camera Apostolica [4] .

A Stefania successe il figlio, conte Benedetto, al quale subentrò la figlia Emilia che sposò in seconde nozze Pietro Colonna [5] . È abbastanza probabile che già la stessa Stefania e suo figlio Benedetto avessero intrapreso una prima sistemazione dei resti dell’area superiore del santuario pagano, adattandolo ad abitazione-fortilizio grazie alla sua posizione strategica e alle massicce strutture romane residue [6] .

La città di Palestrina subì una prima distruzione nel 1298 ad opera di Bonifacio VIII [7] ; già allora il palazzo era eretto nel semicerchio superiore del tempio antico ed era fiancheggiato da due torrioni [8] .

La  «querela dei Colonnesi» avanzata da questi ultimi nei confronti del nuovo pontefice Benedetto XI, eletto nell’ottobre del 1303, chiedeva il risarcimento dei danni subiti nella distruzione di Palestrina decretata da Bonifacio VIII e faceva esplicito riferimento al palazzo baronale, che si faceva risalire a Giulio Cesare [9] . La querela sottolinea, inoltre, che attiguo al palazzo era il monumento più bello della città: un tempio rotondo dedicato alla Vergine, di impianto simile al Pantheon di Roma e poggiante su una scalinata di cento gradini, tanto larghi da poter essere agevolmente percorsi a cavallo [10] .

Benedetto XI annullò le sentenze promulgate dal suo predecessore contro i Colonna, che furono reintegrati nel possesso di Palestrina [11] . La città venne ricostruita, e con essa il suo palazzo baronale, ma conobbe una distruzione ancora più radicale ad opera del cardinale Giovanni Vitelleschi: il 18 agosto 1436, dopo un duro assedio, la città fu costretta a capitolare per fame e per sete. Cinque mesi più tardi il Vitelleschi decise di distruggere Palestrina: la città fu completamente rasa al suolo [12] .

Fu Stefano Colonna, tra il 1440 e il 1482, ad intraprendere i lavori di riedificazione della città e della fortezza sul monte, come attesta un’epigrafe in Castel San Pietro: «Magnificus Dominus Stephanus de Columna reaedificavit Civitatem Praeneste cum Monte et Arce. Anno MCDLXXXII» [13] . I lavori furono completati successivamente dal figlio Francesco tra il 1490 e il 1500: è proprio in questi anni che il palazzo fu sottoposto ad una «unitaria e quasi completa riedificazione» [14] , assumendo la forma architettonica che conserva sostanzialmente ancora oggi.

La sostanziale coerenza  cronologica tra i varî elementi architettonici, trova una conferma temporale nell’iscrizione [15] sul portale d’ingresso (fig. 3) che tramanda che Francesco Colonna nel 1493 era intento ai suoi lavori di restauro: questa data costituisce un punto di riferimento importante che coordina le notizie accertate nel corso degli scavi e le indicazioni stilistiche dei varî elementi architettonici sebbene non manchino sfumature di gusto e sensibilità che testimoniano anticipazioni e ritardi rispetto alla cultura architettonica degli ultimi decenni del Quattrocento [16] .

Ad una fase relativamente precoce dei lavori quattrocenteschi vanno riferite due aperture ad arco con ghiere di semplici pietre che formano il passaggio dalla stanza VII alla stanza VIII (fig. 4), un tempo appartenente all’antico torrione, oggi usata come vano scala. Le due finestre crociate, che murate successivamente vennero rimesse a nudo dall’architetto Fasolo nel 1956, possono essere collocate intorno al 1450, cioè all’inizio dei lavori di Stefano Colonna, e appartengono ad un tipo che era largamente diffuso a Roma dalla metà del Quattrocento [17] . Alla fase costruttiva di Stefano risale l’inserimento nella struttura del palazzo di parti considerevoli dell’esedra, sottolineando il fatto che le antiche colonne del portico esterno erano già chiuse entro un continuo muro frontale [18] .

Gli interventi riferibili a Francesco Colonna sono decisamente più significativi, e determinano la forma architettonica del palazzo così come si presentò a Bramante nel 1504. Le palesi analogie nella disposizione spaziale tra il grandioso progetto di Bramante per il Cortile del Belvedere in Vaticano, e il ricco ed articolato complesso del Santuario della Fortuna Primigenia di Palestrina, hanno indotto a pensare che il progetto del Bramante nella sua struttura essenziale, il tratto mediano concavo e il terrazzamento del cortile, siano stati ispirati dall’antico monumento prenestino [19] .

Se molto si è riflettuto sulle antiche strutture che poterono fornire un valido modello al Bramante, poca considerazione si è data alle possibili influenze che possa aver avuto sull’architetto rinascimentale [20] lo stesso palazzo baronale, innestato su di esse e che già all’inizio del XVI sec. determinava l’aspetto del complesso architettonico.

Il portale d’ingresso è uno degli elementi più significativi attribuibili alla fase di Francesco. Da un punto di vista tipologico trova il suo più vicino corrispondente in quello di Palazzo Santa Croce a Roma, che presenta una cornice molto simile con pietre squadrate a forma di diamante. Contestualmente al portale si riorganizza l’intera facciata: il piano nobile viene sopraelevato, le finestre ingrandite e distribuite ritmicamente sulle parti rettilinee e curve del prospetto [21] .

La suddivisione delle aperture sull’intera facciata ad intervalli ritmici assume un valore puramente artistico e formale, mantenendo una completa autonomia rispetto all’articolazione dell’antico portico. Gli esempi più noti di una disposizione puramente estetica e ritmica delle finestre sono le facciate di Giuliano da Sangallo a Poggio Caiano (1485) e del palazzo di Giuliano della Rovere a Savona (1495). In questo periodo l’allineamento di finestre simmetriche, si pensi al palazzo ducale di Urbino, alla Domus Nova di Mantova e a tutti i grandi palazzi di Firenze e Roma, è un elemento costante. La scansione ritmica delle finestre nella facciata del palazzo baronale prenestino assume un valore notevole, in quanto è da considerarsi il primo uso di questo nuovo principio compositivo in ambiente romano [22] .

Le proporzioni e la profilatura delle finestre, compresa la copertura a spiovente, corrispondono alle forme di fine secolo, si pensi ai palazzi della Rovere e alla chiesa di San Pietro in Vincoli [23] .

All’interno le finestre presentano ai lati dei sedili in pietra sorretti da un balaustro, della stessa ambientazione stilistica, di forma semplice ma vigorosa [24] (fig. 5).

Le solide e semplici colonne di ordine toscano della loggia, sul lato occidentale della facciata, vengono riproposte nelle arcate con scale del vestibolo dando vita a uno dei primi esempi, in ambiente romano, di scale ‘monumentalizzate’ [25] .

La chiarezza e la monumentalità della concezione d’insieme contraddistinguono la fase di Francesco Colonna: le diverse parti dell’imponente struttura architettonica vengono composte e riorganizzate in una complessa e articolata unità; inoltre, il coordinamento assiale del palazzo, dell’esedra, della piattaforma con il pozzo, delle scale con balaustra e del piazzale suggeriscono una struttura a forma di terrazze unica nel suo genere [26] .

L’animus urbanistico di Francesco Colonna è rivolto da una parte alla sopravvivenza del grandioso impianto classico, dall’altra al rinnovamento del suo palazzo gentilizio in armonia con lo sviluppo verso il quale la città di Palestrina si era già avviata. La sistemazione ad uso dei carri della platea della Cortina, mirante ad un utilizzo concreto e funzionale delle strutture, la realizzazione della bella scala rinascimentale e del pozzale si pongono in stretta relazione con le prime realizzazioni urbanistiche romane di Giulio II e con le prime istanze coordinatrici di Nicola IV [27] .

Il restauro del palazzo colonnese propone un’ardua istanza di equilibrio fra le esigenze di conservazione degli elementi classici superstiti, e la complessa serie di fasi storiche e strutturali che hanno caratterizzato il palazzo stesso nel corso dei secoli: anche quando alcuni elementi, in particolar modo quelli tardo-trecenteschi o quattrocenteschi, non rivestono particolare importanza espressiva e funzionale, essi si allineano con gli altri in modo unitario: è questo l’elemento caratterizzante e artisticamente vitale di tutto il processo storico e architettonico [28] .

La chiara trasparenza del residuo classico e il sussistere di un’equilibrata sintesi strutturale concedono alle nuove impostazioni architettoniche la «possibilità di svolgersi con autonomo e vivace sentire d’arte» [29] . Questa è la caratteristica che distingue il palazzo baronale prenestino dalle altre dimore nobili di Roma costruite su antiche rovine: né la Casa dei Cavalieri di Rodi nel Foro di Augusto, né il palazzo Orsini sul teatro di Pompeo, o il palazzo Caetani sul teatro di Marcello presentano una così stretta relazione artistica ed architettonica tra le strutture dell’antico monumento e quelle costruite sopra [30] .

