La Chiesa di S. Antonio del
Carmine, legata prima alla famiglia Colonna poi ai Barberini, è
un’interessante emergenza artistico-architettonica della città di
Praeneste, anche per il pregevole fondo librario dell’annessa
Biblioteca Fantoniana, sebbene sia poco nota ai più.
L’edificio ecclesiastico dal geometrico nitore si erge al lato
della Chiesa di S. Andrea, oggi sconsacrata.
L'esterno è opera di Francesco
Contini, disegnatore dell’entourage di Cassiano dal Pozzo,
Architectus Principis Praefecti al servizio di Taddeo
Barberini e, in seguito, del figlio Maffeo. Il fronte della facciata
guarda in direzione del vicino ingresso al grandioso Tempio della
Fortuna, prossimo alle due terrazze intermedie di via del Borgo –
le rampe inferiori del Santuario - e la sottostante Basilica forense
“intramuranea”.
Sulla facciata in alto campeggia l’elefantino che sorregge
l’albero, ”arme” del Priore Generale dell’Ordine, il
prenestino Sebastiano Fantoni seniore. Precisa il carmelitano
Antonio Pennazzi, membro del Collegio Barberiniano ed autore di opere
dedicate all’Ordine (tra le quali una Cronaca del 1688,
particolarmente prodiga di informazioni sulla fabbrica), che il
“Convento nuovo” sorge «nel cuore di Preneste, nella regione
appellata di San Biagio nell’angolo occ.le e del Borgo all’angolo
d’oriente». Si tratta di un’area dall’alto valore
archeologico, confermato dallo scavo diretto da Filippo Demma nel
2004, durante il quale è stato rinvenuto un ninfeo “a grotta”
(collegato agli altri già scoperti) e si è studiato il sacrario
dedicato dal console L. Quinzio Flaminino nel 192 a.C. alla città di
Praeneste.
Successivamente il sito muta più
volte destinazione d’uso. In un’incisione firmata da Luigi
Rossini nel 1826 in alto a destra è rappresentato l’Ospedale
alle Terrazze di Borgo, gestito dalla Compagnia della Frusta, o
Compagnia di S.Andrea a Borgo, sorto sulle sostruzioni della
Sinagoga. Esistente già nel Medioevo, l’edificio è aperto al
culto fino al decreto di Pio V del 1569 che ne stabilisce la
demolizione assieme all’attiguo Ghetto, da cui il nome dello
Spregato attribuito popolarmente all’intera zona, laddove
nel 1620 i locali (donati per lascito testamentario nel 1594 alla
Compagnia da Annibale Maulo) accolgono la nuova sede dell’Ospedale.
La Chiesa, già edificata da Stefano Colonna quando nel 1467 i
Carmelitani subentrano ai Romiti del Monte Carmelo, è ricostruita
«su questo suo nativo aprico sasso» col favore di Francesco Colonna
dal Fantoni, «unico Padre di questa Casa e splendore di
questa Città», tra il 1614 e il 1623, assieme al Convento e al
giardino, «povero Orto rustico,decline à scoglio, senz’acqua,
cinto da mura ruinose».
A riguardo così si esprime Antonio Pennazzi:
«Ridusse
il Padre Fantone il detto Giardino all’essere di una delizia di
molta stima […] Per renderlo vago il gran vecchio e riporlo in
piano fece fondare sul sasso, et anco su le macere di vecchie
anticaglie, Archi immensi del mezzo del medemo Orto fino à Lati
delle fratti più bassi, e da quella parte fece sublimare muri à
forma come di bastioni, quali coperse poscia di tavoloni di piperino
e coperse anco il medemo recinto di molte calle di marmo; fece quindi
riempire tutto quello spazioso vano di terra portata e riporre in
piano; e l’anno 1621 […] fece al di fuori del Chiostro, in faccia
la Cantina vecchia, fondare una grande Cisterna […] eresse tre
nobili fontane con sue conche ò piscidi di marmo, tutte messe le
facciate à smalto di tartaro e conchiglie, che chiamano […] la
vena di detta Cisterna. Adornò il Giardino suo infine con vaghi
spargimenti di spaliere e d’un grosso Colonnato per le Pergole, e
d’innumerevoli vasi di Agrumi e di fiori, i quali si disponevano
per maggior vaghezza e fragranza su’bracci stessi della Scalinata
del Giardino; fece inarborare molti Cipressi».
