Quando
si parla di architettura giapponese è piuttosto frequente pensare a dei
luoghi comuni che, soprattutto per un occidentale, inducono spesso ad
associazioni scontate che albergano nell’immaginario generale della cultura
orientale, come la casa del tè, per esempio, o dei più noti santuari
scintoisti. Quello che tuttavia non si prende in considerazione è che,
specialmente in campo architettonico, il Giappone non è affatto rimasto
reticente ai richiami ed agli sviluppi artistici europei che dai primi anni del
Novecento anche l’Oriente ha iniziato a guardare con particolare attenzione.
Con questo non bisogna certo sottovalutare la potenza e soprattutto la
profondità di una cultura così pregna di significati come quella orientale, e
più specificamente giapponese, ma è necessario analizzare anche l’altra faccia
della medaglia, soprattutto se si parla di esiti contemporanei e se si
menzionano maestri come Arata Isozaki.
Il
MOCA, Museo d’arte contemporanea di Nagi (1991-'94) situato sul territorio
della prefettura di Okayama in Giappone e comprendente la biblioteca
municipale, è l’esempio di come il linguaggio artistico alle volte possa subire
un’ibridazione tale da sfondare i confini della rigida aderenza alla tradizione
e consentire agli artisti di partecipare ad un processo di
internazionalizzazione che non permetta più di rubricare le espressioni sotto
etichette geografiche, per così dire, bensì di abbracciare nuove influenze,
nuove idee, nuovi mondi, benché lontani. Arata Isozaki, autore dello spazio
dedicato all’arte contemporanea appena citato, insieme a Shichi Fujie e Ka
Ohno, ha progettato una struttura che si fa simbolo di questo incrocio di
culture, della compenetrazione tra un approccio razionalista all’architettura
derivato da Le Corbusier ed uno invece più fedelmente autoctono legato alla
tradizione metabolista, tanto che egli stesso afferma: «Devo molto all'Occidente quando si arriva alla forma dell'architettura,
o alla struttura e alla tecnologia. Perciò credo, nel mio caso, di avere
entrambi, l'Est e l'Ovest. Non è importante chiedersi come si incontrano, ma il
fatto che io abbia entrambe le culture».
Entrambe le culture sono i due poli che si
accostano e che consentono di guardare al Museo di Nagi come il prodotto di
un’architettura che può essere definita di terza generazione (anche se
non a pieno titolo), un’architettura cioè che, soprattutto a partire dagli anni
Novanta, dopo Modernismo e Postmodernismo, si fa carico delle nuove esperienze
della tecnologia e valuta la possibilità di creare sempre nuove forme. Sono
forme che sfidano la statica e che superano il capitolo ormai pienamente interiorizzato
del Decostruttivismo, forme che nei casi più noti creano strutture tanto
virtuosistiche e spettacolari da rendere i loro autori delle vere archistar,
capaci di fare delle loro architetture più un evento mediatico che una
struttura socialmente adibita.
Non è esattamente questo il caso di Arata Isozaki,
come può esserlo invece per personalità come Santiago Calatrava, Frank Gehry o
Zaha Hadid, solo per fare alcuni nomi, che reagiscono spudoratamente alla
costruzione modernista dei volumi, immersi come sono nell’orbita della Business
Art. Benché egli abbia ragionato sul concetto corrente della dissoluzione
della forma architettonica, il suo intento non è quello di dar vita a delle non
architetture, ma continua a riflettere, se pur in modo innovativo, sulle
conquiste storiche dell’architettura, mantenendosi legato alla sua formazione
accademica ed al Modernismo europeo.
Nonostante la teoria decostruttivista avanzata da
Jacques Derrida negli anni Ottanta abbia raccolto consensi anche in campi
diversi da quello filosofico, in primis in quello artistico ed
architettonico, Isozaki non si è mai consegnato al fascino tutto coevo di
dissacrare la geometria per il semplice gusto di farlo, confermando così un
indirizzo “mondano” dell’architettura come quello adottato da Randall Stout
nell’ampliamento dell’Art Gallery of Alberta (museo statunitense di cui si
parlerà in seguito). Egli ha invece conservato con fedeltà il suo legame agli
insegnamenti lasciati in eredità da Le Corbusier e Mis van der Rohe,
considerati come le pietre miliari di un Rinascimento architettonico
novecentesco, senza aderire tuttavia ad un perfezionismo albertiano nella
progettazione dei volumi, nonostante riveli una predilezione spiccata per i
solidi elementari come il cilindro e soprattutto il cubo, derivati
indubbiamente dallo studio di Étienne-Louis Boullée e Calude-Nicolas Ledoux.
