Alla
mia adorata mamma
Quando si pensa a uomini di religione che sono stati
anche degli artisti vengono subito in mente i nomi di Beato Angelico e Bartolomeo
della Porta. In realtà fra le mura dei conventi di clausura sono state attive
anche moltissime suore pittrici che con le loro opere d’arte non solo hanno
contribuito ad arricchire il patrimonio artistico italiano ma hanno anche
contribuito al mantenimento economico dei loro conventi divenendo in alcuni casi
vere e proprie imprenditrici. Ma essendo donne e allo stesso tempo suore non
ebbero la possibilità di ricevere un’adeguata formazione artistica. Un
aspirante pittore o scultore cominciava generalmente il suo apprendistato in giovane
età e questo comportava dover vivere per diverso tempo nella bottega del
maestro. Chiaramente da questa opzione erano escluse le donne di qualsiasi
estrazione sociale, a meno che non si trattasse di figlie di artisti che
attraverso questa loro condizione avevano la possibilità di superare le
inevitabili difficoltà sociali che comportava l’inserimento di una donna nella
vita prettamente maschile della bottega. Comunque anche in quel caso la loro
formazione era sempre più limitata rispetto a quella maschile. Dunque
non avendo la possibilità di studiare in bottega le suore si ispiravano a fonti
alternative circolanti entro le comunità religiose come stampe e disegni.
Le suore artiste protagoniste di questo lavoro sono la
clarissa bolognese -ferrarese Caterina Vigri, la domenicana fiorentina suor
Plautilla Nelli, la domenicana lucchese suor Aurelia Fiorentini, l’orsolina
romana-mantovana suor Lucrina Fetti, l’orsolina moncalvese suor Orsola
Maddalena Caccia e infine la francescana veneziana suor Isabella Piccini.
Caterina Vigri: una
suora, un’artista, una santa
Caterina Vigri nacque a Bologna nel 1413 da una
famiglia nobile, trascorse una parte della sua infanzia in questa città poi si
trasferì a Ferrara dove grazie a suo padre, che lavorava al servizio del
marchese Niccolò III d’Este, venne introdotta in una delle corti più vivaci del
XV secolo ricevendo un ottima formazione. Ma l’amore per Dio che l’aveva
accompagnata sin dalla tenera età la spinse a lasciare la corte estense per
entrare nel 1425 a soli 12 anni nel monastero del Corpus Domini di Ferrara,
fondato nel 1413 dalla ricca e pia vedova Bernardina Sedazzari. Nel giro di
pochi anni questa fanciulla dall’aspetto minutino e trasandato, ma dalla grande
autorevolezza spirituale assunse un ruolo fondamentale in questo convento divenendo
ben presto un punto di riferimento per la comunità ferrarese. La fama di cui
godeva a Ferrara fece si che suor Caterina venisse scelta per guidare un nuovo
Monastero del Corpus Domini a Bologna di cui fu subito nominata badessa, era il
1456. Caterina ritornò così nella terra in cui era nata e dove morirà nel 1463. Pur
essendo considerata la prima suora pittrice della storia italiana di lei
rimangono solo due opere assolutamente certe: un’immaginetta di Gesù Bambino in
fasce, dipinta su carta e incollata su tavola di legno e le miniature del suo Breviario.
Entrambe le opere sono conservate ˗ insieme con altre opere che le sono state
attribuite ˗ nella cappella a lei dedicata nel Monastero del Corpus Domini di
Bologna dove è anche esposto il suo corpo ancora oggi miracolosamente
incorrotto. L’attività di Caterina come pittrice e miniatrice nei conventi di
Ferrara e di Bologna è stata confermata nella biografia della santa lo Specchio d’Illuminazione scritta dalla consorella e nobile veneziana
Illuminata Bembo. È proprio lei ad esempio a raccontare di come nacque la
piccola immaginetta di Gesù. La notte di natale del 1445 Caterina chiese alla
badessa di poter andare in chiesa per pregare tutta la notte e fu proprio lì
che le apparve la Madonna che le diede in braccio il piccolo Gesù. Subito
dopo quella visione Caterina dipinse questa immaginetta arricchita poi dalle
consorelle con stoffe e gioielli.
Il forte legame della Vigri con Gesù Bambino e
con Gesù Cristo adulto è visibile anche nelle miniature del Breviario a cui la
Vigri lavorò dal 1451 al 1463. Esso è composto da 518 fogli ed è articolato in
diverse parti, la decorazione - in linea con i valori delle clarisse cioè
semplicità e umiltà - è molto sobria, l’impaginazione è a due colonne con
rubriche in latino e in italiano. Vi sono trentacinque iniziali figurate
all’interno delle quali troviamo oltre ai volti di Gesù Bambino e di Gesù
Cristo adulto anche i busti di alcuni santi come santa Chiara e san Francesco
fondatori dell’ordine e una serie di fregi floreali molto semplici eseguiti ai
margini dei fogli. Un interessante studio sul Breviario della Vigri è stato
condotto dalla studiosa Kathleen Arthur, autrice di un saggio intitolato “Il Breviario di Santa Caterina da Bologna e
l’arte povera” clarissa”. Il processo di canonizzazione della santa avviato
a partire dal 1645 e conclusosi positivamente nel 1712, il miracoloso caso del
corpo incorrotto (raccontato sempre dalla Bembo nella sua opera) e i numerosi
miracoli di guarigione resero Caterina piuttosto nota e questo di conseguenza
portò ad attribuirle varie opere. Ma queste attribuzioni
ora sono state messe in discussione.