Nei pressi del giardino sono anche
«la Stalla et il Granaro nuovo, quella capace di dodeci Cavalli,
questo di 100 rubbie di grano»; al di sotto della stalla si trova
una cantina con raffinati lacerti pavimentali in opus
alexandrinum del II - I secolo a.C., ancora oggi visibili.
Ristrutturato da Orazio
Torriani su commissione del Fantoni – lo ricorda l’epigrafe in
controfacciata
- l’edificio, arricchito con marmi preziosi
(africano, alabastro a venature nere, bigi, bianchi, pavonazzetti)
provenienti in maggioranza dal Foro, è consacrato il I settembre
del 1626 da monsignor Cacucci, vescovo di Efeso, per disposizione del
vescovo cardinale Domenico Ginnasi. Torriani (1601-1657) è altresì
«l'Architetto di Sua Maestà Cattolica in Roma», incaricato da
Carlo Barberini dell’allestimento del catafalco in onore di Filippo
III di Spagna e nel 1625 di un “talamo” per la processione del
Rosario in S. Maria sopra Minerva,
circostanza che conferma ancora una volta i fitti rapporti che legano
la famiglia Barberini e il Convento nuovo in Palestrina. La fabbrica
presenta una sola ampia, luminosa navata coperta da una volta a botte
lunettata con unghie sulle finestre, culminante nel presbiterio, in
origine recitato da «balaustri mischij, preziosi», e un fastoso
altare maggiore dal quale proviene il dipinto su rame della Madonna
del Carmine in trono, già «nel mezzo della facciata con sue
Cornici e Cherubini à gli angoli di Bronzo indorato», attualmente
nella sacrestia e sostituito nel 1570 da una copia su tavola di buona
fattura.
«Risguarda
verso l’Occidente l’Altare maggiore; verso mezzo giorno sono
distribuiti gli altari di San Sebastiano, di Sant’Alberto e del
Crocifisso; e verso settentrione sono posti quelli di San Nicolò, di
Sant’Antonio e della Madonna di Trapani. Ricevesi il lume in detta
Chiesa per otto gran finestre, per 4 cioè da settentrione et per 4
da austro; e sopra la Porta maggiore, rivolta ad Oriente, porgesi
altro lume assai grande dal finestrone; tutte queste finestre sono
quadre con sue vetrate, e tellai di ferro».
Le cappelle sono tre per lato
non comunicanti tra loro, l’ingresso scandito da un arco a tutto
sesto. Oggi la terza cappella di sinistra dall’ingresso è dedicata
alla Confraternita dello Scapolare, l’istituzione legata a San
Simone Stock, come ricorda la tela nella cappella inizialmente
riservata al culto di San Nicola di Bari, San Biagio vescovo martire
e San Guarino, vescovo di Palestrina. Sul lato opposto, la cappella
di destra accanto all’entrata è attualmente adibita a battistero.
Le intitolazioni delle cappelle e i soggetti iconografici dei dipinti
e delle sculture rimandano alla storia dell’Ordine. Sono
rappresentate Il passaggio della Regola, redatta tra il 1206 e
il 1214 e approvata nel 1226; Sant’Alberto, il patriarca di
Gerusalemme, e San Brocardo, Generale dell’Ordine; la
consegna da parte della Vergine dello Scapolare del Carmelo a San
Simone Stock che, Generale nel 1245, avvicina i Carmelitani ai
Frati mendicanti. Di particolare pregio la cappella prima intitolata
a San Sebastiano che « fù fabbricata in Roma dal sig.Nicolò
Menghini scarpellino […] tutta di marmi fini, con Colonne di pietra
bellissime»;
sempre all’Ordine si riferiscono i depositi in marmi commisti di
Fantoni seniore e del vescovo ausiliare di Velletri, il
carmelitano Antonio Marinari, effigiati in busti e siti ai lati del
presbiterio.
Seguono la “Sagristia” che «
misura di quadro palmi 30», abbellita dall’«Armario co suoi
Canterani e Ginocchiatori,tutto scornicciato di noce, fatto da frate
Giovanni Antonio Salvalaglio laico, figlio del Convento»,
ultimato nel 1665 allorché il Segretariato dell’Ordine Padre
Sebastiano Fantoni junior visita nel Dicembre il Convento e il
Coro, pregevole opera in noce intagliato «di longo palmi 25».