I committenti Stefano e Francesco Colonna restaurano il loro palazzo secondo un motivo conduttore che troverà grande riscontro nel periodo successivo: adattare la dimora all’antica pianta, con il palese obiettivo di conservare ampiamente l’individualità monumentale delle strutture del passato, anche con le variazioni che hanno subito nel corso del tempo. I restauri quattrocenteschi del palazzo baronale, particolarmente quello di Francesco, vengono condotti in base ad un principio di consapevole ed intenzionale sintesi di Antico e Moderno: il monumento prenestino diventa, sotto questo aspetto, un prodotto della ‘Rinascita’ in senso pieno [31] .

La successiva sopraelevazione del palazzo nel tratto centrale, ad opera dei Barberini, rende difficile individuare e definire con sicurezza il progetto architettonico di Francesco per quanto riguarda il coronamento superiore dell’edificio sull’esedra. Non è possibile, inoltre, stabilire se, al di là del tratto mediano del palazzo, fosse possibile vedere l’antico tempio rotondo che sta dietro il palazzo stesso [32] .

Il monumento prenestino ha sicuramente fornito spunti interessanti a Bramante per il Cortile del Belvedere in Vaticano: l’articolazione di un ampio complesso di edifici su più livelli, una monumentale architettura ad abside fiancheggiata da corpi laterali, l’abbraccio in un unico asse visivo dell’intero prospetto architettonico sono ispirati dall’articolata struttura prenestina [33] .

Anche la scala obliqua che corre su due rampe nel progetto michelangiolesco del Cortile del Belvedere presenta molti punti in comune con la scala del palazzo Colonna di Palestrina [34] .

Lo stesso motivo della scalinata assiale suggerirà, sempre a Michelangelo, l’uso delle rampe nella scalea del palazzo Senatorio [35] .

Non abbiamo notizie certe e documentate sull’architetto che progettò, sotto la committenza di Francesco, soluzioni architettoniche così innovative ed anticipatrici che troveranno un grande seguito nel secolo successivo. La forma delle finestre, il tipo delle colonne toscane, il disegno ritmico del prospetto sembrano ricondurre all’ambiente della bottega dei Sangallo.

La decorazione del portale, invece, a cornice di pietre intagliate a punta di diamante, non comune né a Roma, né in Toscana, potrebbe suggerire collegamenti con l’ambiente napoletano o salernitano, dove questo motivo è più frequente. D’altra parte stretto è il legame dei Colonna con gli Aragonesi, oltre che con il ramo dei principi di Salerno: è quindi possibile supporre che tale motivo provenga dal sud [36] .

C’è inoltre da considerare che nell’ultimo ventennio del Quattrocento comincia tra i grandi committenti italiani laici e religiosi, una vera e propria emulazione del modello delle antiche residenze romane come prototipo ideale nei progetti architettonici per ville, palazzi e residenze. Architetti come Luca Fancelli, Francesco di Giorgio Martini, Giuliano da Maiano, Giuliano da Sangallo, spinti soprattutto dalle descrizioni di Plinio e dallo studio diretto delle rovine colgono, già alla fine del Quattrocento, questa possibilità di espressione architettonica che avrà il suo massimo sviluppo nel XVI sec [37] .

Da questo punto di vista il palazzo Colonna di Palestrina rappresenta una delle prime realizzazioni, in ambiente romano, di tipologie architettoniche nuove proprie della Rinascenza, che troveranno immediati sviluppi nel Cortile del Belvedere e nella Villa Madama [38] .

L’architetto del palazzo baronale prenestino possiede una sensibilità architettonica del tutto nuova, sostenuta dal profondo rispetto e dalla perfetta simbiosi con cui si pone in relazione con l’antico Santuario. Come compreso per la prima volta da Maurizio Calvesi questo aspetto si sposa perfettamente con la poetica dell’Hypnerotomachia Poliphili, il cui autore si mostra «appassionato di antichità e pervaso da un profondo e sacrale rispetto per essa» [39] ed «esperto di architettura, di cui ha una concezione personale e produttiva» [40] .

Nel romanzo vengono descritte delle strutture inventate, delle vere e proprie architetture ideali, come il tempio della Fortuna o il tempio circolare, che mostrano una stretta e manifesta relazione con le antichità della città di Palestrina e mettono in luce un substrato di cultura albertiana, ulteriormente rafforzato dalle frequenti ed esplicite citazioni dal suo trattato [41] . È logico, quindi, riflettere sul ruolo che la concezione architettonica di Leon Battista Alberti possa avere avuto nell’impostazione strutturale del palazzo di Palestrina e nel rapporto con le strutture antiche su cui è stato edificato [42] .

La presenza dell’Alberti a Palestrina nell’anno 1450, contemporanea quindi alla fase di ristrutturazione di Stefano, è attestata dal Petrini [43] . È possibile ipotizzare, quindi, un ruolo non irrilevante dell’Alberti nella definizione di un programma globale di intervento: un programma architettonico che fosse il segno manifesto e tangibile della riappropriazione della titolarità del feudo [44] . C’è da tenere in considerazione, inoltre, che i lavori che interessarono Palestrina alla metà del secolo, e che riguardarono non solo la dimora baronale ma anche altri edifici religiosi, duomo compreso, mostrano un’interessante coincidenza temporale rispetto ad altri restauri di basiliche romane che possono aver coinvolto l’Alberti nel ruolo di restauratore, in modo particolare S. Celso e S. Lorenzo in Damaso [45] .

In particolar modo per quest’ultima basilica, diversi indizî potrebbero ricondurre ad un ruolo dell’architetto del Quattrocento, prima della totale ricostruzione voluta dal cardinal Riario. Fino al 1465 ne era commendatario il cardinal Scarampi, con il quale Alberti era in sicuro contatto perché ne visita la dimora suburbana di Albano, con conseguente studio e riflessione sulle antichità del posto di cui ci ha lasciato notizia Enea Silvio Piccolomini. Un rapporto molto stretto che si colloca, forse non a caso, dopo la morte di Prospero Colonna e che può nascondere la volontà di ricerca di un nuovo protettore. Le importanti commissioni per S. Lorenzo in Damaso del 1466 evidenziano un rifacimento, quantomeno parziale, della chiesa. Non è elemento da sottovalutare il fatto che il nuovo titolare in commenda fosse il cardinal Francesco Gonzaga, i cui legami con l’Alberti sono documentati: fu proprio Francesco Gonzaga, contemporaneamente al padre Ludovico, ad operarsi senza successo presso Paolo II a favore di Leon Battista Alberti [46] . Se siamo in presenza di una manifesta volontà di rifacimento interno della basilica, come testimoniano le importanti commissioni a Paolo Romano per il monumento sepolcrale di Scarampi, per il nuovo ciborio e, probabilmente, per una nuova sistemazione del presbiterio, è possibile supporre che si fosse prima provveduto alla manutenzione straordinaria delle coperture e ad interventi di consolidamento strutturale, riflettendo e rielaborando le proposte albertiane per S. Pietro che avrebbero, di certo, trovato una più facile applicazione e agile praticabilità in una struttura architettonica di dimensioni più ridotte [47] .

La ristrutturazione nei primi decenni della seconda metà del secolo di S. Celso, S. Lorenzo in Damaso e S. Giorgio in Velabro può far ipotizzare, vista la loro collocazione lungo il tracciato dell’antica via triumphalis, ad un più ampio programma di riqualificazione urbana, ben distinto da quel programma di ripristino delle antiche chiese strettamente connesso all’instauratio Romae ai tempi di Martino V, Nicolo V e Sisto IV. Tutto ciò porterebbe a rivalutare un ruolo di ‘ispiratore’ degli umanisti di curia, che potrebbe rintracciarsi proprio nella figura dell’Alberti. Non certo trascurabile è la coincidenza cronologica tra i restauri delle basiliche romane e il programma di ristrutturazione della città di Praeneste [48] .

La conoscenza architettonica e teorica di Leon Battista Alberti era ben nota in ambiente colonnese ed ha sicuramente rappresentato una valida guida per il restauro di Stefano, poi portato avanti dal figlio Francesco con uno spunto del tutto innovativo: l’assorbimento dell’emiciclo superiore a fronte concava del palazzo, rispetto alla sottolineatura degli spazî laterali a geometria rettangolare che aveva caratterizzato l’operato del padre. Un’innovativa concezione architettonica che, pur senza rinunciare all’idea di robustezza e di solidità, conferisce all’intera struttura un alleggerimento sostanziale. È probabile che questa nuova forma strutturale derivi da una riflessione e una rielaborazione del “porticus in D formam”, così come chiamato da Plinio nella sua descrizione di villa, ripreso anche da Raffaello a Villa Madama e nella villa del cardinale Du Bellay all’Esquilino [49] .

Un’articolata concezione strutturale di questo tipo, strettamente connessa ad un’attenta percezione e valutazione dello spazio urbano, può richiamare il nome di Giuliano da Sangallo che penserà piazza Navona come l’«amplificata corte d’onore» nel suo progetto per il palazzo di Leone X [50] .

