Fig. 1: Xilo-58 - (a) Giove tra i fulmini visita Semele, (b) Bacco estratto dalle ceneri, Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499
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Fig. 2: Xilo-60 - L'educazione di Bacco, Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499
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"EL QUARTO triumpho quatro rote el portavano di ferrineo Asvesto Archado una fiata
accenso renuente la extinctione. Il residuo di tabulatura quadrangula, cum il
modo antedicto, era di folgorante carbunculo tragoditano, non temendo le dense
tenebre, di expolitissime caelature, longo di ragionamento distinctamente. Ma
quale operature considerare si doverebe in quale loco, et da quale artifice
furono fabricate.
Dunque
la dextera facia optimamente tale dimostrava historia. Una venerabile matrona
praegnante. Alla quale el summo Iupiter divinamente (quale cum la Dea Iunione
sole) cum tonitri et fulmini li appariva, in tanto che accensa se cremava in
cinere, et del combusto, uno nobilissimo et divo infantulo extrahevano.
Ne
l’altra io mirai esso opitulatore Iupiter, quello medesimo infantulo, ad uno
caeleste homo talaricato et caducifero gli offeriva. Et questo poscia in uno
antro a multe Nymphe nutriendo el commendava.".
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"Il
quarto carro era dotato di quattro ruote di ferrigno asbesto arcadico,
inestinguibile una volta acceso. Le lastre quadrangolari, nei modi già detti,
erano di corrusco carbonchio tragoditano che non teme le tenebre più fitte, con
raffinatissime incisioni: ma troppo lungo e particolareggiato sarebbe il
discorso se si dovesse considerare in quale luogo e da quale artefice vennero
create opere simili.
Dunque,
la facciata destra mostrava con grande evidenza questa scena: una venerabile
matrona incinta, alla quale il sommo Giove, come è solito fare con la dea Giunone,
appariva fra tuoni e lampi nello splendore della sua numinosità al punto che,
investita dalle fiamme, si consumava fino a incenerirsi. Da una tale
combustione veniva estratto un nobilissimo, divino fanciullo.
Nell’altra
ammirai il soccorrevole Giove mentre porgeva il fanciullo a una creatura
celeste col caduceo e i calzari alati, il quale a sua volta lo affidava in
custodia a numerose ninfe perché lo nutrissero in una grotta.".
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Polifilo
descrive il quarto carro, dotato di ruote fiammeggianti e di preziose lastre di
splendente rubino, corredate di eleganti incisioni.
Nella
scena ritratta all’interno del riquadro sinistro della prima xilografia (Fig. 1a),
il protagonista osserva una donna incinta distesa sul letto davanti alla quale
appare Giove, circondato da fulmini e fiamme che si propagano nella stanza sino
a bruciare il corpo della gestante, mentre nell’illustrazione che segue, una
fanciulla trae un neonato dai resti della combustione, un’altra sostiene il piccolo
e altre tre donne assistono alla scena.
Si
tratta dell’episodio mitico della nascita di Bacco dalla relazione amorosa tra
Giove e Semele, principessa figlia di Cadmo, re di Tebe, e di Armonia.
Giunone,
irata per aver scoperto il tradimento di suo marito Giove con Semele, a causa
del quale quest’ultima è rimasta incinta, decide di vendicarsi con un subdolo
inganno: “incanutendo le tempie, solcando la pelle di rughe e trascinando con
passo tremante le membra incurvate”, (Ovidio, Metamorfosi, III, vv.
278-280) assume le sembianze di Beroe, l’anziana nutrice della fanciulla e si
introduce così nel palazzo reale di Cadmo per insinuare nell’animo di Semele il
dubbio che il suo amante non fosse davvero il sovrano degli dei, istigandola a
supplicare Giove di apparirle nel suo aspetto divino, consapevole del fatto che
la stessa giovane mortale non sarebbe sopravvissuta alla potenza dell’evento
celeste e forte della promessa, accordatale dal dio, che questi non avrebbe
avvisato la fanciulla della fatalità della circostanza.
Semele
dunque, persuasa dalle parole della “falsa” Beroe, prega Giove di manifestarsi
nelle sue sembianze celesti, come era solito fare con sua moglie Giunone e il
dio, vinto dall’amore per la bella fanciulla, promette di accontentarla,
concedendole il giuramento sullo Stige, sacro e irrevocabile. Giove si presenta
così, nelle fattezze di un nugolo di fulmini, presso l’abitazione della giovane
amante. La violenta conflagrazione incenerisce Semele, ma un momento prima
della sua morte, il dio estrae dal ventre della donna il prematuro Bacco e se
lo cuce in una coscia per portarne a termine la gestazione; dopo la nascita,
Giove affida il piccolo a Ino, sorella di Semele, che trascorsi i primi mesi di
vita lo consegna alle ninfe del monte Nisa. Secondo alcune tradizioni, tra cui
quella orfica, Bacco trasse sua madre fuori dall’Ade rendendola immortale,
evento in seguito al quale Semele avrebbe assunto il nome di Thyone.
La
più antica versione del mito di Semele si trova nel Libro XIV dell’Iliade dove
Omero cita sinteticamente: “(…) e Semele generò Dioniso, letizia degli uomini (…)”
(v. 325).