Nel corso della compulsazione dei
documenti pressoché inediti conservati nell’Archivio della Chiesa
prenestina di Sant’Antonio non è stato possibile reperire l’Esito
dal 1616 sino al 1628, strumento elettivo per addivenire alla
determinazione della corretta cronologia del manufatto; già Pennazzi
aveva rilevato la perdita di vari libri contabili risalenti all’epoca
fantoniana.
Tuttavia, la presenza nel Coro
dello stemma del Priore Generale Gregorio Canali,in
carica dalla morte del Fantoni nel 1623 al 1631,la notizia delle sue
visite al Convento il 22 Ottobre del 1623,il 27 Giugno del 1624 e il
29 Settembre 1625, altresì registrate nell’Introito
corrispondente agli stessi anni, congiuntamente alle cospicue
donazioni e i «salutarij ordini» emessi dal Priore in tali
frangenti, indicano un ragionevole intervallo di tempo nel quale
collocare la realizzazione dell’opera. Le pagine della Cronaca
di Antonio Pennazzi ancora una volta forniscono preziose
informazioni.
Il Padre Carmelitano informa il lettore che «detta fabbrica […]
poscia si terminò felicemente dal Rev.mo Canale per Settembre 1624,
come alle stime del Turriani, col denaro però, lasciato e recuperato
dal nostro vecchio Davidde, con cui anco si fece il Coro e il Casale,
benché l’Arme affissevi del suddetto Gregorio altro contendano»,
intendendo per “vecchio Davidde” il Fantoni seniore,
ammirato per la faticosa impresa del Convento nuovo «nel secolo
scorso già vertente come la Chiesa all’antichità, povero, rozzo,
basso, picciolo, angusto» e consacrato 5 anni dopo la sua morte.
La
prima menzione del Coro risale al 1660; Antonio Severola
“arciepiscopo Faentino” e delegato apostolico, nel corso della
Visita Apostolica così annota: «Visitatio Choru positu retro
Altare Maius,est elegantis formae totu fornicatu […] sedilia
pro patribus ex ligneo nuceo elaborato elegantis formae»,
sottolineandone le forme di armonico disegno e la sobria eleganza
degli intagli.
Con simili accenti si esprime
Pennazzi nelle pagine riservate all’importante arredo liturgico.
«Il Coro posto in volta, et illuminato à ponente da duoi finestre
con sue vetrate, conteine
conteine duoi ordini di sedili per li PP.e per li Chierici.Il
primo ordine ha di più li suoi Appoggi alti a proporzione. Per
inginocchiarsi similmente vi sono li suoi ordini di scabelli,et il
primo ha di più tutto il corpo del Coro Inferiore per
appoggiarsi,ove sono in oltre al di dentro li suoi cassetti con
tiraretti per riporvi direttorij, diurni et altro. Sono li sedili de
PP. in numero di 20,distinti l’uno dall’altro con sue colonnette
intagliate, che dall’Appoggio sublimano à sostenere tutto
l’intiero del Corniccione del Coro che sporge sopra il Capo,e nel
mezzo vi è l’Arme del Canale d’intaglio, sostenuta da duoi
Angelini d’intaglio. Alla testa superiore delle Colonne, per
convesso, vi sono le sue sirene, ò cherubini; et alla testa de
Capitelli, sotto gli Appoggi,vi sono le sue Aquile. Tutto il
Complesso del Coro, che è indiviso à tre prospetti, è di noce
lavorata con artifizio d’intagli e scornicciatura assai nobbile,
lavoro e maestria di Gio.Mandelli, et è adorno al di sopra di molte
belle Palle di Marmo. Nella facciata del Coro vi è un prezioso
quadro in tela con sue cornici nere del Crocifisso nostro di Napoli
col segno della Palla, in vero divotissimo e venerando. Nel mezzo del
coro è il Legile grande intagliato di noce cò suoi pendoni di dante
e ottone per ritenervi sopra i libri».
