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Una via orientale tra Razionalismo e forme nuove: Arata Isozaki e il Museo d’arte contemporanea di Nagi (Giappone)  

Emanuele Carlenzi
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 1 Luglio 2016, n. 812
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Area Architettura

Quando si parla di architettura giapponese è piuttosto frequente pensare a dei luoghi comuni che, soprattutto per un occidentale, inducono spesso ad associazioni scontate che albergano nell’immaginario generale della cultura orientale, come la casa del tè, per esempio, o dei più noti santuari scintoisti. Quello che tuttavia non si prende in considerazione è che, specialmente in campo architettonico, il Giappone non è affatto rimasto reticente ai richiami ed agli sviluppi artistici europei che dai primi anni del Novecento anche l’Oriente ha iniziato a guardare con particolare attenzione. Con questo non bisogna certo sottovalutare la potenza e soprattutto la profondità di una cultura così pregna di significati come quella orientale, e più specificamente giapponese, ma è necessario analizzare anche l’altra faccia della medaglia, soprattutto se si parla di esiti contemporanei e se si menzionano maestri come Arata Isozaki [1] .

Il MOCA, Museo d’arte contemporanea di Nagi (1991-'94) situato sul territorio della prefettura di Okayama in Giappone e comprendente la biblioteca municipale, è l’esempio di come il linguaggio artistico alle volte possa subire un’ibridazione tale da sfondare i confini della rigida aderenza alla tradizione e consentire agli artisti di partecipare ad un processo di internazionalizzazione che non permetta più di rubricare le espressioni sotto etichette geografiche, per così dire, bensì di abbracciare nuove influenze, nuove idee, nuovi mondi, benché lontani. Arata Isozaki, autore dello spazio dedicato all’arte contemporanea appena citato, insieme a Shichi Fujie e Ka Ohno, ha progettato una struttura che si fa simbolo di questo incrocio di culture, della compenetrazione tra un approccio razionalista all’architettura derivato da Le Corbusier ed uno invece più fedelmente autoctono legato alla tradizione metabolista, tanto che egli stesso afferma: «Devo molto all'Occidente quando si arriva alla forma dell'architettura, o alla struttura e alla tecnologia. Perciò credo, nel mio caso, di avere entrambi, l'Est e l'Ovest. Non è importante chiedersi come si incontrano, ma il fatto che io abbia entrambe le culture» [2] .

Entrambe le culture sono i due poli che si accostano e che consentono di guardare al Museo di Nagi come il prodotto di un’architettura che può essere definita di terza generazione (anche se non a pieno titolo), un’architettura cioè che, soprattutto a partire dagli anni Novanta, dopo Modernismo e Postmodernismo, si fa carico delle nuove esperienze della tecnologia e valuta la possibilità di creare sempre nuove forme. Sono forme che sfidano la statica e che superano il capitolo ormai pienamente interiorizzato del Decostruttivismo, forme che nei casi più noti creano strutture tanto virtuosistiche e spettacolari da rendere i loro autori delle vere archistar, capaci di fare delle loro architetture più un evento mediatico che una struttura socialmente adibita.

Non è esattamente questo il caso di Arata Isozaki, come può esserlo invece per personalità come Santiago Calatrava, Frank Gehry o Zaha Hadid, solo per fare alcuni nomi, che reagiscono spudoratamente alla costruzione modernista dei volumi, immersi come sono nell’orbita della Business Art. Benché egli abbia ragionato sul concetto corrente della dissoluzione della forma architettonica, il suo intento non è quello di dar vita a delle non architetture, ma continua a riflettere, se pur in modo innovativo, sulle conquiste storiche dell’architettura, mantenendosi legato alla sua formazione accademica ed al Modernismo europeo.