La
descrizione di Polifilo contamina invece altre fonti esistenti, in particolare
quelle in cui si indugia sul racconto, più o meno dettagliato, del tragico
evento della folgorazione della principessa tebana e in questo senso possiamo
ravvisare innanzitutto delle affinità con la narrazione che compare nelle Baccanti
di Euripide, dove il ricordo della vicenda è affidato allo stesso figlio di
Semele, Dioniso appunto, che annuncia: “Eccomi, sono qui, in questa terra di
Tebe, io, figlio di Zeus, Dionìso: mi genera – un tempo – la vergine di Cadmo,
Sèmele, aiutata nel parto dal fuoco della folgore (…)” (vv. 1-3), e aggiunge: “(…) Vedo la tomba di
mia madre, lei, la folgorata, là vicino al palazzo, e vedo le macerie della sua
camera in fumo, avvampate dal fuoco ancora vivo di Zeus (…)” (vv. 6-8).
Prosegue Euripide, che riferendosi a Dioniso riporta: “(…) Lo serbava nel
grembo, un giorno, la madre tra doglie di parto fatali. Poi volò a piombo il
tuono di Zeus, lei lo espulse dal ventre, e schiantata dal fulmine lasciò la
vita (…)” (vv. 89-94). Prossimo al brano dell’Hypnerotomachia anche il passo
delle Metamorfosi di Ovidio dove il poeta sottolinea che il dono nuziale
di Giove “incenerì” la sua amata (v. 401), mentre nei Dialoghi degli Dei,
il poeta Luciano (II sec. d.C.) fa raccontare a Ermete, all’interno del dialogo
con Posidone, il tragico episodio, soffermandosi su alcuni particolari come il
tetto della casa di Semele incendiato a causa delle folgori di Giove e il fatto
che Bacco fosse ancora prematuro, di appena sette mesi. Ancora negli Inni
Orfici (I-II sec. d.C.) si narra che “Semele subì grandi doglie a causa dello
splendore portatore di fuoco, bruciata per i voleri dell’immortale Zeus
Cronide” (44): questi componimenti sono di particolare importanza perché in
essi si fa riferimento alla venerazione di Semele come dea immortale in
occasione dei misteri bacchici. Nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli (V
sec. d.C.) il racconto è estremamente dettagliato e l’autore sottolinea come fu
Semele a toccare il fulmine di Giove e a rimanerne folgorata in quel letto che
divenne nello stesso istante anche la sua tomba (Canto 8, vv. 389-393).
Nella
tradizione letteraria italiana ricordiamo Dante che accenna al mito nel XXI
Canto del Paradiso dove paragona se stesso a Semele, e implicitamente, Beatrice
a Giove, poiché se la sua amata gli sorridesse, egli, essendo un comune
mortale, non potrebbe sostenere il fulgore del suo sorriso e diverrebbe come
“fu Semelè quando di cener fessi” (v. 6), e Giovanni Boccaccio che narra il
mito di Semele nelle sue Genealogie deorum gentilium libri
(1347).
Queste
appena enunciate sono solo alcune delle principali fonti letterarie della vicenda
mitica, che dunque, al momento della stesura dell’Hypnerotomachia Poliphili
vantava una consistente e multiforme tradizione.
Le
testimonianze figurative che illustrano i vari momenti di questo mito possono
invece essere classificate in tre gruppi principali.
Il
primo comprende gli esemplari in cui viene descritto un episodio successivo
alla morte di Semele, generalmente l’anagogè della principessa tebana, ossia
la sua ascesa all’Olimpo dopo che suo figlio Bacco l’ha tratta in salvo dall’Ade,
rendendola immortale, oppure una scena in cui questa è raffigurata stante
davanti allo stesso Bacco dopo la sua resurrezione. Esemplari in cui compaiono
illustrazioni di questo genere sono diffusi soprattutto in età arcaica (VI
secolo a.C.), circostanza che in qualche modo dovette essere favorita
dall’istituzione delle Grandi Dionisie da parte di Pisistrato, evento grazie al
quale Semele e Bacco acquisirono un’importanza fondamentale nell’ambito della
religiosità ufficiale.
Nel
secondo gruppo rientrano invece quei manufatti artistici che presentano scene
della nascita di Bacco dalla coscia di Giove dopo la morte di Semele, sovente
associate a episodi dell’infanzia del dio del vino presso le ninfe e anche in
questo caso si tratta di una tradizione piuttosto antica, risalente almeno alla
fine del VI secolo.
Infine,
nel terzo gruppo, che qui ci interessa particolarmente, si collocano quegli
esemplari dove viene posto in primo piano il momento della morte di Semele, isolato,
oppure affiancato alla scena della nascita del piccolo dio da Giove, come
testimonia ad esempio un rilievo in marmo proveniente da Minturno e conservato
al Museo Archeologico di Zagabria (Fig. 3). L’episodio drammatico della morte
della figlia di Cadmo inizia a diffondersi intorno agli inizi del IV secolo: su un’hydria attica a figure rosse, invero
assai rovinata e attribuita al Pittore di Semele, databile intorno al 390 a.C.,
è raffigurato il momento in cui la donna dormiente, distesa sulla kliné, sta
per essere uccisa dal fulmine di Giove (Fig. 4), ma l’esordio di questo tema, o
più precisamente, di esemplari figurativi che lo richiamano, può essere anche
anticipato, a ben vedere, alla prima metà del V secolo e lo prova ad esempio
un’anfora attica dipinta con la tecnica a figure rosse, attribuita al Pittore
di Berlino, proveniente da Nola e conservata al British Museum di Londra, dove sono raffigurati Semele che fugge e Giove che la rincorre con
dei fulmini in mano, evento che chiaramente anticipa, attraverso una gestualità
piuttosto singolare, la fine drammatica della giovane di Tebe.