Eppure Isozaki sembra essere un revenant alquanto raro nel panorama
architettonico, specie se si pensa al fatto che sia proprio un giapponese a
rivalutare gli insegnamenti europei, specie se si guarda all’indirizzo che
l’architettura ha preso nel XXI secolo ed ormai pienamente consolidato.
L’infatuazione per un modo di costruire che oggi potremmo definire “liquido”,
infatti, si fa sentire ovunque. Dalle grandi città a i centri meno altisonanti,
si può essere piuttosto certi di inciampare in un’architettura che tende a
superare il concetto della decostruzione dei solidi per rinnovare l’idea stessa
di progettazione architettonica, una progettazione che non ha più bisogno degli
assunti elementari della geometria, o meglio, li maschera dietro forme generate
dall’elaborazione informatica e dalla necessità di spettacolarizzazione, una
necessità che fa di un edificio qualcosa di molto simile ad una scultura in
grande scala che si impianta, più o meno prepotentemente, sul tessuto urbano.
La diffusione di questo genere di architettura, che
sembra impegnarsi a fondare un nuovo volto dello spazio e che così
indissolubilmente si lega alla contemplazione virtuale, va di pari passo alla
diffusione delle immagini che la ritraggono. Non è certo questo un dato
sorprendente visto l’uso smodato che oggi si fa delle immagini e della velocità
virale con la quale queste si diffondono.
Interessante notare che proprio sul web si
sia verificata una sovrapposizione tra il museo giapponese di Arata Isozaki e
l’Art Gallery of Alberta, precedentemente citata, dell’architetto statunitense
Randall Stout, morto appena un anno fa. Un errore piuttosto comune che ha fatto
del secondo museo una struttura che si identifica con quello asiatico e che
induce la ricerca on-line ad essere spesso luogo fallace in cui
l’affluenza continua ed inquantificabile di immagini non riesce a congiungersi
alle giuste informazioni.
Situata nella Churchill Square, nel cuore dell’Arts
District, l’Art Gallery of Alberta è senza dubbio un’architettura che, rispetto
a quella di cui ci siamo occupati sinora (che potremmo definire “classica”),
rappresenta con più coerenza il concetto di liquidità.
L’ingresso al museo canadese, infatti, nonostante
mantenga il suo impianto geometrico, viene sovrastato da un gioco curvilineo di
pareti in vetro e ferro che smentiscono l’approccio tradizionale
all’architettura e rientrano appieno in quella produzione di terza generazione
finalizzata a catturare lo stupore dell’osservatore e a rendere l’architettura
più un campo disegnativo che non strutturale. Centonovanta metri di nastro
d’acciaio si dipanano lungo l’edificio, creando giochi curvilinei che si
ispirano direttamente alla vicinanza con il fiume North Saskatchewan e
all’evanescente consistenza dell’Aurora Boreale. Fondata già nel 1924, la sua
collezione sente da tempo la necessità di poter essere contenuta all’interno di
una struttura che possa costituire il punto di forza del Canada occidentale,
soprattutto dopo che le acquisizioni degli anni Settanta e Ottanta, la rendono
sempre più ampia. Questo punto di forza arriva nel 2010, quando Randall Stout
realizza un ampliamento del precedente museo costruito da Don Bittorf nel 1969,
raddoppiando la sua superficie e rendendo la costruzione, oggi articolata in
tre piani, ecosostenibile e rispondente ai più ambiziosi standard museali.
