- Il
palazzo baronale di Palestrina
Il palazzo baronale prenestino (fig. 1), eretto nella parte
più alta del centro storico, domina con la sua imponente struttura la città
sottostante costituendone l’elemento «scenografico» di maggior rilievo
storico-urbanistico, perno dell’intero nucleo abitativo, per il cui sviluppo ha
rappresentato un costante punto di riferimento. Il palazzo si fonde con il
santuario della Fortuna Primigenia (fig. 2), del quale occupa la parte
sommitale, creando un unitario complesso architettonico: l’antico monumento
cultuale si chiude e si completa in alto proprio con la dimora baronale che
poggia sul criptoportico e sui fornici, che in esso si aprono a livello
dell’antichissima piazza della Cortina, e sul podio del doppio portico anulare
concavo che coronava il santuario pagano, del quale ha conservato l’andamento
semicircolare.
Sono ben evidenti gli elementi architettonici che rivelano
che il monumento deve la sua forma attuale ad interventi diversi nel corso del
tempo. Il palazzo baronale fu edificato intorno al 1050 dai Colonna; proprio in
quegli anni Palestrina e le sue pertinenze diventano feudo di questa famiglia
emergente.
Per una migliore comprensione delle vicende che hanno
interessato il nostro monumento è opportuno ripercorrere brevemente la storia
dei Colonna di Palestrina partendo dal dicembre del 970, anno in cui il papa
Giovanni XIII concesse il feudo prenestino ad una senatrice romana di nome
Stefania, la cui nipote andrà in sposa a Pietro Colonna.
L’atto di infeudazione prevedeva che la concessione fosse a termine, che non
andasse quindi oltre i nipoti di Stefania, e che tornasse al pontefice. La
feudataria aveva l’obbligo di fortificare la città, provvedendo alle necessarie
riparazioni, e di pagare un canone annuo di dieci soldi d’oro alla Camera
Apostolica.
A Stefania successe il figlio, conte Benedetto, al quale
subentrò la figlia Emilia che sposò in seconde nozze Pietro Colonna.
È abbastanza probabile che già la stessa Stefania e suo figlio Benedetto
avessero intrapreso una prima sistemazione dei resti dell’area superiore del
santuario pagano, adattandolo ad abitazione-fortilizio grazie alla sua
posizione strategica e alle massicce strutture romane residue.
La città di Palestrina subì una prima distruzione nel 1298
ad opera di Bonifacio VIII;
già allora il palazzo era eretto nel semicerchio superiore del tempio antico ed
era fiancheggiato da due torrioni.
La «querela dei
Colonnesi» avanzata da questi ultimi nei confronti del nuovo pontefice
Benedetto XI, eletto nell’ottobre del 1303, chiedeva il risarcimento dei danni
subiti nella distruzione di Palestrina decretata da Bonifacio VIII e faceva
esplicito riferimento al palazzo baronale, che si faceva risalire a Giulio
Cesare.
La querela sottolinea, inoltre, che attiguo al palazzo era il monumento più
bello della città: un tempio rotondo dedicato alla Vergine, di impianto simile
al Pantheon di Roma e poggiante su una scalinata di cento gradini, tanto larghi
da poter essere agevolmente percorsi a cavallo.
Benedetto XI annullò le sentenze promulgate dal suo
predecessore contro i Colonna, che furono reintegrati nel possesso di
Palestrina. La città venne
ricostruita, e con essa il suo palazzo baronale, ma conobbe una distruzione
ancora più radicale ad opera del cardinale Giovanni Vitelleschi: il 18 agosto
1436, dopo un duro assedio, la città fu costretta a capitolare per fame e per
sete. Cinque mesi più tardi il Vitelleschi decise di distruggere Palestrina: la
città fu completamente rasa al suolo.
Fu Stefano Colonna, tra il 1440 e il 1482, ad intraprendere
i lavori di riedificazione della città e della fortezza sul monte, come attesta
un’epigrafe in Castel San Pietro: «Magnificus
Dominus Stephanus de Columna reaedificavit Civitatem Praeneste cum Monte et
Arce. Anno MCDLXXXII».
I lavori furono completati successivamente dal figlio Francesco tra il 1490 e
il 1500: è proprio in questi anni che il palazzo fu sottoposto ad una «unitaria
e quasi completa riedificazione»,
assumendo la forma architettonica che conserva sostanzialmente ancora oggi.
La sostanziale coerenza
cronologica tra i varî elementi architettonici, trova una conferma
temporale nell’iscrizione
sul portale d’ingresso (fig. 3) che tramanda che Francesco Colonna nel 1493
era intento ai suoi lavori di restauro: questa data costituisce un punto di
riferimento importante che coordina le notizie accertate nel corso degli scavi
e le indicazioni stilistiche dei varî elementi architettonici sebbene non
manchino sfumature di gusto e sensibilità che testimoniano anticipazioni e
ritardi rispetto alla cultura architettonica degli ultimi decenni del
Quattrocento.
Ad una fase relativamente precoce dei lavori
quattrocenteschi vanno riferite due aperture ad arco con ghiere di semplici
pietre che formano il passaggio dalla stanza VII alla stanza VIII (fig. 4), un
tempo appartenente all’antico torrione, oggi usata come vano scala. Le due
finestre crociate, che murate successivamente vennero rimesse a nudo
dall’architetto Fasolo nel 1956, possono essere collocate intorno al 1450, cioè
all’inizio dei lavori di Stefano Colonna, e appartengono ad un tipo che era
largamente diffuso a Roma dalla metà del Quattrocento.
Alla fase costruttiva di Stefano risale l’inserimento nella struttura del
palazzo di parti considerevoli dell’esedra, sottolineando il fatto che le
antiche colonne del portico esterno erano già chiuse entro un continuo muro
frontale.
Gli interventi riferibili a Francesco Colonna sono
decisamente più significativi, e determinano la forma architettonica del
palazzo così come si presentò a Bramante nel 1504. Le palesi analogie nella
disposizione spaziale tra il grandioso progetto di Bramante per il Cortile del
Belvedere in Vaticano, e il ricco ed articolato complesso del Santuario della
Fortuna Primigenia di Palestrina, hanno indotto a pensare che il progetto del
Bramante nella sua struttura essenziale, il tratto mediano concavo e il
terrazzamento del cortile, siano stati ispirati dall’antico monumento
prenestino.
Se molto si è riflettuto sulle antiche strutture che
poterono fornire un valido modello al Bramante, poca considerazione si è data
alle possibili influenze che possa aver avuto sull’architetto rinascimentale lo stesso palazzo baronale, innestato su di esse e
che già all’inizio del XVI sec. determinava l’aspetto del complesso
architettonico.
Il portale d’ingresso è uno degli elementi più significativi
attribuibili alla fase di Francesco. Da un punto di vista tipologico trova il
suo più vicino corrispondente in quello di Palazzo Santa Croce a Roma, che
presenta una cornice molto simile con pietre squadrate a forma di diamante.
Contestualmente al portale si riorganizza l’intera facciata: il piano nobile
viene sopraelevato, le finestre ingrandite e distribuite ritmicamente sulle
parti rettilinee e curve del prospetto.
La suddivisione delle aperture sull’intera facciata ad
intervalli ritmici assume un valore puramente artistico e formale, mantenendo
una completa autonomia rispetto all’articolazione dell’antico portico. Gli esempi
più noti di una disposizione puramente estetica e ritmica delle finestre sono
le facciate di Giuliano da Sangallo a Poggio Caiano (1485) e del palazzo di
Giuliano della Rovere a Savona (1495). In questo periodo l’allineamento di
finestre simmetriche, si pensi al palazzo ducale di Urbino, alla Domus Nova di Mantova e a tutti i
grandi palazzi di Firenze e Roma, è un elemento costante. La scansione ritmica
delle finestre nella facciata del palazzo baronale prenestino assume un valore
notevole, in quanto è da considerarsi il primo uso di questo nuovo principio
compositivo in ambiente romano.
Le proporzioni e la profilatura delle finestre, compresa la
copertura a spiovente, corrispondono alle forme di fine secolo, si pensi ai
palazzi della Rovere e alla chiesa di San Pietro in Vincoli.
All’interno le finestre presentano ai lati dei sedili in pietra
sorretti da un balaustro, della stessa ambientazione stilistica, di forma
semplice ma vigorosa
(fig. 5).