La fase di Francesco, quindi, è decisamente più aggiornata rispetto a quella del padre, più vicina sia cronologicamente, sia per soluzione tecniche, alla concezione albertiana [51] : i lavori di restauro  commissionati nell’ultimo decennio del Quattrocento, mostrano l’intervento di «un ignoto architetto, di singolare qualità e intelligenza» [52] , «un maestro tipicamente di transizione» [53] , «uno sconosciuto architetto di spiccata personalità» [54] .

Il processo di riappropriazione dell’Antico vuole rappresentare e sottolineare un legame inscindibile con le origini nobili della casata, un rapporto che si concretizza ed attualizza nel presente attraverso numerose campagne di restauro e di scavo che, purtroppo, sono parzialmente ricostruibili. In questo clima culturale vivace ed in continua evoluzione è facile che maturi una figura di principe colto, appassionato ed esperto di arti, che possa aver assunto un ruolo di architetto dilettante [55] , magari tenendo in riferimento il trattato albertiano, verso cui l’Hypnerotomachia Poliphili mostra un palese debito, non solo per quanto concerne i motivi architettonici e i principî teorici generali, ma anche per l’utilizzo di vocaboli desunti, più o meno fedelmente, dallo scritto albertiano: una ripresa che non riguarda solo specifici termini tecnici, ma un più ampio panorama semantico [56] e che soprattutto si estende ben oltre il trattato di architettura ed arriva ad abbracciare la lunga e problematica presenza romana di Leon Battista Alberti: è per questa via che la ricostruzione prenestina si inserisce a pieno titolo nel ricco e variegato panorama culturale romano, tenendo presente anche che la figura dell’Alberti gravitò certamente nell’ambiente culturalmente elevato del cardinal Prospero Colonna. Lo stesso architetto, che morì a Roma nel 1472, dispose un lascito per attivare un’accademia umanistica e scientifica romana, che supportasse la celebre accademia di Pomponio Leto ricostituitasi dopo la repressione papale del 1468 [57] .

La presenza costante di riferimenti nell’Hypnerotomachia Poliphili ai principî albertiani dimostra chiaramente la profonda conoscenza del Colonna delle teorie dell’architetto, nei confronti delle quali si investe quasi di un ruolo di promotore: una conoscenza minuziosa ed assimilata che, quasi sicuramente, andava oltre l’editio princeps fiorentina del 1485 del trattato di architettura dell’Alberti, estendendosi ad altre opere rare e a circolazione limitata, alcune delle quali disperse [58] .

 

2.  L’Architettura del Polifilo e Palestrina: corrispondenze non evidenti tra sogno e realtà

L’interpretazione delle costruzioni architettoniche rappresentate nelle incisioni dell’Hypnerotomachia Poliphili, è complessa ed articolata: pur presentandosi come monumenti e figurazioni appartenenti ad un contesto onirico-fantastico ed allegorico, apparentemente privi di riscontri con precise realtà archeologiche, mostrano ad un’attenta analisi una, sia pur parziale, aderenza alla realtà del grande tempio prenestino della Fortuna [59] .

La descrizione non è certo rispondente al dettaglio: i concreti dati antiquariali sono rielaborati fantasticamente, come in un sogno, e reinterpretati in chiave allegorica ma, nonostante questo, le rispondenze appaiono innegabili [60] . Il tempio della Fortuna (fig. 6), rappresentato e descritto nell’Hypnerotomachia Poliphili, è un imponente edificio, «opera ingente et magnifica» [61] , a pianta quadrata, parzialmente in rovina, chiuso tra due monti, chiaramente rappresentati nell’incisione. La costruzione è costituita da cinque blocchi che nel testo vengono dettagliatamente descritti [62] .

Dal palmento, Polifilo scorge l’imponente costruzione congiungersi alle colline nel punto in cui queste erano più alte: «levando gli occhi verso quella parte dove i colli boscosi sembravano congiungersi, vidi in un profondo recesso una sagoma di incredibile altezza, in forma di torre, o, se si vuole, un’altissima specola e poi un grande edificio che ancora non mi appariva per intero, eppure sembrava opera e struttura antica. Dove si ergeva questo complesso, vedevo i graziosi monticelli della convalle innalzarsi sempre più, tanto da sembrare congiunti con la fabbrica appena scorta, che faceva da chiave di volta («conclusura») tra due monti, generando così una gola serrata («valliclusio»)» [63] . 

Il tempio prenestino, in realtà, si trova incorporato ad una sola montagna, e precisamente alle pendici meridionali del monte Ginestro, contrafforte dell’Appennino. Due bracci di una possente cinta muraria a grossi blocchi poligonali di calcare, opera del V o IV secolo a.C., che a valle si ricongiungevano con un muro, percorrevano i due fianchi orientale ed occidentale del monte, chiudendo il tempio della Fortuna Primigenia, al quale si accedeva attraverso una porta nel muro. Questa particolare composizione architettonica potrebbe aver suggerito, in lontananza, l’immagine di due blocchi montagnosi congiunti al tempio [64] .

Procediamo ancora con la descrizione di Polifilo: «Questa stupefacente costruzione si congiungeva, aderendovi secondo un preciso disegno, all’uno e all’altro monte: grazie a questa connessione, come si diceva sopra, la valle rimaneva conchiusa, per cui nessuno poteva uscirne o tornarne o entrarvi se non per la grande (patula) porta» [65] . La struttura del santuario prenestino ha nel suo complesso un andamento piramidale: in essa è inscritta una grande sezione di piramide che si erge nella zona mediana, alla base del cosiddetto santuario superiore, sormontante il santuario inferiore [66] . Tutta la struttura templare si appoggia alla montagna, mostrandosi quindi soltanto nella veduta frontale; l’edificio immaginato da Polifilo, invece, non si appoggia alla montagna ma vi si incastra sostenendola, e più precisamente la penetra per una profondità pari alla larghezza, dividendo così in due la montagna stessa, oppure congiungendo due montagne: la struttura piramidale dell’edificio, così come quella di Alicarnasso, è dotata quindi di quattro lati [67] .

La variante può avere comunque una comprensibile ragione narrativa, obbligando Polifilo a transitare attraverso il tempio che sbarra il cammino per proseguire il percorso. Del resto, come già specificato prima, la riproposizione del santuario prenestino nell’Hypnerotomachia è una grande interpretazione allegorica, che implica aggiustamenti e spostamenti. Il continuo fluttuare tra sogno e realtà è evidenziato dal fatto che poco dopo il Colonna, quasi cadendo in contraddizione, parla di un monte su cui poggia la struttura, avvicinandosi alla realtà del santuario prenestino, e non più di una struttura che ostruisce il passaggio tre due monti [68] .

Altra notazione fantastica e allegorica riguarda l’altezza della costruzione che, nel punto in cui Colonna immagina l’obelisco, sopravanza l’altezza dei monti: anche se il santuario è nella realtà molto più basso, osservandolo da distanza ravvicinata può effettivamente generare l’impressione di essere più alto del monte cui si appoggia [69] .

In relazione agli infiniti gradini che secondo il Colonna marcavano la piramide, si può far riferimento all’orgoglioso vanto con cui i suoi antenati, nel documento di protesta contro le distruzioni di Bonifacio VIII, descrivevano le imponenti e nobili scalinate marmoree d’accesso al palazzo e al tempio di Praeneste [70] .

L’idea dell’obelisco che Polifilo colloca in cima alla piramide potrebbe far riferimento ad un obelisco proveniente da Palestrina e conservato nel museo di Napoli [71] : un piccolo obelisco rinvenuto frammentariamente nei secc. XVII e XVIII [72] . Non è da escludere, quindi, che il Colonna si possa essere imbattuto in qualche frammento che potrebbe aver stimolato la sua fantasia, inducendolo a collocare l’obelisco sulla piramide e la statua metallica della Fortuna sull’obelisco [73] .

Ma c’è un elemento ancor più solido che potrebbe aver supportato la rielaborazione fantastica del Colonna: un’incisione della metà del XVI sec. di Hendrick van Cleve, che riproduce il santuario prenestino,  mostra chiaramente, in forma di rudere, il tempietto rotondo di coronamento, mentre in basso sorge un grande obelisco, proprio nel punto in cui lo colloca Polifilo, ossia sul ripiano superiore della struttura triangolare sormontante il santuario inferiore [74] . Il van Cleve di sicuro non poteva aver visto il tempietto così come lo rappresenta, in quanto era incorporato al palazzo Colonna: l’artista quindi, facendo uso della fantasia, rielabora, sia pure come rudere, l’originale struttura del santuario, ambientandola realisticamente nel suo paesaggio e tra le costruzioni moderne del paese. Non è certo facile stabilire se l’artista abbia riprodotto qualcosa che effettivamente ha visto, o abbia inventato totalmente l’obelisco; ciò che è importante rilevare, comunque, è l’evidente corrispondenza con la descrizione del Colonna che dimostra o che entrambi si siano ispirati alla realtà, o che il van Cleve abbia prodotto la sua incisione influenzato dall’Hypnerotomachia [75] . Pirro Ligorio, il Suarez e il Kircher, suppongono l’originaria esistenza di un faro nel punto preciso in cui il van Cleve e il Colonna collocano l’obelisco [76] .

