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Le xilografie della morte di Semele e dell’infanzia di Bacco dell’Hypnerotomachia Poliphili Hypnerotomachia Poliphili, schede della xilografie n. 58 e 60

Francesco De Santis
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 24 Agosto 2016, n. 815
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Fig. 1: Xilo-58 - (a) Giove tra i fulmini visita Semele, (b) Bacco estratto dalle ceneri,
Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499

Fig. 2: Xilo-60 - L'educazione di Bacco,
Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499



"EL QUARTO triumpho quatro rote el portavano di ferrineo Asvesto Archado una fiata accenso renuente la extinctione. Il residuo di tabulatura quadrangula, cum il modo antedicto, era di folgorante carbunculo tragoditano, non temendo le dense tenebre, di expolitissime caelature, longo di ragionamento distinctamente. Ma quale operature considerare si doverebe in quale loco, et da quale artifice furono fabricate.

Dunque la dextera facia optimamente tale dimostrava historia. Una venerabile matrona praegnante. Alla quale el summo Iupiter divinamente (quale cum la Dea Iunione sole) cum tonitri et fulmini li appariva, in tanto che accensa se cremava in cinere, et del combusto, uno nobilissimo et divo infantulo extrahevano.

Ne l’altra io mirai esso opitulatore Iupiter, quello medesimo infantulo, ad uno caeleste homo talaricato et caducifero gli offeriva. Et questo poscia in uno antro a multe Nymphe nutriendo el commendava.".



"Il quarto carro era dotato di quattro ruote di ferrigno asbesto arcadico, inestinguibile una volta acceso. Le lastre quadrangolari, nei modi già detti, erano di corrusco carbonchio tragoditano che non teme le tenebre più fitte, con raffinatissime incisioni: ma troppo lungo e particolareggiato sarebbe il discorso se si dovesse considerare in quale luogo e da quale artefice vennero create opere simili.

Dunque, la facciata destra mostrava con grande evidenza questa scena: una venerabile matrona incinta, alla quale il sommo Giove, come è solito fare con la dea Giunone, appariva fra tuoni e lampi nello splendore della sua numinosità al punto che, investita dalle fiamme, si consumava fino a incenerirsi. Da una tale combustione veniva estratto un nobilissimo, divino fanciullo.

Nell’altra ammirai il soccorrevole Giove mentre porgeva il fanciullo a una creatura celeste col caduceo e i calzari alati, il quale a sua volta lo affidava in custodia a numerose ninfe perché lo nutrissero in una grotta.".

 

Polifilo descrive il quarto carro, dotato di ruote fiammeggianti e di preziose lastre di splendente rubino, corredate di eleganti incisioni.

Nella scena ritratta all’interno del riquadro sinistro della prima xilografia (Fig. 1a), il protagonista osserva una donna incinta distesa sul letto davanti alla quale appare Giove, circondato da fulmini e fiamme che si propagano nella stanza sino a bruciare il corpo della gestante, mentre nell’illustrazione che segue, una fanciulla trae un neonato dai resti della combustione, un’altra sostiene il piccolo e altre tre donne assistono alla scena.

Si tratta dell’episodio mitico della nascita di Bacco dalla relazione amorosa tra Giove e Semele, principessa figlia di Cadmo, re di Tebe, e di Armonia.

Giunone, irata per aver scoperto il tradimento di suo marito Giove con Semele, a causa del quale quest’ultima è rimasta incinta, decide di vendicarsi con un subdolo inganno: “incanutendo le tempie, solcando la pelle di rughe e trascinando con passo tremante le membra incurvate”, (Ovidio, Metamorfosi, III, vv. 278-280) assume le sembianze di Beroe, l’anziana nutrice della fanciulla e si introduce così nel palazzo reale di Cadmo per insinuare nell’animo di Semele il dubbio che il suo amante non fosse davvero il sovrano degli dei, istigandola a supplicare Giove di apparirle nel suo aspetto divino, consapevole del fatto che la stessa giovane mortale non sarebbe sopravvissuta alla potenza dell’evento celeste e forte della promessa, accordatale dal dio, che questi non avrebbe avvisato la fanciulla della fatalità della circostanza. 

Semele dunque, persuasa dalle parole della “falsa” Beroe, prega Giove di manifestarsi nelle sue sembianze celesti, come era solito fare con sua moglie Giunone e il dio, vinto dall’amore per la bella fanciulla, promette di accontentarla, concedendole il giuramento sullo Stige, sacro e irrevocabile. Giove si presenta così, nelle fattezze di un nugolo di fulmini, presso l’abitazione della giovane amante. La violenta conflagrazione incenerisce Semele, ma un momento prima della sua morte, il dio estrae dal ventre della donna il prematuro Bacco e se lo cuce in una coscia per portarne a termine la gestazione; dopo la nascita, Giove affida il piccolo a Ino, sorella di Semele, che trascorsi i primi mesi di vita lo consegna alle ninfe del monte Nisa. Secondo alcune tradizioni, tra cui quella orfica, Bacco trasse sua madre fuori dall’Ade rendendola immortale, evento in seguito al quale Semele avrebbe assunto il nome di Thyone.  

La più antica versione del mito di Semele si trova nel Libro XIV dell’Iliade dove Omero cita sinteticamente: “(…) e Semele generò Dioniso, letizia degli uomini (…)” (v. 325).