Le solide e semplici colonne di ordine toscano della loggia,
sul lato occidentale della facciata, vengono riproposte nelle arcate con scale
del vestibolo dando vita a uno dei primi esempi, in ambiente romano, di scale
‘monumentalizzate’.
La chiarezza e la monumentalità della concezione d’insieme
contraddistinguono la fase di Francesco Colonna: le diverse parti dell’imponente
struttura architettonica vengono composte e riorganizzate in una complessa e
articolata unità; inoltre, il coordinamento assiale del palazzo, dell’esedra,
della piattaforma con il pozzo, delle scale con balaustra e del piazzale
suggeriscono una struttura a forma di terrazze unica nel suo genere.
L’animus urbanistico
di Francesco Colonna è rivolto da una parte alla sopravvivenza del grandioso
impianto classico, dall’altra al rinnovamento del suo palazzo gentilizio in
armonia con lo sviluppo verso il quale la città di Palestrina si era già
avviata. La sistemazione ad uso dei carri della platea della Cortina, mirante
ad un utilizzo concreto e funzionale delle strutture, la realizzazione della
bella scala rinascimentale e del pozzale si pongono in stretta relazione con
le prime realizzazioni urbanistiche romane di Giulio II e con le prime istanze
coordinatrici di Nicola IV.
Il restauro del palazzo colonnese propone un’ardua istanza
di equilibrio fra le esigenze di conservazione degli elementi classici
superstiti, e la complessa serie di fasi storiche e strutturali che hanno
caratterizzato il palazzo stesso nel corso dei secoli: anche quando alcuni
elementi, in particolar modo quelli tardo-trecenteschi o quattrocenteschi, non
rivestono particolare importanza espressiva e funzionale, essi si allineano con
gli altri in modo unitario: è questo l’elemento caratterizzante e
artisticamente vitale di tutto il processo storico e architettonico.
La chiara trasparenza del residuo classico e il sussistere
di un’equilibrata sintesi strutturale concedono alle nuove impostazioni
architettoniche la «possibilità di svolgersi con autonomo e vivace sentire
d’arte».
Questa è la caratteristica che distingue il palazzo baronale prenestino dalle
altre dimore nobili di Roma costruite su antiche rovine: né la Casa dei
Cavalieri di Rodi nel Foro di Augusto, né il palazzo Orsini sul teatro di
Pompeo, o il palazzo Caetani sul teatro di Marcello presentano una così
stretta relazione artistica ed architettonica tra le strutture dell’antico
monumento e quelle costruite sopra.
I committenti Stefano e Francesco Colonna restaurano il loro
palazzo secondo un motivo conduttore che troverà grande riscontro nel periodo
successivo: adattare la dimora all’antica pianta, con il palese obiettivo di
conservare ampiamente l’individualità monumentale delle strutture del passato,
anche con le variazioni che hanno subito nel corso del tempo. I restauri
quattrocenteschi del palazzo baronale, particolarmente quello di Francesco,
vengono condotti in base ad un principio di consapevole ed intenzionale sintesi
di Antico e Moderno: il monumento prenestino diventa, sotto questo aspetto, un
prodotto della ‘Rinascita’ in senso pieno.
La successiva sopraelevazione del palazzo nel tratto
centrale, ad opera dei Barberini, rende difficile individuare e definire con
sicurezza il progetto architettonico di Francesco per quanto riguarda il
coronamento superiore dell’edificio sull’esedra. Non è possibile, inoltre,
stabilire se, al di là del tratto mediano del palazzo, fosse possibile vedere
l’antico tempio rotondo che sta dietro il palazzo stesso.
Il monumento prenestino ha sicuramente fornito spunti
interessanti a Bramante per il Cortile del Belvedere in Vaticano:
l’articolazione di un ampio complesso di edifici su più livelli, una
monumentale architettura ad abside fiancheggiata da corpi laterali, l’abbraccio
in un unico asse visivo dell’intero prospetto architettonico sono ispirati
dall’articolata struttura prenestina.
Anche la scala obliqua che corre su due rampe nel progetto
michelangiolesco del Cortile del Belvedere presenta molti punti in comune con
la scala del palazzo Colonna di Palestrina.
Lo stesso motivo della scalinata assiale suggerirà, sempre a
Michelangelo, l’uso delle rampe nella scalea del palazzo Senatorio.
Non abbiamo notizie certe e documentate sull’architetto che
progettò, sotto la committenza di Francesco, soluzioni architettoniche così
innovative ed anticipatrici che troveranno un grande seguito nel secolo
successivo. La forma delle finestre, il tipo delle colonne toscane, il disegno
ritmico del prospetto sembrano ricondurre all’ambiente della bottega dei Sangallo.
La decorazione del portale, invece, a cornice di pietre
intagliate a punta di diamante, non comune né a Roma, né in Toscana, potrebbe
suggerire collegamenti con l’ambiente
napoletano o salernitano, dove questo motivo è più frequente. D’altra parte
stretto è il legame dei Colonna con gli Aragonesi, oltre che con il ramo dei
principi di Salerno: è quindi possibile supporre che tale motivo provenga dal
sud.
C’è inoltre da considerare che nell’ultimo ventennio del
Quattrocento comincia tra i grandi committenti italiani laici e religiosi, una
vera e propria emulazione del modello delle antiche residenze romane come
prototipo ideale nei progetti architettonici per ville, palazzi e residenze.
Architetti come Luca Fancelli, Francesco di Giorgio Martini, Giuliano da
Maiano, Giuliano da Sangallo, spinti soprattutto dalle descrizioni di Plinio e
dallo studio diretto delle rovine colgono, già alla fine del Quattrocento,
questa possibilità di espressione architettonica che avrà il suo massimo
sviluppo nel XVI sec.
Da questo punto di vista il palazzo Colonna di Palestrina
rappresenta una delle prime realizzazioni, in ambiente romano, di tipologie
architettoniche nuove proprie della Rinascenza, che troveranno immediati
sviluppi nel Cortile del Belvedere e nella Villa Madama.
L’architetto del palazzo baronale prenestino possiede una
sensibilità architettonica del tutto nuova, sostenuta dal profondo rispetto e
dalla perfetta simbiosi con cui si pone in relazione con l’antico Santuario.
Come compreso per la prima volta da Maurizio Calvesi questo aspetto si sposa perfettamente con la poetica dell’Hypnerotomachia Poliphili, il cui autore si mostra «appassionato di
antichità e pervaso da un profondo e sacrale rispetto per essa»
ed «esperto di architettura, di cui ha una concezione personale e produttiva».
Nel romanzo vengono descritte delle strutture inventate,
delle vere e proprie architetture ideali, come il tempio della Fortuna o il tempio
circolare, che mostrano una stretta e manifesta relazione con le antichità
della città di Palestrina e mettono in luce un substrato di cultura
albertiana, ulteriormente rafforzato dalle frequenti ed esplicite citazioni dal
suo trattato. È logico, quindi,
riflettere sul ruolo che la concezione architettonica di Leon Battista Alberti possa avere avuto nell’impostazione
strutturale del palazzo di Palestrina e nel rapporto con le strutture antiche
su cui è stato edificato.
La presenza dell’Alberti a Palestrina nell’anno 1450,
contemporanea quindi alla fase di ristrutturazione di Stefano, è attestata dal
Petrini.
È possibile ipotizzare, quindi, un ruolo non irrilevante dell’Alberti nella
definizione di un programma globale di intervento: un programma architettonico
che fosse il segno manifesto e tangibile della riappropriazione della
titolarità del feudo.
C’è da tenere in considerazione, inoltre, che i lavori che interessarono
Palestrina alla metà del secolo, e che riguardarono non solo la dimora
baronale ma anche altri edifici religiosi, duomo compreso, mostrano
un’interessante coincidenza temporale rispetto ad altri restauri di basiliche romane
che possono aver coinvolto l’Alberti nel ruolo di restauratore, in modo
particolare S. Celso e S. Lorenzo in Damaso.
In particolar modo per quest’ultima basilica, diversi indizî
potrebbero ricondurre ad un ruolo dell’architetto del Quattrocento, prima della
totale ricostruzione voluta dal cardinal Riario. Fino al 1465 ne era
commendatario il cardinal Scarampi, con il quale Alberti era in sicuro contatto
perché ne visita la dimora suburbana di Albano, con conseguente studio e
riflessione sulle antichità del posto di cui ci ha lasciato notizia Enea
Silvio Piccolomini. Un rapporto molto stretto che si colloca, forse non a caso,
dopo la morte di Prospero Colonna e che può nascondere la volontà di ricerca
di un nuovo protettore. Le importanti commissioni per S. Lorenzo in Damaso del
1466 evidenziano un rifacimento, quantomeno parziale, della chiesa. Non è
elemento da sottovalutare il fatto che il nuovo titolare in commenda fosse il
cardinal Francesco Gonzaga, i cui legami con l’Alberti sono documentati: fu
proprio Francesco Gonzaga, contemporaneamente al padre Ludovico, ad operarsi
senza successo presso Paolo II a favore di Leon Battista Alberti.