Una descrizione dettagliata del complesso architettonico prenestino nelle sue parti essenziali è utile per cercare rispondenze precise con la descrizione del Colonna. Partendo dal basso, il primo elemento che si presenta alla vista è un muro che, tagliando trasversalmente il pendio del monte, corre lungo la via degli Arcioni. Il muro ha molteplici funzioni: di terrazzamento, di difesa, e più semplicemente di recinzione dell’area sottostante, dal momento che si raccorda alle due estremità con il muro di cinta, in opera poligonale, della città e dell’acropoli [77] . Il muro non è una struttura singola, ma è costituito da due muri paralleli: una parte in opera quadrata di tufo, un’altra a cortina di opera incerta. È probabile che il primo sia anteriore al secondo [78] . E qui una precisa rispondenza con la descrizione fatta dal Colonna, che narra che i monti posti intorno al mirabile edificio si avvallano con la medesima pendenza dalla cima giù fino al piano: «Lo allamento de’ quali monti aequato era perpendicolarmente dalla cima giù fino all’area» [79] . L’uguale pendenza dei monti è ottenuta mediante un taglio perpendicolare artificiale, che effettivamente si può riscontrare nella parete montagnosa a cui è addossata l’area sacra, che potrebbe corrispondere anche nella denominazione («dalla cima giù fino all’area») [80] . L’adattamento artificiale dei monti è ulteriormente ribadito da Polifilo poco più avanti quando narra: «io sopra di me steti cogitabondo cum quali ferrei instrumenti et cum quanto trito di mane di homini et numerositate, tale et tanto artificio violentemente conducto cusì fusse» [81] : Polifilo riflette, chiedendosi quali arnesi di ferro, quanto lavoro manuale e quanti uomini fossero stati necessari ad edificare con tanto furore un così eccezionale artificio, che aveva richiesto immani fatiche e un grande dispendio di tempo [82] .

Il monumento prenestino, appoggiato al pendio piuttosto ripido del monte, è perfettamente inserito nel paesaggio e senza di esso mancherebbero le condizioni essenziali alla sua esistenza. La struttura architettonica è costituita da una sapiente ed audace articolazione delle sue diverse parti: quelle visibili e quelle che, pur nascoste all’interno del monte, si rendono presenti attraverso le strutture che senza di esse non potrebbero esistere. Le strutture visibili sono rappresentate dal vivace alternarsi di linee rette e curve, di rientranze e sporgenze negli elementi delle diverse terrazze; quelle invisibili, dalle possenti sostruzioni ad arcate cieche che hanno consentito all’architetto, facendo uso della nuova tecnica cementizia, di sovrapporre terrazza a terrazza, correggendo e piegando alla sua volontà la difficile conformazione del terreno [83] . All’importanza risolutiva della nuova tecnica cementizia allude evidentemente il Colonna quando parla della «compatta congerie de glutinato cemento et glarea et di rude petratura»: cioè il calcestruzzo romano, costituito da ghiaia, schegge di pietra, pietrisco o sassi [84] .

La descrizione del tempio della Fortuna dell’Hypnerotomachia sembra rilevare persino uno degli accorgimenti strutturali più raffinati del complesso prenestino: l’uso dell’intercapedine tra le pareti della montagna e quelle del tempio [85] . Polifilo narra, infatti, che l’imponente e solido basamento, «ingente et solido plynto overo lastrato» [86] , su cui poggia la piramide, non aderisce alle montagne laterali della convalle, ma ne è separato dall’uno e dall’altro lato, da un’intercapedine di dieci passi: tra i lati del plinto, quindi, e il fianco delle montagne, è posta un’intercapedine di dieci passi [87] .

 

3. Il tempio di Venere «Physizoa»

Un’altra costruzione che sintetizza la cultura architettonica di Francesco Colonna è il tempio di Venere «Physizoa» (fig. 7). Il tempio ha una forma rotonda: «per architectonica arte rotundo constructo» [88] . L’articolata struttura, minuziosamente descritta dal Colonna, presenta un deambulatorio a volta e una cupola centrale sostenuta da pilastri ed è confrontabile con gli antichi edifici che l’Alberti, riferendosi probabilmente al Santo Stefano Rotondo, chiama «basilica rotonda». Il riferimento esplicito all’Alberti consiste nell’aver stabilito l’altezza dell’edificio pari al diametro di pianta [89] . Polifilo, nella sua descrizione, mette in evidenza gli armonici rapporti proporzionali, in base ai quali viene ricavata la doppia forma circolare: tracciato un circolo che corrisponde al muro perimetrale, vi si inscrive un quadrato; calcolata, quindi, la decima parte del lato di questo quadrato, si definisce la posizione del circolo interno. Questa pratica di misurazione geometrica, attraverso cerchi e quadrati, trova riscontro nel Filarete e in Francesco di Giorgio Martini [90] . I due cerchi segnano, rispettivamente, la posizione del filo interno del muro perimetrale e quella delle strutture interne che sostengono la cupola e delimitano il deambulatorio. Tali strutture sono costituite da pilastri murari, ai quali si addossano grandi semicolonne corinzie con capitelli di bronzo dorato e, lateralmente, due semicolonne di serpentino sorreggenti dieci archi, a dividere il vano centrale dal deambulatorio anulare. Le colonne corinzie, di porfido, sostengono una trabeazione che gira tutt’intorno al vano circolare e che è profilata in aggetto in corrispondenza di ogni semicolonna. Alle colonne più piccole, di serpentino, è sovrapposto un sovraccapitello sul quale si imposta l’arco [91] .

Al di sopra della trabeazione, nella parte interna, è posto una specie di «attico», la cui superficie cilindrica è scompartita da un piccolo ordine di pilastrini o paraste che sostengono una cornice che costituisce l’imposta della calotta della grande cupola del tempio. Sull’aggetto della trabeazione, in corrispondenza di ciascuna colonna, sono poste le statue di Apollo e delle nove Muse.

Negli spazî tra un pilastrino e l’altro sono presenti delle finestre schermate da lastre di pietra diafana, e le parti residue del cilindro murario sono scompartite in settori o pannelli, riquadrati da fasce modanate, che contengono figurazioni a mosaico con i simboli zodiacali dei mesi, il sole, le fasi lunari e le stagioni. La cupola bronzea è costituita da tralci di vite dorati, che escono da vasi bronzei posti in asse con le colonne a formare una struttura metallica traforata i cui vuoti, tra le volute vegetali, sono chiusi da lastre di cristallo di diverso colore. La grande cupola è interrotta al vertice da un oculo schermato da una testa di Medusa, dalla cui bocca pende una corda d’oro, che sostiene un elaborato vaso, che forma una lampada «inconsuptibile», ardente di lume perenne [92] .

La lampada risulta sospesa, al centro del tempio, su una cisterna che, mediante un ingegnoso sistema di canalizzazione attraverso i pilastri, fa defluire le acque piovane raccolte in un pozzo posto al centro della costruzione. Il pozzo e la cisterna, nella quale confluiscono le acque piovane, celano una sottile allegoria che nuovamente ci riporta a Venere genitrice, principio creatore della terra, oltre che dea dell’amore [93] . In un’opera che precede di pochi anni l’Hypnerotomachia, si afferma che il pozzo ha un’origine egizia e, come la cisterna, presenta misteriosi rapporti con gli elementi naturali e con la terra, con cui comunica direttamente nelle profondità, configurandosi come una sorta di «umbilicus» [94] . Nell’opera si cita, inoltre, Lucrezio, secondo cui l’acqua d’inverno è calda perché vi si nasconde il calore della terra: calore rappresentato nel tempio dal fuoco che arde nella «divina fiamma» della lampada che, accanto ad un’immagine solare, evoca il segreto fuoco della terra infuso dal sole [95] .

Lamberto Donati vede nel mausoleo romano di Santa Costanza il modello ispiratore del tempio polifilesco [96] . Qualche somiglianza è rintracciabile. L’antico edificio, eretto agli inizi del IV sec. come mausoleo della figlia di Costantino, è rotondo e composto in pianta da due anelli concentrici: l’anello interno è costituito da dodici coppie di colonne su cui sono impostate le arcate, mentre dodici finestre si aprono sotto la cupola. Nel periodo rinascimentale la struttura è ritenuta un tempio di Bacco, in considerazione dei mosaici che rivestono la volta a botte del deambulatorio e che rappresentano scene di vendemmia. Bacco, divinità misterica che impersona un prodotto della terra, potrebbe aver ispirato il Colonna nel modellare l’idea del tempio rotondo: i motivi vitinei che compongono la cupola ne sono testimonianza [97] .