Polissena
Margherita Nelli: la prima suora pittrice fiorentina
Polissena
Margherita Nelli nacque a Firenze nel 1524 da una famiglia di commercianti. Nel
1538 a soli 14 anni entrò nel convento domenicano di santa Caterina da Siena
fondato nel 1496 dalla nobil donna Camilla Bartolini Davanzati. In questo
convento, in cui assunse il nome di suor Plautilla, si trovava già sua sorella
maggiore Costanza Pulissena Romola che vi era entrata l’anno prima assumendo il
nome di suor Petronilla. Pur non avendo ricevuto una
formazione artistica in bottega nel giro di pochi anni suor Plautilla divenne
una pittrice molto talentuosa tanto da essere citata e lodata dal suo contemporaneo
Giorgio Vasari nella seconda edizione delle sua opera Le vite de’ più eccellenti pittori,
scultori e architettori insieme con altre artiste donne del passato e sue
contemporanee nella biografia dedicata alla prima scultrice bolognese Properzia
de Rossi.È proprio tramite Vasari
che veniamo a sapere che suor Plautilla si formò da autodidatta guardando alle
opere di importanti artisti dell’epoca come fra Bartolomeo e Andrea del Sarto e
che realizzò molte opere per committenze non solo religiose ma anche laiche,
contribuendo al mantenimento economico del convento. Vasari inoltre aggiunge che se avesse potuto studiare in
bottega, avrebbe fatto certamente cose meravigliose come avevano fatto i
pittori uomini, i quali avevano la possibilità di disegnare e ritrarre cose
vive e naturali. La clausura monastica non le consentì neanche di fare
tesoro dei tanti insegnamenti artistici che solo la lettura dei libri o i
viaggi consentivano di acquisire e per rappresentare i suoi personaggi
maschili, dice sempre Vasari, era solita usare come modello le sue consorelle a
cui poi aggiungeva barba e baffi. Chiusa in un luogo inaccessibile a tutti e in
cui vi erano solo donne dal viso calmo e sereno con gli stessi abiti e con le
stesse abitudini di vita la fantasia era molto limitata. Tutto questo ˗ dice
Vincenzo Marchese nelle sue “Memorie dei più insigni pittori,
scultori e architetti domenicani - avrebbe dovuto
indurre suor Plautilla a realizzare solo quelle composizioni semplici che non
richiedevano una particolare perizia artistica come: sacre famiglie, mezze
figure di santi e ritratti. Invece coraggiosamente suor Plautilla si cimentò
nella realizzazione di opere piuttosto grandi e anche ricche di personaggi. Purtroppo molte delle sue opere elencate
da Vasari oggi non esistono più o non sono più rintracciabili, in quanto la
demolizione del convento all’inizio del 1800 ne causò la dispersione. Ad oggi
di suor Plautilla rimangono solo tre opere che riportano la sua firma si tratta
del Compianto con i Santi, la Pentecoste,
l’Ultima Cena.
Il
Compianto con i Santi oggi decora
l’ampio refettorio del Museo di San Marco a Firenze ma in origine si trovava nella
chiesa di S. Caterina da Siena. Per la realizzazione di questa opera suor
Plautilla si rifece a diversi modelli come la Pietà di Luco di Andrea del Sarto e il Compianto sul Cristo morto di Pietro Perugino, entrambi conservati
alla Galleria Palatina di Firenze. Dal primo riprese il paesaggio collinoso,
dal secondo la città turrita e il volto di profilo di Maria con il capo coperto
da un velo bianco. Comunque il suo principale punto di riferimento è stato senza
dubbio il Compianto sul Cristo morto
di fra Bartolomeo. Nel dipinto della Nelli la salma del Redentore giace distesa
in primo piano a terra su un panno bianco. Intorno a lui vi sono San Giovanni
inginocchiato che lo regge per le spalle, Maria Maddalena sempre in ginocchio
abbracciata ai suoi piedi e la Madonna. Accanto a lei suor Plautilla ha posto
due pie donne. In piedi dietro questo gruppo vi sono tre figure maschili, le
due figure laterali indossano una veste gialla la figura centrale indossa un abito
elegante e un dettagliato copricapo orientale. Secondo Magnolia Scudieri con tutta probabilità il
personaggio centrale dovrebbe essere Nicodemo o di Giovanni di Arimatea e
sempre secondo lei nel suo volto si potrebbero identificare le fattezze del
patrono o benefattore della chiesa. In questo dipinto Plautilla si mosse in un terreno di
esemplarità devota che approfondisce il dolore per la morte di Cristo
attraverso una attenta rappresentazione degli occhi rossi e delle lacrime delle sue figure
femminili, creando
così un capolavoro in grado di far percepire all’osservatore l’angoscia vissuta
dai presenti.
La Pentecoste è conservata nella Chiesa di San
Domenico a Perugia. Stando alla
Cronaca di Modesto Billiotti scritta nel 1558 il dipinto le fu commissionato
dal giurista perugino Guglielmo Pontano per il suo altare. Nella Pentecoste
suor Plautilla si è concentrata sui volti e sulla gestualità dei personaggi
mentre la disposizione spaziale e l’anatomia delle figure è più debole.
Generalmente sono gli Apostoli che insieme alla Madonna ricevevano i doni dallo
Spirito Santo, invece in questo dipinto vi è un interessante elemento
iconografico ovvero la presenza intorno alla Madonna di un gruppo di quattro
donne fra cui Maria Maddalena. In realtà la partecipazione degli altri
personaggi a questo evento sacro potrebbe derivare da un passo degli Atti degli
Apostoli in cui si afferma che altre persone erano presenti alla Pentecoste e
in particolare alcune donne. Nel dipinto della Nelli Maria Maddalena tiene fra
le mani un vaso contenente gli oli dell’unzione, questo era un motivo favorito
nei dipinti ispirati dagli insegnamenti di Savonarola. Secondo il frate
domenicano infatti il vaso di Maria Maddalena manteneva caldo l’amore per Dio e
lo proteggeva dai desideri terreni.
L’Ultima Cena è esposta a Firenze nel
refettorio della Chiesa di Santa Maria Novella ed è una delle opere più
imponenti di suor Plautilla, la quale come molti dei suoi contemporanei
realizzò una visione sbalorditiva dell’ultimo pasto di Cristo catturando uno
dei temi pittorici più amati nella sua città nativa. L’opera si rifà
chiaramente alle precedenti composizioni della tradizione fiorentina come il
Cenacolo di Leonardo da Vinci nel Refettorio di santa Maria delle Grazie a
Milano, a lei noto per via delle numerose riproduzioni e incisioni che ne
circolavano all’epoca o il progetto per l’Ultima
Cena di Raffaello che circolava sotto forma di un incisione di Marcantonio
Raimondi. Prima che il Concilio di Trento imponesse la clausura ai monasteri
però suor Plautilla poté probabilmente studiare i numerosi dipinti con questo
tema sparsi nella sua città. Si pensi ad esempio all’Ultima Cena di Domenico Ghirlandaio per il refettorio di San Marco,
all’Ultima Cena di Andrea del Castagno per il refettorio della chiesa di Santa
Apollonia o ancora all’Ultima Cena di
Pietro Perugino a Foligno. Come loro anche lei ha rappresentato Giuda isolato
sul lato opposto del tavolo, però a differenza di Perugino e Ghirlandaio che lo
hanno rappresentato alla sinistra di Cristo, suor Plautilla lo ha rappresentato
alla sua destra accanto a Pietro che pone le mani vicino al petto in segno di
umiltà. La scelta di suor Plautilla di rappresentare Giuda di fronte a Pietro
consentiva alle suore riunite nel refettorio di ammirare la figura di Giovanni
appoggiato sul petto di Cristo. Tale episodio lo troviamo descritto nel
racconto evangelico di Giovanni sulla Passione ed è rappresentato in altre, se
non in tutte, le Ultima Cena eseguite a Firenze. Splendida è la tovaglia bianca
di lino su cui spiccano l’agnello, il pane, le ciotole con l’insalata, il vino,
l’acqua e il sale.