L’immediato
confronto tra le compiute descrizioni del Coro redatte da Severola e
da Pennazzi e lo stato attuale sottolinea la drammaticità delle
perdite subite, che nel tempo hanno compromesso irrimediabilmente la
piena fruizione di questo manufatto, creato con materiale ”vivo”,
per sua natura già soggetto a continue sollecitazioni di carattere
fisico, termoigrometrico, meccanico, climatico. Il legno,
chimicamente composto di carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto,
trattiene un’alta percentuale di ”acqua di vegetazione” nella
linfa e nei liquidi vasali e di “acqua di saturazione” nelle
pareti cellulari; è materiale anisotropo, soggetto a modifiche in
direzione radiale,tangenziale o trasversale. In questo caso, però,
l’intervento dell’uomo ha potuto più degli accidenti e delle
contingenze, determinando perdite irreparabili, tali da modificare il
disegno originale ed i rapporti con il contesto. Negli Anni Sessanta
del Novecento il Coro, ignorato dalla critica, che spesso si mostra
carente di studi sistematici relativi all’arredo liturgico, è
stato parzialmente distrutto al suo centro, laddove era collocato il
seggio del Priore Generale Gregorio Canali, andato perduto come pure
«L’Arme del Canale d’intaglio» e parte degli stalli, rimossi
per consentire la realizzazione di un moderno organo a
canne,riducendo
l’opera in condizioni ben più che precarie e tali da
comprometterne la fruizione.
Né l’intervento di restauro
subito dall’edificio nel 1980, a più di settant’anni dal
precedente, ha in alcun modo interessato il manufatto ligneo, forse
ritenuto ingiustamente ”figlio di un dio minore”, come fin troppo
di frequente accade ai ”prodotti” ascritti alle cosiddette “Arti
applicate”.
Non visibile ai fedeli, il Coro
è collocato alle spalle dell’altare maggiore, così come stabilito
dai precetti controrifomistici, nell’aula a pianta quadrata con
volta a padiglione lunettata; la luce filtra da finestroni gemini e
ungolati nel sottotetto sul lato lungo e da due eleganti «finestre
ovate con vetri e reti d’ottone» aperte sulla parete dell’altare:
Pennazzi rileva «Nella facciata dell’Altare, à lati, duoi
finestre ovate e duoi porticelli che rispondono in Coro,tutte
incornicciate di marmi mischij».
Il Coro si appoggia per tre lati
alle pareti, nel tramite di un ”telaio a cornice” con piallacci
montanti verticali e portanti orizzontali, fissati con chiavi, perni
di legno, spinotti ed incastri “a coda di rondine” dacché la
colla in falegnameria comincia ad essere adoperata soltanto sul
finire del XVII secolo. La struttura, che utilizza coerentemente lo
spazio per assolvere in modo adeguato alla sua funzione, non risulta
fissata direttamente al muro, tant’è che tra questo e il fondo si
rileva una distanza di circa 2 cm., ma è stata malamente ancorata
alla parete negli anni Cinquanta del secolo scorso soltanto alle
estremità del cornicione-cimasa aggettante, quando sono stati
inseriti nei montanti del lato di destra e sinistra gli interruttori
dell’impianto di illuminazione, consistente in tre lampadine sul
cornicione.
Il Coro ha un’altezza di 3.16
metri e le altre misure oggi ridotte rispetto agli originali «25
palmi»; insiste sulla pedana strutturale a tre livelli, ormai priva
di impiallacciatura e lucidatura, che funge da piano di calpestio, ma
non presenta la consueta rifinitura a becco di civetta bensì una
modesta modanatura, mentre gli stalli sono 4 sul lato dell’entrata,
4 interi e uno mutilo alla destra del perduto seggio del Priore, tre
a sinistra sul lato lungo, 5 sul lato opposto rispetto ai 20 iniziali
.
Ogni
singolo stallo presenta braccioli dal profilo estroflesso in forma di
imperiose aquile stilizzate, allusive all’impresa del Priore
Generale Gregorio Canali; le aquile sono gli elementi diaframmatici
entro i quali è contenuta l’ampia seduta sorretta dagli appoggi di
forma arcuata introflessa, che si concludono verso il basso con una
voluta, vero e proprio pendant del motivo a ricciolo dei
braccioli, qui però racchiusa in un elegante motivo fitomorfico
dall’andamento ondulato.