Una fonte d’ispirazione più specifica è da rintracciarsi proprio negli edifici di coronamento del santuario prenestino: lo spaccato del tempio (fig. 8), così come presentato nella xilografia del romanzo, può essere chiaramente messo a confronto con l’antica struttura inglobata dal Colonna nel proprio palazzo e, per essere più precisi, con il portico semicircolare a colonnato doppio, al centro del quale si innesta un sacello circolare che, nell’assetto quattrocentesco, è probabile fosse visibile in lontananza, coperto successivamente alla vista dal rialzo costruito dai Barberini [98] . In effetti, nella descrizione del tempio di Venere Physizoa, sono rintracciabili sia elementi del sacello di coronamento, sia dell’attiguo portico semicircolare. Merita particolare interesse la vera da pozzo, ornata con il motivo della Medusa, che risale all’epoca del palazzo e che fu commissionata dallo stesso Francesco Colonna. La vera da pozzo si trova ai piedi dell’emiciclo gradinato (fig. 9) e coincide all’incirca con il centro dell’ideale circolo che si otterrebbe raddoppiando l’emiciclo stesso e il portico semicircolare su cui sorge il palazzo. La funzione della vera da pozzo è quella di attingere acqua dalla sottostante cisterna, ricavata in epoca tarda nel criptoportico [99] .

Al centro del tempio rotondo, di cui l’illustrazione aldina evidenzia lo spaccato suggerendo chiaramente l’idea dell’emiciclo, Polifilo, come già detto, vede la vera da pozzo, al di sotto della quale si apre l’allegorica cisterna destinata alla raccolta delle acque piovane, mentre al di sopra è posizionata la testa di Medusa. La cisterna corrisponde a quella esistente a Palestrina, sotto alla vera da pozzo che è decorata proprio da una testa di Medusa, alternata allo stemma dei Colonna [100] (fig. 10). Nell’Hypnerotomachia la catenella sorreggente la lampada inestinguibile è decorata da quattro immagini di «monstrificate fanciulle», le cui gambe divaricate terminano in motivi fogliacei, riproponendo l’iconografia antica della sirena bifida, che trova grande diffusione nel periodo rinascimentale, e che compare spesso come motivo decorativo dello stemma dei Colonna. L’illustrazione aldina non registra l’importante particolare, descritto da Polifilo, delle corone poste sul capo delle sirene, come proprio si nota nello stemma dei Colonna: tale omissione potrebbe nascondere la volontà di occultare un preciso riferimento allo stemma araldico [101] .

È necessario valutare un altro elemento: il sacello del tempio polifilesco che, come narra lo stesso Colonna, è posto in asse con la porta del tempio e, conseguentemente, con la vera da pozzo e la sottostante cisterna. La corrispondenza con il sacello circolare, posto alle spalle dell’emiciclo colonnato di Palestrina [102] , e che il Colonna incorpora al palazzo con l’emiciclo stesso, è totale: è un ambiente quasi ricavato dalla roccia del monte, privo di aperture nelle tre parti restanti, in asse con la porta dell’attuale palazzo, e quindi con la vera da pozzo e la cisterna [103] . La destinazione di questo ambiente non è chiara: la sua ubicazione nella parte sommitale del santuario, fa supporre che fosse un elemento strettamente connesso al culto della Fortuna [104] . Il piccolo sacello polifilesco è di pietra trasparente, è bene illuminato nonostante la mancanza di finestre, dotato di una cupola e di un tetto rotondo. La tholos prenestina terminava in alto proprio con una cupola. I rifacimenti tardo cinquecenteschi e poi quelli barberiniani hanno praticamente cancellato alla vista i resti della rotonda terminale, ben visibile nei disegni rinascimentali.

Il dettaglio della pietra trasparente non trova riscontro nel sacello prenestino, ma è un elemento di fantasia suggerito da Plinio che narra del tempio trasparente della Fortuna costruito da Nerone [105] . Occorre tener presente, inoltre, che anche Leon Battista Alberti, nel De re aedificatoria, fa menzione del santuario della Fortuna nella Domus aurea di Nerone, costruito con marmi «puri, candidi e trasparenti, di modo che ferrate tutte le porte paia che dentro vi sia rinchiusa la luce» [106] . Anche i motivi della lampada, del fuoco che arde all’interno del sacello, e dei dieci candelabri a conca dalla fiamma inestinguibile, a prova di pioggia e di vento, che circondano il grande sacrario, ci riportano al coronamento del santuario prenestino [107] . La Fortuna Primigenia è ritenuta, a partire dal Rinascimento, anche protettrice dei naviganti, e per lungo tempo gli studiosi hanno sostenuto che il santuario ospitasse un faro. Questa leggenda è accreditata proprio dalla stessa posizione del santuario e dal suo orientamento rispetto allo squarcio che si apre nel paesaggio in lontananza [108] . Il Palladio, nella planimetria del santuario, colloca due fiamme, una per lato, nel ripiano sovrastante la cosiddetta area sacra [109] . Il Suarez e il Kircker collocano la lucerna del faro nel punto di convergenza delle due rampe, nella stessa posizione indicata dal Ligorio, che al centro del piano traccia una lingua di fuoco [110] . In questo stesso punto, il Colonna e il van Cleeve immaginano l’obelisco [111] .

Una rappresentazione grafica, attribuita a Frà Giocondo, che rileva in pianta il complesso terminale del santuario e ambienta proprio sulla sommità la lucerna, con il preciso riferimento al faro, è il più chiaro elemento di raccordo tra il tempio di Venere e l’edificio prenestino [112] . Il fuoco ardente, ricco di significati allegorici, del tempio di Venere Physizoa, illumina l’interno del sacello ma risplende anche all’esterno, visto il materiale trasparente con cui la struttura è costituita. Il Colonna probabilmente pensa il coronamento del santuario prenestino adeguandosi allo stesso principio: facendo in modo, cioè, che risultasse ben avvistabile nel suo fulgore, anche in lontananza [113] .

In quest’ottica, il santuario prenestino e il percorso che Polifilo compie all’interno delle strutture immaginarie si caricano di un significato allegorico notevole e complementare: il monumento prenestino viene progettato dal Colonna come sfondo aperto e mobile, luogo reale e, insieme, ideale, concreto e immaginario, fisico e concettuale, del percorso di Polifilo: una sorta di costruzione ideologica che si espande nel paesaggio circostante e lo annette [114] .

 

4. La biografia di Francesco Colonna: figura “poliedrica” con una fitta rete di relazioni culturali

Maurizio Calvesi, nella sua ultima monografia sull’Hypnerotomachia del 1996, ha criticamente ricostruito la biografia di Francesco Colonna [115] , la cui voce risulta assente dal Dizionario Biografico degli Italiani. Gli approfondimenti sulle fonti letterarie di Silvia Danesi Squarzina [116] e, da ultimo, la monografia di Stefano Colonna [117] hanno contribuito a restituire un profilo completo del principe di Palestrina, proposto secondo una lettura culturale e storica, e ad evidenziare la ‘poliedricità’ della sua figura in relazione ad eventi e personaggi della Roma del Quattrocento.

Pompeo Litta fissa al 1453 l’anno di nascita di Francesco Colonna generato da Stefano di Stefano Colonna, del ramo di Palestrina, detto «di Sciarra», e da Eugenia Farnese [118] . L’autore colloca erroneamente nell’anno 1538 la morte dello stesso, forse confondendolo con Pierfrancesco Colonna, cugino del padre di Francesco, la cui eredità aprì aspre controversie familiari risolte appunto nel 1538 [119] . La scomparsa di Francesco sembra potersi collocare intorno all’anno 1517, in base ad un documento del 19 giugno di quell’anno che prevede la restituzione ad Orsina Orsini, sposata da Francesco probabilmente in seconde nozze, della dote elargita a suo tempo dalla madre Giustiniana: ciò è da giustificarsi con la sopravvenuta vedovanza della donna. Il nome di Francesco, inoltre, è preceduto dal «quondam»: ciò avvalora l’ipotesi della scomparsa di Francesco in un tempo immediatamente precedente al 19 giugno 1517 [120] .

La prima fonte letteraria riguardante Francesco Colonna in minore età è da rintracciarsi in un epigramma celebrativo a lui intestato da Paolo Porcari, nel 1468, in cui si lodano le sue virtù letterarie [121] . Segue l’epistola latina, indirizzatagli da Nicola Della Valle, suo precettore, morto nel 1473, in cui è detto di età «imberbe» [122] . Francesco, in giovane età, doveva ben conoscere il latino, se chi si rivolge a lui sceglie di farlo in questa lingua, usando toni lirici ed elegiaci e citazioni dai classici latini [123] . Nella stessa lettera si fa riferimento ad un suo recente viaggio a Napoli [124] .

A poco prima del 1474 risale l’epigramma dello Zovenzoni intestato a «Francisco Columnae Antiquario», che esalta non solo la sua fama (se, come pensiamo, a lui e non all’omonimo frate veneziano va riferito) di uomo colto e studioso, ma soprattutto le origini nobili della sua famiglia appartenente alla grande casata romana [125] .