Come
si è già detto queste sono le tre uniche opere certe di suor Plautilla anche se
di recente le sono state attribuite altre opere, la Madonna e il bambino con Santa Caterina e due angeli, conservata
nella Galleria Collegiata ad Empoli, la Madonna
Addolorata conservata nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti, la Madonna e il Bambino della collezione
Sotheby, un pannello con la Crocifissione
conservato alla Certosa del Galluzzo e due lunette con San Domenico riceve il rosario e
Santa Caterina in preghiera esposte nel museo di San Salvi dopo il restauro
del 2008-2009 condotto da Rossella Lari. Secondo una ricerca
condotta da Catherine Turrill la Crocifissione e le due lunette facevano parte
di un unico ciclo che fu commissionato a suor Plautilla per il convento di
santa Caterina da Siena da suor Arcangela Viola intorno al 1570.
Suor
Plautilla oggi è nota non solo per essere stata la prima suora pittrice di
Firenze ma anche per aver dato origine, all’interno del convento di santa
Caterina, ad un vero e proprio laboratorio artistico in cui - fra il XVI e il
XVII - secolo furono attive molte suore e novizie che si cimentarono nella
realizzazione di immagini dipinte e scolpite. Purtroppo ad oggi nessuna delle
loro opere è stata rintracciata e si conoscono solo i nomi di alcune di loro le
quali sono state citate o negli archivi del convento o negli scritti degli
storici loro contemporanei. Si tratta di suor Prudenza Cambi, suor Agata
Traballesi, suor Maria Ruggeri, suor Veronica e suor Dionisia, suor Maria
Angelica Razzi e suor Alessandra del Milanese. Tutte le altre sono
cadute nell’oblio.
Isabella
Fiorentini: suora e pittrice per vocazione
Le
poche informazioni sulla vita e sull’attività artistica di suor Aurelia – al
secolo Isabella Fiorentini – sono state fornite da Tommaso Trenta, come riporta
lo storico Vincenzo Marchese nelle sue Memorie
dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani del 1854.
Isabella
Fiorentini nacque a Lucca nel 1595 ed era una fanciulla bella ed intelligente
dunque suo padre, il dottor Andrea Fiorentini, desiderava per lei un matrimonio
con un uomo di buon partito. In realtà Isabella non aveva nessuna intenzione di
sposarsi, il suo desiderio era di monacarsi e dedicare tutta la sua vita al
signore. Chiaramente suo padre non era d’accordo e per distoglierla da quella
decisione le propose di imparare a disegnare e a dipingere, convincendola che
in questo modo avrebbe potuto rendersi utile al monastero in cui sarebbe
entrata. In realtà la sua speranza era che l’amore per l’arte avrebbe potuto
scacciare il suo desiderio di monacarsi.
Isabella da figlia devota e ubbidiente accettò di buon grado il
consiglio di suo padre e cominciò a ricopiare stampe e disegni. Sin dall’inizio
si dimostrò così talentuosa che suo padre decise di porla sotto l’insegnamento
di un maestro, il quale rimase stupito dallo straordinario talento della
fanciulla e dalla rapidità con cui imparava. A quel punto Andrea Fiorentini
pensando che questa innata abilità di sua figlia all’arte fosse dovuta alla Divina
Provvidenza decise di non opporsi più al suo desiderio di monacarsi e le
consentì di entrare nel monastero di San Domenico. Infatti in questo monastero
la madre superiora Costanza Micheli aveva da tempo introdotto l’arte del
dipingere e del modellare all’epoca comunemente chiamata “pittorìa”.
Stando
a Tommaso Trenta suor Aurelia realizzò almeno diciotto dipinti in parte su
tavola e in parte su tela e tre lunette con la Coronazione di spine, Gesù
Cristo che cade sotto la Croce, e Gesù morto in grembo alla madre per la
chiesa di san Domenico. Marchese nelle sue Memorie invece riporta un elenco,
fatto dal professore Pietro Nocchi lucchese, delle opere eseguite da suor
Aurelia per san Domenico, si tratta di un quadro raffigurante la Circoncisione, un quadretto con la Madonna e il bambino, una Deposizione dalla Croce, un quadro con
il Beato Enrico Susone domenicano e
un grande quadro d’altare raffigurante la beata Vergine Maria in trono
circondata dalle sante Maria Maddalena, Lucia, Caterina e dai santi Domenico e
Vincenzo. Marchese dice che ebbe modo di vedere personalmente quest’ultima
opera e la apprezzò molto in quanto trovò la maniera di suor Aurelia molto
simile a quella di fra Bartolomeo. Marchese la descrive così: “la Vergine Maria
siede su un piedistallo posto su una gradinata, indossa un abito ricco di
pieghe e un velo che le copre il capo. Sul suo grembo siede il piccolo Gesù
Bambino rappresentato nudo nell’atto di benedire San Domenico che gli bacia il
piedino. Il santo è posto a destra del piedistallo e la parte inferiore del suo
corpo è nascosta dalla figura intera di Santa Caterina che tiene in mano la
palma del martirio mentre ai suoi piedi vi è un pezzo di ruota con le punte di
ferro. Sul lato sinistro simmetricamente a San Domenico c’è San Vincenzo. Anche
lui è visibile solo nella parte superiore in quanto la parte inferiore del suo
corpo è nascosta dalla figura intera di Santa Maria Maddalena che tiene nella
mano destra il vaso con il prezioso balsamo e nella mano sinistra un libro. Ai
piedi del trono nel mezzo del primo gradino vi è un angioletto che suona il
liuto”.
A
suor Aurelia si deve anche una tavola dipinta per la cappella di famiglia in
San Lazzaro di Camaiore raffigurante ancora una volta la Vergine Maria
circondata dai santi. La Vergine Maria tiene seduto sul grembo il piccolo Gesù
Bambino il quale porge a Santa Caterina da Siena il suo anello di sposa alla
presenza dei Santi Maurizio, Vincenzo, Lucia, Lazzaro e Carlo ed è datata al
1622. Su questa tavola in realtà suor Aurelia non aveva posto il suo nome. Fu
una nipote della pittrice, che ritenendo che quell’opera meritasse di essere
ricordata dai posteri, nel 1729 vi fece affiggere un’iscrizione in latino per
ricordare il nome e la virtuosità di questa suora pittrice.