È soprattutto però a partire dal II secolo d.C. che il tema della morte della
fanciulla conosce un’affermazione più ampia, distinguendosi come uno dei
soggetti adottati per la decorazione di sarcofagi romani, in verità tuttavia
non tra i più frequenti, a fronte di altre tematiche di più ampia diffusione.
Nella
xilografia del “Polifilo”, la figura di Semele (Fig. 1a) dormiente sul letto –
gli occhi sono chiaramente chiusi - ricorda dal punto di vista formale e
compositivo, l’immagine, già citata sopra, attribuita al Pittore di Semele (Fig.
4), che compare sull’anfora attica degli inizi del IV secolo a.C. ma anche il
ritratto del rilievo di Zagabria, mentre quella di Giove è senza dubbio
l’elemento iconograficamente più interessante, perché il busto del dio
circondato da una nube di fiamme sospesa in aria, rappresenta una sorta di
sintesi tra un ritratto assolutamente corporeo e concreto, come quello del già
menzionato marmo croato, dove il padre degli dei è descritto nella sua
prorompente fisicità terrena col solo attributo del fulmine a certificarne la
natura divina (Fig. 3), e una rappresentazione spinta al massimo
dell’astrazione e del simbolismo, carattere riscontrabile ad esempio in un vaso
apulo a figure rosse, ascritto al Pittore di Arpi e databile intorno alla fine
del IV secolo d.C., in cui Giove è evocato da una fitta serie di linee
verticali parallele che piombano dall’alto, a significare la pioggia di fulmini
che si abbatte fatalmente su Semele, qui nuda, a ricordare il fatto che la sua
morte avvenne durante il rapporto sessuale con Giove, e sorretta da alcune
donne (Fig. 5).
Nella
nostra xilografia invece, il personaggio di Giove, raffigurato con la parte
superiore del corpo emergente da un groviglio di fiamme, sorprendentemente si
avvicina, più che a precedenti figurativi antichi che narrano il mito di Semele
o ad altre illustrazioni di cui egli è protagonista, a immagini più peculiari
di certe iconografie cristiane e precisamente a quelle che rappresentano eventi
sovrannaturali o miracolistici, caratterizzati spesso dalla presenza di
personaggi che si librano in aria, come nel caso del tema della “Trasfigurazione
di Cristo” o di apparizioni di Santi: proprio in relazione a quest’ultima
categoria, emerge un’evidentissima
affinità della xilografia polifilesca con una testimonianza pittorica praticamente
contemporanea alla realizzazione dell’Hypnerotomachia: l’affresco con l’Annuncio
della morte di Santa Fina o Apparizione di san Gregorio, dalle Storie
di santa Fina, opera di Ghirlandaio degli anni 1473-1475, dipinto presso la
cappella di Santa Fina nella Collegiata di San Gimignano (Fig. 6). In questa
scena, lo schema compositivo è pressoché identico a quello proposto nella
xilografia di Semele folgorata da Giove, con l’apparizione celeste di San
Gregorio, ritratto a mezzobusto, sospeso in aria, circondato e sostenuto da un
gruppo di angeli serafini, in un interno domestico, mentre annuncia la morte a
Fina distesa sul pavimento e assistita da due donne, in una singolare quanto ovviamente
casuale analogia semantica con la nostra xilografia dove appunto la comparsa di
Giove è insieme manifestazione divina e annuncio di morte per la principessa di
Tebe che giace dormiente sul letto, secondo una posa simile a quella di Fina
prossima alla sua fine terrena e alla santità nell’affresco toscano, che
tuttavia è ritratta con gli occhi aperti mentre contempla la miracolosa
apparizione del santo. L’idea che il misterioso autore delle xilografie dell’Hypnerotomachia
possa essere stato ispirato direttamente dal precedente pittorico del
Ghirlandaio è piuttosto difficile da convalidare, soprattutto nell’evidenza del
suo anonimato, ma la circostanza può essere certamente plausibile anche in
virtù della contemporaneità cronologica delle due testimonianze e naturalmente,
della circolazione di modelli e disegni nell’Italia rinascimentale: in questa ottica d'altra parte, lo stesso affresco del Ghirlandaio echeggia un'iconografia dell'evento dell'apparizione piuttosto comune nelle "Annunciazioni", come quella del Signorelli del 1491, conservata presso la Pinacoteca e Museo Civico di Volterra.
