Bruno Canova è un artista intimamente legato
al suo tempo, conscio della precarietà del mondo in cui vive. Le esperienze
vissute negli anni della Seconda Guerra Mondiale, dai bombardamenti alle
ripetute visioni di corpi senza vita, e soprattutto i terribili giorni nel
campo di concentramento tedesco, gli stroncano definitivamente la gioventù, lo
segnano in maniera permanente, provocando in lui una forte avversione, una vera
e propria repulsione, verso ogni tipo di violenza. La sua coscienza lo
costringe a schierarsi apertamente, in una battaglia culturale che si
contrappone a tutte le guerre, vecchie e nuove. Sente forte il suo ruolo nella
società, forse anche grazie alla situazione artistica italiana del dopoguerra,
e si impegna costantemente, nell’arco di tutta la vita, per diffondere un
ideale pacifista, a favore di una civiltà non disumana.
In questo testo si è deciso di inserire, oltre
alla produzione più strettamente incorporabile alla tematica della guerra,
anche una serie di opere, pittoriche e incisorie, che propongono il tema della Strage degli innocenti: seppur
cronologicamente più tarde rispetto a L’arte
della guerra, come dichiarato da Canova stesso, tali lavori sono
intimamente connessi con la tematica della Shoah, e si ritiene che debbano
venir letti congiuntamente in un’ottica più ampia, che comprende una produzione
impegnata sullo stesso fronte, con
intenti di denuncia egualmente importanti e con uno stile che, seppur
differente, risulta allo stesso modo tragico e toccante.
L’arte
della guerra
L’arte
della guerra è una creazione di estrema importanza nel corpus di opere canoviane, frutto di
lunga meditazione ed impegno. Può essere considerata la risposta di Canova
all’esigenza personale di prendere una posizione palese, di manifestare la
propria contrarietà alla brutalità storica dell’uomo. Parallelamente è una
dichiarazione di allerta, perché i tempi bui, in cui una moltitudine paga con
la vita gli errori di pochi, non sono ancora del tutto conclusi.
Canova comincia a lavorarvi nel 1966, senza
mai considerarla completamente terminata: persino negli ultimi anni di vita
ammette di essere alla continua ricerca di nuovi ritagli di giornale,
documenti, manifesti e testimonianze utili al racconto per la memoria. Il
volume L’arte della guerra è stato
pubblicato nel 1972 da Il Grifo,
la galleria d’arte che per prima ha ospitato la mostra itinerante: da quella
prima esposizione, per più di dieci anni è stata riproposta in centri pubblici
e privati di trentadue città italiane, “stazioni di una Passio volte a declamare, salmodiare la tragica litania dei silenzi
e delle grida della Storia sconfitta”,
una mostra che racconta le disumanità e le stoltezze di tutte le guerre e di
tutti i fascismi. La serie
di opere e il relativo volume ripercorrono le atrocità della guerra, gli
orrori che gli individui sono costretti a subire, le macchie indelebili
dell’umanità, in una sorta di excursus storico
che denuncia la violenza di sempre. Ma Canova non propone i precetti, le caratteristiche,
le strategie e le teorizzazioni di un’arte antica quanto l’uomo; al contrario
preferisce soffermarsi, per farvi riflettere, sugli incancellabili effetti che
essa produce. Il
complesso progetto, infatti, acquista enorme rilievo con il racconto
sconvolgente delle Leggi Razziali, della persecuzione degli ebrei e della
Shoah, di fortissimo impatto emotivo.
C’è grande partecipazione dell’artista nel
ricomporre i pezzi di quel mosaico atroce, che non ricostruisce come meri
documenti di un tempo oscuro, bensì come viva testimonianza di eventi che
sembrano perseguitare la storia dell’uomo. Nonostante Canova riviva con dolore
e sofferenza la ricostruzione di quei tragici momenti, si rivela capace di
ricomporli rigorosamente, tanto da realizzare un’opera avvicinabile ad uno
studio scientifico. Proprio in
virtù della sua umanità riproposta con rigore, dolente e disarmata, quest’opera
diventa uno spietato e preciso atto di accusa
contro una pratica che risale alla notte dei tempi.
Imprescindibile per la comprensione di ogni
opera e del volume, e la relativa inevitabile partecipazione emotiva, è la
lettura unitaria di parole ed immagini: le due componenti dei collages acquistano un valore aggiunto
se considerate unitariamente, come fossero immagini i documenti e documenti le
immagini. Ma non risulta un processo arduo, perché Canova costruisce
sapientemente i suoi mosaici, rendendo ogni immagine e ogni parola tanto
violenta e dolorosa quanto un fendente o un colpo proprio di quelle armi. Degno
di nota sembra il modo in cui Canova nomina il volume all’interno
dell’autobiografia: parla “dell’album L’arte
della guerra”. Questa
parola suggerisce, forse involontariamente, di sfogliare il libro come una
sorta di raccolta di momenti della “famiglia umana”, di certo i più tragici e
terribili, ma proprio quelli che è doveroso non dimenticare.
Le numerose opere possono essere raggruppate
per tematiche: La Prima Guerra Mondiale; la nascita e la progressiva crescita
del fenomeno fascista, comprendente l’apologia del duce, le pratiche dei
balilla, le disposizioni del partito; la Seconda Guerra Mondiale con i relativi
ordini di arruolamento e di ordine pubblico, lo sviluppo delle azioni militari
e le notizie dal fronte; i provvedimenti contro i traditori della patria e gli
avvisi con gli arresti per spionaggio; la dettagliata storia delle Leggi
Razziali, con il progressivo inasprirsi della persecuzione degli ebrei fino
alla Shoah; la liberazione.
