Il
fotografo tedesco Wilhelm von Gloeden (1856-1931), attivo in Sicilia dalla fine
degli anni Settanta dell’Ottocento, è autore di un corpus fotografico
composto in gran parte da nudi maschili ritratti en plein air. Benché il
fotografo abbia realizzato anche numerosi ritratti, vedute e paesaggi, la sua
notorietà e soprattutto la sua riscoperta postuma sono strettamente connesse ai
nudi, la cui natura ambivalente – definita da Roland Barthes «sublime e
anatomica»
– ha dato origine a un ventaglio di interpretazioni e prospettive diverse.
Almeno tre sono gli aspetti insiti in queste foto che hanno contribuito a
decretarne la fortuna; tali immagini riflettono la visione mitica che la
cultura tedesca ottocentesca ha dell’Italia e della “mediterraneità”, e in
quest’ottica vengono recepite e apprezzate dalla critica fotografica coeva.
Nello stesso tempo esse trovano accoglienza tra il pubblico omosessuale, perché
capaci di dare voce e rappresentazione a pulsioni e desideri omoerotici a lungo
repressi sul piano sociale, culturale ed estetico. La propensione all’eccesso e
alla ridondanza decorativa propria di queste immagini, in epoca postmoderna,
infine, ha indotto la critica a rileggere l’opera di Gloeden secondo i criteri
del Camp e del Kitsch, e a porla a confronto con la fotografia staged,
definita anche directorial mode, degli anni Settanta e Ottanta del
Novecento. In questo
intervento mi concentrerò dunque su questi aspetti, allo scopo di mettere a
fuoco la fortuna critica dei nudi gloedeniani.
Nel periodo compreso tra l’ultimo decennio
dell’Ottocento e la metà degli anni Dieci del Novecento, da una diffusione
iniziale limitata a una ristretta cerchia di amatori, l’opera di Gloeden
raggiunge notorietà internazionale. In questi anni le sue fotografie di vedute
e tipi siciliani, di figure abbigliate all’antica e nudi maschili ripresi en
plein air, vengono esposte in importanti rassegne fotografiche,
distribuite come cartoline, pubblicate su riviste specializzate quali “Il
progresso fotografico”, “La fotografia artistica” o “Photogram” e su periodici
ad alta tiratura come “The National Geographic Magazine”.
Dai primi anni Novanta dell’Ottocento Gloeden ottiene diversi riconoscimenti ufficiali:
nel 1893 vince una medaglia all’Esposizione Internazionale
della Photographic Society of Great Britain e, nello stesso anno, cinque suoi
nudi vengono pubblicati a pagina piena sulla rivista d’arte inglese “The
Studio” a illustrare l’articolo The Nude in Photography, With Some Studies
Taken in the Open Air. Dalla seconda metà del decennio l’artista
intensifica l’attività espositiva, vincendo numerosi premi internazionali, tra
cui quelli assegnatigli dal Photo Club di Budapest (1903), dalla Société de Photographie
de Marseille (1903), da L’artistique de Nice (1905); nel 1909 riceve, inoltre,
una medaglia d’oro dal Ministero della Pubblica Istruzione Italiana. I nudi e i giovani drappeggiati
ritratti da Gloeden interessano la critica dell’epoca perché condividono la
vena citazionista e il gusto per il revival propri della tendenza
pittorialista; per tale ragione le sue foto trovano spazio anche nella più
autorevole rivista americana legata a questa corrente, “Camera Notes”, insieme
alle foto di Alfred Stieglitz, Fred Holland Day e Robert Demachy. In questo
periodo la critica, soprattutto di ambito tedesco, apprezza le immagini di
Gloeden perché riconosce in esse la capacità di stabilire un
nuovo rapporto con
l’arte e la civiltà greche. Legame, quest’ultimo, che per gli intellettuali e
gli artisti tedeschi del XIX secolo costituisce una sorta di affinità elettiva:
nell’introduzione a Griechische
Kulturgeschichte (Storia della civiltà greca), Jacob Burckhardt
sosteneva infatti che, a partire dagli scritti di Winckelmann e Lessing e dalle
traduzioni dei testi omerici curate da Johann Heinrich Voss, si fosse stabilito
un rapporto privilegiato tra lo spirito tedesco e quello ellenico. Agli occhi
del pubblico mitteleuropeo, e dello stesso Gloeden, il paesaggio siciliano
assume infatti l’aspetto di un luogo mitico, dove, come scrive all’epoca
l’artista, «gli scogli e il mare, i monti e le valli» riportano alla mente le
storie «di pastori arcadici e di Polifemo».