Se siamo in presenza di una manifesta volontà di rifacimento interno della
basilica, come testimoniano le importanti commissioni a Paolo Romano per il
monumento sepolcrale di Scarampi, per il nuovo ciborio e, probabilmente, per
una nuova sistemazione del presbiterio, è possibile supporre che si fosse prima
provveduto alla manutenzione straordinaria delle coperture e ad interventi di
consolidamento strutturale, riflettendo e rielaborando le proposte albertiane
per S. Pietro che avrebbero, di certo, trovato una più facile applicazione e
agile praticabilità in una struttura architettonica di dimensioni più ridotte.
La ristrutturazione nei primi decenni della seconda metà del
secolo di S. Celso, S. Lorenzo in Damaso e S. Giorgio in Velabro può far
ipotizzare, vista la loro collocazione lungo il tracciato dell’antica via triumphalis, ad un più ampio programma di riqualificazione urbana, ben distinto
da quel programma di ripristino delle antiche chiese strettamente connesso all’instauratio Romae ai tempi di Martino V,
Nicolo V e Sisto IV. Tutto ciò porterebbe a rivalutare un ruolo di ‘ispiratore’
degli umanisti di curia, che potrebbe rintracciarsi proprio nella figura
dell’Alberti. Non certo trascurabile è la coincidenza cronologica tra i
restauri delle basiliche romane e il programma di ristrutturazione della città
di Praeneste.
La conoscenza architettonica e teorica di Leon Battista
Alberti era ben nota in ambiente colonnese ed ha sicuramente rappresentato una
valida guida per il restauro di Stefano, poi portato avanti dal figlio
Francesco con uno spunto del tutto innovativo: l’assorbimento dell’emiciclo
superiore a fronte concava del palazzo, rispetto alla sottolineatura degli
spazî laterali a geometria rettangolare che aveva caratterizzato l’operato del
padre. Un’innovativa concezione architettonica che, pur senza rinunciare
all’idea di robustezza e di solidità, conferisce all’intera struttura un
alleggerimento sostanziale. È probabile che questa nuova forma strutturale
derivi da una riflessione e una rielaborazione del “porticus in D formam”, così come chiamato da Plinio nella sua
descrizione di villa, ripreso anche da Raffaello a Villa Madama e nella villa
del cardinale Du Bellay all’Esquilino.
Un’articolata concezione strutturale di questo tipo,
strettamente connessa ad un’attenta percezione e valutazione dello spazio
urbano, può richiamare il nome di Giuliano
da Sangallo che penserà piazza Navona come l’«amplificata corte d’onore»
nel suo progetto per il palazzo di Leone X.
La fase di Francesco, quindi, è decisamente più aggiornata
rispetto a quella del padre, più vicina sia cronologicamente, sia per soluzione
tecniche, alla concezione albertiana:
i lavori di restauro commissionati
nell’ultimo decennio del Quattrocento, mostrano l’intervento di «un ignoto
architetto, di singolare qualità e intelligenza»,
«un maestro tipicamente di transizione»,
«uno sconosciuto architetto di spiccata personalità».
Il processo di riappropriazione dell’Antico vuole
rappresentare e sottolineare un legame inscindibile con le origini nobili della
casata, un rapporto che si concretizza ed attualizza nel presente attraverso
numerose campagne di restauro e di scavo che, purtroppo, sono parzialmente
ricostruibili. In questo clima culturale vivace ed in continua evoluzione è
facile che maturi una figura di principe colto, appassionato ed esperto di
arti, che possa aver assunto un ruolo di architetto dilettante,
magari tenendo in riferimento il trattato albertiano, verso cui l’Hypnerotomachia Poliphili mostra un
palese debito, non solo per quanto concerne i motivi architettonici e i principî
teorici generali, ma anche per l’utilizzo di vocaboli desunti, più o meno
fedelmente, dallo scritto albertiano: una ripresa che non riguarda solo
specifici termini tecnici, ma un più ampio panorama semantico
e che soprattutto si estende ben oltre il trattato di architettura ed arriva ad
abbracciare la lunga e problematica presenza romana di Leon Battista Alberti: è
per questa via che la ricostruzione prenestina si inserisce a pieno titolo nel
ricco e variegato panorama culturale romano, tenendo presente anche che la
figura dell’Alberti gravitò certamente nell’ambiente culturalmente elevato del
cardinal Prospero Colonna. Lo stesso architetto, che morì a Roma nel 1472,
dispose un lascito per attivare un’accademia umanistica e scientifica romana,
che supportasse la celebre accademia di Pomponio Leto ricostituitasi dopo la
repressione papale del 1468.
La presenza costante di riferimenti nell’Hypnerotomachia Poliphili ai principî
albertiani dimostra chiaramente la profonda conoscenza del Colonna delle teorie
dell’architetto, nei confronti delle quali si investe quasi di un ruolo di
promotore: una conoscenza minuziosa ed assimilata che, quasi sicuramente,
andava oltre l’editio princeps
fiorentina del 1485 del trattato di architettura dell’Alberti, estendendosi ad
altre opere rare e a circolazione limitata, alcune delle quali disperse.
2. L’Architettura
del Polifilo e Palestrina: corrispondenze non evidenti tra sogno e realtà
L’interpretazione delle costruzioni architettoniche
rappresentate nelle incisioni dell’Hypnerotomachia
Poliphili, è complessa ed articolata: pur presentandosi come monumenti e
figurazioni appartenenti ad un contesto onirico-fantastico ed allegorico,
apparentemente privi di riscontri con precise realtà archeologiche, mostrano ad
un’attenta analisi una, sia pur parziale, aderenza alla realtà del grande
tempio prenestino della Fortuna.
La descrizione non è certo rispondente al dettaglio: i
concreti dati antiquariali sono rielaborati fantasticamente, come in un sogno,
e reinterpretati in chiave allegorica ma, nonostante questo, le rispondenze
appaiono innegabili.
Il tempio della Fortuna (fig. 6), rappresentato e descritto nell’Hypnerotomachia Poliphili, è un imponente edificio, «opera ingente et magnifica»,
a pianta quadrata, parzialmente in rovina, chiuso tra due monti, chiaramente
rappresentati nell’incisione. La costruzione è costituita da cinque blocchi che
nel testo vengono dettagliatamente descritti.
Dal palmento, Polifilo scorge l’imponente costruzione
congiungersi alle colline nel punto in cui queste erano più alte: «levando gli
occhi verso quella parte dove i colli boscosi sembravano congiungersi, vidi in
un profondo recesso una sagoma di incredibile altezza, in forma di torre, o, se
si vuole, un’altissima specola e poi un grande edificio che ancora non mi
appariva per intero, eppure sembrava opera e struttura antica. Dove si ergeva
questo complesso, vedevo i graziosi monticelli della convalle innalzarsi sempre
più, tanto da sembrare congiunti con la fabbrica appena scorta, che faceva da
chiave di volta («conclusura») tra
due monti, generando così una gola serrata («valliclusio»)».
Il tempio prenestino, in realtà, si trova incorporato ad una
sola montagna, e precisamente alle pendici meridionali del monte Ginestro,
contrafforte dell’Appennino. Due bracci di una possente cinta muraria a grossi
blocchi poligonali di calcare, opera del V o IV secolo a.C., che a valle si
ricongiungevano con un muro, percorrevano i due fianchi orientale ed
occidentale del monte, chiudendo il tempio della Fortuna Primigenia, al quale
si accedeva attraverso una porta nel muro. Questa particolare composizione
architettonica potrebbe aver suggerito, in lontananza, l’immagine di due
blocchi montagnosi congiunti al tempio.
Procediamo ancora con la descrizione di Polifilo: «Questa
stupefacente costruzione si congiungeva, aderendovi secondo un preciso disegno,
all’uno e all’altro monte: grazie a questa connessione, come si diceva sopra,
la valle rimaneva conchiusa, per cui nessuno poteva uscirne o tornarne o
entrarvi se non per la grande (patula) porta».