La descrizione di Polifilo contamina invece altre fonti esistenti, in particolare quelle in cui si indugia sul racconto, più o meno dettagliato, del tragico evento della folgorazione della principessa tebana e in questo senso possiamo ravvisare innanzitutto delle affinità con la narrazione che compare nelle Baccanti di Euripide, dove il ricordo della vicenda è affidato allo stesso figlio di Semele, Dioniso appunto, che annuncia: “Eccomi, sono qui, in questa terra di Tebe, io, figlio di Zeus, Dionìso: mi genera – un tempo – la vergine di Cadmo, Sèmele, aiutata nel parto dal fuoco della folgore (…)”  (vv. 1-3), e aggiunge: “(…) Vedo la tomba di mia madre, lei, la folgorata, là vicino al palazzo, e vedo le macerie della sua camera in fumo, avvampate dal fuoco ancora vivo di Zeus (…)” (vv. 6-8). Prosegue Euripide, che riferendosi a Dioniso riporta: “(…) Lo serbava nel grembo, un giorno, la madre tra doglie di parto fatali. Poi volò a piombo il tuono di Zeus, lei lo espulse dal ventre, e schiantata dal fulmine lasciò la vita (…)” (vv. 89-94). Prossimo al brano dell’Hypnerotomachia anche il passo delle Metamorfosi di Ovidio dove il poeta sottolinea che il dono nuziale di Giove “incenerì” la sua amata (v. 401), mentre nei Dialoghi degli Dei, il poeta Luciano (II sec. d.C.) fa raccontare a Ermete, all’interno del dialogo con Posidone, il tragico episodio, soffermandosi su alcuni particolari come il tetto della casa di Semele incendiato a causa delle folgori di Giove e il fatto che Bacco fosse ancora prematuro, di appena sette mesi. Ancora negli Inni Orfici (I-II sec. d.C.) si narra che “Semele subì grandi doglie a causa dello splendore portatore di fuoco, bruciata per i voleri dell’immortale Zeus Cronide” (44): questi componimenti sono di particolare importanza perché in essi si fa riferimento alla venerazione di Semele come dea immortale in occasione dei misteri bacchici. Nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli (V sec. d.C.) il racconto è estremamente dettagliato e l’autore sottolinea come fu Semele a toccare il fulmine di Giove e a rimanerne folgorata in quel letto che divenne nello stesso istante anche la sua tomba (Canto 8, vv. 389-393).

Nella tradizione letteraria italiana ricordiamo Dante che accenna al mito nel XXI Canto del Paradiso dove paragona se stesso a Semele, e implicitamente, Beatrice a Giove, poiché se la sua amata gli sorridesse, egli, essendo un comune mortale, non potrebbe sostenere il fulgore del suo sorriso e diverrebbe come “fu Semelè quando di cener fessi” (v. 6), e Giovanni Boccaccio che narra il mito di Semele nelle sue Genealogie deorum gentilium libri (1347).

Queste appena enunciate sono solo alcune delle principali fonti letterarie della vicenda mitica, che dunque, al momento della stesura dell’Hypnerotomachia Poliphili vantava una consistente e multiforme tradizione.

Le testimonianze figurative che illustrano i vari momenti di questo mito possono invece essere classificate in tre gruppi principali.

Il primo comprende gli esemplari in cui viene descritto un episodio successivo alla morte di Semele, generalmente l’anagogè della principessa tebana, ossia la sua ascesa all’Olimpo dopo che suo figlio Bacco l’ha tratta in salvo dall’Ade, rendendola immortale, oppure una scena in cui questa è raffigurata stante davanti allo stesso Bacco dopo la sua resurrezione. Esemplari in cui compaiono illustrazioni di questo genere sono diffusi soprattutto in età arcaica (VI secolo a.C.), circostanza che in qualche modo dovette essere favorita dall’istituzione delle Grandi Dionisie da parte di Pisistrato, evento grazie al quale Semele e Bacco acquisirono un’importanza fondamentale nell’ambito della religiosità ufficiale.

Nel secondo gruppo rientrano invece quei manufatti artistici che presentano scene della nascita di Bacco dalla coscia di Giove dopo la morte di Semele, sovente associate a episodi dell’infanzia del dio del vino presso le ninfe e anche in questo caso si tratta di una tradizione piuttosto antica, risalente almeno alla fine del VI secolo.

Infine, nel terzo gruppo, che qui ci interessa particolarmente, si collocano quegli esemplari dove viene posto in primo piano il momento della morte di Semele, isolato, oppure affiancato alla scena della nascita del piccolo dio da Giove, come testimonia ad esempio un rilievo in marmo proveniente da Minturno e conservato al Museo Archeologico di Zagabria (Fig. 3). L’episodio drammatico della morte della figlia di Cadmo inizia a diffondersi intorno agli inizi del IV secolo:  su un’hydria attica a figure rosse, invero assai rovinata e attribuita al Pittore di Semele, databile intorno al 390 a.C., è raffigurato il momento in cui la donna dormiente, distesa sulla kliné, sta per essere uccisa dal fulmine di Giove (Fig. 4), ma l’esordio di questo tema, o più precisamente, di esemplari figurativi che lo richiamano, può essere anche anticipato, a ben vedere, alla prima metà del V secolo e lo prova ad esempio un’anfora attica dipinta con la tecnica a figure rosse, attribuita al Pittore di Berlino, proveniente da Nola e conservata al British Museum di Londra, dove sono raffigurati Semele che fugge e Giove che la rincorre con dei fulmini in mano, evento che chiaramente anticipa, attraverso una gestualità piuttosto singolare, la fine drammatica della giovane di Tebe.

È soprattutto però a partire dal II secolo d.C. che il tema della morte della fanciulla conosce un’affermazione più ampia, distinguendosi come uno dei soggetti adottati per la decorazione di sarcofagi romani, in verità tuttavia non tra i più frequenti, a fronte di altre tematiche di più ampia diffusione.

Nella xilografia del “Polifilo”, la figura di Semele (Fig. 1a) dormiente sul letto – gli occhi sono chiaramente chiusi - ricorda dal punto di vista formale e compositivo, l’immagine, già citata sopra, attribuita al Pittore di Semele (Fig. 4), che compare sull’anfora attica degli inizi del IV secolo a.C. ma anche il ritratto del rilievo di Zagabria, mentre quella di Giove è senza dubbio l’elemento iconograficamente più interessante, perché il busto del dio circondato da una nube di fiamme sospesa in aria, rappresenta una sorta di sintesi tra un ritratto assolutamente corporeo e concreto, come quello del già menzionato marmo croato, dove il padre degli dei è descritto nella sua prorompente fisicità terrena col solo attributo del fulmine a certificarne la natura divina (Fig. 3), e una rappresentazione spinta al massimo dell’astrazione e del simbolismo, carattere riscontrabile ad esempio in un vaso apulo a figure rosse, ascritto al Pittore di Arpi e databile intorno alla fine del IV secolo d.C., in cui Giove è evocato da una fitta serie di linee verticali parallele che piombano dall’alto, a significare la pioggia di fulmini che si abbatte fatalmente su Semele, qui nuda, a ricordare il fatto che la sua morte avvenne durante il rapporto sessuale con Giove, e sorretta da alcune donne (Fig. 5).