Il rapporto di Gloeden con la classicità e con la cultura italiana è, per certi
aspetti, affine alla sensibilità dei Deutsch-Römer: analogamente a quanto
accade ai tedeschi-romani, l’artista ricerca i riflessi dell’antichità e della
gloria passata nella vita quotidiana in Italia, nei tipi umani e nella natura;
trasfigurando fotograficamente i corpi degli abitanti siciliani l’artista
offre, al popolo nordico, una visione mitica della mediterraneità.
Nel contempo, il carattere omofilo di queste foto ne
favorisce la diffusione anche tra un pubblico omosessuale. Numerose foto di
Gloeden vengono pubblicate nei volumi e nelle riviste dedicati al nudo editi in
Europa a partire dai primi anni del Novecento, come, ad esempio, le
riviste naturiste “Die Schönheit” e “Ideale Nechteite”, entrambe curate
dall’editore Karl Vanselow, o “Die Kunst Fuer Alle”.
In coincidenza con l’ascesa e il
consolidarsi dei regimi totalitari in Italia e in Germania da un lato,
dall’altro con il contemporaneo affermarsi della straight photography e
delle sperimentazioni fotografiche delle prime avanguardie, la diffusione degli
scatti di Gloeden si riduce drasticamente. Il suo canone di nudità efebica, ora
percepito come decadente, perde i favori del pubblico, indirizzato verso un
nuovo modello di bellezza maschile legato a un ideale di virilità prestante e
atletica. Negli anni Trenta, dopo la morte di Gloeden, il suo fondo viene
sequestrato dalla polizia e l’erede del fotografo, Pancrazio Buciunì, viene
processato con l’accusa di detenzione e commercio di foto pornografiche. Il
processo, svoltosi in pieno regime fascista, si conclude nel 1941 con
un’assoluzione; dalla sentenza, rintracciata presso l’Archivio di Stato di
Messina, apprendiamo le ragioni del giudizio: le foto di Gloeden non vengono
ritenute pornografiche e lesive del pubblico pudore perché, pur mostrando corpi
nudi e «senza la foglia di fico», ritraggono gli organi genitali maschili in
modo tale «da non potere suscitare sentimenti erotici». Inoltre, l’espressione
compunta dei soggetti, secondo il giudice, non esprime «concupiscenza carnale».
Fino alla
seconda metà degli anni Settanta, la fortuna critica del fotografo, dovuta più
alla curiosità per il personaggio che per l’artista, rimane circoscritta
all’ambito letterario: negli anni che vanno dal 1929 al 1933 vengono pubblicati
Venere Ciprigna e Ultime notti a Taormina,
entrambi dello scrittore catanese Antonio Aniante e il romanzo Rosa Corvaia
del giornalista Giacomo Etna, dove la figura di Gloeden è legata a vicende
erotico-sentimentali. Nel dopoguerra esce il più celebre Les Amours
singulières (1949)
di Roger Peyrefitte che, incentrato su racconti a sfondo sessuale, ha
contribuito considerevolmente a diffondere la fama del fotografo in Europa. Di
carattere aneddotico, benché scritto raccogliendo la testimonianza di Buciunì,
è anche il libro I baroni di Taormina,
edito nel 1959 dal redattore de “La Sicilia” Pietro Nicolosi. Tali volumi, la
cui concezione esula da obiettivi e criteri scientifici, sono tuttavia fonti
utili per l’analisi e l’interpretazione dei rapporti tra Gloeden e il contesto
sociale taorminese, al centro di recenti ricerche di indirizzo antropologico.
I primi
studi a carattere storico-critico su Gloeden risalgono alla seconda metà degli
anni Settanta, quando, dalla pressoché totale assenza di saggi scientifici, si
passa in breve alla pubblicazione di numerosi di contributi.