Lucrina Fetti: la
suora ritrattista
Giustina
Fetti nacque a Roma nel 1590 da una famiglia di artisti, infatti suo padre
Pietro Fetti possedeva una rinomata bottega di produzione artistica mentre suo
fratello era il pittore Domenico Fetti. Dunque anche Giustina come molte altre
figlie di artisti ricevette la sua prima formazione artistica in ambito
familiare. Nel 1614 Giustina si trasferì a Mantova con tutta la sua famiglia in
quanto il fratello Domenico era stato nominato dal duca Ferdinando Gonzaga come
pittore ufficiale della sua corte. Ferdinando aveva incontrato Domenico a Roma
prima di diventare duca di Mantova e ne aveva ammirato molto l’opera, così
quando rinunciò al rango di cardinale per diventare signore di Mantova e
Monferrato come prima cosa decise di nominarlo pittore ufficiale della corte
dei Gonzaga. Ferdinando però grande appassionato di arte non notò solo il
talento di Domenico, ma notò anche quello della sorella Giustina al punto tale
che fu proprio lui a pagarle la dote spirituale di 150 scudi per consentirle
l’ingresso nel prestigioso convento mantovano di Sant’Orsola fondato nel 1599 per volere della
duchessa Margherita Gonzaga d’Este.
All’interno
di questo convento Giustina ˗ che aveva assunto il nome di suor Lucrina ˗ trovò
protezione ed incoraggiamento e uno sbocco per le sue capacità artistiche.
Infatti si dedicò alla pittura per tutta la sua vita dipingendo non solo per il
monastero di Sant’Orsola ma anche per altri monasteri della città di Mantova
come ci viene riportato dal cronista suo contemporaneo Giovanni Baglione nella
sua opera Le Vite de’ pittori, scultori,
architetti del 1642.
Come le altre suore artiste anche suor Lucrina con la sua arte contribuì in
maniera determinante alle finanze del monastero che dopo la morte della
duchessa stava attraversando un brutta crisi finanziaria. A lei si devono
sia dipinti a soggetto religioso sia ritratti. Tra i dipinti a soggetto
religioso possiamo ricordare la Deposizione
di Cristo, l’Adorazione dei pastori
e l’Orazione nell’orto che prima
della soppressione del convento erano conservati nella chiesa interna del
convento. Queste tre opere sono citate da Giovanni Cadioli nella sua opera Descrizione delle pitture, sculture e
architetture, il quale apprezzava in modo particolare la Deposizione e
l’Adorazione poste rispettivamente a sinistra e a destra dell’altare centrale. Della prima lodò gli
angioletti ritratti sulle nuvole, della seconda la singolare tenerezza con cui
la Fetti rappresentò la Vergine, la nobile vivacità del bambino e la rustica
semplicità dei pastori. Questi tre dipinti insieme con l’Annunciazione, la Coronazione
di spine, l’Adorazione dei Magi e
la Visitazione facevano parte di una
serie di raffigurazioni della vita e della passione di Cristo dipinti da suor
Lucrina. Tutti questi – esclusa la Deposizione – sono firmati e datati “Suor Lucrina Fetti Romana Fecit Sant’Orsola
1629” e alcuni di loro sono ancora conservati a Mantova, ad esempio l’Annunciazione e la Coronazione di spine sono conservate nell’Oratorio di san Camillo
dell’ospedale civile di Mantova, l’Adorazione
dei Magi e la Deposizione sono
conservati all’Ospedale civile di Mantova, l’Orazione
nell’orto e la Visitazione invece
sono conservate in collezioni private sempre a Mantova. Sempre il Cadioli nella
sua opera ci dice che nella chiesa di sant’Orsola erano custoditi altri due
dipinti di Lucrina ovvero la Santa Maria Maddalena
(oggi conservata nella chiesa di San Martino) e la Santa Margherita, i quali a sua detta furono però ritoccati dal
fratello. Nella collezione Strinati di Roma è custodita un’altra opera di
Lucrina la Santa Barbara anch’essa
secondo gli studiosi ritoccata dal fratello.
Come
si è già detto suor Lucrina fu anche abile ritrattista infatti a lei si devono
diversi ritratti che hanno come protagoniste alcune donne della famiglia
Gonzaga che per diverse ragioni trascorsero un certo periodo di tempo nel
convento di Sant’Orsola. Alla sua mano vanno ricondotti due ritratti della duchessa Margherita Gonzaga, un ritratto
dell’imperatrice Eleonora I Gonzaga,
un ritratto di Caterina de Medici
moglie di Ferdinando Gonzaga ˗ e lontana parente della più nota Caterina Medici
di Francia ˗ due ritratti di Eleonora II
Gonzaga e uno di Maria Gonzaga. I
due ritratti della duchessa Margherita sono firmati ma non datati ma molto
probabilmente furono eseguiti fra il 1614 e il 1618 e cioè nel periodo in cui
le due avevano vissuto insieme in convento. In uno la duchessa è ritratta a
mezza figura, nell’altro invece è ritratta a figura intera con indosso un abito
a metà fra il claustrale e il principesco. Il Ritratto di Eleonora I Gonzaga invece è
l’unico ad essere sia firmato che datato. Sul retro infatti vi è un’iscrizione
che dice: “Suor Lucrina Fetti romana
fecit in Sant’Orsola 1622”. Si tratta certamente di un ritratto nuziale
visto che fu eseguito nello stesso anno in cui Eleonora andò in sposa
all’imperatore Ferdinando II. Eleonora era la nipote di Margherita e aveva
vissuto nel convento di Sant’Orsola dall’età di dieci anni. Di Eleonora II
pronipote di Margherita suor Lucrina realizzò ˗ come si è appena detto ˗ due
ritratti: uno nuziale e l’altro in veste di imperatrice che purtroppo è andato
perduto. Come Eleonora I, anche Eleonora II era stata allevata ed educata
all’interno del convento di Sant’Orsola fino al matrimonio con l’imperatore
Ferdinando III nel 1651. Stando ad Intra furono entrambi eseguiti nel
1651.
Il
ritratto di Caterina de’ Medici fu menzionato per la prima volta
nell’inventario 1786 ma era privo di attribuzione ed era erroneamente
intitolato Sant’Elena Imperatrice. Il
ritratto fu attribuito a suor Lucrina per la prima volta a metà del Novecento
dallo storico dell’arte Ozzòla ed è ora riconosciuto come sua opera. Per
spiegare questo titolo erroneo Pamela Askew ha proposto un interessante
ipotesi: ha sostenuto che il quadro si intitolava in quel modo perché forse
rappresentava Caterina de’ Medici Gonzaga nelle vesti di Sant’ Elena alla quale
lei era molto devota. Caterina si era sposata con il duca Ferdinando nel 1617,
dopo la morte del marito nel 1626 aveva vissuto nel convento di Sant’Orsola per
qualche mese. è dunque probabile che fu proprio in quel periodo ˗ prima
Caterina facesse ritorno a Firenze ˗ che suor Lucrina ne eseguì il ritratto.