Nel
riquadro di destra (Fig. 1b) osserviamo un neonato, Bacco, che viene sollevato
dal letto da due donne, mentre altre tre assistono alla scena: un’immagine che,
fedelmente al racconto del Colonna, semplifica notevolmente la versione
tradizionale del mito, omettendo il particolare secondo cui Giove avrebbe
estratto il nascituro dal ventre di Semele mentre questa bruciava e in seguito
cucito il piccolo dentro una sua coscia.
Dopo
la venuta al mondo, Bacco sarebbe stato consegnato a Ino, sorella di Semele,
che lo avrebbe allevato nei primissimi mesi di vita per poi affidarlo alle cure
delle ninfe di Nisa, ma qui Polifilo non specifica affatto queste circostanze,
limitandosi a sostenere che da “una tale combustione veniva estratto un nobilissimo,
divino fanciullo”.
Dal
punto di vista compositivo la xilografia, con il bambino che viene tratto da
una specie di poltiglia che sembra essere lo strato di cenere che resta della
combustione, denuncia una somiglianza con alcuni esemplari plastici antichi
dove la disposizione delle figure femminili attorno al letto della giovane
tebana morente ricorda quella che ritroviamo in questa scena: un rilievo
databile al I-II secolo d.C. e conservato a Liverpool, dove sono raffigurati
simultaneamente la morte di Semele, ritratta sul letto col corpo ormai privo di
vita disteso su un lato, e la nascita di Bacco, presenta un’analoga
distribuzione delle donne nello spazio (Fig. 7), ma soprattutto è simile la
gestualità delle due nutrici che sostengono il bambino, apprezzabile anche in
un sarcofago del 160 d.C. circa del Museo Chiaramonti in Città del Vaticano,
dove tuttavia l’azione è compiuta da una sola donna e in una pisside in avorio
del V secolo d.C., dei Musei Civici di Bologna (Fig. 8), nella quale troviamo Semele sulla klinè, che osserva la scena in cui il
bambino viene preso in braccio da una nutrice, con un movimento molto vicino a
quello della donna ritratta di spalle nella nostra xilografia e anticipatore del modello compositivo del tema della “Natività
della Vergine”, che nella scena del “Polifilo” può anche essere stato adottato
come possibile fonte di ispirazione, perché anche in questa circostanza,
similmente a quanto constatato in occasione della prima scena e della sua
prossimità all’affresco del Ghirlandaio, possiamo ravvisare una somiglianza nei
gesti e nella disposizione delle figure, sebbene non così lampante come in
occasione dell’esempio precedente, con un particolare di una testimonianza
figurativa di nuovo contemporanea all’Hypnerotomachia e attinente anche
in questo frangente un soggetto
cristiano, l’affresco della Natività di Maria dal Tabernacolo della
Visitazione di Benozzo Gozzoli, del 1491, dove una delle due
nutrici tiene in braccio la Vergine appena nata e l’altra allunga una mano
quasi a volerla sostenere (Fig. 9), esprimendo entrambe delle movenze molto simili appunto a quella
delle due donne che sollevano Bacco nella nostra xilografia, un indizio che
potrebbe presupporre anche in questa circostanza l’eventuale conoscenza da parte dell’anonimo autore del “Polifilo”, di questo modello formale o di altri ad esso riconducibili in quanto suoi verosimili esemplari di riferimento, specificamente individuabili nella tradizione gotica, come testimonia ad esempio il brano della Natività di Maria, affrescato nel 1365 da Giovanni da Milano nella Cappella Rinuccini in Santa Croce, a Firenze".
Le
figure femminili che assistono alla nascita di Bacco difficilmente possono
essere identificate nelle ninfe di Nisa che allevarono il piccolo dopo che
questi fu affidato alle cure di Ino, la sorella di Semele, durante i suoi
primissimi anni di vita, poiché queste sono tra i protagonisti della xilografia
successiva di cui parleremo tra poco, per cui nelle donne di questa scena
dovremmo necessariamente individuare soggetti diversi e verosimilmente, in
quella che tiene in braccio il neonato stringendoselo al petto, proprio la
stessa Ino, mentre le altre donne potrebbero essere delle semplici nutrici, e
non le altre due sorelle di Semele, ossia Agave e Autonoe insieme ad altre due
balie, perché le fonti non citano affatto la circostanza che alle primissime
cure di Bacco presero parte oltre a Ino le altre figlie di Cadmo.
Nella
seconda xilografia (Fig. 2), Polifilo osserva Giove porgere il fanciullo ad un
personaggio celeste col caduceo ed i calzari alati, attributi che rendono il
personaggio immediatamente identificabile in Mercurio, corrispondente del dio
greco Hermes, che nel brano successivo dell’illustrazione affida il piccolo
Bacco ad alcune ninfe che si affacciano dall’ingresso di una grotta.
Qui
Francesco Colonna sembra ispirarsi in parte a Igino che nelle Fabulae riferisce
che Mercurio salvò il piccolo Bacco dal fuoco e lo affidò alla ninfa Niso, e
contamina questa versione con quelle di Apollodoro (Biblioteca, III, 6),
in cui Giove consegna il neonato a Mercurio che poi lo porta a Ino e quella di
Luciano che in un frangente dei già menzionati Dialoghi degli Dei affida
all’intervento in prima persona di Ermete il racconto della vicenda: “(…) Zeus
mi ordinò di tagliare il ventre della donna e di portargli il feto di sette
mesi ancora immaturo. Dopo che ebbi eseguito, aperta la coscia, ce lo misi
dentro, perché lì si completasse ed ora, già nel terzo mese, lo ha partorito ed
è spossato dalle doglie”.