L’arte
della guerra è una ricostruzione dettagliata della storia
di quegli anni, realizzata con un accostamento colto di particolari: la forza
espressiva di tali opere sta proprio nel lavoro di Canova, abile combinatore,
che mescola documenti storici a colori e segni che enfatizzano racconti di
un’epoca che tutti conosciamo, ma che spesso non riusciamo a capire, a sentire.
Osservare attentamente un pannello di questa serie significa lasciarsi
trascinare in quegli anni, percepirli sulla pelle, immedesimarsi in quelle
persone sconosciute che hanno vissuto tali efferatezze: sono immagini pungenti
e drammatiche, cariche di una forza sbalorditiva che non lascia insensibile
neanche il più distratto degli osservatori.
Il volume ripropone alcuni disegni e documenti
utilizzati nei pannelli, ma organizzati in un discorso più ampio, che ha, tra
gli altri, il chiaro intento di risultare testimonianza incontestabile della
natura belligerante dell’uomo. È un grande libro montato in metallo, che
compone uno “spaccato” poetico in cui le memorie del passato, sia quelle
private che quelle storiche, si fondono perfettamente,
creando nel lettore sensazioni di inquietudine che in parte permettono di
rivivere le angosce di quegli anni come un incubo sempre presente.
I documenti impressionanti inseriti nelle
pagine del volume raccontano in ordine cronologico le vicende belliche dalle
prime imprese italiane in Africa alla guerra del Vietnam. Apre l’opera il
diario libico del Capitano Arturo di Criscenzio, razzista e imperialista,
seguito, per contrasto, da quello di un ufficiale austriaco ignoto, combattente
nella Prima Guerra Mondiale, tremendamente umano e drammatico. Seguono gli
ordini repressivi in Cirenaica e le parole del duce inneggianti alle armi.
Articoli di giornale, che informano dell’approvazione delle Leggi Razziali,
introducono la Seconda Guerra Mondiale, in parte raccontata con le lettere di
persone che rassicurano i familiari dopo i duri bombardamenti, e con i
documenti riguardanti le Fosse Ardeatine. Nelle pagine successive si trovano
gli elenchi delle esecuzioni dei traditori che “hanno fatto spionaggio contro
la Germania”, i manifesti contro i dissidenti con le relative pene, e le
agghiaccianti parole di un repubblicano, che denuncia alle SS una famiglia
presso la quale hanno trovato rifugio dei partigiani: “Spero vorrete dare una
lezione molto severa a queste persone indegne di essere italiane”.
Tra questa lunga serie di nefasti documenti,
Canova inserisce il racconto commovente di una donna che ha voluto incontrare,
Lucia Apicella, da molti conosciuta come “mamma Lucia”: a cinquantanove anni,
appena finita la guerra, mamma Lucia cercò, dissotterrò, diede un’ identità e
seppellì in cassettine di zinco, da lei comprate, i resti di più di ottocento
salme di soldati ignoti e dimenticati, caduti durante gli aspri combattimenti
che seguirono lo sbarco di Salerno; nel volume sono riportate anche alcune le
lettere a lei inviate da madri che non avevano notizie dei figli soldati, dopo
la pubblicazione della sua storia sulla rivista “Stern”, nel 1950. Dopo questa
vicenda di speranza tornano le note dolenti: gli annunci del lancio della bomba
atomica, seguite dalle tremende testimonianze dei militari americani su quanto
avvenuto in Vietnam, in particolare a Son My.
La serie di documenti si chiude con una frase
di Bertrand Russel, che accompagna disegni di astronauti nell’atto di camminare
sul suolo lunare: “Come possono pretendere i governanti del mondo che l’uomo
esulti di fronte alle conquiste della tecnica spaziale, quando sulla testa di
ognuno sta un ordigno nucleare, capace di annientare in un attimo non soltanto
le conquiste della civiltà, ma l’uomo stesso?”.
Questa conclusione risulta assolutamente
coerente con il discorso che Canova sviluppa a livello figurativo: ogni
documento sopra descritto è fittamente intervallato e affiancato da disegni angosciosi,
raffiguranti diversi tipi di armi, antiche e moderne, e le loro vittime, corpi
senza vita, scheletri e brandelli umani. In quella che sembrerebbe
un’argomentazione volta ad avvalorare la tesi di un umanità da sempre violenta,
Canova ripropone un repertorio vastissimo di strumenti di morte, che ripercorre
la storia brutale dell’umanità: dalle asce ancestrali, accompagnate da pugnali
e lance, passa a spade, frecce e balestre medievali, per arrivare ai più
moderni fucili con baionette, moschetti, pistole e mitragliatori; conclude con
le contemporanee macchine del terrore, portaerei, sottomarini, aerei da
bombardamento, elicotteri, la bomba atomica e le armi chimiche. È presente
anche un vestiario di guerra: un repertorio di armature romane e medievali,
uniformi, elmi di ogni epoca che si evolvono nelle attuali maschere
antigas.
La vita umana è del tutto assente: ogni
elemento rappresentato simboleggia l’uomo, perché è l’uomo che ne fa uso in
vita, col paradossale scopo di distruggere altra vita; ma degli uomini sono
visibili solo brandelli di carne, ossa, scheletri e teschi, resti che ormai
sono diventati oggetti,
al pari di tutto il resto. L’unica presenza umana viva, “in carne” e non solo
ossa, è la figura di quello che sembra un soldato romano di profilo e a mezzo
busto, con un elmo con pennacchio e una lancia: forse Canova lo integra nel
discorso considerandolo parte del catalogo di armi vecchie e nuove.