Tutti
questi ritratti oggi sono conservati nel Palazzo Ducale di Mantova ad eccezione
di quello di Maria ˗ di cui non si hanno informazioni ˗ e di quello di Eleonora
II in veste di imperatrice che sono andati entrambi perduti.
Nel
realizzare i suoi ritratti la pittrice si rifece alle regole che vigevano
all’epoca: sfondo formale ed elegante, postura dei soggetti a tre quarti, abiti
sfarzosi e dettagliati, gioielli preziosi e soprattutto espressioni realistiche
che però non dovevano implicare un approfondimento psicologico.
Orsola Maddalena Caccia: la suora pittrice di Moncalvo
Teodora Caccia
nacque a Moncalvo nel 1596 ed era la figlia del celebre pittore Guglielmo
Caccia meglio noto come il Moncalvo e nipote del pittore Ambrogio Oliva.
Cominciò l’apprendistato nella bottega paterna nel 1611 collaborando solo in
maniera marginale alle sue opere, eseguiva infatti solo piccoli dettagli
secondari. La collaborazione vera e propria ebbe inizio nel 1615 e proseguì
fino al 1620 cioè fino alla sua entrata nel convento delle monache orsoline di
Bianzè dove assunse il nome di suor Orsola. Suor Orsola rimase in questo
convento fino al 1625. Infatti in quello stesso anno fece ritorno a Moncalvo
dove suo padre Guglielmo aveva finanziato la costruzione di un convento per
ospitare lei e le altre sue figlie anche loro monache orsoline sempre nel convento
di Bianzè.
Guglielmo era molto malato e ormai prossimo alla morte e voleva che tutte loro
stessero vicino a lui in quel momento e soprattutto voleva che Orsola Maddalena
e sua sorella Francesca, anch’essa pittrice, assumessero la guida della sua bottega
dopo la sua morte. Infatti nel suo ultimo testamento redatto l’8 novembre del
1625, cinque giorni prima di morire, Orsola e Francesca vennero nominate
usufruttuarie di tutto il suo materiale da lavoro: tele, bozzetti, disegni, colori
e tutti gli strumenti per dipingere e che loro avrebbero potuto usare fino alla
loro morte. Dopo di che tutto sarebbe tornato nelle mani dell’unico erede
universale suo figlio Gerolamo e la sua famiglia. Fu solo dopo la morte di
Guglielmo che Orsola, pur mantenendosi fedele allo stile paterno, cominciò ad
acquisire una propria autonomia stilistica realizzando tantissime opere per
committenze reali come i Savoia, per famiglie nobili come i Natta e per diversi
ordini religiosi come i francescani.
Una delle prime
opere che Orsola eseguì dopo la morte del padre è stato il San Luca
nello studio, proveniente
dalla sacrestia della chiesa di san Francesco a Moncalvo, il santo infatti
sembra essere un ritratto-omaggio a lui. L’opera inoltre mostra vari oggetti
legati alla famiglia Caccia quali: i libri dotti della collezione di famiglia
utili per trarre ispirazione e il dipinto della Madonna col Bambino che
tante volte Orsola Maddalena e sua sorella Francesca avrebbero riprodotto. San
Luca è rappresentato mentre ˗ osservato da un cardellino con il petto rosso ˗
sta scolpendo una scultura. Tutto intorno sparse nello studio vi sono rose
bianche e rosa pallido. Questi elementi di natura morta da ora in avanti si
ritroveranno spesso nei margini delle sue composizione come segno distintivo e
quasi a mò di firma, oltre che diventare soggetti autonomi di splendide nature
morte. Un altro elemento caratteristico di Orsola presente in alcuni dei suoi
dipinti era la cura per il dettaglio e la raffinata esecuzione degli abiti dei
suoi soggetti femminili, tra i vari esempi si possono citare la Nascita del Battista oppure Santa Margherita.
La Nascita del Battista è collocata
sull’omonimo altare nella chiesa del monastero di Sant’Orsola di Moncalvo. La
scena ˗ ambientata nella camera da letto di Elisabetta ˗ è affollata da un
tripudio di donne che indossano vesti ricchissime i cui ori e pizzi sono stati
resi con abilità di pennello. Nella parte alta della composizione da un lato vi
è un ampio letto a baldacchino su cui Elisabetta adagiata riceve le prime cure
dopo il parto, dall’altro lato un po’ più indietro si vedono invece due uomini
e Zaccaria che stanno discutendo sul nome da dare al bambino. Su di loro fra
uno squarcio di nuvola si intravede un angioletto con un cartiglio su cui è
riportata una scritta relativa a San Giovannino, il quale è rappresentato in
primo piano in braccio ad una donna che lo porge alla Vergine Maria che sta
preparando le fasce in cui avvolgerlo. La composizione è raffinata e ricca di
minuziosi dettagli come gli oramai immancabili esempi di natura morta.
Il dipinto di Santa Margherita è conservato nel
Santuario di Crea e mostra la santa in primo piano la quale appare onirica e
virtuosistica e sembra fare quasi un passo di danza. La sua straordinaria
grazia è arricchita ulteriormente da alcuni dettagli del vestiario infatti
indossa una ricca zimarra ornata di cuciture di gigli d’oro. Dietro di lei
avvolta da uno squarcio di luce dorata si vede una grossa croce su cui si
poggia la colomba dello Spirito Santo invece dall’altro lato vi è un grosso
drago che simboleggia il demonio. Il drago è rappresentato in una forma un po’
bizzarra: le narici sono fumanti tutto intorno è avvolto di serpi e la lingua
fuoriesce dalle rosse fauci spalancate che fanno spiccare le zanne nere. Con i
suoi poderosi artigli afferra la fanciulla di spalle che però lo allontana con
la mano volgendo lo sguardo verso la grande croce.