La struttura del santuario prenestino ha nel suo complesso un andamento
piramidale: in essa è inscritta una grande sezione di piramide che si erge
nella zona mediana, alla base del cosiddetto santuario superiore, sormontante
il santuario inferiore.
Tutta la struttura templare si appoggia alla montagna, mostrandosi quindi
soltanto nella veduta frontale; l’edificio immaginato da Polifilo, invece, non
si appoggia alla montagna ma vi si incastra sostenendola, e più precisamente la
penetra per una profondità pari alla larghezza, dividendo così in due la
montagna stessa, oppure congiungendo due montagne: la struttura piramidale
dell’edificio, così come quella di Alicarnasso, è dotata quindi di quattro lati.
La variante può avere comunque una comprensibile ragione
narrativa, obbligando Polifilo a transitare attraverso il tempio che sbarra il
cammino per proseguire il percorso. Del resto, come già specificato prima, la
riproposizione del santuario prenestino nell’Hypnerotomachia è una grande interpretazione allegorica, che
implica aggiustamenti e spostamenti. Il continuo fluttuare tra sogno e realtà
è evidenziato dal fatto che poco dopo il Colonna, quasi cadendo in
contraddizione, parla di un monte su cui poggia la struttura, avvicinandosi
alla realtà del santuario prenestino, e non più di una struttura che ostruisce
il passaggio tre due monti.
Altra notazione fantastica e allegorica riguarda l’altezza
della costruzione che, nel punto in cui Colonna immagina l’obelisco, sopravanza
l’altezza dei monti: anche se il santuario è nella realtà molto più basso,
osservandolo da distanza ravvicinata può effettivamente generare l’impressione
di essere più alto del monte cui si appoggia.
In relazione agli infiniti gradini che secondo il Colonna
marcavano la piramide, si può far riferimento all’orgoglioso vanto con cui i
suoi antenati, nel documento di protesta contro le distruzioni di Bonifacio
VIII, descrivevano le imponenti e nobili scalinate marmoree d’accesso al
palazzo e al tempio di Praeneste.
L’idea dell’obelisco che Polifilo colloca in cima alla piramide
potrebbe far riferimento ad un obelisco proveniente da Palestrina e conservato
nel museo di Napoli:
un piccolo obelisco rinvenuto frammentariamente nei secc. XVII e XVIII.
Non è da escludere, quindi, che il Colonna si possa essere imbattuto in qualche
frammento che potrebbe aver stimolato la sua fantasia, inducendolo a collocare
l’obelisco sulla piramide e la statua metallica della Fortuna sull’obelisco.
Ma c’è un elemento ancor più solido che potrebbe aver
supportato la rielaborazione fantastica del Colonna: un’incisione della metà
del XVI sec. di Hendrick van Cleve,
che riproduce il santuario prenestino,
mostra chiaramente, in forma di rudere, il tempietto rotondo di
coronamento, mentre in basso sorge un grande obelisco, proprio nel punto in cui
lo colloca Polifilo, ossia sul ripiano superiore della struttura triangolare
sormontante il santuario inferiore.
Il van Cleve di sicuro non poteva aver visto il tempietto così come lo
rappresenta, in quanto era incorporato al palazzo Colonna: l’artista quindi,
facendo uso della fantasia, rielabora, sia pure come rudere, l’originale
struttura del santuario, ambientandola realisticamente nel suo paesaggio e tra
le costruzioni moderne del paese. Non è certo facile stabilire se l’artista
abbia riprodotto qualcosa che effettivamente ha visto, o abbia inventato
totalmente l’obelisco; ciò che è importante rilevare, comunque, è l’evidente
corrispondenza con la descrizione del Colonna che dimostra o che entrambi si
siano ispirati alla realtà, o che il van Cleve abbia prodotto la sua incisione
influenzato dall’Hypnerotomachia. Pirro
Ligorio, il Suarez e il Kircher, suppongono l’originaria
esistenza di un faro nel punto preciso in cui il van Cleve e il Colonna
collocano l’obelisco.
Una descrizione dettagliata del complesso architettonico
prenestino nelle sue parti essenziali è utile per cercare rispondenze precise
con la descrizione del Colonna. Partendo dal basso, il primo elemento che si
presenta alla vista è un muro che, tagliando trasversalmente il pendio del
monte, corre lungo la via degli Arcioni. Il muro ha molteplici funzioni: di
terrazzamento, di difesa, e più semplicemente di recinzione dell’area
sottostante, dal momento che si raccorda alle due estremità con il muro di
cinta, in opera poligonale, della città e dell’acropoli.
Il muro non è una struttura singola, ma è costituito da due muri paralleli: una
parte in opera quadrata di tufo, un’altra a cortina di opera incerta. È
probabile che il primo sia anteriore al secondo.
E qui una precisa rispondenza con la descrizione fatta dal Colonna, che narra
che i monti posti intorno al mirabile edificio si avvallano con la medesima
pendenza dalla cima giù fino al piano: «Lo
allamento de’ quali monti aequato era perpendicolarmente dalla cima giù fino
all’area». L’uguale pendenza dei
monti è ottenuta mediante un taglio perpendicolare artificiale, che
effettivamente si può riscontrare nella parete montagnosa a cui è addossata
l’area sacra, che potrebbe corrispondere anche nella denominazione («dalla cima giù fino all’area»).
L’adattamento artificiale dei monti è ulteriormente ribadito da Polifilo poco
più avanti quando narra: «io sopra di me
steti cogitabondo cum quali ferrei instrumenti et cum quanto trito di mane di
homini et numerositate, tale et tanto artificio violentemente conducto cusì
fusse»: Polifilo riflette,
chiedendosi quali arnesi di ferro, quanto lavoro manuale e quanti uomini
fossero stati necessari ad edificare con tanto furore un così eccezionale
artificio, che aveva richiesto immani fatiche e un grande dispendio di tempo.
Il monumento prenestino, appoggiato al pendio piuttosto
ripido del monte, è perfettamente inserito nel paesaggio e senza di esso
mancherebbero le condizioni essenziali alla sua esistenza. La struttura
architettonica è costituita da una sapiente ed audace articolazione delle sue
diverse parti: quelle visibili e quelle che, pur nascoste all’interno del
monte, si rendono presenti attraverso le strutture che senza di esse non
potrebbero esistere. Le strutture visibili sono rappresentate dal vivace
alternarsi di linee rette e curve, di rientranze e sporgenze negli elementi
delle diverse terrazze; quelle invisibili, dalle possenti sostruzioni ad arcate
cieche che hanno consentito all’architetto, facendo uso della nuova tecnica
cementizia, di sovrapporre terrazza a terrazza, correggendo e piegando alla sua
volontà la difficile conformazione del terreno.
All’importanza risolutiva della nuova tecnica cementizia allude evidentemente
il Colonna quando parla della «compatta
congerie de glutinato cemento et glarea et di rude petratura»: cioè il
calcestruzzo romano, costituito da ghiaia, schegge di pietra, pietrisco o sassi.
La descrizione del tempio della Fortuna dell’Hypnerotomachia sembra rilevare persino
uno degli accorgimenti strutturali più raffinati del complesso prenestino:
l’uso dell’intercapedine tra le pareti della montagna e quelle del tempio.
Polifilo narra, infatti, che l’imponente e solido basamento, «ingente et solido plynto overo lastrato»,
su cui poggia la piramide, non aderisce alle montagne laterali della convalle,
ma ne è separato dall’uno e dall’altro lato, da un’intercapedine di dieci
passi: tra i lati del plinto, quindi, e il fianco delle montagne, è posta
un’intercapedine di dieci passi.
3. Il tempio di Venere
«Physizoa»
Un’altra costruzione che sintetizza la cultura
architettonica di Francesco Colonna è il tempio di Venere «Physizoa» (fig. 7).
Il tempio ha una forma rotonda: «per
architectonica arte rotundo constructo».
L’articolata struttura, minuziosamente descritta dal Colonna, presenta un
deambulatorio a volta e una cupola centrale sostenuta da pilastri ed è
confrontabile con gli antichi edifici che l’Alberti, riferendosi probabilmente
al Santo Stefano Rotondo, chiama «basilica rotonda». Il riferimento esplicito
all’Alberti consiste nell’aver stabilito l’altezza dell’edificio pari al
diametro di pianta.