I versi di Matteo Visconti stampati nelle pagine introduttive al romanzo, reperibili soltanto in una copia di esso, riportano l’espressione «Francisco, alta Columna»: si tratta di una citazione dal sonetto del Petrarca in morte del cardinale Giovanni Colonna: «Rotta è l’alta Colonna…». L’espressione «alta colonna» designa la nobile casata romana [126] : lo stesso appellativo è utilizzato per Stefano Colonna, figlio di Francesco [127] .

L’umanista palermitano Pietro Gravina, attivo a Roma e Napoli e, nel 1525, anche a Genazzano, dedica un carme latino a Pompeo Colonna [128] , utilizzando «firma Columna», una variante dell’epiteto [129] .

Due componimenti contenuti nell’epigrammatario di Angelo Colocci [130] , ma probabilmente riferibili al Porcari, fanno riferimento ad un’attività letteraria e poetica del principe stesso [131] . Il primo, indirizzato «Ad Franciscum Columnam», così si conclude: «Carmina, et illa modis tua verba soluta, reversam / In te Arpinatiis Virgiliique probant», ossia: «I componimenti poetici, e quelle tue parole sciolte dai legami del metro, provano che in te, o Francesco Colonna, è ritornata l’anima di Cicerone e di Virgilio» [132] .

Alcuni versi dell’umanista Faustino Perisauli confermano l’attività letteraria del principe prenestino [133] . È opportuno rilevare che la scritta che Francesco Colonna appone sul portale del suo palazzo [134] è un distico elegiaco risultante infatti dalla successione di un esametro e di un pentametro [135] : è logico attribuirne la paternità allo stesso Francesco Colonna [136] .

Se le fonti letterarie rilevano un ruolo attivo del principe prenestino e lo inseriscono, a pieno titolo, nel panorama culturale quattrocentesco, le fonti d’archivio permettono di individuare il ruolo occupato da Francesco nella società del tempo e di ricostruire le tappe fondamentali della sua vita.

La prima notizia a lui riferibile è contenuta in un documento, pubblicato nelle note dell’edizione critica della vita di Paolo II, che attesta che suo padre Stefano Colonna, uomo d’armi al servizio di Paolo II Barbo, riceve dal cubiculario del Papa, nell’agosto del 1470, la somma di 100 ducati d’oro per comprare libri al figlio (che quasi certamente è Francesco e non suo fratello): «ad emendum libros pro filio suo» [137] . Il diciassettenne Francesco Colonna risulta essere, quindi, il beneficiario di un investimento culturale di carattere formativo [138] .

Una bolla in pergamena datata 15 maggio 1473 [139] , proveniente dagli Archivi originali della famiglia Colonna di Sciarra di Palestrina, rinvenuta dallo studioso Stefano Colonna, certifica che il principe di Palestrina è investito della carica di protonotario apostolico [140] . I protonotari attendevano alla preparazione delle lettere pontificie, coadiuvati dagli abbreviatori, che ne stendevano materialmente la minuta, e dai grossatores che ne curavano la bella copia [141] . Il documento del 1473 è interessante per l’intestazione «dilecto filio Magnifico Francisco de Columna Canonico Lateranensi», dalla quale si evince che Francesco Colonna, prima di diventare Canonico della Basilica di San Pietro, è Canonico di San Giovanni in Laterano [142] .

Un altro importante documento certifica la nomina di Francesco Colonna a Canonico della Basilica di San Pietro [143] . Il documento è costituito da due bolle originali: quella di concessione del privilegio e quella executoria, grazie a cui il beneficiario viene messo in grado di ottenere il beneficio concesso [144] . Il diritto e la prassi canonica prevedono che il Canonicato sia un «titolo spirituale, indipendente dalla rendita temporale, con diritto di assidersi nello stallo in coro, o nel capitolo delle chiese cattedrali o collegiate» e che consiste «nel diritto di aver posto in coro, perché colui, il quale viene dichiarato canonico, è accolto dal capitolo siccome un fratello» [145] . Tale formula, completa dell’appellativo «frater», ricorre nella bolla esecutoria di nomina di Francesco Colonna quale Canonico di San Pietro mediante la quale il papa ordina che egli sia ammesso tra i canonici: «in Canonicum recipi et in fratrem», dove l’appellativo «frater» non va inteso come ‘frate’, ma come ‘fratello’ [146] . In quest’ottica, l’appellativo dell’acrostico dell’Hypnerotomachia «Frater Franciscus Columna Poliam Peramavit», trova un preciso riferimento nella biografia di Francesco Colonna [147] .

La prima epistola nota del principe prenestino viene spedita da Palestrina a Gentile Virginio Orsini il 12 settembre 1494 [148] , riferendo del recente passaggio a Palestrina di Ascanio Sforza e di Prospero Colonna che, di ritorno da Marino e diretti a Genazzano, comunicano recenti vicende belliche: il documento è anche un’importante testimonianza storica della discesa di Carlo VIII in Italia e del fermento che essa genera [149] .

Dal punto di vista strettamente paleografico, il documento assume un valore notevole perché non si conoscono, allo stato delle ricerche, altre lettere autografe del signore di Palestrina. L’esempio della grafia diventa, quindi, un modello di confronto per dirimere eventuali dubbi sull’attribuzione di passati e futuri rinvenimenti. È, inoltre, un esempio di prosa, sia pur corsiva e quotidiana, che ci introduce al modo di scrivere di Francesco Colonna e al mondo dei suoi interessi pubblici [150] .

L’epistola permette inoltre di ricostruire una fitta rete di rapporti tra gli umanisti dell’epoca: con Gentile Orsini, destinatario della lettera, collaborava il parente Gian Corrado, padre dell’inventore del Sacro Bosco di Bomarzo che ha, a sua volta, tratto ispirazione per la sua realizzazione dalle pagine dell’Hypnerotomachia di Francesco Colonna: la cultura dell’incunabolo mostra, ancora una volta, la sua capacità di intersecare relazioni familiari e culturali di più generazioni dell’Umanesimo romano [151] .

Gentile Virginio Orsini risulta, inoltre, un importante anello di congiunzione con l’Umanesimo napoletano motivando quelle evidenti affinità di opere, come l’Arcadia di Jacopo Sannazaro, composta a Napoli tra il 1480 e il 1484 e pubblicata nel 1501 o il tempietto funerario del Pontano a Napoli, con l’Hypnerotomachia. Il tempietto napoletano fu costruito nel 1492, un anno prima della fine dei lavori di restauro del palazzo baronale di Palestrina, terminati nel 1493.

Il tempietto si presenta come un museo epigrafico di carattere antiquariale, ed assume una funzione equivalente a quella delle raccolte antiquariali disposte nei cortili di alcuni palazzi romani rinascimentali: una sorta di protomuseo che raccoglie, conserva ed espone le antichità venute alla luce durante gli scavi. La disposizione delle lastre epigrafiche nell’opera del Pontano, equilibrata e ragionata, non è finalizzata, però, alla semplice esposizione del reperto, ma a veicolare un messaggio simbolico complessivo strettamente collegato alla funzione. Il tempietto è un unicum nel panorama dell’architettura rinascimentale italiana [152] . Pontano affronta il tema funerario anche nei suoi due libri dei Tumuli [153] , dove raccoglie epigrammi latini dedicati ad amici e parenti defunti. Alcuni dei carmina presentano strettissime analogie con il tema dell’Hypnerotomachia, particolarmente quello in cui viene proposto un dialogo del Pontano con la moglie Adriana, defunta, che rivive nella mente dell’autore con una vivida immagine, e quello in cui parla con la moglie in sogno [154] .

È elemento da considerare, inoltre, che l’invenzione pontaniana del Tumulus come sinonimo di una produzione poetica specifica venga subito riproposta nel Thermae, Tumuli, Theatrum [155] di Evangelista Maddaleni Capodiferro, familiare di Giovanni Colonna e, quindi, vicino a Francesco Colonna di Palestrina [156] . Le composizioni poetiche dello stesso Capodiferro, particolarmente quelle contenute nel Vat. Lat. 3351 della Biblioteca Apostolica Vaticana, dove compaiono alcuni versi dedicati a compiangere la morte, avvenuta nel 1508, di Giovanni Colonna, soprannominato “Mecenate”, supportano l’ipotesi che intorno al mecenatismo principesco del cardinale graviti uno dei circoli culturali più attivi e ferventi nei primi anni del papato di Giulio II [157] . Ulteriori studi e rinvenimenti di relativi documenti potrebbero rafforzare tale ipotesi. È un elemento importante che nel codice ricorrano frequenti richiami ai nomi dell’Hypnerotomachia, a partire da «Pollia», cui il Capodiferro dedica versi d’amore [158] . In un componimento sulla Fortuna, la menzione dell’«illicibus fultus» è da collegarsi all’Hypnerotomachia, in cui più volte viene nominato l’albero, dalla cui versione greca deriva il nome della città di Preneste [159] . Inoltre, il «Laurentius Crassus» presente nei componimenti del Capodiferro potrebbe essere il cognato della nipote di Francesco Colonna, ovvero uno dei fratelli di Leonardo Crassi prefatore dell’Hypnerotomachia [160] .