Se è possibile ascrivere il capitolo del
Decostruttivismo all’influenza della filosofia derridaiana, che ha generato una
reazione ufficiale al Razionalismo a partire dalla mostra newyorkese del 1988
curata da Philip Jhonson su un nuovo modo di fare architettura (che fosse
lontano dalla geometria euclidea e dalle sue regole), è Zygmunt Bauman e le sue
teorie sulla “società liquida” che deve essere considerato portavoce delle
trasformazioni che il tempo e gli spazi a noi circostanti stanno subendo. Oggi
cioè non ci si limita solo a de-costruire e a rendere plastici i volumi, a
cercare una soluzione diversa dal Postmodernismo. Oggi l’architettura viene
intesa come una nuova visione di ambiente costruito, in cui le forme
pure ed instabili trovano una reale consistenza, in cui lo spazio
architettonico vive senza l’elemento geometrico, dove il caos di una linea
disarticolata e frammentata crea un nuovo canone estetico e, paradossalmente,
un nuovo mezzo per organizzare lo spazio e riflettere sul dinamismo del tempo.
Non che questo non fosse già presente negli anni Ottanta e nel filone che
prendeva a modello il Costruttivismo russo degli anni Venti per condurlo alla
sua estrema espressione, tuttavia c’è nell’operato degli architetti attivi
nell’ultimo quindicennio del XXI secolo la volontà di andare oltre, di dare
quasi per scontato il superamento del Razionalismo e la sua dissacrazione, di creare
e non solo di costruire. La citazione di Bauman e la sua teoria raccolta nella
pubblicazione del 2000, Modernità liquida,
in cui si guarda alla società
del presente come dissolta nel consumismo e nella frustrazione
derivante dalla
volontà del singolo di essere in contatto con l’intera produzione
industriale, è ovviamente relativa al campo sociologico, ma potrebbe
essere un punto di
partenza per spiegare lo sviluppo dell’architettura contemporanea e
capire più
a fondo la differenza che intercorre tra il museo di Arata Isozaki e
quello di
Randall Stout. Questo perché esattamente come la società, secondo
Bauman, sta
perdendo la solidità di ogni valore per seguire un flusso immateriale
di idee
di produzione, così l’architettura (e le forme di cui essa si serve)
sta
perdendo la solidità delle sue fondamenta per inseguire una
progettazione
utopistica e trasformarsi in un’architettura liquida. La museologia ha
raccolto
negli ultimi tempi i massimi esponenti di questo nuovo capitolo della
produzione architettonica, ponendo nuovi quesiti e soluzioni ai
problemi
relativi la forma ed il contenuto, il contenuto ed il contenitore, lo
spettatore e lo spazio.
Il museo giapponese in questione, terminato alla
metà degli anni Novanta, non può ancora essere un’espressione di architettura
liquida, che invece si trova compiuta nell’Art Gallery of Alberta, con i suoi
materiali trasparenti, la struttura penetrabile dalla visione, la forma
instabile e fluida.
Riferimenti piuttosto eterogenei però
caratterizzano la produzione di Arata Isozaki. Riferimenti che spiegano
senz’altro l’utilizzo del termine schizzo-eclettismo, da lui coniato, di
cui fa uso a partire dagli anni Ottanta e che trova una sua straordinaria
applicazione nella progettazione del Museo d’arte contemporanea di Nagi. In
essa egli manifesta un estremo rifiuto verso il romanticismo giapponese che
aveva connotato a lungo la produzione del maestro Kēnzo Tange,
con il quale inizia a collaborare non appena conseguita la laurea alla metà
degli anni Cinquanta, e che è un solido punto d’avvio per la sua carriera.
In Isozaki convive un’antinomia bizzarra, per cui
se da un lato si rende necessaria la smentita dell’esperienza modernista,
dall’altro è altrettanto necessario conoscerla e rifuggire di conseguenza dal
banale Giapponismo che rischia troppo spesso di canalizzarsi nel kitsch.
Ciò che infatti deve esser tenuto presente è che architetti come
Isozaki hanno
consolidato la loro formazione negli anni Sessanta, durante i quali in
Giappone
molto accesa è la critica verso l’occidentalizzazione delle tecniche e
dei
materiali di costruzione, del Capitalismo e della corruzione
dell’Oriente che sente il bisogno di tornare in contatto con le proprie
origini dopo un lungo
periodo, iniziato più o meno dagli anni Quaranta, in cui la
condivisione della
cultura europea si sta rendendo troppo compromettente. Proprio per
questa
ragione la nascita del gruppo dei Metabolisti costituisce negli anni
Sessanta
una reazione tanto apprezzata. La loro infatuazione per la tecnologia e
per la
progettazione delle città del futuro, attraverso forme organiche, avvia
un
processo tutto autoctono che si distacca nettamente dalle influenze
europee, verso
cui non si vuole avere più alcun debito.