Polifilo, nella sua descrizione, mette in evidenza gli armonici rapporti
proporzionali, in base ai quali viene ricavata la doppia forma circolare:
tracciato un circolo che corrisponde al muro perimetrale, vi si inscrive un
quadrato; calcolata, quindi, la decima parte del lato di questo quadrato, si
definisce la posizione del circolo interno. Questa pratica di misurazione
geometrica, attraverso cerchi e quadrati, trova riscontro nel Filarete e in Francesco di Giorgio Martini.
I due cerchi segnano, rispettivamente, la posizione del filo interno del muro
perimetrale e quella delle strutture interne che sostengono la cupola e
delimitano il deambulatorio. Tali strutture sono costituite da pilastri murari,
ai quali si addossano grandi semicolonne corinzie con capitelli di bronzo
dorato e, lateralmente, due semicolonne di serpentino sorreggenti dieci archi,
a dividere il vano centrale dal deambulatorio anulare. Le colonne corinzie, di
porfido, sostengono una trabeazione che gira tutt’intorno al vano circolare e
che è profilata in aggetto in corrispondenza di ogni semicolonna. Alle colonne
più piccole, di serpentino, è sovrapposto un sovraccapitello sul quale si
imposta l’arco.
Al di sopra della trabeazione, nella parte interna, è posto
una specie di «attico», la cui superficie cilindrica è scompartita da un
piccolo ordine di pilastrini o paraste che sostengono una cornice che
costituisce l’imposta della calotta della grande cupola del tempio.
Sull’aggetto della trabeazione, in corrispondenza di ciascuna colonna, sono
poste le statue di Apollo e delle nove Muse.
Negli spazî tra un pilastrino e l’altro sono presenti delle
finestre schermate da lastre di pietra diafana, e le parti residue del cilindro
murario sono scompartite in settori o pannelli, riquadrati da fasce modanate,
che contengono figurazioni a mosaico con i simboli zodiacali dei mesi, il sole,
le fasi lunari e le stagioni. La cupola bronzea è costituita da tralci di vite
dorati, che escono da vasi bronzei posti in asse con le colonne a formare una
struttura metallica traforata i cui vuoti, tra le volute vegetali, sono chiusi
da lastre di cristallo di diverso colore. La grande cupola è interrotta al
vertice da un oculo schermato da una testa di Medusa, dalla cui bocca pende una
corda d’oro, che sostiene un elaborato vaso, che forma una lampada «inconsuptibile», ardente di lume perenne.
La lampada risulta sospesa, al centro del tempio, su una
cisterna che, mediante un ingegnoso sistema di canalizzazione attraverso i
pilastri, fa defluire le acque piovane raccolte in un pozzo posto al centro
della costruzione. Il pozzo e la cisterna, nella quale confluiscono le
acque piovane, celano una sottile allegoria che nuovamente ci riporta a Venere
genitrice, principio creatore della terra, oltre che dea dell’amore.
In un’opera che precede di pochi anni l’Hypnerotomachia,
si afferma che il pozzo ha un’origine egizia e, come la cisterna, presenta
misteriosi rapporti con gli elementi naturali e con la terra, con cui comunica
direttamente nelle profondità, configurandosi come una sorta di «umbilicus».
Nell’opera si cita, inoltre, Lucrezio, secondo cui l’acqua d’inverno è calda
perché vi si nasconde il calore della terra: calore rappresentato nel tempio
dal fuoco che arde nella «divina fiamma»
della lampada che, accanto ad un’immagine solare, evoca il segreto fuoco della
terra infuso dal sole.
Lamberto Donati vede nel mausoleo romano di Santa Costanza
il modello ispiratore del tempio polifilesco.
Qualche somiglianza è rintracciabile. L’antico edificio, eretto agli inizi del
IV sec. come mausoleo della figlia di Costantino, è rotondo e composto in
pianta da due anelli concentrici: l’anello interno è costituito da dodici
coppie di colonne su cui sono impostate le arcate, mentre dodici finestre si
aprono sotto la cupola. Nel periodo rinascimentale la struttura è ritenuta un
tempio di Bacco, in considerazione dei mosaici che rivestono la volta a botte
del deambulatorio e che rappresentano scene di vendemmia. Bacco, divinità
misterica che impersona un prodotto della terra, potrebbe aver ispirato il
Colonna nel modellare l’idea del tempio rotondo: i motivi vitinei che
compongono la cupola ne sono testimonianza.
Una fonte d’ispirazione più specifica è da rintracciarsi
proprio negli edifici di coronamento del santuario prenestino: lo spaccato del
tempio (fig. 8), così come presentato nella xilografia del romanzo, può essere
chiaramente messo a confronto con l’antica struttura inglobata dal Colonna nel
proprio palazzo e, per essere più precisi, con il portico semicircolare a
colonnato doppio, al centro del quale si innesta un sacello circolare che,
nell’assetto quattrocentesco, è probabile fosse visibile in lontananza, coperto
successivamente alla vista dal rialzo costruito dai Barberini.
In effetti, nella descrizione del tempio di Venere Physizoa, sono rintracciabili
sia elementi del sacello di coronamento, sia dell’attiguo portico
semicircolare. Merita particolare interesse la vera da pozzo, ornata con il
motivo della Medusa, che risale all’epoca del palazzo e che fu
commissionata dallo stesso Francesco Colonna. La vera da pozzo si trova ai
piedi dell’emiciclo gradinato (fig. 9) e coincide all’incirca con il centro dell’ideale
circolo che si otterrebbe raddoppiando l’emiciclo stesso e il portico
semicircolare su cui sorge il palazzo. La funzione della vera da pozzo è quella
di attingere acqua dalla sottostante cisterna, ricavata in epoca tarda nel
criptoportico.
Al centro del tempio rotondo, di cui l’illustrazione aldina
evidenzia lo spaccato suggerendo chiaramente l’idea dell’emiciclo, Polifilo,
come già detto, vede la vera da pozzo, al di sotto della quale si apre
l’allegorica cisterna destinata alla raccolta delle acque piovane, mentre al di
sopra è posizionata la testa di Medusa. La cisterna corrisponde a quella
esistente a Palestrina, sotto alla vera da pozzo che è decorata proprio da una
testa di Medusa, alternata allo stemma dei Colonna
(fig. 10). Nell’Hypnerotomachia la
catenella sorreggente la lampada inestinguibile è decorata da quattro immagini di
«monstrificate fanciulle», le cui
gambe divaricate terminano in motivi fogliacei, riproponendo l’iconografia
antica della sirena bifida, che trova grande diffusione nel periodo
rinascimentale, e che compare spesso come motivo decorativo dello stemma dei
Colonna. L’illustrazione aldina non registra l’importante particolare,
descritto da Polifilo, delle corone poste sul capo delle sirene, come proprio
si nota nello stemma dei Colonna: tale omissione potrebbe nascondere la volontà
di occultare un preciso riferimento allo stemma araldico.
È necessario valutare un altro elemento: il sacello del
tempio polifilesco che, come narra lo stesso Colonna, è posto in asse con la
porta del tempio e, conseguentemente, con la vera da pozzo e la sottostante
cisterna. La corrispondenza con il sacello circolare, posto alle spalle
dell’emiciclo colonnato di Palestrina,
e che il Colonna incorpora al palazzo con l’emiciclo stesso, è totale: è un
ambiente quasi ricavato dalla roccia del monte, privo di aperture nelle tre
parti restanti, in asse con la porta dell’attuale palazzo, e quindi con la vera
da pozzo e la cisterna.
La destinazione di questo ambiente non è chiara: la sua ubicazione nella parte
sommitale del santuario, fa supporre che fosse un elemento strettamente
connesso al culto della Fortuna.
Il piccolo sacello polifilesco è di pietra trasparente, è bene illuminato
nonostante la mancanza di finestre, dotato di una cupola e di un tetto rotondo.
La tholos prenestina terminava in
alto proprio con una cupola. I rifacimenti tardo cinquecenteschi e poi quelli
barberiniani hanno praticamente cancellato alla vista i resti della rotonda
terminale, ben visibile nei disegni rinascimentali.
Il dettaglio della pietra trasparente non trova riscontro
nel sacello prenestino, ma è un elemento di fantasia suggerito da Plinio che
narra del tempio trasparente della Fortuna costruito da Nerone.
Occorre tener presente, inoltre, che anche Leon Battista Alberti, nel De re aedificatoria, fa menzione del
santuario della Fortuna nella Domus aurea
di Nerone, costruito con marmi «puri, candidi e trasparenti, di modo che
ferrate tutte le porte paia che dentro vi sia rinchiusa la luce».