Sono numerosissime le opere eseguite
da Orsola nel corso della sua carriera ma sono molto poche quelle datate e
firmate una di esse è Matrimonio mistico
della Beata Osanna Andreasi datato al 1648. Il Matrimonio mistico della Beata Osanna Andreasi fu commissionato dal
vescovo di Casale Monferrato, Scipione Agnelli. L’opera è oggi conservata nel
Museo Diocesano Francesco Gonzaga di Mantova anche se un tempo si trovava nella
chiesa dell’Immacolata Concezione di Carbonarola. In questa elegante pala ˗ danneggiata
nella parte inferiore durante un’alluvione e poi restaurata sotto la direzione
di Augusto Morari presso la Scuola Laboratorio di Restauro degli Istituti Santa
Paola di Mantova ˗ ritroviamo altri elementi di natura morta come la splendida
cascata di fiori variopinti che va ad impreziosire la scena coronata da putti
musicanti. Questo dipinto sembra essere una sorta di “testamento pittorico” dove
l’artista ha voluto dar sfoggio delle sue abilità comprese quelle
paesaggistiche con la veduta del borgo ˗ probabilmente riferibile a quello di
Carbonarola ˗ che era il luogo in cui l’opera si trovava in origine. Suor Orsola Maddalena Caccia è anche
molto nota per le sue nature morte. Oltre a ritrovarle come elementi decorativi
nei suoi quadri a soggetto religioso le ritroviamo anche come soggetti autonomi
in circa una decina di suoi quadri. Si tratta prevalentemente di nature morte
floreali belle e toccanti e dagli accostamenti cromatici sorprendenti a cui
spesso aggiunge degli animali come gli uccellini. Le sue nature morte non
rivestivano solo un carattere decorativo, infatti come ci dice lo storico
Alberto Cottino, oggi non ci sono più dubbi sul fatto che esse fossero create
appositamente come metafore sacre portatrici di precisi significati simbolici.
Nelle sue nature morte floreali, dunque Orsola Maddalena raccontava tutta la
sua devozione religiosa attraverso il simbolismo dei fiori. In Italia questa
sua produzione rappresentava un unicum nel suo genere in quanto qui la natura
morta era considerata semplicemente un decoro naturalistico o un simbolo della
caducità terrena. Con questo genere Orsola Maddalena trovò una sua autonomia
artistica in quanto tale iconografia era assolutamente estranea a suo padre
Guglielmo. Tra di esse ricordiamo i tre vasi
di fiori del Municipio di Moncalvo ˗ scoperti nel 1964 ed eredità del
vecchio convento delle Orsoline ˗ una Natura
morta con melone conservata a Firenze e quattro tele di collezione privata.
Le tre nature morte del Municipio di Moncalvo, di dimensioni contenute e
formato verticale, raffigurano eleganti vasi cesellati di foggia manierista
dove si notano bizzarri profili antropomorfi e animaleschi. Di sorprendente
bellezza sono poi altre due tavole la cui attribuzione ad Orsola Maddalena
Caccia è una questione ancora piuttosto problematica per gli studiosi.Si
tratta della piccola tavola con il Cardellino
con ciliegie e pere, conservata nel museo civico di Ala Punzona a Cremona,
in cui ancora una volta troviamo elementi legati Gesù Cristo, e dell’Alzatina in ceramica con frutta e pernice
rossa conservata in una collezione privata e che è stata attribuita alla
pittrice da Franco Moro. In quest’ultima opera la pittrice denota una
straordinaria attenzione naturalistica senza però dimenticare l’elemento
simbolico e naturalistico del genere cioè il rimando alla Vanitas. Il piano di
appoggio e l’alzata mostrano una marcata verticalità che è una caratteristica
peculiare dell’artista a cui poi si vanno a combinare elementi che poi
rimandano direttamente alla modalità caravaggesca. Anche in questa
natura morta ritroviamo riferimenti marcatamente cristologici, infatti la
pernice rossa rappresenta Gesù che beccando un frutto sconfigge il peccato
originale. I restanti frutti: le prugne e i fichi alludono invece al Sacrificio e
alla Passione di Cristo. Non ci sono
dubbi sul fatto che nelle sue nature morte Orsola Maddalena infuse una sua
particolare visione, trasformandole “in vere e proprie pagine di Sacre
Scritture”.
Isabella Piccini:
la suora che incideva
Elisabetta
Piccini nacque a Venezia nel 1644, suo padre Giacomo Piccini – detto Zoan – era
un noto incisore e insieme con il fratello Guglielmo possedeva una rinomata
bottega di incisione a Venezia in cui riproducevano i quadri di artisti come
Rubens e Tiziano oltre che realizzare illustrazioni per tipografi ed editori. Dunque sin da bambina Elisabetta fu
circondata da lastre, bulini, inchiostri e libri illustrati e sotto la guida di
suo padre imparò ad incidere in maniera profonda le lastre di rame. L’incisione
profonda delle lastre di rame consentiva di poter trarre un maggior numero di copie
e questa era una cosa molto apprezzata dagli editori. Purtroppo nel 1660 quando
Elisabetta aveva solo sedici anni perse suo padre ma grazie a lui aveva
imparato un mestiere che a soli 19 anni le consentì di diventare imprenditrice
di se stessa. Il 20 novembre 1663, infatti presentò al Doge una domanda in cui
gli chiedeva di poter far stampare pubblicamente dei disegni che lei aveva
realizzato nei tre anni successivi alla morte del padre e che aveva inciso
mettendo in pratiche le regole che lui le aveva insegnato. Elisabetta sperava che dalla pubblicazione di
queste stampe non solo avrebbe potuto guadagnare qualcosa ma avrebbe potuto
onorare la memoria di suo padre che era stato incisore molto apprezzato. Il 1
dicembre 1663 il senato le accordò il privilegio che aveva richiesto.
Elisabetta
era brava e le sue incisioni erano molto richieste ma purtroppo erano pagate
poco, dunque per esercitare questa sua passione ad Elisabetta ˗ che era una
fanciulla non abbiente ˗ non restò altro che entrare in convento.
Nel 1666 a
ventidue anni entrò nel convento francescano di Santa Croce a Venezia assumendo
il nome di suor Isabella. Fu proprio fra quelle mura che costruì la sua fortuna
artistica portando avanti una lunga, intensa e feconda attività. Suor Isabella
infatti morì novantenne e continuò ad incidere quasi fino alla fine della sua
vita, dunque nel corso della sua lunga attività incise soggetti di vario
genere. Essendo una suora chiaramente la maggior parte di essi erano religiosi
ed erano impiegati per Breviari, Messali, Vite dei Santi e Libri di disciplina
ascetica. A lei comunque si devono anche ritratti incisi di duchi e granduchi,
procuratori e condottieri oltre che stampe divulgative di genere profano,
soggetti allegorici ed illustrazioni di manuali. Tra le sue tante incisioni,
ricordiamo i ritratti incisi di tre donne importanti: il ritratto della contessa Eleonora Luigia, il ritratto della duchessa Aurelia Spinola e il ritratto di Elena Piscopia Cornaro.