A
livello iconografico la figura di Mercurio adotta una tipologia piuttosto
tradizionale, con il caduceo, il tipico copricapo ed i calzari alati, mentre i
caratteri più interessanti sono le particolarità formali e di composizione della
scena che, anche in questo caso, come nei due esempi precedenti, possono essere
avvicinate a testimonianze figurative di soggetto cristiano, cronologicamente vicine alla realizzazione del romanzo: la figura di Giove che
da dentro una nuvola porge il piccolo Bacco a Mercurio, ricalca una tipologia iconografica tipica, analogamente a quanto già riscontrato nel contesto del parallelismo tra la prima xilografia e l’esemplare del Ghirlandaio, delle apparizioni divine, e in virtù di ciò può essere accostata a quella del Padre Eterno benedicente entro un potente disco solare tra le nuvole plumbee, nell’olio su tavola con l’Apparizione di Cristo alla Vergine, di Filippino Lippi del 1493 circa (Fig. 10, Monaco di Baviera, Alte Pinakothek), mentre l’impianto generale del brano, con l’albero al centro che simbolicamente divide il primo episodio dal secondo, ove Mercurio affida il dio bambino alle ninfe che si affacciano dalla grotta, riprende l’espediente, assai comune nell’arte italiana medievale e rinascimentale, di separare i diversi momenti raffigurati in un’unica opera, attraverso l’adozione di elementi architettonici o naturalistici, come dimostra uno degli esempi più celebri di questa soluzione compositiva, l’affresco dell’Adorazione del sacro legno e L’incontro tra Salomone e la regina di Saba (1452-1466), realizzato da Piero della Francesca ad Arezzo, nella chiesa di San Francesco (Fig. 11).
Il
nucleo concettuale del mito di Giove e Semele ruota attorno alla prima delle
scene appena esaminate sul piano formale, quella della folgorazione della
principessa di Tebe, che rappresenta l’episodio fondamentale dell’intera
vicenda e sul quale è opportuno posare la nostra principale attenzione.
Constatiamo
innanzitutto il criptico simbolismo veicolato dal “folgorante carbunculo
tragoditano” di cui sono composte le lastre dove sono raffigurati i diversi
momenti del mito. Il “carbunculo”
infatti, altro non è che il carbonchio, ossia un rubino, che in latino veniva
chiamato “carbunculus” cioè piccolo carbone, perché in virtù del suo colore rosso
particolarmente brillante, splendeva nel buio come fosse un carbone ardente.
Marbodo, vescovo di Rennes (1035-1123), nel suo De lapidibus, un
poemetto che illustra le qualità scientifiche e i poteri magici delle pietre
preziose, descrive, in termini piuttosto prossimi a quelli che saranno utilizzati
dal Colonna,
questo straordinario pregio del carbonchio, sottolineando come la sua
luminosità superasse quella di tutte le altre gemme, tanto che anche le tenebre
non potevano oscurarla. La scelta di Francesco Colonna di relazionare l’episodio
che rappresenta il momento insieme più sublime e drammatico dell’amore tra
Giove e Semele al colore rosso del rubino, tradizionalmente considerato simbolo
della passione,
doveva sottendere un preciso significato perché la stessa espressione “folgorante
carbunculo”, che ricorda l’aspetto del carbone infuocato, può essere valutata come
una specie di sinestesia, sebbene non propriamente ortodossa sul piano
letterario, che allude, qualificandosi come una sorta di sua prefigurazione, al
tema del fuoco, immagine dell’ardore amoroso tra il dio e Semele ed elemento
dominante e distintivo nell’episodio della folgorazione della fanciulla tebana
inciso sulla lastra che osserva Polifilo, un legame questo, d’altronde ribadito
poco più avanti, quando il protagonista descrive la decorazione del
preziosissimo vaso posto sul carro, soffermandosi sull’immagine incisa di Giove
che afferra in una mano una sfolgorante spada aurea e soprattutto nell’altra,
un fulmine abbagliante tratto da una vena di rubino (Hypnerotomachia Poliphili
174).
La
plausibilità di questa ipotesi interpretativa può essere inoltre corroborata dall’idea
di Edgar Wind, confermata da Maurizio Calvesi, secondo cui i quattro trionfi
alluderebbero ai quattro elementi: Europa sul toro, la terra, Leda con il cigno,
l’acqua, Danae investita dalla pioggia d’oro che cade dal cielo, l’aria, infine
Semele bruciata, il fuoco, per cui anche in questa ottica il “folgorante
carbuncolo” è certamente valutabile come
raffinata allegoria di questo elemento e dei significati simbolici ad esso
correlati.