Anche i motivi della lampada, del fuoco che arde all’interno del sacello, e dei
dieci candelabri a conca dalla fiamma inestinguibile, a prova di pioggia e di
vento, che circondano il grande sacrario, ci riportano al coronamento del
santuario prenestino.
La Fortuna Primigenia è ritenuta, a partire dal Rinascimento, anche protettrice
dei naviganti, e per lungo tempo gli studiosi hanno sostenuto che il santuario
ospitasse un faro. Questa leggenda è accreditata proprio dalla stessa posizione
del santuario e dal suo orientamento rispetto allo squarcio che si apre nel
paesaggio in lontananza.
Il Palladio, nella planimetria del santuario, colloca due fiamme, una per lato,
nel ripiano sovrastante la cosiddetta area sacra.
Il Suarez e il Kircker collocano la lucerna del faro nel punto di convergenza
delle due rampe, nella stessa posizione indicata dal Ligorio, che al centro del piano traccia una lingua di fuoco.
In questo stesso punto, il Colonna e
il van Cleeve immaginano l’obelisco.
Una rappresentazione grafica, attribuita a Frà Giocondo, che rileva in pianta il
complesso terminale del santuario e ambienta proprio sulla sommità la lucerna,
con il preciso riferimento al faro, è il più chiaro elemento di raccordo tra il
tempio di Venere e l’edificio prenestino.
Il fuoco ardente, ricco di significati allegorici, del tempio di Venere
Physizoa, illumina l’interno del sacello ma risplende anche all’esterno, visto
il materiale trasparente con cui la struttura è costituita. Il Colonna
probabilmente pensa il coronamento del santuario prenestino adeguandosi allo
stesso principio: facendo in modo, cioè, che risultasse ben avvistabile nel suo
fulgore, anche in lontananza.
In quest’ottica, il santuario prenestino e il percorso che
Polifilo compie all’interno delle strutture immaginarie si caricano di un
significato allegorico notevole e complementare: il monumento prenestino viene
progettato dal Colonna come sfondo aperto e mobile, luogo reale e, insieme,
ideale, concreto e immaginario, fisico e concettuale, del percorso di Polifilo:
una sorta di costruzione ideologica che si espande nel paesaggio circostante e
lo annette.
4. La biografia di Francesco Colonna: figura
“poliedrica” con una fitta rete di relazioni culturali
Maurizio Calvesi, nella sua ultima monografia sull’Hypnerotomachia del 1996, ha
criticamente ricostruito la biografia di Francesco Colonna,
la cui voce risulta assente dal Dizionario
Biografico degli Italiani. Gli approfondimenti sulle fonti letterarie di
Silvia Danesi Squarzina e, da ultimo, la monografia di Stefano Colonna
hanno contribuito a restituire un profilo completo del principe di Palestrina,
proposto secondo una lettura culturale e storica, e ad evidenziare la
‘poliedricità’ della sua figura in relazione ad eventi e personaggi della Roma
del Quattrocento.
Pompeo Litta fissa al 1453 l’anno di nascita di Francesco
Colonna generato da Stefano di Stefano Colonna, del ramo di Palestrina, detto
«di Sciarra», e da Eugenia Farnese.
L’autore colloca erroneamente nell’anno 1538 la morte dello stesso, forse
confondendolo con Pierfrancesco Colonna, cugino del padre di Francesco, la
cui eredità aprì aspre controversie familiari risolte appunto nel 1538.
La scomparsa di Francesco sembra potersi collocare intorno all’anno 1517, in
base ad un documento del 19 giugno di quell’anno che prevede la restituzione
ad Orsina Orsini, sposata da Francesco probabilmente in seconde nozze, della
dote elargita a suo tempo dalla madre Giustiniana: ciò è da giustificarsi con
la sopravvenuta vedovanza della donna. Il nome di Francesco, inoltre, è
preceduto dal «quondam»: ciò avvalora
l’ipotesi della scomparsa di Francesco in un tempo immediatamente precedente al
19 giugno 1517.
La prima fonte letteraria riguardante Francesco Colonna in
minore età è da rintracciarsi in un epigramma celebrativo a lui intestato da
Paolo Porcari, nel 1468, in cui si lodano le sue virtù letterarie.
Segue l’epistola latina, indirizzatagli da Nicola Della Valle, suo precettore,
morto nel 1473, in cui è detto di età «imberbe».
Francesco, in giovane età, doveva ben conoscere il latino, se chi si rivolge a
lui sceglie di farlo in questa lingua, usando toni lirici ed elegiaci e
citazioni dai classici latini.
Nella stessa lettera si fa riferimento ad un suo recente viaggio a Napoli.
A poco prima del 1474 risale l’epigramma dello Zovenzoni
intestato a «Francisco Columnae
Antiquario», che esalta non solo la sua fama (se, come pensiamo, a lui e
non all’omonimo frate veneziano va riferito) di uomo colto e studioso, ma
soprattutto le origini nobili della sua famiglia appartenente alla grande
casata romana.
I versi di Matteo Visconti stampati nelle pagine
introduttive al romanzo, reperibili soltanto in una copia di esso, riportano
l’espressione «Francisco, alta Columna»:
si tratta di una citazione dal sonetto del Petrarca in morte del
cardinale Giovanni Colonna: «Rotta è l’alta Colonna…». L’espressione «alta
colonna» designa la nobile casata romana:
lo stesso appellativo è utilizzato per Stefano Colonna, figlio di Francesco.
L’umanista palermitano Pietro Gravina, attivo a Roma e
Napoli e, nel 1525, anche a Genazzano, dedica un carme latino a Pompeo Colonna,
utilizzando «firma Columna», una
variante dell’epiteto.
Due componimenti contenuti nell’epigrammatario di Angelo
Colocci, ma probabilmente
riferibili al Porcari, fanno riferimento ad un’attività letteraria e poetica
del principe stesso.
Il primo, indirizzato «Ad Franciscum
Columnam», così si conclude: «Carmina,
et illa modis tua verba soluta, reversam / In te Arpinatiis Virgiliique probant»,
ossia: «I componimenti poetici, e quelle tue parole sciolte dai legami del
metro, provano che in te, o Francesco Colonna, è ritornata l’anima di Cicerone
e di Virgilio».
Alcuni versi dell’umanista Faustino Perisauli confermano
l’attività letteraria del principe prenestino.
È opportuno rilevare che la scritta che Francesco Colonna appone sul portale
del suo palazzo
è un distico elegiaco risultante infatti dalla successione di un esametro e di
un pentametro: è logico attribuirne la
paternità allo stesso Francesco Colonna.
Se le fonti letterarie rilevano un ruolo attivo del principe
prenestino e lo inseriscono, a pieno titolo, nel panorama culturale
quattrocentesco, le fonti d’archivio permettono di individuare il ruolo
occupato da Francesco nella società del tempo e di ricostruire le tappe
fondamentali della sua vita.
La prima notizia a lui riferibile è contenuta in un
documento, pubblicato nelle note dell’edizione critica della vita di Paolo II,
che attesta che suo padre Stefano Colonna, uomo d’armi al servizio di Paolo II
Barbo, riceve dal cubiculario del Papa, nell’agosto del 1470, la somma di 100
ducati d’oro per comprare libri al figlio (che quasi certamente è Francesco e
non suo fratello): «ad emendum libros pro
filio suo».
Il diciassettenne Francesco Colonna risulta essere, quindi, il beneficiario di
un investimento culturale di carattere formativo.
Una bolla in pergamena datata 15 maggio 1473,
proveniente dagli Archivi originali della famiglia Colonna di Sciarra di
Palestrina, rinvenuta dallo studioso Stefano Colonna, certifica che il
principe di Palestrina è investito della carica di protonotario apostolico.
I protonotari attendevano alla preparazione delle lettere pontificie,
coadiuvati dagli abbreviatori, che ne stendevano materialmente la minuta, e dai
grossatores che ne curavano la bella
copia. Il documento del 1473 è
interessante per l’intestazione «dilecto
filio Magnifico Francisco de Columna Canonico Lateranensi», dalla quale si
evince che Francesco Colonna, prima di diventare Canonico della Basilica di San
Pietro, è Canonico di San Giovanni in Laterano.
Un altro importante documento certifica la nomina di
Francesco Colonna a Canonico della Basilica di San Pietro.