Egli quindi non progetta a partire da un’idea
preconcetta o da uno stile, ogni opera costituisce un accadimento specifico in
grado di digerire vari linguaggi e rigettarli contemporaneamente, rendendo
impossibile identificare la sua attività in qualsiasi degli “ismi” a cui
facciamo solitamente (e forse erroneamente) ricorso per spiegare ed
interpretare il mondo circostante.
Altro punto che il Museo d’arte contemporanea di
Nagi solleva è sicuramente l’attenzione che rivolge alla tridimensionalità,
dovuta all’utilizzo dei solidi platonici e per quanto possa sembrare ovvio
quando si parla di architettura, non lo è affatto per la storia del Giappone.
La teoria del MA,
alla quale facciamo breve cenno per far capire la portata innovativa di
Isozaki, infatti, ha costituito a lungo un fondamento teorico alla costruzione
spaziale nell’area giapponese, che si scontra in gran parte con il linguaggio
utilizzato a Nagi. Esiste una parola chiave per interpretare il concetto del MA,
o meglio, un ideogramma che spiega il diverso modo di leggere l’architettura ed
il paesaggio circostanti, un modo di gran lunga diverso da quello occidentale.
Due segni raffiguranti una porta con all’interno una luna: è l’ideogramma che
fa riferimento alla concezione dello spazio giapponese, quando la luna può
esser vista attraverso uno shogi, la porta-finestra delle loro case.
L’estetica del MA, pertanto, parola che si accosta alla traduzione
letteraria di “intervallo”, indica sì quella porzione di spazio frontale e
bidimensionale racchiuso nella porta, ma sta ad indicare anche una porzione di
tempo, quello in cui appare la luna attraverso di essa, perché, come nota lo
stesso Arati Isozaki, “lo spazio era percepito solo in relazione allo scorrere
del tempo”.
Questo è tanto più vero se ci si rifà al modo in cui la cultura giapponese ha
percepito il cielo ed ha cercato il contatto con le sue divinità, rilevandolo
non come in Occidente in senso verticale, bensì in senso orizzontale. Questo
spiegherebbe anche il motivo per cui le architetture europee, soprattutto
religiose, hanno cercato il loro sviluppo verticalizzandosi e quelle orientali,
soprattutto giapponesi, hanno guardato al cielo considerandone la parte che si
adagia sulla linea dell’orizzonte, accendendo pertanto ad una condizione
metafisica in modo opposto a quello di un cristiano, ad esempio, che pregando
si rivolge verso l’alto.
Creare architetture in Giappone, dunque, voleva
significare più un allineamento di segni sul piano orizzontale che non una
costruzione spaziale vera e propria, intesa cioè nella sua concretezza formale
e nella sua funzionalità. Questo è naturalmente riscontrabile anche nella
produzione artistica, in cui la bidimensionalità della rappresentazione lascia
depositare tutto in superficie e niente in profondità.
Lo spazio viene individuato dal passaggio di un linea ed è privo di
un’alternanza di piani, sublimato nell’astrazione del vuoto, come se tutto
venga ridotto ad un intervallo spazio-temporale.
Partendo da questi assunti l’attività di Fujie, Isozaki, ed Ohno, si contrappone nettamente all’assetto
tradizionale della loro cultura come a quella che appartiene al linguaggio
dell’Art Gallery of Alberta, componendo un museo dal respiro razionalista
attraverso tre solidi, ognuno dei quali costituisce uno spazio espositivo: un
cubo, un cilindro ed una mezza luna. Al contempo però mantengono il richiamo
alla tradizione, perché simboli rispettivamente della terra, del sole e della
luna, con riferimento specifico alla natura e alla sua percezione sensoriale.