Lo schienale, appoggiato alle
tavole orizzontali del fondo,è inquadrato da semicolonne, ciascuna
sormontata da un elegante capitello composito che scandisce la
divisione tra uno stallo e l’altro e sul quale si impostano le
curve culminanti nei cherubini dall’intaglio morbido, che sembra
alludere per dialettica chiaroscurale agli effetti pittorici di
alcune scultore medioimperiali, come il Genio dell’Autunno nel
fornice centrale dell’Arco di Settimio Severo al Foro romano,
inaugurato nel 203 d.C.
Ogni spalliera è decorata da
specchiature a semplici cartellature in radica di noce, perimetrate
da cornice quadrata a doppio listello modanato, analoga alla
rifinitura del cornicione sommitale, che sottolinea per contrasto sia
l’altorilievo dal marcato aggetto di cherubini ed aquile, emergenti
dal piano con effetti a tutto tondo, sia i particolari finemente
incisi con il bulino d’acciaio, dopo la sbozzatura con scalpello e
sgorbia, strumento simile al primo,ma con una lama a sezione curva.
Il noce nazionale conoscerà un ampio utilizzo tra il 1700 e
il 1735, appunto il”periodo del noce”; è un legno duro rispetto
a quelli della famiglia conifere, spesso adoperato in listre
(impiallacciature) su un’anima di materiale meno pregiato e
solitamente lucidato al termine della lavorazione con vernici
trasparenti (sandracca), a differenza dei legni morbidi (pino, abete,
pioppo) stuccati, laccati o dorati.
Nel Coro, sebbene la patina, che non è semplicemente lo strato
superficiale di polvere o i residui carboniosi di cere, lanterne e
candele, bensì l’accentuarsi del colore naturale, abbia
determinato viraggi in diverse tonalità di grigio e bruno, è ancora
possibile individuare l’uso di legno di alburno, la parte più
chiara del tronco, tuttavia anche la più tenera e maggiormente
esposta agli attacchi degli insetti xilofagi, adoperato per i
braccioli dei divisori, per il fronte della seduta, per gli appoggi
laterali dei sedili, per le colonnine e per i cherubini, ovvero per
tutte quelle porzioni più finemente trattate .
Il noce, come pure i legni dolci,
è aggredito con facilità dagli insetti xilofagi e in questo caso le
superfici presentano fori tondi e netti all’esterno, mentre
all’interno,in prossimità delle fratture,si scorgono cunicoli
dall’andamento irregolare o parallelo al piano, scavati dai tarli
che stanno inesorabilmente distruggendo l’opera, rendendo il
materiale fragile, spugnoso e privo di compattezza.
Come
si diceva, il coro, di forma armonica e sobria eleganza, dispone
coerentemente dello spazio che occupa per un più razionale
assolvimento delle funzioni liturgiche: le linee severe e il colore
scuro del legno di latifoglia utilizzato si accordano alle austere
regole dell’Ordine, trattandosi di un materiale, il noce,
particolarmente prediletto dagli ordini mendicanti; inoltre, negli
Anni Sessanta del XVI secolo in area iberica i mistici Santa Teresa
d’Avila e San Giovanni della Croce avevano avviato la ”Riforma
dei Carmelitani Scalzi”, con una regola più rigida rispetto ai
Confratelli Calzati.
Il 7 Luglio del 1636 a Torino la
Compagnia dei Minusieri,istituzionalizzata nel 1654 in Università
dei Minusieri, Ebanisti e Maestri di Carrozza,acquista la prima
cappella a sinistra rispetto all’entrata nella chiesa di Santa
Maria di Piazza, come documenta il relativo Instrumento
nell’Archivio locale .
La chiesa parrocchiale in vicolo
Santa Maria appartiene all’Ordine dei Carmelitani,quasi a
confermare quella particolare predilezione per l’artigianato del
legno di cui si è già argomentato;si procede alla convenzione
notarile durante il Capitolo presieduto dal Priore Reverendo Padre
Domenico, al quale partecipa Giovan Battista Truccone, Sindaco dei
venti minutieri altresì presenti.