Tra le attività di ‘promozione culturale’ del cardinale Giovanni Colonna è da segnalare la rappresentazione nella sua residenza, durante il carnevale del 1499, di un Bruto cum due teste in mano e della Mustellaria di Plauto e, durante quello del 1508, di due commedie nel palazzo ai Santi Apostoli [161] . Quest’ultima fu l’abitazione di Giovanni Colonna, e si tratta del palazzo in precedenza occupato dal Bessarione, dal Riario e da Giuliano Della Rovere, probabilmente evocato nella reggia di Eleuteryllide del Polifilo [162] . In questa sede, forse subito dopo l’elezione di Giulio II, il cardinale tenne un convito per Guidobaldo da Montefeltro, durante il quale fu rappresentata un’ecloga del Capodiferro, come risulta da un’annotazione ai margini dell’ecloga stessa [163] , celebrante il duca di Urbino e il pontefice. Una seconda ecloga del Capodiferro fu messa in scena durante un banchetto offerto dal cardinale al papa nel 1504 [164] .

La figura di Giovanni Colonna apre, inoltre, ad un’interessante riflessione di Stefano Colonna, nella monografia già citata, che aiuta a comprendere la fitta rete di relazioni culturali della seconda metà del Quattrocento, e restituisce un panorama fervente ed articolato. Nel 1470 Martino Filetico, umanista di notevole preparazione culturale, diviene precettore di Giovanni Colonna. Allo stesso anno risale il già citato donativo da parte di papa Paolo II Barbo a favore di Stefano Colonna per comperare libri al figlio: «ad emendum libros pro filio suo» [165] . Non risultando un’iscrizione di Francesco Colonna nei ruoli di qualche Università, è probabile che egli abbia ricevuto un’istruzione privata tramite un precettore personale, privato o riservato ad un gruppo ristretto di allievi [166] . Si potrebbe ipotizzare una forma di condiscepolato di Giovanni e Francesco Colonna nel 1470-1471 [167] . Nell’Hypnerotomachia Poliphili, il principe di Palestrina utilizza la versione latinizzata del termine greco «πολυφιλία», che ricorre nell’opera Iocundissimae Disputationes del Filetico del 1462-63. L’umanista compone nel 1461 i versi latini per il gruppo marmoreo delle Tre Grazie, possedute a quella data da Prospero Colonna, che ispireranno poi il soggetto di un’incisione dell’Hypnerotomachia [168] . Anche questo percorso di riflessione porta ad avvalorare l’ipotesi di un effettivo rapporto di discepolato tra il Filetico e Francesco Colonna. È necessario tener presente, inoltre, che Martino Filetico è sicuramente maestro di Mariano de Blanchellis prenestino, antiquario e notaio di Francesco Colonna. Uno studio attento e scrupoloso delle note apposte ai margini dei testi dell’Ott. Lat. 1256 permette di attribuire la paternità delle note al Filetico e dei testi al De Blanchellis, il cui operato viene ristretto alla semplice funzione di estensore del codice in qualità di allievo del Filetico [169] : si tratta, quindi, della revisione degli appunti “di classe” di uno dei più solerti allievi del Filetico presso lo Studium Urbis [170] .

La stessa parola ‘Hypnerotomachia riconduce direttamente all’ambiente culturale del Filetico e si ricollega al tema delle Iocundissimae Disputationes, il cui testo rievoca tre giornate di studio dove si alternano, in dottissime conversazioni, il maestro e i suoi due giovani allievi, Battista e Costanzo Sforza, in ricordo degli anni di insegnamento a Pesaro. Al fratello Costanzo, che sostiene la superiorità della lingua latina, Battista costruisce un raffinatissimo ragionamento a favore della lingua greca che esprime concetti complessi con parole composte, che non trovano un corrispettivo nella lingua latina, se non mediante perifrasi [171] . Se Martino Filetico fu davvero maestro di Francesco Colonna, oltre che di Giovanni, risulta semplice spiegare un vero e proprio amore per la grecità e la linguistica applicata allo studio di forme verbali nuove e significanti, gli hapax appunto, e quel clima fresco e originale che pervade l’Hypnerotomachia [172] .

Ulteriori ricerche condotte dalla scrivente presso l’Archivio di Subiaco nel Monastero di Santa Scolastica hanno permesso di rinvenire due nuovi documenti: uno riguarda una copia contemporanea di bolla di Paolo II che conferisce a Giovanni Colonna, dell’età di 15 anni, la dignità di protonotario apostolico, datato 27 settembre 1468 [173] ; l’altro consiste nella bolla di Innocenzo VIII che conferisce al card. Giovanni Colonna in commenda il monastero camaldolese di S. Elena di Camerino, datato 5 febbraio 1484 [174] . Particolarmente importante risulta il documento relativo al conferimento della carica di protonotario apostolico di Giovanni Colonna, che precede di qualche anno quella di Francesco, in quanto offre un valido supporto all’ipotesi che il Filetico sia stato maestro di entrambi, ma per primo di Giovanni che, come dimostrano i documenti d’archivio, riceve per primo l’importante prebenda.

 

 

 

 



NOTE

[1]   BANDIERA 1991, p. 27.

[2]   BANDIERA 1984, p. 143.

[3]   CECCONI 1756, p. 227.

[4]   COPPI 1855, p. 13.

[5]   BANDIERA 1984, p. 143.

[6]   BANDIERA 1991, p. 29.

[7]   CECCONI 1756, p. 269.

[8]   CALVESI 1980, p. 57.

[9]   COPPI 1855, p. 85.

[10] PETRINI 1990, pp. 430-431.

[11] CECCONI 1756, p. 270.

[12] CECCONI 1756, p. 301.

[13] CALVESI 1980, p. 57.

[14] FASOLO 1956, p. 74.

[15] «Vastarunt toties quod ferrum flamma vetustas / Francisci instaurat cura Columnigeri. 1493». «Ciò che tante volte devastarono il ferro, il fuoco e il tempo, restaura la cura di Francesco “Columnigero”».

[16] FASOLO 1956, p. 74.

[17] HEYDENREICH 1965, p. 87.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] Ibidem.

[21] Ibidem, p. 88.

[22] Ibidem.

[23] Ibidem.

[24] Ibidem, p. 89.

[25] Ibidem.

[26] Ibidem.

[27] FASOLO 1956, p.79.

[28] Ibidem.

[29] Ibidem, p. 74.

[30] HEYDENREICH 1965, p. 89.

[31] Ibidem.

[32] Ibidem, p. 90.

[33] Ibidem.

[34] Ibidem.

[35] PORTOGHESI 1971, p. 204.

[36] HEYDENREICH 1965, pp. 90-91.

[37] Ibidem, p. 91.

[38] Ibidem.

[39] CALVESI 1980, p. 62.

[40] Ibidem.

[41] Ibidem.

[42] Ibidem, p. 63.

[43] PETRINI 1990, p. 182.

[44] BORSI 1995, p. 126.

[45] Ibidem, p. 127.

[46] Ibidem, p. 128.

[47] Ibidem, pp. 127-128.

[48] Ibidem, p. 128.

[49] Ibidem, p. 129. L'approfondimento dei probabili motivi polifileschi nella villa del cardinale Du Bellay e della perfetta simbiosi della struttura architettonica con lo spazio circostante e lo spazio urbano, costituirebbe un'ulteriore prova dello stretto rapporto tra le architetture romane e il complesso prenestino attraverso la riproposizione, mediata dai classici, di modelli antichi resi funzionali a nuove esigenze.

[50] Ibidem.

[51] CALVESI 1980, p. 63.

[52] Ibidem.

[53] FASOLO 1956, p. 81.

[54] GOLZIO - ZANDER 1968, p. 386.

[55] BORSI 1995, p. 130.

[56] BORSI 1996, p. 308.

[57] Ibidem, p. 309.

[58] Ibidem.

[59] CALVESI 1980, p. 108.

[60] Ibidem, p. 109.

[61] COLONNA F. 2004, I , p. 22.

[62] BRUSCHI-MALTESE 1978, p. 204.

[63] COLONNA F. 2004, II, p. 26.

[64] CALVESI 1980, p. 115.

[65] COLONNA F. 2004, II, p. 28.

[66] CALVESI 1980, p. 116.

[67] Ibidem.

[68] Ibidem.

[69] Ibidem.

[70] Ibidem, p. 117.

[71] KRETZULESCO-QUARANTA 1986, p. 81.

[72] MARUCCHI 1885, p. 83.

[73] CALVESI 1980, p. 117.

[74] VAGLIERI 1909, p. 253.

[75] CALVESI 1980, pp. 117-118.

[76] Ibidem, p. 118.

[77] ROMANELLI 1967, p. 37.

[78] Ibidem, p. 38.