Significativi sono i disegni degli edifici:
nei fabbricati lunghi con i tetti a spiovente si riconoscono le costruzioni dei
campi di sterminio; il Pentagono e la cupola della Casa Bianca fanno da sfondo
alle testimonianze del Vietnam, assieme all’immagine di un uomo torturato e di
una pistola puntata verso due braccia al cielo, in un gesto che ricorda Guernica. Non sorprende la presenza
dello stemma del Regno d’Italia, ricorrente anche nei pannelli. È visibile
inoltre una ciminiera fumante, che si può assimilare a quella di cui parla
ampiamente nell’autobiografia: la fabbrica in cui lavora nel lager è dotata di tre ciminiere, due delle quali progressivamente danneggiate e distrutte; la ciminiera centrale resisterà invece ad ogni attacco aereo, restando in piedi fino alla fine del conflitto (“Come da quell’ultima ciminiera riprendeva a uscire un po’ di
fumo, da quel momento dovevi aspettarti una nuova scarica di bombe. Il dilemma
era: sarà di giorno, o di notte? Fumo e ricognitore alleato sembravano avere un
appuntamento. Malgrado tonnellate di bombe sganciate, non sono mai riusciti a
colpirla: sembrava stregata, quella ciminiera”).
Fa rabbrividire l’immagine di uno scheletro
alato con una corona funebre in mano, situato al centro di un campo di croci
bianche, per la quale potrebbe aver preso spunto da un viaggio al cimitero
polacco di Cassino.
Alla sua base è raffigurata una corona d’alloro, ornamento che la tradizione
pone sul capo di generali vittoriosi, e una fiaccola corredata di nastri.
Nonostante sia un argomento tragico e funesto,
Canova riesce a descrivere un mondo che risulta poetico: Giuffrè gli
attribuisce l’abilità propria degli artisti “di cogliere nel tema o nel
problema affrontato quella misura universale che appartiene all’uomo al di là
della cronaca”. Riesce
quindi ad avvicinarsi a chi osserva, ad arrivare allo spettatore, grazie
soprattutto ad un montaggio critico ben delineato, erede del collage provocatore dadaista.
Ognuna di queste raffigurazioni risulta,
nell’accostamento alle parole, estremamente violenta, testimonianza immediata
ed efficace di morte. Una materia grigia, nebbiosa e indefinita, che forse
riproduce i calcinacci, la cenere e i fumi delle ciminiere, è il collante che
amalgama disegni e documenti.
A differenza di altre opere canoviane, in cui figure sparse nel foglio
richiamano alla rinfusa ricordi del passato, qui le immagini sono posizionate
in un ordine temporale scrupoloso, un discorso logico estremamente sensato, che
non lascia nulla al caso per non risultare in alcun modo ambiguo. È così che la
giustapposizione delle figure diventa leggibile anche da un punto di vista
spaziale, poiché rispetta l’ordine cronologico dei grandi temi proposti.
Il linguaggio verbale e visivo è perfettamente
strutturato, consapevole, caratteristica indispensabile per la giusta ricezione
di un messaggio importante. Masullo parla di un “linguaggio uguale a zero”,
riferendosi ad un accumulo di elementi che funge da dispersione, trasposto
nella dialettica “concentrazione / decentrazione” dell’essere umano: è una
figura che si ricollega alla logica dei campi di concentramento, dove vengono
concentrate enormi quantità di esistenza per essere distrutte e dissolte senza
residui.
In perfetto stile canoviano, la linea è protagonista. Il segno risulta “duro,
metallico, affonda e esce dalla materia come filo spinato dai calcinacci d’una
casa crollata, cuce e taglia, avvicina e allontana”.
Secondo Micacchi l’artista interviene “con un colore macerato e tormentato
graffiando, allontanando o avvicinando, fino a creare una orrida nebulosa
flottante con dentro gli orrori e le lacrime della guerra che si prende tutto
il tempo e lo spazio dell’uomo”.
Canova studia ogni singolo elemento, per
realizzare preziosi frammenti che, una volta montati nel grande mosaico
storico, siano utili strumenti che scuotono, invitando alla riflessione.
L’intento è quello di avvertire l’umanità sulla ciclicità della storia: troppo
spesso ci si è dimenticati di cosa è successo in precedenza, ripercorrendo le
stesse strade, riproponendo gli stessi comportamenti, perseguendo gli stessi
erronei propositi. L’uomo è cieco, dice Masullo,
e gli occhi memori Canova si investono del fondamentale incarico di svegliare
le coscienze, per tentare di far aprire gli occhi a tutti gli uomini figli di
un tempo crudele.
Canova mette in guardia l’umanità intera su un
pericolo ancora incombente, perché l’era del terrore non è ancora terminata. Il
primo avvertimento è espresso a chiare lettere in un particolare pannello,
dove, su fondo rosso, Canova trascrive la seguente dichiarazione di Brecht:
“Achtung! Achtung! Il grembo che partorì la cosa immonda è ancora fecondo”. Il
secondo, quello più contemporaneo e spaventosamente del tutto attuale, è
espresso nell’ultima pagina del volume, tra le due tabelle riportanti gli sconvolgenti
numeri dei deceduti nelle due grandi guerre, dove l’artista, concludendo
l’opera, inserisce una sentenza di Albert Einstein, datata 1950:
“L’avvelenamento dell’atmosfera e la conseguente distruzione di ogni forma di
vita sulla terra è entrata nel campo delle possibilità tecniche”.