Tra
le fonti letterarie alle quali il Colonna può aver fatto riferimento in
occasione della narrazione di questo mito, ve n’è una particolarmente
significativa, perché contemporanea alla stesura dell’opera e soprattutto
afferente alla sfera privata dell’autore: si tratta di un’ epistola latina che l’amico
Nicola della Valle
gli inviava intorno al 1471, in cui, attraverso un linguaggio denso di topoi
classici, moderni e stilnovistici, descriveva al suo interlocutore i propri
patimenti d’amore per una donna di nome Cinzia, nome verosimilmente ispirato a quello della Cinzia di Properzio, rivisitata in chiave petrarchista, che però si mostrava nei suoi
confronti totalmente insensibile e ostile, analogamente a come apparirà Polia a
Polifilo in un brano dell’Hypnerotomachia, dove l’autore utilizza proprio
le medesime espressioni spese dal Della Valle per la sua amata.
Ma
soprattutto, dal confronto con altri frammenti dell’epistola, emerge una nuova
lampante similitudine: così come la fiamma d’amore divora metaforicamente il
Della Valle liquefacendolo come cera al fuoco, molto simile è la condizione di
Polifilo che con queste parole si rivolge alla sua donna: “Polia Sole mio
irradiantissimo, io tuto adusto infervescente quale liquabile cera me strugea liquabondo” (Hypnerotomachia Poliphili 391); l’affinità tra il testo del Della
Valle e le espressioni adottate da Francesco Colonna-Polifilo per la
descrizione di una situazione sentimentale caratterizzata dai medesimi risvolti
emotivi non può certamente essere considerata casuale, tanto che possiamo
ritenere l’influenza di questa testimonianza, diretta.
La
somiglianza delle immagini simboliche
del Della Valle consumato dal fuoco d’amore per Cinzia e di Polifilo che si
scioglie come cera al sole, ma anche, come abbiamo visto poco sopra, di Dante
che al cospetto di Beatrice paventa la stessa fine di Semele incenerita, con
quest’ultima, arsa dalle fiamme dei fulmini di Giove, è davvero evidentissima e
in questa ottica, Semele e Polifilo, Nicola Della Valle e Dante, possono essere
collocati nel medesimo campo dialettico di figure “deboli” della vicenda
sentimentale, mentre all’opposto, Giove, Polia, Cinzia e Beatrice, in quello di
personaggi “forti” che tengono in scacco i loro innamorati, secondo una rispondenza concettuale che può trovare una particolare giustificazione nel clima dell’umanesimo legato al movimento petrarchista che vedeva la luce proprio in quel periodo. Un'altra interessante
eco della prossimità del Colonna al Della Valle emerge dal fatto che tra le
fanciulle presenti proprio nel corteo del quarto trionfo in cui compare il
carro di Semele, figura una giovane di nome “Lidia”: infatti, “Lidia
formosas inter praeclara puellas” è il primo verso di un carme di Nicola
Della Valle
di cui alcuni passi vengono citati
testualmente nell’epistola del 1471 e in riferimento alla quale Mauro De
Nichilo ritiene che la “Lidia”
della processione possa identificarsi con la Cinzia amata dall’amico di
Francesco Colonna, contingenza che può essere valutata come ermetica allusione
alla figura di Polia alter ego di Cinzia nel singolare contesto della
narrazione di un’altra celebre e tragica vicenda d’amore, quella appunto di Semele
e Giove.
Il
parallelismo tra il padre degli dei e la donna amata da Polifilo si rafforza alla
luce del fatto che il nome di Polia, come osserva la Kretzulesko, riprende l’appellativo
di “Atena Polias”, un chiaro riferimento che suggerisce l’idea che ella non
sia solo la persona fisica amata da Francesco Colonna, ma soprattutto
all’interno del romanzo, l’allegoria di un alto ideale, collocandosi dunque
sullo stesso piano letterario e simbolico di Beatrice e della petrarchesca
Laura; secondo Calvesi, Polia rappresenterebbe quindi la Sapienza molteplice – non a caso nel romanzo viene accostata due volte a
Minerva – per cui il suo nome si qualificherebbe come un emblema lucreziano, significando
“tutte le cose”. Una sorta di figura suprema e trascendente quindi, una
divinità idealizzata, nei confronti della quale Polifilo da comune mortale, è
soggiogato alla stregua di Semele al cospetto di Giove e di Dante innanzi al
sorriso di Beatrice, ma anche del meno celebre Nicola Della Valle, vinto dal
suo amore debordante verso l’algida Cinzia. Inoltre, ritornando per un istante proprio
all’influenza dell’epistola dell’umanista romano su alcuni passi dell’Hypnerotomachia,
nel luogo del brano in cui Polifilo utilizza, per descrivere l’insensibilità di
Polia, le medesime espressioni adottate dal Della Valle per Cinzia, poco prima
di queste battute egli menziona alcuni
esempi di celebri storie d’amore, storiche e letterarie, proponendole come
paragoni della sua e nomina “quella, che per il marito fleto et declamato al
ardente rogo, deglutire volse gli carboni accensi” (Hypnerotomachia Poliphili
454): qui Polifilo allude a Porzia moglie di Bruto che secondo le
testimonianze di Valerio Massimo e Plutarco, quando seppe della sconfitta e
morte di suo marito a Filippi, non potendo sopportare il dolore di un dramma
simile, si uccise ingoiando braci ardenti. Il riferimento in un brano dove
Polifilo esprime le sue pene d’amore per Polia, ad una vicenda come quella di
Porzia in cui il fuoco dei carboni ardenti rappresenta la causa di morte per la
moglie di Bruto, richiama inevitabilmente alla memoria la storia tragica di
Semele, nel duplice legame con le fiamme dei fulmini di Giove e con il “folgorante
carbunculo tragoditano” della lastra ove il mito è narrato, e naturalmente l’esperienza
amorosa dello stesso Colonna-Polifilo che si consuma come cera al fuoco a causa
del suo amore per Polia, suo “Sole irradiantissimo”.