Nella nostra xilografia invece, il personaggio di Giove, raffigurato con la parte superiore del corpo emergente da un groviglio di fiamme, sorprendentemente si avvicina, più che a precedenti figurativi antichi che narrano il mito di Semele o ad altre illustrazioni di cui egli è protagonista, a immagini più peculiari di certe iconografie cristiane e precisamente a quelle che rappresentano eventi sovrannaturali o miracolistici, caratterizzati spesso dalla presenza di personaggi che si librano in aria, come nel caso del tema della “Trasfigurazione di Cristo” o di apparizioni di Santi: proprio in relazione a quest’ultima categoria,  emerge un’evidentissima affinità della xilografia polifilesca con una testimonianza pittorica praticamente contemporanea alla realizzazione dell’Hypnerotomachia: l’affresco con l’Annuncio della morte di Santa Fina o Apparizione di san Gregorio, dalle Storie di santa Fina, opera di Ghirlandaio degli anni 1473-1475, dipinto presso la cappella di Santa Fina nella Collegiata di San Gimignano (Fig. 6). In questa scena, lo schema compositivo è pressoché identico a quello proposto nella xilografia di Semele folgorata da Giove, con l’apparizione celeste di San Gregorio, ritratto a mezzobusto, sospeso in aria, circondato e sostenuto da un gruppo di angeli serafini, in un interno domestico, mentre annuncia la morte a Fina distesa sul pavimento e assistita da due donne, in una singolare quanto ovviamente casuale analogia semantica con la nostra xilografia dove appunto la comparsa di Giove è insieme manifestazione divina e annuncio di morte per la principessa di Tebe che giace dormiente sul letto, secondo una posa simile a quella di Fina prossima alla sua fine terrena e alla santità nell’affresco toscano, che tuttavia è ritratta con gli occhi aperti mentre contempla la miracolosa apparizione del santo. L’idea che il misterioso autore delle xilografie dell’Hypnerotomachia possa essere stato ispirato direttamente dal precedente pittorico del Ghirlandaio è piuttosto difficile da convalidare, soprattutto nell’evidenza del suo anonimato, ma la circostanza può essere certamente plausibile anche in virtù della contemporaneità cronologica delle due testimonianze e naturalmente, della circolazione di modelli e disegni nell’Italia rinascimentale: in questa ottica d'altra parte, lo stesso affresco del Ghirlandaio echeggia un'iconografia dell'evento dell'apparizione piuttosto comune nelle "Annunciazioni", come quella del Signorelli del 1491, conservata presso la Pinacoteca e Museo Civico di Volterra.

Nel riquadro di destra (Fig. 1b) osserviamo un neonato, Bacco, che viene sollevato dal letto da due donne, mentre altre tre assistono alla scena: un’immagine che, fedelmente al racconto del Colonna, semplifica notevolmente la versione tradizionale del mito, omettendo il particolare secondo cui Giove avrebbe estratto il nascituro dal ventre di Semele mentre questa bruciava e in seguito cucito il piccolo dentro una sua coscia.

Dopo la venuta al mondo, Bacco sarebbe stato consegnato a Ino, sorella di Semele, che lo avrebbe allevato nei primissimi mesi di vita per poi affidarlo alle cure delle ninfe di Nisa, ma qui Polifilo non specifica affatto queste circostanze, limitandosi a sostenere che da “una tale combustione veniva estratto un nobilissimo, divino fanciullo”.

Dal punto di vista compositivo la xilografia, con il bambino che viene tratto da una specie di poltiglia che sembra essere lo strato di cenere che resta della combustione, denuncia una somiglianza con alcuni esemplari plastici antichi dove la disposizione delle figure femminili attorno al letto della giovane tebana morente ricorda quella che ritroviamo in questa scena: un rilievo databile al I-II secolo d.C. e conservato a Liverpool, dove sono raffigurati simultaneamente la morte di Semele, ritratta sul letto col corpo ormai privo di vita disteso su un lato, e la nascita di Bacco, presenta un’analoga distribuzione delle donne nello spazio (Fig. 7), ma soprattutto è simile la gestualità delle due nutrici che sostengono il bambino, apprezzabile anche in un sarcofago del 160 d.C. circa del Museo Chiaramonti in Città del Vaticano, dove tuttavia l’azione è compiuta da una sola donna e in una pisside in avorio del V secolo d.C., dei Musei Civici di Bologna (Fig. 8),  nella quale troviamo Semele  sulla klinè, che osserva la scena in cui il bambino viene preso in braccio da una nutrice, con un movimento molto vicino a quello della donna ritratta di spalle nella nostra xilografia e anticipatore  del modello compositivo del tema della “Natività della Vergine”, che nella scena del “Polifilo” può anche essere stato adottato come possibile fonte di ispirazione, perché anche in questa circostanza, similmente a quanto constatato in occasione della prima scena e della sua prossimità all’affresco del Ghirlandaio, possiamo ravvisare una somiglianza nei gesti e nella disposizione delle figure, sebbene non così lampante come in occasione dell’esempio precedente, con un particolare di una testimonianza figurativa di nuovo contemporanea all’Hypnerotomachia e attinente anche in questo frangente  un soggetto cristiano, l’affresco della Natività di Maria dal Tabernacolo della Visitazione di Benozzo Gozzoli [1] , del 1491 [2] , dove una delle due nutrici tiene in braccio la Vergine appena nata e l’altra allunga una mano quasi a volerla sostenere (Fig. 9), esprimendo entrambe  delle movenze molto simili appunto a quella delle due donne che sollevano Bacco nella nostra xilografia, un indizio che potrebbe presupporre anche in questa circostanza  l’eventuale conoscenza da parte dell’anonimo autore del “Polifilo”, di questo modello formale o di altri ad esso riconducibili in quanto suoi verosimili esemplari di riferimento, specificamente individuabili nella tradizione gotica, come testimonia ad esempio il brano della Natività di Maria, affrescato nel 1365 da Giovanni da Milano nella Cappella Rinuccini in Santa Croce, a Firenze".