Nonostante la teoria decostruttivista avanzata da Jacques Derrida negli anni Ottanta abbia raccolto consensi anche in campi diversi da quello filosofico, in primis in quello artistico ed architettonico, Isozaki non si è mai consegnato al fascino tutto coevo di dissacrare la geometria per il semplice gusto di farlo, confermando così un indirizzo “mondano” dell’architettura come quello adottato da Randall Stout nell’ampliamento dell’Art Gallery of Alberta (museo statunitense di cui si parlerà in seguito). Egli ha invece conservato con fedeltà il suo legame agli insegnamenti lasciati in eredità da Le Corbusier e Mis van der Rohe, considerati come le pietre miliari di un Rinascimento architettonico novecentesco, senza aderire tuttavia ad un perfezionismo albertiano nella progettazione dei volumi, nonostante riveli una predilezione spiccata per i solidi elementari come il cilindro e soprattutto il cubo, derivati indubbiamente dallo studio di Étienne-Louis Boullée e Calude-Nicolas Ledoux. Eppure Isozaki sembra essere un revenant alquanto raro nel panorama architettonico, specie se si pensa al fatto che sia proprio un giapponese a rivalutare gli insegnamenti europei, specie se si guarda all’indirizzo che l’architettura ha preso nel XXI secolo ed ormai pienamente consolidato. L’infatuazione per un modo di costruire che oggi potremmo definire “liquido”, infatti, si fa sentire ovunque. Dalle grandi città a i centri meno altisonanti, si può essere piuttosto certi di inciampare in un’architettura che tende a superare il concetto della decostruzione dei solidi per rinnovare l’idea stessa di progettazione architettonica, una progettazione che non ha più bisogno degli assunti elementari della geometria, o meglio, li maschera dietro forme generate dall’elaborazione informatica e dalla necessità di spettacolarizzazione, una necessità che fa di un edificio qualcosa di molto simile ad una scultura in grande scala che si impianta, più o meno prepotentemente, sul tessuto urbano.

La diffusione di questo genere di architettura, che sembra impegnarsi a fondare un nuovo volto dello spazio e che così indissolubilmente si lega alla contemplazione virtuale, va di pari passo alla diffusione delle immagini che la ritraggono. Non è certo questo un dato sorprendente visto l’uso smodato che oggi si fa delle immagini e della velocità virale con la quale queste si diffondono.

Interessante notare che proprio sul web si sia verificata una sovrapposizione tra il museo giapponese di Arata Isozaki e l’Art Gallery of Alberta, precedentemente citata, dell’architetto statunitense Randall Stout, morto appena un anno fa. Un errore piuttosto comune che ha fatto del secondo museo una struttura che si identifica con quello asiatico e che induce la ricerca on-line ad essere spesso luogo fallace in cui l’affluenza continua ed inquantificabile di immagini non riesce a congiungersi alle giuste informazioni.

Situata nella Churchill Square, nel cuore dell’Arts District, l’Art Gallery of Alberta è senza dubbio un’architettura che, rispetto a quella di cui ci siamo occupati sinora (che potremmo definire “classica”), rappresenta con più coerenza il concetto di liquidità.

L’ingresso al museo canadese, infatti, nonostante mantenga il suo impianto geometrico, viene sovrastato da un gioco curvilineo di pareti in vetro e ferro che smentiscono l’approccio tradizionale all’architettura e rientrano appieno in quella produzione di terza generazione finalizzata a catturare lo stupore dell’osservatore e a rendere l’architettura più un campo disegnativo che non strutturale. Centonovanta metri di nastro d’acciaio si dipanano lungo l’edificio, creando giochi curvilinei che si ispirano direttamente alla vicinanza con il fiume North Saskatchewan e all’evanescente consistenza dell’Aurora Boreale. Fondata già nel 1924, la sua collezione sente da tempo la necessità di poter essere contenuta all’interno di una struttura che possa costituire il punto di forza del Canada occidentale, soprattutto dopo che le acquisizioni degli anni Settanta e Ottanta, la rendono sempre più ampia. Questo punto di forza arriva nel 2010, quando Randall Stout realizza un ampliamento del precedente museo costruito da Don Bittorf nel 1969, raddoppiando la sua superficie e rendendo la costruzione, oggi articolata in tre piani, ecosostenibile e rispondente ai più ambiziosi standard museali.