La Strage
degli innocenti
“Nel 1942 abitavo a Bologna, in periferia, in
un grande fabbricato al quale si accedeva da un sottopassaggio che portava ad
un cortile. Ai quattro lati del cortile c’erano le abitazioni, tutte uguali:
sotto una cucina, sopra una camera da letto; era una vera comunità di una
trentina di famiglie che vivevano in grande armonia. Un mattino di quell’anno
la famiglia che abitava di fronte alla mia (padre, madre, un bambino di pochi
mesi e una figlia di nove anni), per richiedere dei documenti, si recò presso
gli uffici comunali nel centro città. Hanno incontrato un maledetto
bombardamento e non sono più tornati. Solo la figlia era rimasta a casa. Ho
sempre presente queste figure che con il piccolo in braccio attraversavano il
cortile ignari di andare verso la morte. Ricordo ancora gli occhi di quella
bambina rimasta improvvisamente sola in una casa vuota e silenziosa. Così è
cominciata per me la “Strage degli
Innocenti””.
Queste parole, cariche di strazio e angoscia,
permettono di immaginare i sentimenti di chi, come Canova, è consapevole di essere
sopravvissuto ad eventi che impongono tragiche sofferenze e morti premature. A
chi ha vissuto tremendi stati di apprensione e continui momenti di inquieta
incertezza risulta inevitabile, talvolta doveroso, tornare ripetutamente con il
pensiero a tali ricordi. Anche quando riconquista una vita serena e
spensierata, Canova sente il dovere di raccontare e diffondere i dolori e le
pene di quel periodo storico, di condividere il dispiacere delle vite spezzate,
il tormento del costante pericolo, con l’intento di evidenziare la stupidità e
l’inutilità di quelle orrende decisioni e dei relativi inenarrabili
comportamenti.
Lo afferma spontaneamente: l’entrata in guerra
e i primissimi bombardamenti sono la molla che fa scattare in lui la
preoccupazione dovuta ad una strada che non è percorribile, perché causa di
violente esperienze che macchiano la vita dell’umanità intera. Ed è così che
nasce la serie che racconta quegli scempi, quei massacri di uomini estranei ad
ogni motivazione che ha fatto scoppiare la guerra: le opere della Strage degli Innocenti. Canova lavora a
questa tematica durante l’arco di un ventennio, incidendo e dipingendo: è come
se mai smettesse di ricordare e riflettere sull’ingiustizia di questi eventi,
tormentato dal rovello di una umanità condannata da sempre a subire brutali
soprusi.
La prima immagine su questo tema ci viene da
una lastra lavorata all’acquaforte, iniziata nel 1984 e modificata ripetutamente
fino al 2011. Nella
prima versione della lastra troviamo rappresentata, al centro di uno scenario
oscuro, un’inquietante figura seduta, completamente coperta da un telo bianco
che ne disegna accuratamente la sagoma, reggente nella mano sinistra un albero
della cuccagna. Attorno
allo spettrale protagonista Canova dispone tanti resti di bambole smembrate:
corpi privi di arti, braccia e gambe sparse nello spazio, giochi d’infanzia
ridotti a pezzi, simbolo di un’innocenza violentata, irrimediabilmente
rovinata, “presenza-assenza” umana.
Il nome originario è Erode re,
responsabile del massacro biblico di tanti infanti innocenti, figura
emblematica che personifica la guerra, e nel caso in esame più precisamente la
Shoah.
Le bambole distrutte sostituiscono i corpi
senza vita delle vittime dell’olocausto, e si propongono come una metafora più
delicata, più fine e meno violenta (ma solo all’apparenza) degli orrori di tutte
le guerre. Sembrerebbe che Canova abbia trovato un escamotage figurativo, sicuramente poetico, per rappresentare molte
delle atroci immagini della guerra vissuta, stampate indelebilmente nella
memoria: “Se la città era stata bombardata, transitavano in via Duca d’Aosta
motofurgoni e motofurgoni, in lugubre corteo, diretti al cimitero cittadino, La
Certosa. Erano carichi di vittime accatastate e coperte alla meglio da tele
cerate. Qualche braccio o gamba penzolavano sempre, agitandosi ai sobbalzi del
mezzo e lasciando sul selciato una lunga e macabra scia di sangue”.
Questa lastra è oggetto di molteplici
rimaneggiamenti, tra i quali il più evidente è la rimozione della figura
centrale, quel re velato che canalizza su di sé tutta l’attenzione
dell’osservatore, portandolo a concentrarsi su associazioni simboliche e
metafisiche incontrollabili.
Così nel 1986 Canova trasforma l’Erode re
nella prima versione della Strage degli
innocenti, nella quale resta invariato il cerchio di bambole in mille
pezzi, simbolo delle vite spezzate, che però si sviluppa attorno al solo albero
della cuccagna, inclinato e desolato al centro della composizione: la visione è
adesso molto più incisiva e sintetica.
Questa rimozione ha stravolto la tematica
dell’opera stessa, che ad una visione superficiale potrebbe essere
semplicemente ricollegata alla serie di Appunti
romani di pochi anni precedenti: le bambole potrebbero essere considerate come
meri relitti di un consumismo sfrenato, interpretazione avvalorata dalla
presenza dell’albero della cuccagna carico di premi.
Ma il nuovo titolo svolge una chiara funzione indiziaria, riportando
l’osservatore sulla giusta chiave di lettura, che fa rabbrividire alla vista di
quei fantocci in pezzi: nonostante il brano biblico di riferimento sia lo
stesso, non ci si concentra più sul colpevole del massacro, quanto sul massacro
stesso, sulla Strage. E’ come se
Canova volesse inviare un messaggio rappresentando gli effetti di una
determinata azione, un metodo utilizzato anche per veicolare il suo pensiero
nella serie di Appunti su Roma.