[79] COLONNA F. 2004, I, p. 23.

[80] CALVESI 1980, p. 121.

[81] COLONNA F. 2004, I, p. 23.

[82] Ibidem, II, p. 28.

[83] ROMANELLI 1967, p. 55.

[84] CALVESI 1980, p. 125.

[85] Ibidem, p. 126.

[86] COLONNA F. 2004, I, p. 27.

[87] CALVESI 1980, p. 126.

[88] COLONNA F. 2004, I, pp. 203-204.

[89] BRUSCHI - MALTESE 1978, p. 262.

[90] CALVESI 1980, p. 201.

[91] BRUSCHI - MALTESE 1978, p. 263.

[92] Ibidem, p. 264.

[93]   CALVESI 1980, p. 204.

[94]   GRAPALDI 1506.

[95]   CALVESI 1980, p. 204.

[96]   DONATI 1968, pp. 1-38.

[97]   CALVESI 1980, p. 208.

[98]   HEYDENREICH 1965, pp. 85-91.

[99]   ROMANELLI 1967, p. 50.

[100] CALVESI 1980, p. 209.

[101] Ibidem, p. 210.

[102] IACOPI 1967, p. 10.

[103] ROMANELLI 1967, p. 50.

[104] Ibidem.

[105] COLONNA F. 1964, p. 170.

[106] ALBERTI 1784, p. 269.

[107] CALVESI 1980, p. 211.

[108] FANCELLI 1974, pp. 137-138.

[109] Ibidem.

[110] CALVESI 1980, p. 211.

[111] VAGLIERI 1909, p. 212.

[112] CALVESI 1980, p. 212.

[113] Ibidem.

[114] CALVESI 1980, p. 215.

[115] CALVESI 1996, pp. 259-274.

[116] DANESI SQUARZINA 1987, pp. 137-154.

[117] COLONNA S. 2012, parte terza.

[118] LITTA 1819-1883, n. 34, nota 4: Colonna -  Voce: Francesco Colonna di Stefano.

[119] CALVESI 1996, p. 270, nota 1.

[120] Ibidem, p. 267.

[121] Ibidem, pp. 48-49.

[122] Ibidem.

[123] DANESI SQUARZINA 1987, p. 141.

[124] CALVESI 1996, p. 259.

[125] Ibidem, p. 39.

[126] Ibidem, p. 36.

[127] VARCHI 1548.

[128] Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottob. Lat. 2860, ff. 14r. -14v.

[129] COLONNA S. 1996, p. 317.

[130] Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana,Vat. Lat. 3353, f. 138v.

[131] DANESI SQUARZINA 1987, p. 145.

[132] CALVESI 1996, p. 48.

[133] PERISAULI 1524.

[134] «Vastarunt toties quod ferrum flamma vetustas / Francisci instaurat cura Columnigeri. 1493».

[135] DANESI SQUARZINA 1987, p. 146.

[136] CALVESI 1996, p. 68.

[137] WEISS 1958, p. 31.

[138] COLONNA S. 2004 Pontano, p. 579.

[139] Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Barberini Colonna di Sciarra, 5, 160, 3. Anticipato in COLONNA S. 1996, ma si veda ora COLONNA S. 2011 (stampa 2013)

[140] COLONNA S. 1996, p. 315.

[141] DEL RE 1970.

[142] COLONNA S. 1996, pp. 315-316.

[143] Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Barberini Colonna di Sciarra, 5, 160,  4.

[144] COLONNA S. 2004 Frater, p. 93.

[145] MORONI 1841, pp. 226-227, ad vocem «Canonicato».

[146] COLONNA S. 2004 Pontano, p. 586, nota 40.

[147] Ibidem, p. 587.

[148] Roma, Archivio Segreto Vaticano, Reg. Lat. 818, ff. 156v. - 158r.

[149] COLONNA S. 1996, p. 315.

[150] Ibidem.

[151] Ibidem.

[152] COLONNA S. 2004 Pontano, p. 590.

[153] PONTANO 1902, II, pp. 171-223.

[154] COLONNA S. 2004 Pontano, pp. 590-591. La fitta trama di relazioni tra Roma e Napoli nella svolta tra Quattrocento e Cinquecento, ancora non sufficientemente approfondita, trova un saldo punto di riferimento in un’epistola spedita dal Pontano da Napoli il 16 aprile 1491 a Gentile Virginio Orsini con la richiesta di proteggere il viaggio di Jacopo Tolomei. Il Pontano è amico di Jacopo Tolomei, parente e favorito di Enea Silvio Piccolomini.

[155] TOMMASINI 1892, pp. 3-20.

[156] COLONNA S. 2004 Pontano, p. 590.

[157] FARINELLA 1992, p. 37.

[158] CALVESI 1996, p. 58.

[159] Ibidem, pp. 58-59.

[160] Ibidem, p. 59.

[161] ADEMOLLO 1886, pp. 11, 19, 31.

[162] CALVESI 1996, pp. 111-114.

[163] Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 3351, f. 24r.

[164] ADEMOLLO 1886, p. 31, nota 10.

[165] WEISS 1958, p. 31.

[166] COLONNA S. 2002, p. 24.

[167] Ibidem.

[168] Ibidem.

[169] MERCATI 1984, pp. 13-24.

[170] COLONNA S. 2002, p. 27.

[171] Ibidem, p. 25.

[172] Ibidem, p. 26.

[173] Subiaco, Monastero di Santa Scolastica, Archivio Colonna, III BB, 5, 52.

[174] Subiaco, Monastero di Santa Scolastica, Archivio Colonna, III BB, 6, 9.






MANOSCRITTI

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio Barberini Colonna di Sciarra, 5, 160, 3.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio Barberini Colonna di Sciarra, 5, 160, 4.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottob. Lat. 2860, ff. 14r. - 14v.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 3351, f. 24r.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 3353, f. 138v.

Roma, Archivio Segreto Vaticano, Reg. Lat. 818, ff. 156v. - 158r.

Subiaco, Monastero di Santa Scolastica, Archivio Colonna, III BB, 5, 52.

Subiaco, Monastero di Santa Scolastica, Archivio Colonna, III BB, 6, 9.

 

 

 

 



BIBLIOGRAFIA STAMPATI

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Stefano Colonna, Francesco Colonna romano protonotario apostolico. Cenni biografici su Filippo Barbarigo di Lorenzo, in "Studi Romani", anno LIX, nn. 1-4, Gennaio-Dicembre 2011 (stampa 2013), pp. 41-63 con 1 tav. fuori testo.

COLONNA S. 2012

Stefano Colonna, Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento, Roma, Gangemi Editore, 2012. Con CDROM allegato contenente le Statistiche delle Ricorrenze in ordine alfabetico e di frequenza relative all'editio princeps (1499) dell'Hypnerotomachia ottenute tramite trattamento informatico del testo elettronico appositamente modificato da Stefano Colonna.

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Roberto Weiss, Un umanista veneziano. Papa Paolo II, Roma - Venezia, Istituto per la collaborazione culturale, 1958, p. 31





Prospetto del Palazzo Barberini - Colonna di Palestrina

Fig. 1
Palestrina, Palazzo Barberini - Colonna, Prospetto

Plastico ricostruttivo del santuario della Fortuna Primigenia

Fig. 2
Plastico ricostruttivo del santuario della Fortuna Primigenia Palestrina, Museo archeologico prenestino

Portale d'ingresso del Palazzo Barberini - Colonna di Palestrina

Fig. 3
Portale d'ingresso Palestrina, Palazzo Barberini - Colonna

Aperture interne ad arco con ghiere di semplici pietre del Palazzo Barberini - Colonna di Palestrina

Fig. 4
Aperture interne ad arco con ghiere di semplici pietre Palestrina, Palazzo Barberini - Colonna

Sedili in pietra sorretti da un balaustro, particolare delle finestre del Palazzo Barberini - Colonna di Palestrina

Fig. 5
Sedili in pietra sorretti da un balaustro, particolare delle finestre Palestrina, Palazzo Barberini - Colonna

Il tempio della Fortuna dell'Hypnerotomachia Poliphili

Fig. 6
Il tempio della Fortuna dell' Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499

Il tempio di Venere Physizoa dell'Hypnerotomachia Poliphili

Fig. 7
Il tempio di Venere Physizoa dell' Hypnerotomachia Poliphili, Paris, 1546

Sezione del tempio di Venere Physizoa dell'Hypnerotomachia Poliphili

Fig. 8
Sezione del tempio di Venere Physizoa dell' Hypnerotomachia Poliphili, Paris, 1546

Palestrina, Palazzo Barberini - Colonna

Fig. 9
Vera da pozzo posta ai piedi dell'emiciclo gradinato
Palestrina, Palazzo Barberini - Colonna

Lastre decorative della vera da pozzo con testa di Medusa alternata allo stemma dei Colonna

Fig. 10
Lastre decorative della vera da pozzo con testa di Medusa alternata allo stemma dei Colonna
Palestrina, Palazzo Barberini - Colonna





	

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