Proseguendo
nella ricerca di nuovi possibili legami col mito di Semele all’interno del
romanzo, che potrebbero ampliare e chiarire il quadro interpretativo della
nostra xilografia, un’altra interessante consonanza intercorre tra l’immagine
della tebana dormiente mentre viene consumata dalle fiamme e quella della fontana
modellata in forma di bellissima ninfa nuda addormentata nella quale si imbatte
Polifilo durante il suo fantastico peregrinare (Hypnerotomachia Poliphili
71). Nella scena che descrive il protagonista, la ninfa, dal fisico florido e
aggraziato, distesa su un lenzuolo poggiato a terra, è osservata, anzi più
precisamente spiata, da un satiro eccitato e ardente di desiderio, mentre altri
“dui satyruli infanti”, che tengono in mano l’uno un vaso e l’altro due
serpenti attorcigliati, vegliano sulla splendida fanciulla.
La
xilografia corrispondente (Fig. 12) mostra un impianto d’azione molto simile a
quello della scena che raffigura la morte di Semele: in entrambe le
illustrazioni infatti, individuiamo la presenza di un elemento femminile, la
ninfa e la principessa tebana, che sono ambedue dormienti e ignare della
minaccia maschile che sta per concretizzarsi su di loro, che nel caso della
vicenda di Semele è un evento già in atto e ineluttabile, d’altronde deciso
dalla stessa volontà della donna innamorata che su istigazione di Giunone supplica
Giove di manifestarsi nella sua essenza divina, e che nella scena polifilesca
appare però come un avvenimento assolutamente imprevisto proprio perché la
donna dorme e non si accorge di ciò che le sta accadendo, quasi a voler sottolineare
la fatalità dell’inganno di Giunone, ma anche al contrario, e in questo caso
prevarrebbe il concetto del libero arbitrio di Semele che sceglie di incontrare
Giove nel suo aspetto divino, la spontanea accettazione del destino da parte
della principessa di Tebe, poiché l’idea
della morte nel sonno ben si concilia col concetto del naturale svolgersi degli
eventi, senza alcuna opposizione consapevole della vittima, mentre
nell’episodio della ninfa la presenza del satiro che scosta furtivamente il lenzuolo
che fa ombra alla fanciulla, per spiarla, lascia solo intuire il possibile
compiersi di un suo approccio di natura sessuale, sospeso in un tempo d’azione
che Argan avrebbe definito “ghibertiano”, oscillante tra l’idea
del desiderio carnale del satiro e il suo timore di destare la ninfa, come
riferisce lo stesso Polifilo nel prosieguo della descrizione di questa fontana,
specificando come il satiro piegasse verso la donna dei rami di corbezzolo per
farle ombra e non disturbarne il sonno. A prescindere comunque da queste
sottili differenze nei comportamenti dei protagonisti nei due episodi, è
innegabile la familiarità riscontrabile tra la ninfa e Semele, entrambe
dormienti e oggetto delle attenzioni sessuali, più esplicita quella del satiro,
trasfigurata in una dimensione divina quella di Giove, di altrettanti personaggi
maschili, ma soprattutto le due scene possono essere ricondotte, come
conseguenza della personale rielaborazione di Francesco Colonna, all’interno di
un medesimo e più ampio contesto simbolico. Come è noto infatti, i Satiri sono
quei personaggi, dal corpo metà umano e metà caprino, dediti all’ebbrezza e ai
piaceri sessuali, che tradizionalmente compongono insieme alle Menadi e ai
Sileni il thiasos dionisiaco, e precisamente, nel caso della scena della
ninfa nuda spiata dal satiro, quest’ultimo è identificabile in Priapo, figlio
di Dioniso, perché il vaso per il vino e i due serpenti attorcigliati che
recano in mano i due piccoli satiri che lo accompagnano sono simboli
riconducibili al suo personaggio. L’evocazione della figura di Priapo è
individuabile anche alla fine del primo libro dell’Hypnerotomachia,
quando in occasione del trionfo di Cupido e Psiche, mentre viene portato in
processione il simulacro di un mostro a tre teste, di leone, di cane e di lupo,
sacro al dio egizio Serapide, una coppia di satiri, due appunto, come quelli
della xilografia della ninfa dormiente, issano due erme a tre teste recanti “lo
ithyphallio signo” (Hypnerotomachia Poliphili 344), ossia il pene
eretto, un idolo che secondo Calvesi dovrebbe essere
identificato nell’immagine del triplice Osiride, il dio egizio della cui virilità
lo storico Diodoro Siculo ritiene proprio Priapo
essere una deificazione, stabilendo dunque un’identificazione tra i due
personaggi.