Due anni dopo la definizione della prima
versione della lastra, Canova ne realizza l’equivalente pittorico di piccolo
formato:
un dipinto terrificante in cui “[…] una figura avvolta in un lenzuolo che non
vede sta al centro d’un circolo fatto di frantumi di bambole-bambini”;
il cerchio ricalca un moto centrifugo raccapricciante di bambole distrutte, che
sembrano teneramente vive, con un risultato di altissima resa poetica.
Coerentemente con quanto deciso per la tecnica calcografica, l’artista fa
sparire la figura centrale, al fine di riproporre lo scenario desolato e
concentrato raffigurante quel circolo di oggetti ormai non più utilizzabili,
che incornicia l’asta del gioco.
Nell’elaborazione della tematica Canova
realizza un collage scultoreo
le cui raffigurazioni rimandano alla prima versione dell’acquaforte, che
risulta arricchita nella narrazione grazie alle potenzialità spaziali del nuovo
mezzo. Si tratta di una grande lastra di metallo irregolarmente rettangolare,
con gli angoli smussati, che presenta delle figure lievemente aggettanti su
entrambe le facce. Elementi felici, giocattoli in buone condizioni, ancora
utilizzabili, sono accostati alla scritta “Erode Re”. Li sovrasta la figura
velata reggente l’albero della cuccagna, questa volta inserita in una forma
circolare che la rilega in uno spazio separato, inquietante minaccia. Il lato
posteriore ripropone i drammatici frantumi del mondo dei bambini, quei
giocattoli distrutti, quelle bambole ridotte in pezzi. Ogni elemento proposto
viene inserito all’interno dello spazio metallico come se fosse un pezzetto di
pagina staccato dal suo taccuino di appunti e incollato in un foglio più
grande: un vero e proprio collage,
questa volta a rilievo.
Nella seconda versione pittorica della Strage Canova propone una visione nuova,
differente, ma ugualmente simbolica e metaforica: realizza una natura morta in
cui compaiono delle carni macellate appese e dondolanti su un letto di rifiuti.
La raffigurazione della tragedia risulta trasformata, e per Giuffrè il
significato viene duplicato: se da una parte ritornano i simboli inquietanti
degli effetti delle ingiustizie umane, dall’altra affiora un’immersione
esistenziale nella attualità sociale.
Il dipinto è quadrato, di grandi dimensioni, e mostra carni di bestiame appese
a ganci di macellaio, tra cui quarti di bue, prosciutti interi o già mangiati,
e sulla destra si scorge per metà il dettaglio grande dell’albero della
cuccagna, dal quale pendono salami e salsicce. Il bue squartato in primo piano
non può non suggerire una relazione con le opere di Rembrandt e Soutine. Il
terreno è ricoperto da innumerevoli rifiuti di cibarie varie e coltelli da
macellaio, rappresentati, come di consueto, molto dettagliatamente, frutto
della perizia canoviana: sarebbero i resti di una “grande abbuffata” in cui
Rossi scorge dei possibili rimandi all’omonimo film di Marco Ferreri, e a Riso amaro di De
Santis. .
La carne di bestiame si sostituisce alla carne
umana: le carcasse degli animali prendono il posto delle vittime di guerra, al
pari delle bambole nelle versioni precedenti. I “cadaveri” appesi all’anello
sono i premi di un gioco malato e perverso, raccontato dalle parole dello
stesso Canova: “[…] In seguito, anche a Pioppe di Salvaro passò la furia
omicida nazista. Cinquantadue le vittime, assassinate vigliaccamente. I corpi
buttati nella chiusa, perché il fiume li portasse con sé, disperdendoli. Hitler
aveva ordinato alle sue truppe, SS in testa: “Uccidete senza pietà, anche donne, vecchi e bambini: farlo è un vostro
dovere!”. E i soldati, diventati macellai di carne umana, eseguirono gli
ordini. Pioppe era uno dei tanti paesi del territorio dove si scatenò la
rappresaglia nazista passata alla storia come Strage di Marzabotto”.
Tra i resti a terra di questa grande tela
campeggia, centrale, una testa di agnello scuoiato appesa ad un palo, con un
telo bianco che le fa da mantello: alludendo a significati religiosi, ricalca
l’agnello del sacrificio, redentore dei peccati, un inserto che per Gallo
confonde, perché richiama le abitudini di una borghesia spesso ipocrita, tanto
da definirlo “rebus iconologico”.
Ma sicuramente non è un elemento casuale, e Canova dichiara apertamente:
“Soltanto con il richiamo all’iconografia e al simbolismo di quella Strage di duemila anni fa e l’uso dei
simboli del Sacro, come L’Agnus Dei o
la Croce, riesco a dare - nella mia pittura - un senso compiuto a quella
sofferenza e a quel vuoto, sperando di parlare delle sofferenze che ancora
milioni di innocenti (specialmente bambini) subiscono ancora oggi in tutto il
mondo a causa delle guerre e di violenze infinite”.
L’immagine atroce di un capretto disteso al suolo, completamente scuoiato,
apparirà accanto a un elemento infantile in una natura morta pittorica del 1992.
L’Agnus
Dei è un’opera
pittorica eseguita l’anno successivo, talvolta chiamata Strage degli innocenti II.
È un’opera verticale, con al centro l’Agnello trafitto da una croce, disegnato
entro un clipeo poggiato su una base scultorea che riporta la frase “Agnus Dei qui tollis peccata mundi”. Gli
elementi che più attirano la nostra attenzione sono una girandola per bambini,
di quelle colorate che vengono mosse dal vento, parzialmente distrutta, ed un
filo spinato, lo stesso che collegherà alcuni disegni degli Appunti sulla tortura, che trafigge il
braccio di un bambino. Seppur inseriti in una composizione strutturalmente
differente, gli elementi suggeriscono un nesso piuttosto chiaro: i giocattoli
distrutti e il braccio del bambino sono i traits
d’union che legano incontestabilmente questa tela alla serie della Strage degli innocenti.