Se è possibile ascrivere il capitolo del Decostruttivismo all’influenza della filosofia derridaiana, che ha generato una reazione ufficiale al Razionalismo a partire dalla mostra newyorkese del 1988 curata da Philip Jhonson su un nuovo modo di fare architettura (che fosse lontano dalla geometria euclidea e dalle sue regole), è Zygmunt Bauman e le sue teorie sulla “società liquida” che deve essere considerato portavoce delle trasformazioni che il tempo e gli spazi a noi circostanti stanno subendo. Oggi cioè non ci si limita solo a de-costruire e a rendere plastici i volumi, a cercare una soluzione diversa dal Postmodernismo. Oggi l’architettura viene intesa come una nuova visione di ambiente costruito, in cui le forme pure ed instabili trovano una reale consistenza, in cui lo spazio architettonico vive senza l’elemento geometrico, dove il caos di una linea disarticolata e frammentata crea un nuovo canone estetico e, paradossalmente, un nuovo mezzo per organizzare lo spazio e riflettere sul dinamismo del tempo. Non che questo non fosse già presente negli anni Ottanta e nel filone che prendeva a modello il Costruttivismo russo degli anni Venti per condurlo alla sua estrema espressione, tuttavia c’è nell’operato degli architetti attivi nell’ultimo quindicennio del XXI secolo la volontà di andare oltre, di dare quasi per scontato il superamento del Razionalismo e la sua dissacrazione, di creare e non solo di costruire. La citazione di Bauman e la sua teoria raccolta nella pubblicazione del 2000, Modernità liquida, in cui si guarda alla società del presente come dissolta nel consumismo e nella frustrazione derivante dalla volontà del singolo di essere in contatto con l’intera produzione industriale, è ovviamente relativa al campo sociologico, ma potrebbe essere un punto di partenza per spiegare lo sviluppo dell’architettura contemporanea e capire più a fondo la differenza che intercorre tra il museo di Arata Isozaki e quello di Randall Stout. Questo perché esattamente come la società, secondo Bauman, sta perdendo la solidità di ogni valore per seguire un flusso immateriale di idee di produzione, così l’architettura (e le forme di cui essa si serve) sta perdendo la solidità delle sue fondamenta per inseguire una progettazione utopistica e trasformarsi in un’architettura liquida. La museologia ha raccolto negli ultimi tempi i massimi esponenti di questo nuovo capitolo della produzione architettonica, ponendo nuovi quesiti e soluzioni ai problemi relativi la forma ed il contenuto, il contenuto ed il contenitore, lo spettatore e lo spazio.

Il museo giapponese in questione, terminato alla metà degli anni Novanta, non può ancora essere un’espressione di architettura liquida, che invece si trova compiuta nell’Art Gallery of Alberta, con i suoi materiali trasparenti, la struttura penetrabile dalla visione, la forma instabile e fluida.

Riferimenti piuttosto eterogenei però caratterizzano la produzione di Arata Isozaki. Riferimenti che spiegano senz’altro l’utilizzo del termine schizzo-eclettismo, da lui coniato, di cui fa uso a partire dagli anni Ottanta e che trova una sua straordinaria applicazione nella progettazione del Museo d’arte contemporanea di Nagi. In essa egli manifesta un estremo rifiuto verso il romanticismo giapponese che aveva connotato a lungo la produzione del maestro Kēnzo Tange [3] , con il quale inizia a collaborare non appena conseguita la laurea alla metà degli anni Cinquanta, e che è un solido punto d’avvio per la sua carriera.

In Isozaki convive un’antinomia bizzarra, per cui se da un lato si rende necessaria la smentita dell’esperienza modernista, dall’altro è altrettanto necessario conoscerla e rifuggire di conseguenza dal banale Giapponismo che rischia troppo spesso di canalizzarsi nel kitsch. Ciò che infatti deve esser tenuto presente è che architetti come Isozaki hanno consolidato la loro formazione negli anni Sessanta, durante i quali in Giappone molto accesa è la critica verso l’occidentalizzazione delle tecniche e dei materiali di costruzione, del Capitalismo e della corruzione dell’Oriente che sente il bisogno di tornare in contatto con le proprie origini dopo un lungo periodo, iniziato più o meno dagli anni Quaranta, in cui la condivisione della cultura europea si sta rendendo troppo compromettente. Proprio per questa ragione la nascita del gruppo dei Metabolisti costituisce negli anni Sessanta una reazione tanto apprezzata. La loro infatuazione per la tecnologia e per la progettazione delle città del futuro, attraverso forme organiche, avvia un processo tutto autoctono che si distacca nettamente dalle influenze europee, verso cui non si vuole avere più alcun debito.

Egli quindi non progetta a partire da un’idea preconcetta o da uno stile, ogni opera costituisce un accadimento specifico in grado di digerire vari linguaggi e rigettarli contemporaneamente, rendendo impossibile identificare la sua attività in qualsiasi degli “ismi” a cui facciamo solitamente (e forse erroneamente) ricorso per spiegare ed interpretare il mondo circostante.