Il rinnovato interesse emerso in questo periodo è dovuto, da un lato, a fattori
contingenti: il gallerista Lucio Amelio acquisisce infatti l’archivio di
Gloeden e nel 1978 organizza la mostra Wilhelm von Gloeden, in occasione
della quale Andy Warhol, Michelangelo Pistoletto e Joseph Beuys reinterpretano
le opere del fotografo, presentati in catalogo da Roland Barthes. Dall’altro,
l’emergere dell’interesse per Gloeden si lega in modo ancor più stringente alla
nascita e alla diffusione del concetto di postmoderno, che da questo momento in
poi diventa una chiave di lettura essenziale per l’esegesi della sua ricerca
fotografica. Concetti quali Camp o Kitsch, nodali per la pratica
e la teoria estetica postmoderne (o almeno parte di esse), divengono
rapidamente topoi nell’analisi critica gloedeniana: l’uso di iconografie
spurie e il citazionismo propri delle sue fotografie vengono reinterpretati
come antecedenti dell’eclettismo del postmoderno. Il primo ad adottare
quest’ultima prospettiva è proprio Barthes che, in occasione della mostra
organizzata da Amelio citata poc’anzi, interpreta le foto di Gloeden come Kitsch:
«È “camp” il Barone von Gloeden? Rivisto da Warhol, forse; ma, in sé, egli è
soprattutto “kitsch”. Il kitsch implica in effetti il riconoscimento di un alto
valore estetico, il gusto, ma aggiunge che questo gusto può essere cattivo, e
che da questa contraddizione nasce un mostro affascinante».
È quanto accade, secondo Barthes, con l’opera di Gloeden: le sue foto
attraggono e sorprendono lo spettatore contemporaneo perché contengono
un’accumulazione di contrari e una mescolanza di linguaggi eterogenei che
stridono tra loro. Se Barthes esclude che Gloeden sia consapevole di tale
aspetto, Francesca Alinovi, nel 1981, ipotizza invece l’esistenza di «una
precisa intenzionalità concettuale»,
richiamando l’attenzione su alcune strategie di rappresentazione adottate da
Gloeden: il fotografo, ad esempio, fa spesso posare i modelli accanto a una statua
in modo che essi assumano la stessa posa, con un effetto straniante di
raddoppiamento. Secondo la studiosa Gloeden, come più tardi Cecil Beaton e
Adolph de Meyer, concepisce infatti la fotografia come una «fabbrica di
stereotipi» e una «macchina dell’inautenticità». «Che il barone avesse scelto
di proposito di essere kitsch, assumendo deliberatamente il kitsch come propria
dichiarazione poetica?»:
la studiosa lascia aperto il quesito.
Le
posizioni assunte dai due critici rappresentano i poli opposti della questione;
entrambe risultano forse sbilanciate in un senso o nell’altro. Se l’ipotesi di
una piena consapevolezza è poco convincente, per via del contesto culturale in
cui l’artista lavora e perché dalle sue riflessioni sulla fotografia non emerge
nulla a sostegno di tale tesi, anche l’assunto contrario appare opinabile,
poiché esclude dall’opera di Gloeden l’ironia, componente di cui molte sue foto
sembrano invece provviste, come nel caso della serie di scatti in cui un
giovane modello nudo infila un dito nella bocca di un pesce, mentre guarda in
modo allusivo e sorridente l’obiettivo. Difficile stabilire se l’ironia sia nei
propositi dell’autore o nello sguardo di chi, oggi, osserva queste foto: le
pose proposte da Gloeden sono così eccessive e lontane dai canoni tradizionali
delle foto di nudo dell’epoca da lasciare almeno un dubbio riguardo l’esistenza
di una qualche forma di intenzionalità.
Un altro aspetto sembra contribuire alla riscoperta di
Gloeden: negli anni Settanta si afferma un decisivo sviluppo della fotografia
allestita o directorial mode, secondo la definizione di A. D. Coleman,
apparsa nel 1976 sulle pagine dello speciale fotografico pubblicato su
“Artforum”. A tale
espressione il critico statunitense riconduce la tendenza, fatta propria da
molti autori fin dagli albori del mezzo, di usare la fotografia non per
cogliere istantaneamente la realtà fissandola secondo schemi stilistici e
formali, ma come dispositivo utile a documentare e a certificare la veridicità
di messe in scena create ad hoc. Partendo da quest’ottica, Coleman
rintraccia la genealogia delle ricerche contemporanee di Duane Michals, Leslie
Krims, Jerry Uelsmann e altri, nelle fotografie degli anni Cinquanta del XIX
secolo di Henry Peach Robinson e Oscar Gustave Rejlander e
soprattutto nelle sperimentazioni fin de siècle dei fotografi
pittorialisti. Subito dopo le riflessioni di Coleman, mostre come Fabricated
to be Photographed (1979), Images Fabriquée (1983) o Théâtre des
réalités (1986) evidenziano inoltre il diffondersi nella fotografia
contemporanea di strategie di simulazione e reinvenzione del reale, condotte
attraverso il mescolamento di linguaggi eterogenei (teatro, cinema,
letteratura, pittura, ecc.). I tableaux fotografici di Gloeden, basati
sul recupero e la reinterpretazione di fonti iconografiche derivate dalla
statuaria antica, dalla pittura accademica, dagli idilli bucolico-pastorali,
dai testi sacri, diventano un punto di riferimento per diversi artisti e
fotografi attivi negli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Tra i numerosi
esempi che si potrebbero portare, la vicenda di Robert Mapplethorpe è
particolarmente significativa. Negli anni Settanta, infatti, quest’ultimo
esprime un forte interesse per le foto di Gloeden: all’inizio del decennio
inizia a collezionarle insieme al suo mecenate Sam Wagstaff, curatore del
Detroit Institute of Arts, contribuendo in tal modo ad accrescere la notorietà
di Gloeden negli Stati Uniti. L’attenzione di Mapplethorpe verso la fotografia
di Gloeden in questi anni è evidente, come emerge dal confronto, ad esempio,
tra un autoritratto realizzato nel 1985 e il Fauno di Gloeden. Anche in Ajitto,
opera eseguita da Mapplethorpe nel 1981, troviamo un altro riferimento a
Gloeden: in questo scatto, infatti, il fotografo cita il Caino gloedeniano,
la cui iconografia è a sua volta desunta dal Jeune Homme Assis au Bord de la
Mer. Figure d’étude (1836) di Hippolyte Flandrin.