Le figure femminili che assistono alla nascita di Bacco difficilmente possono essere identificate nelle ninfe di Nisa che allevarono il piccolo dopo che questi fu affidato alle cure di Ino, la sorella di Semele, durante i suoi primissimi anni di vita, poiché queste sono tra i protagonisti della xilografia successiva di cui parleremo tra poco, per cui nelle donne di questa scena dovremmo necessariamente individuare soggetti diversi e verosimilmente, in quella che tiene in braccio il neonato stringendoselo al petto, proprio la stessa Ino, mentre le altre donne potrebbero essere delle semplici nutrici, e non le altre due sorelle di Semele, ossia Agave e Autonoe insieme ad altre due balie, perché le fonti non citano affatto la circostanza che alle primissime cure di Bacco presero parte oltre a Ino le altre figlie di Cadmo.

Nella seconda xilografia (Fig. 2), Polifilo osserva Giove porgere il fanciullo ad un personaggio celeste col caduceo ed i calzari alati, attributi che rendono il personaggio immediatamente identificabile in Mercurio, corrispondente del dio greco Hermes, che nel brano successivo dell’illustrazione affida il piccolo Bacco ad alcune ninfe che si affacciano dall’ingresso di una grotta.

Qui Francesco Colonna sembra ispirarsi in parte a Igino che nelle Fabulae riferisce che Mercurio salvò il piccolo Bacco dal fuoco e lo affidò alla ninfa Niso, e contamina questa versione con quelle di Apollodoro (Biblioteca, III, 6), in cui Giove consegna il neonato a Mercurio che poi lo porta a Ino e quella di Luciano che in un frangente dei già menzionati Dialoghi degli Dei affida all’intervento in prima persona di Ermete il racconto della vicenda: “(…) Zeus mi ordinò di tagliare il ventre della donna e di portargli il feto di sette mesi ancora immaturo. Dopo che ebbi eseguito, aperta la coscia, ce lo misi dentro, perché lì si completasse ed ora, già nel terzo mese, lo ha partorito ed è spossato dalle doglie”.

A livello iconografico la figura di Mercurio adotta una tipologia piuttosto tradizionale, con il caduceo, il tipico copricapo ed i calzari alati, mentre i caratteri più interessanti sono le particolarità formali e di composizione della scena che, anche in questo caso, come nei due esempi precedenti, possono essere avvicinate a testimonianze figurative di soggetto cristiano, cronologicamente vicine alla realizzazione del romanzo: la figura di Giove che da dentro una nuvola porge il piccolo Bacco a Mercurio, ricalca una tipologia iconografica tipica, analogamente a quanto già riscontrato nel contesto del parallelismo tra la prima xilografia e l’esemplare del Ghirlandaio, delle apparizioni divine, e in virtù di ciò può essere accostata a quella del Padre Eterno benedicente entro un potente disco solare tra le nuvole plumbee, nell’olio su tavola con l’Apparizione di Cristo alla Vergine, di Filippino Lippi del 1493 circa [3] (Fig. 10, Monaco di Baviera, Alte Pinakothek), mentre l’impianto generale del brano, con l’albero al centro che simbolicamente divide  il primo episodio dal secondo, ove Mercurio affida il dio bambino alle ninfe che si affacciano dalla grotta, riprende l’espediente, assai comune nell’arte italiana medievale e rinascimentale, di separare i diversi momenti raffigurati in un’unica opera, attraverso l’adozione di elementi architettonici o naturalistici, come dimostra uno degli esempi più celebri di questa soluzione compositiva, l’affresco dell’Adorazione del sacro legno e L’incontro tra Salomone e la regina di Saba (1452-1466), realizzato da Piero della Francesca ad Arezzo, nella chiesa di San Francesco (Fig. 11).

Il nucleo concettuale del mito di Giove e Semele ruota attorno alla prima delle scene appena esaminate sul piano formale, quella della folgorazione della principessa di Tebe, che rappresenta l’episodio fondamentale dell’intera vicenda e sul quale è opportuno posare la nostra principale attenzione.

Constatiamo innanzitutto il criptico simbolismo veicolato dal “folgorante carbunculo tragoditano” di cui sono composte le lastre dove sono raffigurati i diversi momenti del mito.  Il “carbunculo” infatti, altro non è che il carbonchio, ossia un rubino, che in latino veniva chiamato “carbunculus” cioè piccolo carbone, perché in virtù del suo colore rosso particolarmente brillante, splendeva nel buio come fosse un carbone ardente. Marbodo, vescovo di Rennes (1035-1123), nel suo De lapidibus, un poemetto che illustra le qualità scientifiche e i poteri magici delle pietre preziose, descrive, in termini piuttosto prossimi a quelli che saranno utilizzati dal Colonna [4] , questo straordinario pregio del carbonchio, sottolineando come la sua luminosità superasse quella di tutte le altre gemme, tanto che anche le tenebre non potevano oscurarla. La scelta di Francesco Colonna di relazionare l’episodio che rappresenta il momento insieme più sublime e drammatico dell’amore tra Giove e Semele al colore rosso del rubino, tradizionalmente considerato simbolo della passione [5] , doveva sottendere un preciso significato perché la stessa espressione “folgorante carbunculo”, che ricorda l’aspetto del carbone infuocato, può essere valutata come una specie di sinestesia, sebbene non propriamente ortodossa sul piano letterario, che allude, qualificandosi come una sorta di sua prefigurazione, al tema del fuoco, immagine dell’ardore amoroso tra il dio e Semele ed elemento dominante e distintivo nell’episodio della folgorazione della fanciulla tebana inciso sulla lastra che osserva Polifilo, un legame questo, d’altronde ribadito poco più avanti, quando il protagonista descrive la decorazione del preziosissimo vaso posto sul carro, soffermandosi sull’immagine incisa di Giove che afferra in una mano una sfolgorante spada aurea e soprattutto nell’altra, un fulmine abbagliante tratto da una vena di rubino (Hypnerotomachia Poliphili 174).