Altro punto che il Museo d’arte contemporanea di Nagi solleva è sicuramente l’attenzione che rivolge alla tridimensionalità, dovuta all’utilizzo dei solidi platonici e per quanto possa sembrare ovvio quando si parla di architettura, non lo è affatto per la storia del Giappone.

La teoria del MA [4] , alla quale facciamo breve cenno per far capire la portata innovativa di Isozaki, infatti, ha costituito a lungo un fondamento teorico alla costruzione spaziale nell’area giapponese, che si scontra in gran parte con il linguaggio utilizzato a Nagi. Esiste una parola chiave per interpretare il concetto del MA, o meglio, un ideogramma che spiega il diverso modo di leggere l’architettura ed il paesaggio circostanti, un modo di gran lunga diverso da quello occidentale. Due segni raffiguranti una porta con all’interno una luna: è l’ideogramma che fa riferimento alla concezione dello spazio giapponese, quando la luna può esser vista attraverso uno shogi, la porta-finestra delle loro case. L’estetica del MA, pertanto, parola che si accosta alla traduzione letteraria di “intervallo”, indica sì quella porzione di spazio frontale e bidimensionale racchiuso nella porta, ma sta ad indicare anche una porzione di tempo, quello in cui appare la luna attraverso di essa, perché, come nota lo stesso Arati Isozaki, “lo spazio era percepito solo in relazione allo scorrere del tempo” [5] . Questo è tanto più vero se ci si rifà al modo in cui la cultura giapponese ha percepito il cielo ed ha cercato il contatto con le sue divinità, rilevandolo non come in Occidente in senso verticale, bensì in senso orizzontale. Questo spiegherebbe anche il motivo per cui le architetture europee, soprattutto religiose, hanno cercato il loro sviluppo verticalizzandosi e quelle orientali, soprattutto giapponesi, hanno guardato al cielo considerandone la parte che si adagia sulla linea dell’orizzonte, accendendo pertanto ad una condizione metafisica in modo opposto a quello di un cristiano, ad esempio, che pregando si rivolge verso l’alto.

Creare architetture in Giappone, dunque, voleva significare più un allineamento di segni sul piano orizzontale che non una costruzione spaziale vera e propria, intesa cioè nella sua concretezza formale e nella sua funzionalità. Questo è naturalmente riscontrabile anche nella produzione artistica, in cui la bidimensionalità della rappresentazione lascia depositare tutto in superficie e niente in profondità. Lo spazio viene individuato dal passaggio di un linea ed è privo di un’alternanza di piani, sublimato nell’astrazione del vuoto, come se tutto venga ridotto ad un intervallo spazio-temporale.

Partendo da questi assunti l’attività di Fujie, Isozaki, ed Ohno, si contrappone nettamente all’assetto tradizionale della loro cultura come a quella che appartiene al linguaggio dell’Art Gallery of Alberta, componendo un museo dal respiro razionalista attraverso tre solidi, ognuno dei quali costituisce uno spazio espositivo: un cubo, un cilindro ed una mezza luna. Al contempo però mantengono il richiamo alla tradizione, perché simboli rispettivamente della terra, del sole e della luna, con riferimento specifico alla natura e alla sua percezione sensoriale. Di fatto la parte più interessante del museo, quella ovvero del cilindro, è finalizzata a solleticare i sensi dello spettatore, immergendolo in uno spazio irrorato di una forte luce e fintamente simmetrico, per cui tutto ciò che è in basso risulta essere anche in alto e viceversa, arricchito centralmente di una serie di altalene pendenti volte ad accentuare il carattere illusorio dello spazio interno.