Di fatto la parte più interessante del museo, quella ovvero del cilindro, è
finalizzata a solleticare i sensi dello spettatore, immergendolo in uno spazio
irrorato di una forte luce e fintamente simmetrico, per cui tutto ciò che è in
basso risulta essere anche in alto e viceversa, arricchito centralmente di una
serie di altalene pendenti volte ad accentuare il carattere illusorio dello
spazio interno.
La creazione dello spazio interno è poi un’altra
delle tematiche a cui bisogna far cenno. Quando si parla di architettura si
deve tener presente che a lungo si è considerata come un genere d’arte in grado
solo di creare e non di rappresentare. Questo accadeva, come anche Giulio Carlo
Argan affermava, perché si sottintendeva continuamente al paragone con le altre
arti, pittura e scultura, che avevano come principio fondativo quello mimetico,
“e questo bastava per caricarla di falsi concetti: dall’architettura aderente
ai proprio bisogni come una scarpa al piede, all’architettura-musica e all’architettura-messaggio”.
Alla denuncia di questi pregiudizi si era dedicato Bruno Zevi, impegnato a far
leggere correttamente l’architettura contemporanea. Egli considerava lo spazio
internocome
un’istanza centrale della cultura architettonica moderna che si esprimeva in
particolar modo nell’urbanistica e che egli non considerava necessariamente
come uno spazio racchiuso in un perimetro. Spazio interno, in questo senso, sta
a significare uno spazio che si pone, o si crea, o si innesta con la forma ed
in essa soltanto trova la sua risoluzione, inducendo il suo spettatore a
crearvi una “zona d’esperienza”, dove la sua personalità non è smentita o passa
inosservata di fronte all’architettura che la ospita, ma, al contrario, essa ne
diventa quasi dipendente. Diventa ovverosia l’agire dell’uomo a confermare
l’esistenza e l’efficacia di uno spazio interno così come lo intendeva Zevi.
L’obiettivo degli architetti come Isozaki, dunque,
rimane quello di creare condizioni di vita piuttosto che condizioni di veduta o
di delimitazione perimetrale, e di individuare nelle forme dei valori umani
piuttosto che i simboli di idee eterne o di stravaganti vezzeggiamenti
creativi. Non è un caso, in conclusione, che il Museo d’arte contemporanea di
Nagi si inserisca con lucida attenzione nell’urbanistica della città e,
nonostante le ridotte dimensioni della struttura, il fatto che sia affiancato
dalla biblioteca municipale e che l’intero complesso si situi nel punto più
centrale della prefettura, conferma senza dubbio la volontà di far vivere
l’architettura come un’esperienza quotidiana, che parli ai suoi cittadini, che
sia, in definitiva, uno spazio interno alla loro città. In questo senso
Occidente ed Oriente non trovano ostacoli unificativi, in questo senso Arata
Isozaki si fa simbolo di un’inedita comunione tra culture diverse, tra
Razionalismo europeo e tradizione giapponese.
NOTE
BIBLIOGRAFIA
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Giulio
Carlo Argan, Progetto e Destino,
Milano, Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore, 1965
BAROCCHI 1992
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dell’arte in Italia – Tra Neo-Realismo ed anni Novanta, 1945-1990, Torino,
Einaudi, 1992
ISOZAKI 1995
Arata Isozaki, Opere e progetti, Milano, Electa, 1995
SARTEA 2010
Anna Sartea, Arata Isozaki, Milano, Hachette
fascicoli, 2010
Mostra internazionale
d’architettura 1966, Venezia
Mostra
internazionale di architettura: sensori del futuro: l’architetto come
sismografo, Milano, Electa, 1996
TANGE
2013
Kenzo
Tange, Kenzo Tange, Milano, Hachette,
2013
FREEMAN
2007
Michael
Freeman, New Zen: gli spazi della
cerimonia del tè nell’architettura giapponese contemporanea, Bologna,
Damiani, 2007
ZEVI
1972
Bruno
Zevi, Saper vedere l'architettura :
saggio sull'interpretazione spaziale dell'architettura, Torino, Einaudi,
1972
Vedi anche nel BTA: USCITE DI ARCHITETTURA LIQUIDA
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