Canova non rinuncia alla raffigurazione di
giocattoli rotti neanche nella terza versione “ufficiale” della Strage: un’opera pittorica verticale di
grandi dimensioni,
che ricalca per composizioni le sue serie di Appunti. Nessun elemento presente su questa tela ha forma di
oggetto ancora utile, tutto è distrutto, parziale, smembrato, ormai
inutilizzabile: in primo piano l’immagine di un cavalluccio a dondolo privo di
testa, seguito dallo scheletro di una macchinina giocattolo e un passeggino
quasi irriconoscibile; in basso a destra un banchetto di scuola con l’abaco
danneggiato; immancabili i frammenti di bambole, che circondano un enorme
segnale stradale di pericolo attraversamento bambini, che pare trafitto da
proiettili; sulla destra, piccola ma evidente per un contrasto coloristico, di
nuovo una girandola.
Non ci troviamo davanti ad una tela che
palesemente descrive una strage o un massacro; al contrario il significato è
puramente metaforico. Ogni elemento richiama la Strage degli innocenti perché lo abbiamo già identificato, perché
ne conosciamo la storia figurativa: se non fosse per il titolo e per le
versioni precedenti, si potrebbe associare alla serie di Appunti su Roma che raccontano lo sfacelo di una società
consumistica. Il rimando appare evidente soprattutto per la composizione
spaziale, che ricalca la disposizione degli oggetti nei suddetti “appunti”, ma
che, differendo nel supporto, non può giovarsi delle differenze segniche per
rivelare la logica di lettura; sembrerebbe, però, che Canova abbia trovato il
modo di inserire comunque una chiave utile all’interpretazione. Il colore
divide in due il dipinto: allo sfondo color terra, bordeaux, si associano i
toni lievemente più chiari dei resti delle bambole e del cavallo a dondolo,
dunque alcuni giochi; colori freddi caratterizzano gli utensili, tra cui il
passeggino, il banchetto, il bavaglino; unico elemento a parte, il segnale
stradale. Gli elementi vagano arbitrariamente nello spazio della tela, non
rispondendo ad alcuna logica gravitazionale: fluttuano in uno sfondo neutro,
una massa indistinta.
La più recente opera della serie
ricalca, in maniera più semplificata, la struttura del Diario romano: si tratta di un trittico di metallo, esternamente
completamente inciso, e internamente dipinto. All’interno vi è un’immagine
notturna del Golgota, che nella sua
semplicità ha una grande carica emotiva. Nella parte centrale, sulla sommità
del monte, vi è il Cristo crocifisso, posto sullo stesso asse della corona di
spine di grandi dimensioni: la croce e la corona, strumenti del martirio,
vengono contrapposte geometricamente. Nelle due ante laterali troviamo le altre
due croci, unite figurativamente alla centrale anche per mezzo di un moderno
filo spinato. Inevitabile il rimando alle parole riportate per la descrizione
dell’Agnus Dei, nelle quali Canova
ammette come, attraverso l’uso dei simboli sacri tra cui la Croce, riesca a
dare un senso alla sofferenza che gli provoca il venire a conoscenza delle
continue ingiustizie e dei massacri nei confronti di piccoli uomini. Il retro è
invece costellato di parole incise, frasi aggettanti, che, a trittico chiuso,
raccontano “il vociare delle attese e delle salvazioni mancate”.
Le ante chiuse fungono da porte che separano gli orrori umani dal Sacrificio.
Nella parte esterna dell’anta sinistra è
scolpita la trasposizione del dipinto del 1993, l’Agnus Dei, corredato di strumenti di tortura, e adagiato su una
base di resti di bambole frantumate; l’anta destra riporta le agghiaccianti
testimonianze da Terezin, ghetto in cui vennero internati quindicimila bambini,
di cui sopravvissero solo un centinaio. I numeri del genocidio sono una
sottrazione che fa rabbrividire, accanto alla stella di David gialla, il
simbolo con cui tutti quei bambini vennero crudelmente marchiati. “Non ho più
visto una farfalla. Quella dell’altra volta fu l’ultima. Le farfalle non vivono
qui nel ghetto” sono le parole che un Canova consapevole vuole far conoscere al
mondo, per provocare indignazione e scuotere gli animi, nella speranza che
sempre più persone seguano il suo esempio di denuncia. La scritta Auschwitz campeggia a grandi lettere nel
mezzo, dello stesso colore della stella; alla base di nuovo il filo spinato, un
fil di ferro che ferisce e lega vicende lontane nel tempo; più in basso, ancora
una volta e sempre più pesanti, i simboli delle innocenti vittime di tali
crudeltà.
Questa serie sofferta e struggente si conclude
quindi con la mistica visione della Croce come porta della Salvezza. “Nel
sacrificio persiste la Regalità, la militanza dell’umiltà, la aristocrazia dei
semplici e dei puri. In questo senso l’ingenuo persistere dello sguardo sul
mondo ha la forza dirompente di una poesia perfetta”.
Nonostante la civiltà contemporanea si vanti
di aver raggiunto livelli di cultura e di progresso che la definiscono
“avanzata”, non smette di compiere le stesse stragi degli innocenti,
comportandosi, senza possibilità di assoluzione, come nelle epoche più buie.