I minutieri, neologismo che adatta
il francese menusier, sono i ”falegnami di minuto e di
fino”, che intendono così distinguersi dai carpentieri, ”mastri
di grosseria”; la loro arte si esprime anche nella realizzazione di
cori ed arredi liturgici, spesso avvalendosi della collaborazione
degli ebanisti per procedere all’intarsio su base in massello o
alla marquetiere su lastronatura di legni diversi .
Il
Coro di S. Antonio risulta affine per soluzioni compositive e cadenze
stilistiche all’analogo dell’Abbazia di Farfa, datato al I quarto
del Seicento, mentre i pressoché coevi Cori della Cappella dei
Canonici in S. Pietro in Vaticano, S. Maria della Salute a Venezia,
di S. Sigismondo a Cremona palesano un linguaggio più ricco
nell’articolata impaginazione e nell’opulento apparato
esornativo.
La tradizione degli arredi
liturgici in legno conosce poi nel XVIII secolo una fiorente
produzione, segnatamente in Piemonte - è il caso della Cattedrale di
Asti, del Santuario di Mondovì, di S. Maria della Scala a Mosso,
vicino Biella, di S. Maria di Moncalieri - e della Lombardia, con le
innovative scelte adottate da Andrea Fantoni (1659-1743) nel Coro di
S. Maria Assunta, in provincia di Bergamo.
Alla tradizione lombarda sembra
proprio ispirarsi il minutiere che Pennazzi indica quale autore del
Coro di S.Antonio, quel Giovanni Mandelli, del quale ancora oggi poco
si conosce, ma è presumibile giunga nel Lazio dal Settentrione,
dacché il cognome riporta alla località lombarda di Mandello sul
Lario, in provincia di Lecco, dove lavorano altri importanti
artigiani del legno, i Pigazzi di Pasturo.
Di Giovanni Mandelli, trascritto
anche Mandella o Mannella, stante la perdita dell’Esito dal 1616
al 1628, si comincia ad avere notizie nell’Archivio dagli anni
Quaranta, con annotazioni negli Esiti di quel periodo relativi
a lavori di falegnameria e di manutenzione all’interno del Convento
nuovo .
E’interessante osservare
che,viceversa,dalle note della Computisteria Barberini il nome
del nostro minutiere è presente negli anni Trenta;Taddeo
Barberini(1603-1647)stabilisce i pagamenti per i «lavori fatti nelle
cucine nuove et credenzoni per l’Armaria» e per le altre opere
nel Palazzo .
Mandelli diventa così una sorta
di trait d’union tra i Carmelitani di Palestrina e la
famiglia baronale, già vicina al Priore Fantoni nell’allestimento
della Biblioteca, e che vedrà poi Nicolò, figlio di Taddeo e Anna
Colonna, prendere i voti in quest’Ordine e finanziare a
Montecompatri l’Eremo di S. Silvestro dei Carmelitani Scalzi,
consacrato dal cardinale Antonio Barberini nel 1604.
L’acquisto del feudo
prenestino da parte dei Barberini nel 1630 segna l’ingresso di
Praeneste-Palestrina nell’orbita di una prestigiosa
committenza che lega la ”Città”, l’Urbe, a ”Campagna”; lo
”stile Barberini”, la promozione culturale favorita in primis
dal Cardinale Francesco, straordinario mecenate, si traducono
anche in provincia nel programma di rinnovamento delle arti e delle
lettere .
Con il sostegno di Francesco
Colonna fino al 1630 e della famiglia Barberini, in particolare nella
persona del ”Cardinal Padrone” Francesco, il Priore Generale
Sebastiano Fantoni seniore, ancor prima che i Barberini si
stanzino in città, allestisce dal 1614 una Biblioteca di più di
mille volumi, annessa al Convento,incrementata
nel tempo attraverso le cospicue donazioni dei Colonna e Barberini,
determinati questi ultimi a promuovere la capillare diffusione della
cultura nel feudo .
In tale contesto il Convento
beneficia di una particolare attenzione da parte dei Barberini; le
cronache raccontano infatti che Urbano VIII, in visita nel 1640,
commosso davanti all’ Ecce Homo ligneo commissionato da
Paolo V Borghese per la Cappella del Crocifisso (oggi in sacrestia),
esenta il Convento dalla giurisdizione del Provinciale con la
concessione di poter rispondere direttamente al Generale dell’Ordine,
assicurando così autonomia ed indipendenza dalla Provincia Romana.
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