Il ritratto inciso di Eleonora Luigia ˗ contessa
di Sinzerdorf ˗ lo ritroviamo nell’antiporta delle sue Memorie illustri e divote che fu pubblicato da Bernardo Lodoli con
il titolo di Raggi della divina grazia nel
1703 ˗ 04. La contessa è raffigurata con tono magniloquente è infatti ornata
con tutti gli attributi della condizione aristocratica a cui apparteneva, come
a voler dare l’addio definitivo a quel mondo aristocratico pieno di agi e di
onori a cui era stata disposta a rinunciare per la sua fede. La contessa
infatti decise di monacarsi entrando nel convento delle cappuccine di Santa
Maria del Pianto a Venezia dove assunse il nome di suor Maria Eletta Antonia.
Per questo modello così altolocato, la Piccini si rifece al raffinato stile
della sua conterranea Rosalba Carriera.
Il ritratto inciso di Aurelia Spinola ˗ duchessa
di Valentinois ˗ decora l’antiporta dell’Heroina
Intrepida, biografia romanzata che Francesco Fulvio Frugoni dedicò a questa
nobil donna che aveva condizionato la sua vita. Fu lo stesso Frugoni a
commissionare a suor Isabella l’incisione ma mentre la sua descrizione è più
ridondante, il ritratto inciso di suor Isabella è più incisivo e chiaro.
Nonostante tutto il Frugoni si complimentò con lei per la sua bravura.
Il ritratto inciso di Elena Piscopia Cornaro ˗ prima donna italiana laureata ˗ è andato ad illustrare una delle tante
biografie dedicate a questa donna. Anche in questo caso il ritratto inciso
fatto dalla Piccini appare realistico ed incisivo.
A suor Isabella si deve anche il Ritratto inciso di Robert Boyle che compare sull’antiporta dell’opera, Nova
experimenta physicomechanica de vi aeris elastica et ejusdem effectibus,
facta maxima partem in nova
machina pneumatica, inclusa nella versione latina delle opere di
Boyle pubblicata in Italia nel 1697. Il soggetto è inserito in un ovale
contornato da rami d’alloro con bacche trattenuti da nastri annodati. L’ovale
poggia su un piedistallo con la scritta “Robertvs
Boyle Nobilis Anglvs” e la firma “Suor
Isabella Piccini Sculp.” Il confronto con altre incisioni rivela che Suor
Isabella aveva riprodotto quella di François Diodati che appare sul
frontespizio dell’Opera Varia di Boyle pubblicata a Ginevra nel 1680. A
sua volta lo stesso Diodati˗ celebre incisore svizzero ˗ si era ispirato a
quella di William Faithorne autore anche di un disegno su pergamena che ritrae
Boyle all’età di 35 anni.
Tra
le tante incisioni a soggetto religioso che la Piccini eseguì si possono
ricordare un ritratto inciso di Santa
Teresa d’Avila e un’incisione
raffigurante Santa Barbara. Il ritratto
inciso di Teresa d’Avila, suor Isabella lo realizzò per il
frontespizio dell’edizione seicentesca dell’opera della santa. Avvisi Spirituali della Gloriosa madre Santa Teresa di Gesù.
L’incisione è piuttosto semplice, la santa è infatti seduta alla scrivania
intenta a scrivere uno dei suoi libri.
Ben più articolata è l’incisione con Santa Barbara. La Santa ˗ che dal XV secolo divenne protettrice degli artiglieri ˗ è
rappresentata con un libro e spada in mano mentre dall'alto un angelo scende a
incoronarla. Sullo sfondo si vede la torre nella quale ˗ secondo la tradizione
˗ la Santa sarebbe stata rinchiusa per punizione dal padre poiché convertitasi
alla religione cristiana. Ai suoi piedi è posto un cannone che forse allude al
fragore che accompagnò il fulmine dal quale il padre della Santa venne bruciato
colpevole di aver fatto decapitare la figlia. Le spoglie di Barbara, vissuta
nel III o nel IV secolo d.C. vennero portate dall'Egitto a Costantinopoli e
infine a Venezia nel XI secolo. Se la figura della Santa è abbastanza
convenzionale e non è priva di qualche incertezza di maggiore interesse è il ricco
fregio che incornicia la scena e che deriva quanto a tipologia dai manoscritti
miniati rinascimentali italiani: in esso figurano entro medaglioni, il leone di
Venezia, alcune città e una scena di assalto a una fortezza non identificabile.
Anche suor Isabella
con le sue numerose incisioni contribuì al mantenimento del convento a cui
stando al Moschini elargiva ben 200 ducati annui.
Conclusione
Ci
sono voluti secoli prima che alcune di queste straordinarie suore pittrice
uscissero dall’oblio in cui erano state relegate ad esempio suor Plautilla deve
la sua rivalutazione alla scrittrice e filantropa americana Jane Fortune la
quale ha dedicato a lei e alle tante
figure dimenticate, ma indimenticabili, il famoso libro Invisible Women in cui ha trattato anche
di altre pittrici. Alla Fortune si deve anche il merito di aver fondato l’AWA
una fondazione senza scopo di lucro il cui obbiettivo è quello di finanziare
progetti che includono: restauro, conservazione e mantenimento delle opere create
da artiste donne fra cui naturalmente quelle di suor Plautilla.
Orsola
Maddalena Caccia invece di recente è stata protagonista di tre interessanti
mostre. La più importante è stata quella tenutasi nel Castello di Miradolo a
San Secondo di Pinerolo intitolata “Orsola Maddalena Caccia.
Storia singolare di una monaca pittrice” che l’ha vista
protagonista con ben oltre settanta delle sue opere allo scopo di ricostruire
attraverso di loro il suo percorso cronologico: dalle prime prove di natura
prevalentemente religiosa eseguite al fianco del padre fino ad arrivare alle
riuscite rivisitazioni della sua produzione più tarda, comprese imponenti pale
d’altare di straordinaria bellezza. Al Museo Accorsi di Torino invece si è
tenuta la mostra intitolata Il Genio e la
Grazia. La donna nella pittura italiana del Sei e Settecento in cui accanto
alle opere di artisti come Reni e Guercino sono state esposte anche le opere di
ventitré pittrici fra cui per l’appunto due nature morte di Orsola. Ma la sua
fama si è spinta anche oltre i confini europei con la mostra Picturing Mary: Woman, Mother, Idea tenutasi
nelle sale del National museum of Women in Arts di Washington in cui è stato
esposto il suo splendido San Luca nello
studio. Portando avanti lo studio, il restauro e l’esposizione delle opere
di queste suore pittrici e delle artiste donne in generale si potrà continuare
ad arricchire il già ricco patrimonio artistico e culturale italiano.