La plausibilità di questa ipotesi interpretativa può essere inoltre corroborata dall’idea di Edgar Wind, confermata da Maurizio Calvesi, secondo cui i quattro trionfi alluderebbero ai quattro elementi: Europa sul toro, la terra, Leda con il cigno, l’acqua, Danae investita dalla pioggia d’oro che cade dal cielo, l’aria, infine Semele bruciata, il fuoco [6] ,  per cui anche in questa ottica il “folgorante carbuncolo”  è certamente valutabile come raffinata allegoria di questo elemento e dei significati simbolici ad esso correlati.

Tra le fonti letterarie alle quali il Colonna può aver fatto riferimento in occasione della narrazione di questo mito, ve n’è una particolarmente significativa, perché contemporanea alla stesura dell’opera e soprattutto afferente alla sfera privata dell’autore: si tratta di un’ epistola latina che l’amico Nicola della Valle [7] gli inviava intorno al 1471, in cui, attraverso un linguaggio denso di topoi classici, moderni e stilnovistici, descriveva al suo interlocutore i propri patimenti d’amore per una donna di nome Cinzia, nome verosimilmente ispirato a quello della Cinzia di Properzio, rivisitata in chiave petrarchista, che però si mostrava nei suoi confronti totalmente insensibile e ostile, analogamente a come apparirà Polia a Polifilo in un brano dell’Hypnerotomachia, dove l’autore utilizza proprio le medesime espressioni spese dal Della Valle per la sua amata [8] .

Ma soprattutto, dal confronto con altri frammenti dell’epistola, emerge una nuova lampante similitudine: così come la fiamma d’amore divora metaforicamente il Della Valle liquefacendolo come cera al fuoco, molto simile è la condizione di Polifilo che con queste parole si rivolge alla sua donna: “Polia Sole mio irradiantissimo, io tuto adusto infervescente quale liquabile cera me strugea  liquabondo” (Hypnerotomachia Poliphili  391); l’affinità tra il testo del Della Valle e le espressioni adottate da Francesco Colonna-Polifilo per la descrizione di una situazione sentimentale caratterizzata dai medesimi risvolti emotivi non può certamente essere considerata casuale, tanto che possiamo ritenere l’influenza di questa testimonianza, diretta.

La  somiglianza delle immagini simboliche del Della Valle consumato dal fuoco d’amore per Cinzia e di Polifilo che si scioglie come cera al sole, ma anche, come abbiamo visto poco sopra, di Dante che al cospetto di Beatrice paventa la stessa fine di Semele incenerita, con quest’ultima, arsa dalle fiamme dei fulmini di Giove, è davvero evidentissima e in questa ottica, Semele e Polifilo, Nicola Della Valle e Dante, possono essere collocati nel medesimo campo dialettico di figure “deboli” della vicenda sentimentale, mentre all’opposto, Giove, Polia, Cinzia e Beatrice, in quello di personaggi “forti” che tengono in scacco i loro innamorati, secondo una rispondenza concettuale che può trovare una particolare giustificazione nel clima dell’umanesimo legato al movimento petrarchista che vedeva la luce proprio in quel periodo. Un'altra interessante eco della prossimità del Colonna al Della Valle emerge dal fatto che tra le fanciulle presenti proprio nel corteo del quarto trionfo in cui compare il carro di Semele, figura una giovane di nome “Lidia”: infatti, “Lidia formosas inter praeclara puellas” è il primo verso di un carme di Nicola Della Valle [9] di cui  alcuni passi vengono citati testualmente nell’epistola del 1471 e in riferimento alla quale Mauro De Nichilo [10] ritiene che la “Lidia” della processione possa identificarsi con la Cinzia amata dall’amico di Francesco Colonna, contingenza che può essere valutata come ermetica allusione alla figura di Polia alter ego di Cinzia nel singolare contesto della narrazione di un’altra celebre e tragica vicenda d’amore, quella appunto di Semele e Giove.

Il parallelismo tra il padre degli dei e la donna amata da Polifilo si rafforza alla luce del fatto che il nome di Polia, come osserva la Kretzulesko [11] , riprende l’appellativo di “Atena Polias”, un chiaro  riferimento che suggerisce l’idea che ella non sia solo la persona fisica amata da Francesco Colonna, ma soprattutto all’interno del romanzo, l’allegoria di un alto ideale, collocandosi dunque sullo stesso piano letterario e simbolico di Beatrice e della petrarchesca Laura; secondo Calvesi, Polia rappresenterebbe quindi  la Sapienza molteplice – non a caso  nel romanzo viene accostata due volte a Minerva – per cui il suo nome si qualificherebbe come un emblema lucreziano, significando “tutte le cose”. Una sorta di figura suprema e trascendente quindi, una divinità idealizzata, nei confronti della quale Polifilo da comune mortale, è soggiogato alla stregua di Semele al cospetto di Giove e di Dante innanzi al sorriso di Beatrice, ma anche del meno celebre Nicola Della Valle, vinto dal suo amore debordante verso l’algida Cinzia. Inoltre, ritornando per un istante proprio all’influenza dell’epistola dell’umanista romano su alcuni passi dell’Hypnerotomachia, nel luogo del brano in cui Polifilo utilizza, per descrivere l’insensibilità di Polia, le medesime espressioni adottate dal Della Valle per Cinzia, poco prima di queste battute egli menziona  alcuni esempi di celebri storie d’amore, storiche e letterarie, proponendole come paragoni della sua e nomina “quella, che per il marito fleto et declamato al ardente rogo, deglutire volse gli carboni accensi” (Hypnerotomachia Poliphili 454): qui Polifilo allude a Porzia moglie di Bruto che secondo le testimonianze di Valerio Massimo e Plutarco, quando seppe della sconfitta e morte di suo marito a Filippi, non potendo sopportare il dolore di un dramma simile, si uccise ingoiando braci ardenti. Il riferimento in un brano dove Polifilo esprime le sue pene d’amore per Polia, ad una vicenda come quella di Porzia in cui il fuoco dei carboni ardenti rappresenta la causa di morte per la moglie di Bruto, richiama inevitabilmente alla memoria la storia tragica di Semele, nel duplice legame con le fiamme dei fulmini di Giove e con il “folgorante carbunculo tragoditano” della lastra ove il mito è narrato, e naturalmente l’esperienza amorosa dello stesso Colonna-Polifilo che si consuma come cera al fuoco a causa del suo amore per Polia, suo “Sole irradiantissimo”.