Nella maniera che più gli è congeniale, Canova è riuscito a raccontare
poeticamente quanto di più crudo e violento accade nel mondo civilizzato,
portando all’evidenza la necessità di un cambiamento di direzione, di uno
stravolgimento delle pratiche comuni degli esseri umani. L’umanità non è
cambiata dall’alba dei tempi, ha solo modificato gli strumenti con cui mette in
atto comportamenti estremamente crudeli. L’uomo che violenta l’uomo sembra
essere il tema dominante dei due cicli trattati in questo testo.
La Strage
degli innocenti e L’arte della guerra
sono la prova tangibile dell’impegno di una vita, il lavoro scaturito da una
responsabilità sociale che Canova sente forte, frutto di una sensibilità fuori
dal comune, costretta a subire ciò che le nuove generazioni non possono neanche
immaginare.
NOTE
Il Grifo è la
galleria d’arte, fondata dall’amico Montanucci con la moglie, che ospita la
prima della serie di mostre itineranti in tutto il territorio nazionale.
Proprio Montanucci si occupa della realizzazione grafica, della stampa e della
pubblicazione del volume.
Cfr. Mariano Apa,
scheda tecnica nel catalogo della mostra collettiva a cura di Maurizio Calvesi,
Nona Biennale d’Arte Sacra La Porta
segno di Cristo ed evento artistico, (Isola del Gran Sasso (TE), Santuario
San Gabriele dal 15 luglio al 15 ottobre 2000), San Gabriele, Fondazione
Stauròs Italiana Onlus, 2000.
Cfr. Oscar Da
Riz, Il tempo di una generazione contro
la guerra, saggio in “L’Arte della Guerra di Bruno Canova”, catalogo mostra
(Terni, Sala Farini, Palazzo Comunale: dal 7 maggio al 6 giugno 1974), Terni,
Arti grafiche Nobili, 1974.
Cfr. Guido
Giuffrè, Prefazione su cinque disegni
pubblicati in A. Giarda, “Persistendo ‘l reo nella negativa”, Milano, Giuffrè,
1980.
Cfr. Marco Gallo,
Il realismo demiurgico di Bruno Canova, saggio
critico nel catalogo della mostra personale a cura di Lorenzo Canova (Roma,
Galleria Lazzari: dal 19 giugno al 19 luglio 1997), Roma, Galleria Lazzari,
1997.
Cfr. Lorenza Trucchi,
Canova a Il Feltro, recensione della
mostra e del libro “L’Arte della guerra”, in “Momento Sera” del 23 gennaio
1974.
Ne parla in
occasione del racconto su “mamma Lucia”, inserito nell’autobiografia inedita
messa gentilmente a disposizione di chi scrive dal Prof. Lorenzo Canova.
Cfr. Dario
Micacchi, Disegni e stampe sulle guerre dell’imperialismo. Mostre d’arte a
Roma: Canova, articolo apparso su “L’Unità” in 1º aprile 1972.
Nel testo
autobiografico inedito Canova afferma di averla voluta incontrare dopo aver
appreso della sua storia, e di essere tornato a visitarla munito di
registratore: “Era una popolana anziana, ma piena di vitalità, e rimasi colpito
dalla spontanea umanità, eccezionale nella sua semplicità”.
Il “massacro di
My Lai”, conosciuto anche come “massacro di Sơn Mỹ”, fu un episodio di tremendo
accanimento dei soldati statunitensi della Compagnia Charlie, contro
trecentoquarantasette civili vietnamiti, per la maggior parte anziani, donne e
bambini, che vennero torturati, stuprati e brutalmente uccisi il 16 marzo 1968.
Cfr. Aldo
Masullo, nota introduttiva in Bruno
Canova. L’Arte della guerra. Roma, Il Grifo, 1972.
Uno dei titoli
provvisori del racconto autobiografico inedito è proprio Quella maledetta ciminiera, a riprova di quanto questo elemento sia
significativo nella vita di Canova, quasi il simbolo della parte più tetra
della sua vita, a cui fortunatamente è sopravvissuto.
Canova informa
della sua visita a Cassino, organizzata dal Convitto
Rinascita, nell’autobiografia inedita: “
Il
terreno era pieno di schegge con sopra altre schegge: non c’era un pezzetto di
terreno senza. In cima, un cumulo di macerie, mute testimoni di quel drammatico,
quanto inutile, bombardamento; alle spalle, una montagna di croci bianche: i
soldati polacchi caduti in combattimento”.
Cfr. Dario
Micacchi, La guerra e le profonde radici
della memoria. Bruno Canova al “Ferro di cavallo”, articolo apparso sul
quotidiano “L’Unità” l’8 ottobre 1981.
Nell’introduzione
a L’arte della guerra edita da Il
Grifo nel 1972.
Testimonianza di
Bruno Canova tratta da Chenis Carlo, Cento
artisti rispondono al papa: commento in opere e parole alla Lettera del papa
Giovanni Paolo II, catalogo della mostra collettiva (Isola del Gran Sasso
(TE), Santuario San Gabriele: dal 5 gennaio al 21 aprile 2001), San Gabriele,
Fondazione Stauròs Italiana Onlus, 2001.
Strage degli Innocenti (Erode Re), 1984-2011, acquaforte, cm
70x100.
L’albero della
cuccagna, individuato da Gallo (1998), era un gioco della tradizione popolare
costituito da un’asta ricoperta di sostanze grasse, che presentava una corona
all’estremità più alta, alla quale si agganciavano dei premi, generalmente
cibarie, che i giovani dovevano cercare di prendere in una prova di forza.
Cfr. Sergio
Rossi, Lo specchio magico di Bruno
Canova, saggio critico nel catalogo della mostra personale (Roma,
Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II: dal 21 maggio al 5 giugno
1993), Roma, Normograph, 1993.