L’opera di Gloeden, in questo periodo, è guardata con
interesse anche dal fotografo americano Joel-Peter Witkin, il quale, nel 1984,
gli rende omaggio nell’opera Von Gloeden in Asien, tableau fotografico
che ritrae un trentacinquenne con le fattezze di un efebo dalla carnagione
diafana e il capo cinto di foglie intrecciate. Secondo Witkin, Gloeden è il
«nuovo Pigmalione», capace di dare vita all’inanimato, di legare antico e
contemporaneo in un medesimo teatro del desiderio. «Von Gloeden», afferma
Witkin, «costituisce il mio legame con la bellezza maschile, la quale, ci
rendiamo conto sempre di più, è stata con noi fin dalle divinità pagane dei
Greci. La mia immagine è omoerotica, ma anche chi non è omosessuale può amare
il corpo maschile».
Alla solarità delle foto di Gloeden, Witkin tuttavia sostituisce un universo di
deformità biologiche, di mutilazioni e di corpi aberranti, fatto di cicatrici,
umori e secrezioni.
Negli anni
Settanta e Ottanta del Novecento, insieme alla passione espressa dalle nuove
generazioni di artisti, un altro impulso importante all’analisi della
fotografia gloedeniana proviene da intellettuali vicini al movimento di
Stonewall, coinvolti nella nascita dei Gay and Lesbian Studies, che
vedono in Gloeden un simbolo di riscatto e di liberazione omosessuale. In
questa prospettiva si possono leggere gli studi di Charles Leslie, tra i primi
attenti biografi del fotografo tedesco,
secondo cui Gloeden è uno dei rarissimi uomini del XIX secolo a rifiutarsi di
negare le proprie preferenze per assecondare la morale del tempo e per
integrarsi nella società occidentale.
Con l’affermarsi in area anglosassone dei Queer Studies, negli anni
Novanta si assiste a un ulteriore processo di riscoperta di storie e narrazioni
poste ai margini del sistema artistico e culturale dominante: le foto di
Gloeden, insieme a quelle di Fred Holland Day o a quelle della cosiddetta glamour
generation dei fotografi di moda anni Venti e Trenta, diventano un campo di
indagine privilegiato, legato alla rappresentazione di relazioni omoerotiche e
desideri sessuali disconosciuti. Dagli anni Novanta a oggi le foto di Gloeden
sono state esposte in numerose mostre dedicate alla storia della fotografia di
nudo maschile – tra tutte ricordo quelle curate da Peter Weiermair e Ulrich
Pohlmann – e
sono state inserite in diverse pubblicazioni che affrontano il rapporto tra
arte e omosessualità, come ad esempio il libro The Passionate Camera:
Photography and Bodies of Desire curato nel 1998 da Deborah Bright.
D’altro canto l’interpretazione dell’opera di Gloeden e la comprensione della
sua fortuna postuma sono inscindibili dal lungo processo sociale, politico e
culturale di affermazione dei diritti degli omosessuali. Come è stato
sottolineato da Francesco Faeta, separare in modo asettico la tensione
erotico-affettiva e il bisogno di autorappresentazione insito nella fotografia
di Gloeden, significa non cogliere il tratto distintivo di una fase tra le più
problematiche della storia europea contemporanea: una fase in cui le istanze
gay, non ancora riconosciute, hanno trovato espressione in campo artistico e
fotografico.