Proseguendo nella ricerca di nuovi possibili legami col mito di Semele all’interno del romanzo, che potrebbero ampliare e chiarire il quadro interpretativo della nostra xilografia, un’altra interessante consonanza intercorre tra l’immagine della tebana dormiente mentre viene consumata dalle fiamme e quella della fontana modellata in forma di bellissima ninfa nuda addormentata nella quale si imbatte Polifilo durante il suo fantastico peregrinare (Hypnerotomachia Poliphili 71). Nella scena che descrive il protagonista, la ninfa, dal fisico florido e aggraziato, distesa su un lenzuolo poggiato a terra, è osservata, anzi più precisamente spiata, da un satiro eccitato e ardente di desiderio, mentre altri “dui satyruli infanti”, che tengono in mano l’uno un vaso e l’altro due serpenti attorcigliati, vegliano sulla splendida fanciulla.

La xilografia corrispondente (Fig. 12) mostra un impianto d’azione molto simile a quello della scena che raffigura la morte di Semele: in entrambe le illustrazioni infatti, individuiamo la presenza di un elemento femminile, la ninfa e la principessa tebana, che sono ambedue dormienti e ignare della minaccia maschile che sta per concretizzarsi su di loro, che nel caso della vicenda di Semele è un evento già in atto e ineluttabile, d’altronde deciso dalla stessa volontà della donna innamorata che su istigazione di Giunone supplica Giove di manifestarsi nella sua essenza divina, e che nella scena polifilesca appare però come un avvenimento assolutamente imprevisto proprio perché la donna dorme e non si accorge di ciò che le sta accadendo, quasi a voler sottolineare la fatalità dell’inganno di Giunone, ma anche al contrario, e in questo caso prevarrebbe il concetto del libero arbitrio di Semele che sceglie di incontrare Giove nel suo aspetto divino, la spontanea accettazione del destino da parte della principessa di Tebe, poiché  l’idea della morte nel sonno ben si concilia col concetto del naturale svolgersi degli eventi, senza alcuna opposizione consapevole della vittima, mentre nell’episodio della ninfa la presenza del satiro che scosta furtivamente il lenzuolo che fa ombra alla fanciulla, per spiarla, lascia solo intuire il possibile compiersi di un suo approccio di natura sessuale, sospeso in un tempo d’azione che Argan avrebbe definito “ghibertiano” [12] , oscillante tra l’idea del desiderio carnale del satiro e il suo timore di destare la ninfa, come riferisce lo stesso Polifilo nel prosieguo della descrizione di questa fontana, specificando come il satiro piegasse verso la donna dei rami di corbezzolo per farle ombra e non disturbarne il sonno. A prescindere comunque da queste sottili differenze nei comportamenti dei protagonisti nei due episodi, è innegabile la familiarità riscontrabile tra la ninfa e Semele, entrambe dormienti e oggetto delle attenzioni sessuali, più esplicita quella del satiro, trasfigurata in una dimensione divina quella di Giove, di altrettanti personaggi maschili, ma soprattutto le due scene possono essere ricondotte, come conseguenza della personale rielaborazione di Francesco Colonna, all’interno di un medesimo e più ampio contesto simbolico. Come è noto infatti, i Satiri sono quei personaggi, dal corpo metà umano e metà caprino, dediti all’ebbrezza e ai piaceri sessuali, che tradizionalmente compongono insieme alle Menadi e ai Sileni il thiasos dionisiaco, e precisamente, nel caso della scena della ninfa nuda spiata dal satiro, quest’ultimo è identificabile in Priapo, figlio di Dioniso, perché il vaso per il vino e i due serpenti attorcigliati che recano in mano i due piccoli satiri che lo accompagnano sono simboli riconducibili al suo personaggio. L’evocazione della figura di Priapo è individuabile anche alla fine del primo libro dell’Hypnerotomachia, quando in occasione del trionfo di Cupido e Psiche, mentre viene portato in processione il simulacro di un mostro a tre teste, di leone, di cane e di lupo, sacro al dio egizio Serapide, una coppia di satiri, due appunto, come quelli della xilografia della ninfa dormiente, issano due erme a tre teste recanti “lo ithyphallio signo” (Hypnerotomachia Poliphili 344), ossia il pene eretto, un idolo che secondo Calvesi [13] dovrebbe essere identificato nell’immagine del triplice Osiride, il dio egizio della cui virilità lo storico Diodoro Siculo [14] ritiene proprio Priapo essere una deificazione, stabilendo dunque un’identificazione tra i due personaggi.

Ancora Diodoro assimila Osiride a Dioniso, e Iside, sposa del dio egizio, alla stessa Semele [15] , ma soprattutto Pomponio Leto, profondo conoscitore della letteratura greca e fondatore della celebre Accademia Romana, a cui apparteneva il nostro Francesco Colonna, e caratterizzata da un clima di eterodossia letteraria, filosofica e spirituale, entro il quale deve collocarsi la genesi dell’Hypnerotomachia Poliphili, che di quel cenacolo culturale sembra essere una sorta di manifesto, aveva elaborato un sincretismo mitologico secondo cui riconosceva in Osiride un prefigurazione di Serapide [16] , identificando quest’ultimo con il Sole e con Giove, e contestualmente lo stesso Osiride con Giove e Bacco, approdando così ad una singolare equivalenza tra le figure di Serapide, Osiride, Bacco e Giove.   