Ancora
Diodoro assimila Osiride a Dioniso, e Iside, sposa del dio egizio, alla stessa
Semele, ma soprattutto Pomponio
Leto, profondo conoscitore della letteratura greca e fondatore della celebre
Accademia Romana, a cui apparteneva il nostro Francesco Colonna, e caratterizzata
da un clima di eterodossia letteraria, filosofica e spirituale, entro il quale
deve collocarsi la genesi dell’Hypnerotomachia Poliphili, che di quel
cenacolo culturale sembra essere una sorta di manifesto, aveva elaborato un
sincretismo mitologico secondo cui riconosceva in Osiride un prefigurazione di
Serapide,
identificando quest’ultimo con il Sole e con Giove, e contestualmente lo stesso
Osiride con Giove e Bacco, approdando così ad una singolare equivalenza tra le
figure di Serapide, Osiride, Bacco e Giove.
Si
instaura dunque, tra l’episodio del satiro che spia la ninfa dormiente e il
mito di Semele e Giove, un complicato incontro di significati e di equivalenze
simboliche, poiché il personaggio di Priapo insieme ai due satirelli con il
vaso di vino e i serpenti, richiama immediatamente non solo la figura di Bacco
figlio di Semele e Giove, citazione rafforzata dalla nitida somiglianza della
posa della ninfa dormiente con quella della celebre Arianna vaticana,
che raffigura appunto la donna che secondo il mito fu amata dallo stesso dio, e
che in tempi di poco successivi alla stesura dell’Hypnerotomachia
sarebbe stata adattata a fontana nel giardino del Belvedere in Vaticano, ma anche, e in
termini però certamente più criptici, il personaggio di Giove tramite la figura
di Osiride, riferimento che nella personale visione del Colonna sarebbe potuto
verosimilmente maturare nel contesto degli incontri intellettuali dell’Accademia
Romana, come frutto della fusione tra la versione di Diodoro e naturalmente, la
concezione di Pomponio Leto. Se la drammatica vicenda
amorosa di Semele e Giove può essere interpretata come la trasposizione
simbolico-letteraria dell’amore di Francesco Colonna-Polifilo e Polia, in
ragione della cristallina somiglianza della drammatica condizione sentimentale
dell’autore e della fanciulla di Tebe, esemplificata dalla metafora di Polifilo
che si scioglie come cera al sole a causa del suo amore per Polia, alla stregua
di Semele bruciata dalla sua passione per Giove, allo stesso modo la tentazione
mentale di Polifilo di toccare il sensuale corpo nudo della ninfa lo accomuna
ai desideri del bramoso Priapo, dando luogo così ad
un’altra immedesimazione letteraria del protagonista dell’Hypnerotomachia
perché possiamo identificare la circostanza come una metafora del desiderio
carnale verso Polia, nell’occasione intesa come la donna terrena realmente
amata dal Colonna e non come figura divina, della medesima sostanza della
dantesca Beatrice.
Ancora,
in riferimento alla particolare visione, che nella misura della sua originalità
inventiva, potremmo definire quasi “mitografica”, del Leto, non è inutile
rilevare come questi fosse particolarmente affascinato dall’idea della
corrispondenza simbolica delle divinità con gli elementi naturali e ciò è di
estremo interesse, perché il dio Osiride, che come abbiamo rilevato, secondo
Calvesi sarebbe portato in processione in aspetto tricefalo e “priapésco” in
occasione del trionfo di Cupido, e assimilato a Priapo da Diodoro Siculo, è
anche, nell’elaborazione di Pomponio Leto, simbolo del Sole, e cioè del Fuoco,
l’elemento dominante nell’episodio della morte di Semele.
In
virtù di queste considerazioni, è ragionevole ribadire e concludere che il mito
dell’amore di Giove e Semele rappresentasse nelle intenzioni dell’autore immedesimato nel personaggio di Polifilo, una
sofisticata e criptica allegoria della sua vicenda sentimentale con Polia,
trasfigurata dunque in una dimensione squisitamente letteraria, attraverso un modus
operandi allegorico prossimo a quello di Dante, e soprattutto in
conseguenza di una raffinata elaborazione ermetica informata a quel sincretismo
paganeggiante ed eterodosso che fermentava nell’ambito dell’Accademia Romana,
dalla cui influenza, combinata naturalmente alle proprie intime suggestioni
letterarie, Francesco Colonna romano poteva giungere ad assimilare liberamente,
sullo stesso piano significante, figure come Osiride e Priapo, Giove e Bacco,
nonché riconoscere se stesso, in un personalissimo intreccio
biografico-letterario, nella condizione di Dante e dell’amico Nicola Della
Valle, così come in quella di Semele, folgorata dall’amore per Giove, omologo
di Polia.
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originale: Mit Mythen leben. Die Bilderwelt der römischen Sarkophage,
München, Hirmer Verlag GmbH, 2004) Torino, Bollati Boringhieri, 2008.
SITOGRAFIA
ICONOS
Cattedra
di Iconografia e Iconologia, Dipartimento di Storia dell’arte e spettacolo,
Facoltà di Lettere e Filosofia, Sapienza Università di Roma, vedi argomento Giove, Semele e la nascita di Bacco.
www.iconos.it
Vedi nel BTA:
LE XILOGRAFIE DELL'HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI
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