Passo tratto dal
testo autobiografico inedito.
Cfr. Marco Gallo,
Una voce del realismo: Bruno Canova,
saggio critico nel catalogo della mostra personale (Roma, Museo laboratorio di
arte contemporanea, Università degli Studi di Roma La Sapienza: dal 29 gennaio
al 19 febbraio 1998), Roma, Diagonale, 1998 e nel catalogo della collettiva
A.R.G.A.M. Primaverile Romana 1998.
Erode re, 1984, acrilico su tela, cm
70x100.
Cfr. Dario
Micacchi, Bruno Canova, come rifare un
mondo con i frantumi del mondo, articolo apparso sul quotidiano “L’Unità”
il 20 maggio 1984.
Cfr. Guido
Giuffrè, Bruno Canova: acrilici,
saggio critico nel catalogo della mostra personale (Roma, Galleria La
Margherita: dal 5 maggio al 29 maggio 1984), Roma, La Margherita, 1984.
Strage degli innocenti I, 1982-1986, acrilico su tela, cm 80x100.
Erode re, 1982, tecnica mista.
Grande natura
morta - Strage degli innocenti II, 1989-1990, acrilico su tela, cm 200x200.
Cfr. Guido
Giuffrè, Bruno Canova, Opere 1982-1993,
saggio critico nel catalogo della mostra personale (Roma, Biblioteca nazionale
centrale Vittorio Emanuele II: dal 21 maggio al 5 giugno 1993), Roma,
Normograph, 1993.
Brano tratto dal
testo autobiografico inedito.
Natura morta, 1992, acrilico su tela, cm
50x70.
Agnus Dei, 1993, acrilico su tela, cm
120x80.
Con questo nome è
riportata in Chenis, 2001.
Strage degli innocenti III, 1997,
acrilico su tela, cm 180x100.
Agnus Dei (Golgota) [fronte] - Strage degli innocenti [retro], 2000,
tecnica mista, cm 182x245x80.
BIBLIOGRAFIA
APA 2000
Apa Mariano, scheda
tecnica nel catalogo della mostra collettiva a cura di Maurizio Calvesi, Nona Biennale d’Arte Sacra: La Porta segno
di Cristo ed evento artistico (Isola del Gran Sasso (TE), Santuario San
Gabriele: dal 15 luglio al 15 ottobre 2000), San Gabriele, Fondazione Stauròs
Italiana Onlus, 2000.
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Chenis Carlo, Cento artisti rispondono al papa: commento
in opere e parole alla Lettera del papa Giovanni Paolo II, catalogo della
mostra collettiva (Isola del Gran Sasso (TE), Santuario San Gabriele: dal 5
gennaio al 21 aprile 2001), San Gabriele, Fondazione Stauròs Italiana Onlus,
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guerra, saggio in “L' arte della guerra di Bruno Canova”, catalogo mostra (Terni, Sala Farini,
Palazzo Comunale: dal 7 maggio al 6 giugno 1974) Terni, Arti grafiche Nobili,
1974.
GALLO 1997
Gallo Marco, Il realismo demiurgico di Bruno Canova,
saggio critico nel catalogo della mostra personale a cura di Lorenzo Canova
(Roma, Galleria Lazzari: dal 19 giugno al 19 luglio 1997), Roma, Galleria
Lazzari, 1997.
GALLO 1998
Gallo Marco, Una voce del realismo: Bruno Canova, saggio
critico nel catalogo della mostra personale (Roma, Museo laboratorio di arte
contemporanea, Università degli studi di Roma La Sapienza: dal 29 gennaio al 19
febbraio 1998), Roma, Diagonale, 1998, e nel catalogo della collettiva A.R.G.A.M. Primaverile Romana 1998.
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Giuffrè
Guido, Prefazione su cinque disegni
pubblicati in A. Giarda, “Persistendo ‘l reo nella negativa”, Milano, Giuffrè,
1980.
GIUFFRÈ 1984
Giuffrè Guido, Bruno
Canova: acrilici, saggio critico nel catalogo della mostra personale, (Roma,
Galleria La Margherita: dal 5 al 29 maggio 1984), Roma, La Margherita, 1984.
GIUFFRÈ 1993
Giuffrè Guido, Bruno Canova, Opere 1982-1993, saggio
critico nel catalogo mostra personale
(Roma, Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II: dal 21 maggio al 5
giugno 1993), Roma,
Normograph, 1993.
MASULLO 1972
Masullo Aldo, nota
introduttiva in Bruno Canova. L' arte
della guerra, Roma, Il Grifo, 1972.
MICACCHI 1972
Micacchi Dario, Disegni e stampe sulle guerre dell'imperialismo.
Mostre d'arte a Roma: Canova, articolo apparso su L'Unità il 1º aprile
1972, pag. 9.
MICACCHI 1981
Micacchi Dario, La guerra e le profonde radici della
memoria. Bruno Canova al “Ferro di cavallo”, articolo apparso sul
quotidiano “L’Unità” l’8 ottobre 1981, pag. 14.
MICACCHI 1984
Micacchi Dario, Bruno Canova, come rifare un mondo con i
frantumi del mondo, articolo apparso sul quotidiano “L’Unità” il 20 maggio
1984, pag. 20.
ROSSI 1993
Rossi Sergio, Lo specchio magico di Bruno Canova, saggio
critico nel catalogo mostra personale
(Roma, Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II: dal 21 maggio al 5
giugno 1993), Roma,
Normograph, 1993.
TRUCCHI 1974
Trucchi Lorenza, Canova a Il Feltro, recensione della mostra
e del libro “L’arte della guerra”, in “Momento Sera” del 23 gennaio 1974.
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