Si instaura dunque, tra l’episodio del satiro che spia la ninfa dormiente e il mito di Semele e Giove, un complicato incontro di significati e di equivalenze simboliche, poiché il personaggio di Priapo insieme ai due satirelli con il vaso di vino e i serpenti, richiama immediatamente non solo la figura di Bacco figlio di Semele e Giove, citazione rafforzata dalla nitida somiglianza della posa della ninfa dormiente con quella della celebre Arianna vaticana, che raffigura appunto la donna che secondo il mito fu amata dallo stesso dio, e che in tempi di poco successivi alla stesura dell’Hypnerotomachia sarebbe stata adattata a fontana nel giardino del Belvedere in Vaticano, ma anche, e in termini però certamente più criptici, il personaggio di Giove tramite la figura di Osiride, riferimento che nella personale visione del Colonna sarebbe potuto verosimilmente maturare nel contesto degli incontri intellettuali dell’Accademia Romana, come frutto della fusione tra la versione di Diodoro e naturalmente, la concezione di Pomponio Leto [17] . Se la drammatica vicenda amorosa di Semele e Giove può essere interpretata come la trasposizione simbolico-letteraria dell’amore di Francesco Colonna-Polifilo e Polia, in ragione della cristallina somiglianza della drammatica condizione sentimentale dell’autore e della fanciulla di Tebe, esemplificata dalla metafora di Polifilo che si scioglie come cera al sole a causa del suo amore per Polia, alla stregua di Semele bruciata dalla sua passione per Giove, allo stesso modo la tentazione mentale di Polifilo di toccare il sensuale corpo nudo della ninfa lo accomuna ai desideri del bramoso Priapo [18] , dando luogo così ad un’altra immedesimazione letteraria del protagonista dell’Hypnerotomachia perché possiamo identificare la circostanza come una metafora del desiderio carnale verso Polia, nell’occasione intesa come la donna terrena realmente amata dal Colonna e non come figura divina, della medesima sostanza della dantesca Beatrice.

Ancora, in riferimento alla particolare visione, che nella misura della sua originalità inventiva, potremmo definire quasi “mitografica”, del Leto, non è inutile rilevare come questi fosse particolarmente affascinato dall’idea della corrispondenza simbolica delle divinità con gli elementi naturali e ciò è di estremo interesse, perché il dio Osiride, che come abbiamo rilevato, secondo Calvesi sarebbe portato in processione in aspetto tricefalo e “priapésco” in occasione del trionfo di Cupido, e assimilato a Priapo da Diodoro Siculo, è anche, nell’elaborazione di Pomponio Leto, simbolo del Sole, e cioè del Fuoco, l’elemento dominante nell’episodio della morte di Semele.

In virtù di queste considerazioni, è ragionevole ribadire e concludere che il mito dell’amore di Giove e Semele rappresentasse nelle intenzioni dell’autore  immedesimato nel personaggio di Polifilo, una sofisticata e criptica allegoria della sua vicenda sentimentale con Polia, trasfigurata dunque in una dimensione squisitamente letteraria, attraverso un modus operandi allegorico prossimo a quello di Dante, e soprattutto in conseguenza di una raffinata elaborazione ermetica informata a quel sincretismo paganeggiante ed eterodosso che fermentava nell’ambito dell’Accademia Romana, dalla cui influenza, combinata naturalmente alle proprie intime suggestioni letterarie, Francesco Colonna romano poteva giungere ad assimilare liberamente, sullo stesso piano significante, figure come Osiride e Priapo, Giove e Bacco, nonché riconoscere se stesso, in un personalissimo intreccio biografico-letterario, nella condizione di Dante e dell’amico Nicola Della Valle, così come in quella di Semele, folgorata dall’amore per Giove, omologo di Polia.







NOTE

[1] A proposito, è utile ricordare che secondo Lamberto Donati (Studio esegetico del Polifilo, “La Bibliofilia”, LII, 1950, 2, pp. 128-162; Una marca tipografica di Francesco di Jacopo della Sfera ed il problema del Polifilo, “Accademie e Biblioteche d’Italia”, XXV, 1957, 4-6, pp. 246-261; cit. da Calvesi 1996, p. 246, n. 61, nt. 1) in diversi disegni dell’Hypnerotomachia non ascrivibili all’autore del romanzo, si rilevano dipendenze iconografiche da Benozzo Gozzoli.

[2] L’eventuale, seppur blando, legame formale con questo brano di Benozzo Gozzoli sarebbe plausibile in ragione del fatto che l’anno della sua realizzazione (1491) potrebbe essere di poco precedente all’inizio della stesura dell’Hypnerotomachia Poliphili che secondo Calvesi dovrebbe collocarsi nei primissimi anni ’90 del XV secolo.

[3] Come nel caso dell’analogia del secondo riquadro della prima xilografia col brano di Benozzo Gozzoli, anche in questo frangente l’eventuale rapporto di dipendenza dell’iconografia di Giove che porge Bacco a Mercurio dall’esemplare di Filippino Lippi sarebbe cronologicamente coerente, considerando che la tavola di Monaco è databile al 1493 circa, mentre la stesura dell’Hypnerotomachia Poliphili si colloca nei primissimi anni '90 (vedi anche nt.2).

[4] “Ardentes gemmas superat carbunculus omnes / … huius nec tenebrae possunt extinguere lucem / … Nascitur in Libia Tragoditarum regione”, Marbodo di Rennes, De lapidibus 23, cit. da Ariani-Gabriele 2010, p. 806, HP 170, nt. 2.

[5] Si pensi in questo senso ad un passo del Roman de la Rose, dove un carbonchio sfolgora vicino alla “fonteine de vie” e simboleggia l’amore divino che infiamma l’universo, cit. da Ariani-Gabriele 2010, p. 1056, HP 360, nt. 11.

[6] Calvesi 1996, pp. 252-253, n. 69, nt. 14.

[7] Umanista, figlio di Lelio Della Valle che nel 1468 prese le difese dell’Accademia Romana di Pomponio Leto, i cui seguaci furono osteggiati, a causa dell’eterodossia delle proprie concezioni culturali e filosofiche, da Paolo II e incarcerati su ordine dello stesso pontefice. 