NOTE
C. Lollobrigida, Di mano donnesca. Donne artiste dal XVI al
XX secolo, Roma, Andreina e Valneo Budai Editori s.r.l., 2012, p. 5.
Per la storia
completa della vita di Caterina Vigri e la nascita dei conventi di Ferrara e
Bologna, si veda Giovambattista Melloni,
“Atti o Memorie di Santa Caterina da
Bologna”, in Atti e Memorie degli
Uomini Illustri in Santità nati o morti in Bologna, Bologna, Tipografia di
Giuseppe Lucchesini, 1818, pp. 180 – 380.
L’episodio della visione della
notte di natale è divenuto in seguito un tema consolidato nel repertorio
iconografico di Caterina. Furono infatti diversi gli artisti che ritrassero
quel momento. Irene Graziani, “L’iconografia
di Caterina Vigri: dalla clausura alla città”, in Vita artistica nel monastero femminile. Exempla, a cura di V.
Fortunati, Bologna, Editrice Compositori, 2002, pp. 234- 236.
Per una lettura completa dei
miracoli e delle grazie di Santa Caterina si veda G.POMATA “Medicina delle monache. Pratiche terapeutiche nei monasteri femminili
di Bologna”, in I Monasteri femminili
come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco, Roma, Edizione di storia
e Letteratura, 2005, pp. 344–349. Si veda anche: G. MELLONI, “Atti o Memorie di Santa Caterina da Bologna”, in Atti e Memorie degli Uomini Illustri in
Santità nati o morti in Bologna, Bologna, Tipografia di Giuseppe
Lucchesini, 1818, pp. 343 – 363.
Suor Petronilla è
nota per aver scritto una biografia su Girolamo Savonarola, rimasta però
manoscritta e conservata presso a Firenze presso il signor Pietro Bigazzi. Tale
biografia è stata in parte usata da padre Serafino Razzi per realizzarne una
simile. V. Marchese, Memorie dei più
insigni pittori, scultori e architetti domenicani, Firenze, Felice le Monnier, 1854,
capitolo decimo quinto, pp. 343-344.
G.Vasari.Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e
architettori, Firenze, Edizione Giuntina, 1568, p. 404.
V. Marchese, Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani, Firenze, Felice le Monnier, 1854,
capitolo decimo quinto, pp.
347-348.
Per la storia del
restauro delle lunette si veda Rossella Lari, “La fortuna del San Salvi. Recupero ed Esposizione”, in Invisible women. Forgotten Artists of Florence, a
cura di J. Fortune, Prato, The Florentine Press, 2010, pp. 180-182. Per la
storia completa del restauro della Deposizione si veda Rossella Lari and
Magnolia Scudieri, “The Restoration
report of Plautilla Nelli’s Lamentation”, in Plautilla Nelli (1524 – 1588) the painter – prioress of Rinaissance
Florence, Edited by Jonathan K. Nelson, Firenze, La Marina Editori, 2008,
pp. 66-71.
Per la storia completa delle sue
discepole si veda Catherine Turrill, “Nuns’
stories: Plautilla Nelli, madre pittora, and her compagne, in the convent of
Santa Caterina da Siena”, in Plautilla
Nelli (1524–1588) the painter - prioress of
Rinaissance Florence”, Edited by Jonathan K. Nelson, Firenze, La
Marina Editori, 2008, pp. 14-19.
Vincenzo Marchese, “Memorie dei più insigni pittori, scultori e
architetti domenicani”, Firenze, Felice le Monnier, 1854, capitolo decimo
quinto, pp. 272-273.
G. Baglione, Vita di Ludovico Civoli, pittore in Le Vite de pittori scultori et architetti. Dal pontificato di Gregorio
XIII del 1572. In fino a’ tempi di Papa Urbano VIII nel 1642, Roma
Stamperia di Andrea Fei, 1642, p. 155.
G. Cadioli. Vita di Ludovico Civoli, pittore in Sant’Orsola, Chiesa, e convento delle monache
francescane, dette le Orsoline, in Descrizione
delle pitture, sculture e architetture,
Mantova 1763, pp. 71-76.
Il monastero sopravvisse
fino al 1802 cioè fino a quando non fu soppresso per decreto napoleonico. A.
GHIRARDI. “Dipingere in lode del Cielo:
suor Orsola Maddalena Caccia e la vocazione artistica delle orsoline di
Moncalvo”, in Vita artistica nel monastero femminile. Exempla, a cura
di V. Fortunati, Bologna, Editrice Compositori, 2002, pp. 116.
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pittore in Le Vite de pittori
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suor Orsola Maddalena Caccia e la vocazione artistica delle orsoline di
Moncalvo”, in Vita artistica nel monastero femminile. Exempla, a cura
di V. Fortunati, Bologna, Editrice Compositori, 2002, pp. 115-129.
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Graziani, “L’iconografia di Caterina
Vigri: dalla clausura alla città”, in
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Restoration report of Plautilla Nelli’s Lamentation”, in Plautilla Nelli (1524 – 1588) the painter –
prioress of Rinaissance Florence, Edited by Jonathan K. Nelson, Firenze, La
Marina Editori, 2008, pp. 66-71.
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Rossella
Lari, “La fortuna del San Salvi. Recupero ed
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Florence, a cura di J. Fortune,
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Lollobrigida, Di mano donnesca, donne artiste dal XVI al XIX secolo, Roma,
Editori Andreina & Valneo Budai, 2012.
Marchese 1854
Vincenzo
Marchese, “Memorie dei più insigni
pittori, scultori e architetti domenicani”, Firenze, Felice le Monnier,
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Melloni, “Atti o Memorie di Santa
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Tipografia di Giuseppe Lucchesini, 1818,
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Pomata, “Medicina delle monache. Pratiche
terapeutiche nei monasteri femminili di Bologna”, in I Monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco,
Roma, Edizione di storia e Letteratura, 2005, pp. 331-363.
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dominican avdience of Plautilla Nelli’s Last Supper”. In Plautilla Nelli (1524 – 1588) the painter –
prioress of Rinaissance Florence,
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Catherine Turrill, “Nuns’
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Santa Caterina da Siena”, in Plautilla
Nelli (1524–1588) the painter - prioress of Rinaissance Florence”, Edited by Jonathan
K. Nelson, Firenze, La Marina Editori, 2008, pp. 9-19.
Urbani 1996
Silvia
Urbani, “Sul ruolo della donna “incisore”
nella storia del libro illustrato”, in Donna, disciplina, creanza cristiana dal XV al XVII secolo, a cura di
Gabriella Zarri, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1996, pp. 370-384.
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Giorgio Vasari, Le vite de’ più
eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, Edizione Giuntina,
1568.
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