La creazione dello spazio interno è poi un’altra delle tematiche a cui bisogna far cenno. Quando si parla di architettura si deve tener presente che a lungo si è considerata come un genere d’arte in grado solo di creare e non di rappresentare. Questo accadeva, come anche Giulio Carlo Argan affermava, perché si sottintendeva continuamente al paragone con le altre arti, pittura e scultura, che avevano come principio fondativo quello mimetico, “e questo bastava per caricarla di falsi concetti: dall’architettura aderente ai proprio bisogni come una scarpa al piede, all’architettura-musica e all’architettura-messaggio” [6] . Alla denuncia di questi pregiudizi si era dedicato Bruno Zevi, impegnato a far leggere correttamente l’architettura contemporanea. Egli considerava lo spazio interno [7] come un’istanza centrale della cultura architettonica moderna che si esprimeva in particolar modo nell’urbanistica e che egli non considerava necessariamente come uno spazio racchiuso in un perimetro. Spazio interno, in questo senso, sta a significare uno spazio che si pone, o si crea, o si innesta con la forma ed in essa soltanto trova la sua risoluzione, inducendo il suo spettatore a crearvi una “zona d’esperienza”, dove la sua personalità non è smentita o passa inosservata di fronte all’architettura che la ospita, ma, al contrario, essa ne diventa quasi dipendente. Diventa ovverosia l’agire dell’uomo a confermare l’esistenza e l’efficacia di uno spazio interno così come lo intendeva Zevi.

L’obiettivo degli architetti come Isozaki, dunque, rimane quello di creare condizioni di vita piuttosto che condizioni di veduta o di delimitazione perimetrale, e di individuare nelle forme dei valori umani piuttosto che i simboli di idee eterne o di stravaganti vezzeggiamenti creativi. Non è un caso, in conclusione, che il Museo d’arte contemporanea di Nagi si inserisca con lucida attenzione nell’urbanistica della città e, nonostante le ridotte dimensioni della struttura, il fatto che sia affiancato dalla biblioteca municipale e che l’intero complesso si situi nel punto più centrale della prefettura, conferma senza dubbio la volontà di far vivere l’architettura come un’esperienza quotidiana, che parli ai suoi cittadini, che sia, in definitiva, uno spazio interno alla loro città. In questo senso Occidente ed Oriente non trovano ostacoli unificativi, in questo senso Arata Isozaki si fa simbolo di un’inedita comunione tra culture diverse, tra Razionalismo europeo e tradizione giapponese.





NOTE

Ringrazio Stefano Colonna, Megumi Abe e Lisa Simonetti per i consigli in merito alla corretta attribuzione dei due edifici presi in esame in questo articolo.

[1] Cfr. SARTEA, 2010

[2] Cit. ISOZAKI, 1995, p. 56

[3] Cfr. TANGE, 2013

[4] Cfr. FREEMAN, 2007

[5] Cit. ISOZAKI, 1995, p. 63

[6] Cit. ARGAN, 1977, p. 92

[7] Cfr. ZEVI, 1972




BIBLIOGRAFIA

ARGAN 1965

Giulio Carlo Argan, Progetto e Destino, Milano, Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore, 1965

 

BAROCCHI 1992

Paola Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia – Tra Neo-Realismo ed anni Novanta, 1945-1990, Torino, Einaudi, 1992

 

ISOZAKI 1995

Arata Isozaki, Opere e progetti, Milano, Electa, 1995

 

SARTEA 2010

Anna Sartea, Arata Isozaki, Milano, Hachette fascicoli, 2010

 

Mostra internazionale d’architettura 1966, Venezia

Mostra internazionale di architettura: sensori del futuro: l’architetto come sismografo, Milano, Electa, 1996

 

TANGE 2013

Kenzo Tange, Kenzo Tange, Milano, Hachette, 2013

 

FREEMAN 2007

Michael Freeman, New Zen: gli spazi della cerimonia del tè nell’architettura giapponese contemporanea, Bologna, Damiani, 2007

 

ZEVI 1972

Bruno Zevi, Saper vedere l'architettura : saggio sull'interpretazione spaziale dell'architettura, Torino, Einaudi, 1972








Vedi anche nel BTA: USCITE DI ARCHITETTURA LIQUIDA





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Fig. 1
Arata Isozaki, Museo d'arte contemporanea di Nagi, Giappone, 1994.

Fig. 2
Arata Isozaki, visione interna del cilindro del Museo.

Fig. 3
Arata Isozaki, ingresso Museo d'arte contemporanea.

Fig. 4
Randall Stout, ampliamento dell'Art Gallery of Alberta, Canada, 2010.

Fig. 5
Randall Stout, ampliamento dell'Art Gallery of Alberta, Canada, 2010.

Fig. 6
Randall Stout, ampliamento dell'Art Gallery of Alberta, Canada, 2010.


Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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