[8] Nell’epistola del Della Valle, Cinzia è immota, il suo petto è duro come il diamante ed è spietata come le tigri dell’Ircania; similmente Polia mostra a Polifilo un “core silvestrico e ferino, (…) il quale se induritava persistente incontaminato indomito, immoto et crudamente lapidescente. Non altramente ignaro di mansuetudine, et exempto di pietate, si essa nata fusse in Hyrcania” (Hypnerotomachia Poliphili 454). L’epistola, conservata a Palermo presso la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana (cod. I B 6, ff. 54 v – 61 v), è stata pubblicata da Silvia Danesi Squarzina in Francesco Colonna principe, letterato e la sua cerchia, “Storia dell’Arte 60, maggio 1987, pp. 137-154, cit. da Calvesi 1996, pp. 120-125, n. 44 e p. 239, n. 44, nt. 1.

[9] Come sottolinea De Nichilo (1989), questo carme di Nicola Della Valle è una sorta di rifacimento in forme più rigorosamente classiche della Lidia bella puella candida di Cornelio Gallo.

[10] Calvesi 1996, n. 44, pp. 124-125.

[11] Ibidem, p. 201.

[12] In Classico anticlassico. Il Rinascimento da Brunelleschi a Bruegel (Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 9-10), quando pone a confronto i differenti linguaggi di Brunelleschi, Donatello e Ghiberti, Argan sostiene che i primi due prediligono raffigurare un’azione ben delineata a inequivocabile, decisa, conchiusa nel tempo e definitiva, associabile all’idea di un tempo verbale minimo e finito, come il presente o il passato, mentre Ghiberti rappresenta personaggi che non intraprendono azioni decise e ben individuabili, ma suscettibili di epiloghi poco chiaramente identificabili, espressioni dunque di un tempo dilatato e sospeso, come quello del condizionale.

[13] Calvesi 1996, n. 64, p. 178.

[14] Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.

[15] Ibidem.

[16] Nella figura di Serapide, il cui culto fu introdotto in Alessandria d’Egitto da Tolomeo I (366 a.C. – 283 a.C.) confluirono lo Zeus ellenico e l’Osiride egiziano. Celebre la statua di Serapide realizzata da Briasside per il Serapeion di Alessandria, di cui è conservata una copia romana di piccolo formato presso il Museo Ostiense di Ostia.

[17] Come rileva Stefano Colonna, la riscoperta filologica dei Priapea dell’Appendix Vergiliana all’interno della cerchia di Pomponio Leto, fu probabilmente alla base del culto di Priapo nell’Hypnerotomachia (Colonna 2012, p. 274).

Questa circostanza può verosimilmente aver stimolato nella personale elaborazione di Francesco Colonna romano le sincretistiche e criptiche equivalenze semantiche tra i personaggi di Priapo, Osiride, Giove, Bacco.

[18] “Le coxe erano ancora debitamente pulpidule cum gli carnosi genui moderatamente alquanto ad sé ritracti, monstrando gli sui stricti petioli incitanti di ponere la mano et pertrectarli et strengerli. Et il residuo dil formosissimo corpo, provocava chi fortuito simigliante ella ritrovato se fusse” (HP 72).






BIBLIOGRAFIA

 

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Silvia Urbini, Il Polifilo e gli altri. Libri figurati sul finire del Quattrocento, in Verso il Polifilo 1499-1999, a cura di Dino Casagrande e Alessandro Scarsella, Venezia, Miscellanea Marciana, XIII, 1998, pp. 49-78.

 

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Paul Zanker, Björn Christian Ewald, Vivere con i miti. L’iconografia dei sarcofagi romani, (Titolo originale: Mit Mythen leben. Die Bilderwelt der römischen Sarkophage, München, Hirmer Verlag GmbH, 2004) Torino, Bollati Boringhieri, 2008.

 

 

SITOGRAFIA

 

ICONOS

Cattedra di Iconografia e Iconologia, Dipartimento di Storia dell’arte e spettacolo, Facoltà di Lettere e Filosofia, Sapienza Università di Roma, vedi argomento Giove, Semele e la nascita di Bacco.

www.iconos.it





Vedi nel BTA: LE XILOGRAFIE DELL'HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI






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Fig. 3
Nascita di Dioniso da Zeus, trasporto di Dioniso, morte di Semele
II-III sec. d.C., rilievo di marmo (presumibilmente sarcofago) da Minturno,
Zagabria, Museo Archeologico.
Foto cortesia di Iconos.

Fig. 4
Pittore di Semele, Morte di Semele
390 a.C. circa, hydria attica a figure rosse,
Berkeley (California), Lowie Museum.
Foto cortesia di Iconos.

Fig. 5
Pittore di Arpi (attr.), Morte di Semele
330 a.C.-310/300 a.C., cratere a figure rosse,
Tampa Bay, Museum of Art, Florida, dono di Mr. and Mrs. C. W. Sahlman (1987).
Foto cortesia di Iconos.

Fig. 6
Domenico Ghirlandaio, Annuncio della morte di Santa Fina
1473-1475, affresco,
San Gimignano, Collegiata di Santa Maria Assunta, Cappella di Santa Fina.

Fig. 7
Morte di Semele
I-II sec. d.C.,
Liverpool, Merseyside County Museum, già Ince Blundell Hall, da Roma, Palazzo Capponi.
Foto cortesia di Iconos.

Fig. 8
Nascita di Dioniso da Semele
V sec. d.C., pisside in avorio inciso,
Bologna, Musei Civici, dalla collezione Palagi.
Foto cortesia di Iconos.

Fig. 9
Benozzo Gozzoli, Natività di Maria
particolare, dal Tabernacolo della Visitazione, 1491, affresco,
Castelfiorentino, BEGO - Museo Benozzo Gozzoli.

Fig. 10
Filippino Lippi, Apparizione di Cristo alla Vergine
1493, olio su tavola,
Monaco di Baviera, Alte Pinakothek.

Fig. 11
Piero della Francesca, L'adorazione del sacro legno e L'incontro di Salomone con la regina di Saba
1452-1466, affresco,
Arezzo, basilica di San Francesco, Cappella Bacci.

Fig. 12
La fontana della fecondità
xilografia dall'Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499.

Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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