Il documento è costituito da due bolle originali: quella di concessione del
privilegio e quella executoria,
grazie a cui il beneficiario viene messo in grado di ottenere il beneficio
concesso. Il diritto e la prassi canonica prevedono che il Canonicato sia un «titolo spirituale, indipendente
dalla rendita temporale, con diritto di assidersi nello stallo in coro, o nel
capitolo delle chiese cattedrali o collegiate» e che consiste «nel diritto di
aver posto in coro, perché colui, il quale viene dichiarato canonico, è accolto
dal capitolo siccome un fratello».
Tale formula, completa dell’appellativo «frater»,
ricorre nella bolla esecutoria di nomina di Francesco Colonna quale Canonico di
San Pietro mediante la quale il papa ordina che egli sia ammesso tra i
canonici: «in Canonicum recipi et in
fratrem», dove l’appellativo «frater»
non va inteso come ‘frate’, ma come ‘fratello’.
In quest’ottica, l’appellativo dell’acrostico dell’Hypnerotomachia «Frater
Franciscus Columna Poliam Peramavit», trova un preciso riferimento nella
biografia di Francesco Colonna.
La prima epistola nota del principe prenestino viene spedita
da Palestrina a Gentile Virginio Orsini il 12 settembre 1494,
riferendo del recente passaggio a Palestrina di Ascanio Sforza e di Prospero
Colonna che, di ritorno da Marino e diretti a Genazzano, comunicano recenti
vicende belliche: il documento è anche un’importante testimonianza storica
della discesa di Carlo VIII in Italia e del fermento che essa genera.
Dal punto di vista strettamente paleografico, il documento
assume un valore notevole perché non si conoscono, allo stato delle ricerche,
altre lettere autografe del signore di Palestrina. L’esempio della grafia
diventa, quindi, un modello di confronto per dirimere eventuali dubbi
sull’attribuzione di passati e futuri rinvenimenti. È, inoltre, un esempio di
prosa, sia pur corsiva e quotidiana, che ci introduce al modo di scrivere di
Francesco Colonna e al mondo dei suoi interessi pubblici.
L’epistola permette inoltre di ricostruire una fitta rete di
rapporti tra gli umanisti dell’epoca: con Gentile Orsini, destinatario della
lettera, collaborava il parente Gian Corrado, padre dell’inventore del Sacro
Bosco di Bomarzo che ha, a sua volta, tratto ispirazione per la sua
realizzazione dalle pagine dell’Hypnerotomachia
di Francesco Colonna: la cultura dell’incunabolo mostra, ancora una volta, la
sua capacità di intersecare relazioni familiari e culturali di più generazioni
dell’Umanesimo romano.
Gentile Virginio Orsini risulta, inoltre, un importante
anello di congiunzione con l’Umanesimo napoletano motivando quelle evidenti
affinità di opere, come l’Arcadia di Jacopo Sannazaro, composta a Napoli tra
il 1480 e il 1484 e pubblicata nel 1501 o il tempietto funerario del Pontano a Napoli, con l’Hypnerotomachia. Il tempietto napoletano
fu costruito nel 1492, un anno prima della fine dei lavori di restauro del
palazzo baronale di Palestrina, terminati nel 1493.
Il tempietto si presenta come un museo epigrafico di
carattere antiquariale, ed assume una funzione equivalente a quella delle
raccolte antiquariali disposte nei cortili di alcuni palazzi romani
rinascimentali: una sorta di protomuseo che raccoglie, conserva ed espone le
antichità venute alla luce durante gli scavi. La disposizione delle lastre
epigrafiche nell’opera del Pontano, equilibrata e ragionata, non è finalizzata,
però, alla semplice esposizione del reperto, ma a veicolare un messaggio
simbolico complessivo strettamente collegato alla funzione. Il tempietto è un unicum nel panorama dell’architettura
rinascimentale italiana.
Pontano affronta il tema funerario anche nei suoi due libri dei Tumuli,
dove raccoglie epigrammi latini dedicati ad amici e parenti defunti. Alcuni dei
carmina presentano strettissime
analogie con il tema dell’Hypnerotomachia,
particolarmente quello in cui viene proposto un dialogo del Pontano con la
moglie Adriana, defunta, che rivive nella mente dell’autore con una vivida
immagine, e quello in cui parla con la moglie in sogno.
È elemento da considerare, inoltre, che l’invenzione
pontaniana del Tumulus come sinonimo
di una produzione poetica specifica venga subito riproposta nel Thermae, Tumuli, Theatrum
di Evangelista Maddaleni Capodiferro, familiare di Giovanni Colonna e, quindi,
vicino a Francesco Colonna di Palestrina.
Le composizioni poetiche dello stesso Capodiferro, particolarmente quelle
contenute nel Vat. Lat. 3351 della Biblioteca Apostolica Vaticana, dove
compaiono alcuni versi dedicati a compiangere la morte, avvenuta nel 1508, di
Giovanni Colonna, soprannominato “Mecenate”, supportano l’ipotesi che intorno
al mecenatismo principesco del cardinale graviti uno dei circoli culturali più
attivi e ferventi nei primi anni del papato di Giulio II.
Ulteriori studi e rinvenimenti di relativi documenti potrebbero rafforzare tale
ipotesi. È un elemento importante che nel codice ricorrano frequenti richiami
ai nomi dell’Hypnerotomachia, a
partire da «Pollia», cui il Capodiferro dedica versi d’amore.
In un componimento sulla Fortuna, la menzione dell’«illicibus fultus» è da
collegarsi all’Hypnerotomachia, in cui più volte viene nominato
l’albero, dalla cui versione greca deriva il nome della città di Preneste.
Inoltre, il «Laurentius Crassus» presente nei componimenti del Capodiferro
potrebbe essere il cognato della nipote di Francesco Colonna, ovvero uno dei
fratelli di Leonardo Crassi prefatore dell’Hypnerotomachia.
Tra le attività di ‘promozione culturale’ del cardinale
Giovanni Colonna è da segnalare la rappresentazione nella sua residenza,
durante il carnevale del 1499, di un Bruto
cum due teste in mano e della Mustellaria
di Plauto e, durante quello del 1508, di due commedie nel palazzo ai Santi
Apostoli. Quest’ultima fu
l’abitazione di Giovanni Colonna, e si tratta del palazzo in precedenza
occupato dal Bessarione, dal Riario e da Giuliano Della Rovere, probabilmente
evocato nella reggia di Eleuteryllide del Polifilo. In questa sede, forse subito dopo
l’elezione di Giulio II, il cardinale tenne un convito per Guidobaldo da
Montefeltro, durante il quale fu rappresentata un’ecloga del Capodiferro, come
risulta da un’annotazione ai margini dell’ecloga stessa,
celebrante il duca di Urbino e il pontefice. Una seconda ecloga del Capodiferro
fu messa in scena durante un banchetto offerto dal cardinale al papa nel 1504.
La figura di Giovanni Colonna apre, inoltre, ad
un’interessante riflessione di Stefano Colonna, nella monografia già citata, che aiuta a comprendere la
fitta rete di relazioni culturali della seconda metà del Quattrocento, e
restituisce un panorama fervente ed articolato. Nel 1470 Martino Filetico,
umanista di notevole preparazione culturale, diviene precettore di Giovanni
Colonna. Allo stesso anno risale il già citato donativo da parte di papa Paolo
II Barbo a favore di Stefano Colonna per comperare libri al figlio: «ad emendum libros pro filio suo».
Non risultando un’iscrizione di Francesco Colonna nei ruoli di qualche
Università, è probabile che egli abbia ricevuto un’istruzione privata tramite
un precettore personale, privato o riservato ad un gruppo ristretto di allievi.
Si potrebbe ipotizzare una forma di condiscepolato di Giovanni e Francesco
Colonna nel 1470-1471.
Nell’Hypnerotomachia Poliphili, il
principe di Palestrina utilizza la versione latinizzata del termine greco
«πολυφιλία», che ricorre nell’opera Iocundissimae
Disputationes del Filetico del 1462-63. L’umanista compone nel 1461 i versi
latini per il gruppo marmoreo delle Tre Grazie, possedute a quella data da
Prospero Colonna, che ispireranno poi il soggetto di un’incisione dell’Hypnerotomachia.
Anche questo percorso di riflessione porta ad avvalorare l’ipotesi di un
effettivo rapporto di discepolato tra il Filetico e Francesco Colonna. È
necessario tener presente, inoltre, che Martino Filetico è sicuramente maestro
di Mariano de Blanchellis prenestino, antiquario e notaio di Francesco Colonna.
Uno studio attento e scrupoloso delle note apposte ai margini dei testi
dell’Ott. Lat. 1256 permette di attribuire la paternità delle note al Filetico
e dei testi al De Blanchellis, il cui operato viene ristretto alla semplice
funzione di estensore del codice in qualità di allievo del Filetico:
si tratta, quindi, della revisione degli appunti “di classe” di uno dei più
solerti allievi del Filetico presso lo Studium Urbis.
La stessa parola ‘Hypnerotomachia’ riconduce direttamente all’ambiente
culturale del Filetico e si ricollega al tema delle Iocundissimae Disputationes, il cui testo rievoca tre giornate di
studio dove si alternano, in dottissime conversazioni, il maestro e i suoi due
giovani allievi, Battista e Costanzo Sforza, in ricordo degli anni di
insegnamento a Pesaro. Al fratello Costanzo, che sostiene la superiorità della
lingua latina, Battista costruisce un raffinatissimo ragionamento a favore
della lingua greca che esprime concetti complessi con parole composte, che non
trovano un corrispettivo nella lingua latina, se non mediante perifrasi.
Se Martino Filetico fu davvero maestro di Francesco Colonna, oltre che di
Giovanni, risulta semplice spiegare un vero e proprio amore per la grecità e la
linguistica applicata allo studio di forme verbali nuove e significanti, gli hapax appunto, e quel clima fresco e
originale che pervade l’Hypnerotomachia.
Ulteriori ricerche condotte dalla scrivente presso
l’Archivio di Subiaco nel Monastero di Santa Scolastica hanno permesso di
rinvenire due nuovi documenti: uno riguarda una copia contemporanea di bolla di
Paolo II che conferisce a Giovanni Colonna, dell’età di 15 anni, la dignità di
protonotario apostolico, datato 27 settembre 1468;
l’altro consiste nella bolla di Innocenzo VIII che conferisce al card. Giovanni
Colonna in commenda il monastero camaldolese di S. Elena di Camerino, datato 5
febbraio 1484. Particolarmente importante risulta il documento relativo al conferimento della carica di protonotario apostolico di
Giovanni Colonna, che precede di qualche anno quella di Francesco, in quanto offre un valido supporto all’ipotesi che il Filetico sia stato maestro di entrambi, ma per primo di Giovanni che, come dimostrano i documenti d’archivio, riceve per primo l’importante prebenda.
NOTE
MANOSCRITTI
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio
Barberini Colonna di Sciarra, 5, 160, 3.
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio
Barberini Colonna di Sciarra, 5, 160, 4.
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottob.
Lat. 2860, ff. 14r. - 14v.
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat.
Lat. 3351, f. 24r.
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat.
Lat. 3353, f. 138v.
Roma, Archivio Segreto Vaticano, Reg. Lat. 818, ff. 156v. -
158r.
Subiaco, Monastero di Santa Scolastica, Archivio Colonna,
III BB, 5, 52.
Subiaco, Monastero di Santa Scolastica, Archivio Colonna,
III BB, 6, 9.
BIBLIOGRAFIA STAMPATI
ADEMOLLO 1886 Alessandro Ademollo, Alessandro
VI, Giulio II e Leone X nel Carnevale di Roma. Documenti inediti (1499-1520), Firenze, Ademollo Editore, 1886.
ALBERTI 1784 Leon Battista Alberti, I
dieci libri di architettura di Leon Battista Alberti tradotti in italiano da
Cosimo Bartoli. Nuova edizione diligentemente corretta e confrontata
coll’originale latino ed arricchita di nuovi rami ricavati dalle misure
medesime assegnate dall’autore, Roma, Stamperia di Giovanni Zempel presso
Monte Giordano, 1784.
BANDIERA 1984 Luigi Bandiera, Palestrina,
Palestrina, Fondazione Giovanni Pierluigi da Palestrina, 1984.
BANDIERA 1991 Luigi Bandiera, Il
palazzo Colonna-Barberini di Palestrina, in Palazzi baronali del Lazio, a cura di Renato Lefevre, Roma, Palombi, 1991, pp. 27-39.
BORSI 1995 Stefano Borsi, Polifilo
Architetto. Cultura architettonica e teoria artistica nell’Hypnerotomachia
Poliphili di Francesco Colonna (1499), Roma, Officina, 1995.
BORSI 1996 Stefano Borsi, Alberti,
in La “pugna d’amore in sogno” di
Francesco Colonna romano, a cura di Maurizio Calvesi, Roma, Lithos, 1996,
pp. 308-310.
BRUSCHI - MALTESE 1978 Scritti rinascimentali
di architettura: patente a Luciano Laurana, Luca Pacioli, Francesco Colonna,
Leonardo Da Vinci, Donato Bramante, Francesco Di Giorgio, Cesare Cesariano,
Lettera a Leone X, a cura di Arnaldo Bruschi e Corrado
Maltese, Milano, Il Polifilo, 1978, pp. 145-276.
CALVESI 1980 Maurizio Calvesi, Il
sogno di Polifilo prenestino, Roma, Officina, 1980.
CALVESI 1996 Maurizio Calvesi, La
“pugna d’amore in sogno” di Francesco Colonna romano, Roma, Lithos, 1996.
CECCONI 1756 Leonardo Cecconi, Storia
di Palestrina, città del prisco Lazio, Ascoli, Ricci, 1756.
COLONNA F. 1964 [Francesco Colonna], Hypnerotomachia
Poliphili, edizione critica e commento a cura di Giovanni Pozzi e Lucia A. Ciapponi,
2 voll., Padova, Antenore, 1964.
COLONNA F. 2004 [Francesco Colonna], Hypnerotomachia Poliphili, edizione
critica e commento a cura di Marco Ariani e Mino Gabriele, 2 voll., Milano,
Adelphi, 2004.
COLONNA S. 1996 Stefano Colonna, Anteprime
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“pugna d’amore in sogno” di Francesco Colonna romano, a cura di Maurizio
Calvesi, Roma, Lithos, 1996, pp. 313-317.
COLONNA S. 2002 Stefano Colonna, Per
Martino Filetico maestro di Francesco Colonna di Palestrina. La “πολυφιλία” e
il gruppo marmoreo delle Tre Grazie, Storia dell’Arte, 102, 2002, pp.
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COLONNA S. 2004 Frater Stefano Colonna, L’
“Hypnerotomachia” e Francesco Colonna romano: l’appellativo di “frater” in un documento inedito, Storia
dell’Arte, 109, 2004, pp. 93-98.
COLONNA S. 2004 Pontano
Stefano Colonna, Francesco
Colonna e Giovanni Gioviano Pontano, in Roma
nella svolta tra Quattro e Cinquecento, a cura di Stefano Colonna, Atti del
Convegno Internazionale di Studi (Roma, 28-31 ottobre 1996), Roma, De Luca,
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COLONNA S. 2011 (stampa 2013) Stefano Colonna, Francesco Colonna romano protonotario apostolico. Cenni biografici su Filippo Barbarigo di Lorenzo, in "Studi Romani", anno LIX, nn. 1-4, Gennaio-Dicembre 2011 (stampa 2013), pp. 41-63 con 1 tav. fuori testo.
COLONNA S. 2012 Stefano Colonna, Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento, Roma, Gangemi Editore, 2012. Con CDROM allegato contenente le Statistiche delle Ricorrenze in ordine alfabetico e di frequenza relative all'editio princeps (1499) dell'Hypnerotomachia ottenute tramite trattamento informatico del testo elettronico appositamente modificato da Stefano Colonna.
COPPI 1855 Angelo Coppi, Memorie
colonnesi, Roma, Salviucci, 1855.
DANESI SQUARZINA 1987 Silvia Danesi Squarzina, Francesco
Colonna, principe, letterato, e la sua cerchia, Storia dell’Arte, 60, 1987,
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DEL RE 1970 Niccolò Del Re, La
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DONATI 1968 Lamberto Donati, Il
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FANCELLI 1974 Paolo Fancelli, Palladio
e Praeneste: archeologia, modelli, progettazione, con nota di Paolo
Portoghesi, Roma, Bulzoni, 1974.
FARINELLA 1992 Vincenzo Farinella, Archeologia
e pittura a Roma tra Quattro e Cinquecento: il caso di Jacopo Ripanda,
Torino, Einaudi, 1992.
FASOLO 1956 Furio Fasolo, Il
Palazzo Colonna-Barberini di Palestrina ed alcune note sul suo restauro, Bollettino
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umanista veneziano. Papa Paolo II, Roma - Venezia, Istituto per la
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