NOTE
L’articolo ripropone, con alcune modifiche, i
risultati delle ricerche pubblicati in PERNA 2013.
Tra le riviste
che in questi anni pubblicano le foto di Gloeden si ricordano in particolare:
“The Studio”, “Camera Notes”, “Photogram”, “The Camera”, “Photographische
Rundshau”, “The Sketch”, “Velhagen & Klasings Monatshefte”,
“Photographische Mitteilungen”, “Photographische Correspondenz”, “The National
Geographic Magazine”.
Atti della
sentenza d’appello della causa penale a carico di Pancrazio Buciunì, depositati
il 24 aprile 1941, Reg. Gen. n. 481/4, Archivio di Stato di Messina. Per un
resoconto dettagliato del processo di primo grado si v. FALZONE DEL BARBARÒ
1980, pp. 21-31.
ANIANTE 1929 e
ANIANTE 1930.
Si v. in
particolare BOLOGNARI 2012.
Particolarmente
importanti e precoci sono stati i contributi della storica della fotografia
Marina Miraglia, da poco scomparsa; si v. MIRAGLIA 1977; MIRAGLIA 1980;
MIRAGLIA 2000, pp. 7-10; MIRAGLIA 2012, pp. 151-166.
BARTHES, op.
cit., p. 9. Barthes scrive: «Senza alcuna ironia, pare, egli prende la più
logora delle leggende per denaro contante. […] Von Gloeden ha instancabilmente
elaborato questa mescolanza senza pensarci. Da qui la forza della sua
visione che ancora ci sorprende: le sue ingenuità sono grandiose come
prodezze».
Diversa, invece, è la prospettiva critica della studiosa americana di impostazione femminista Abigail Solomon Godeau, che si è interrogata sul rapporto di
compravendita alla base della relazione tra Gloeden e i giovani modelli
siciliani, sottolineando il divario sociale, culturale ed economico che separa
il fotografo da questi ultimi; cfr. SOLOMON-GODEAU 1991, p. 263.
Tra le numerose
mostre e pubblicazioni di questi autori si ricordano in particolare: POHLMANN
1987; POHLMANN 1998; WEIERMAIR 1987; WEIERMAIR 1996; WEIERMAIR 2004.
BIBLIOGRAFIA
ALINOVI 1981
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realtà, in Ead., Claudio Marra, La fotografia. Illusione o rivelazione?,
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Ultime
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Michelangelo Pistoletto, Andy Warhol,
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Longanesi & C., Milano 1980.
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MIRAGLIA 1977
Marina Miraglia, L’eredità di Wilhelm von Gloeden,
Lucio Amelio, Napoli 1977.
MIRAGLIA 1980
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simbolismo, in Michele Falzone del Barbarò, Ead.,
Italo Mussa (a cura di), Le fotografie di von Gloeden, Fotolibri
Longanesi & C., Milano 1980.
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in Annarita Caputo (a cura di), Wilhelm von Gloeden: fotografie ritrovate
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Polistampa, Firenze 2000.
MIRAGLIA 2012
Marina Miraglia, Wilhelm von Gloeden e il
Postmoderno, in Ead., Fotografi e pittori alla prova della modernità,
Bruno Mondadori, Milano 2012.
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Pietro Nicolosi, I baroni di Taormina, S. F.
Flaccovio, Palermo 1959.
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Travestimenti, ritratti, tableaux vivants, Postmedia Books, Milano 2013.
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Roger
Peyrefitte, Les amours singulières, Flammarion, Paris 1949 [trad. it. Eccentrici
amori, Longanesi, Milano 1967].
POHLMANN 1987
Ulrich
Pohlmann, Wilhelm von Gloeden – Sehnsucht nach Arkadien, Dirk Nishen Verlag, Berlin 1987.
POHLMANN 1998
Ulrich
Pohlmann, Wilhelm von Gloeden.
Taormina, Schirmer/Mosel, Munich-Paris-London 1998.
SOLOMON-GODEAU 1991
Abigail Solomon-Godeau,
Photography at the Dock, University of Minnesota Press, Minneapolis
1991.
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in “Photographische Mitteilungen”, vol. 36, n. 1, 1899.
WEIERMAIR 1987
Peter Weiermair (a cura di), Il
nudo maschile nella fotografia del XIX e del XX sec.,
Edizioni Essegi, Ravenna 1987.
WEIERMAIR 1996
Peter
Weiermair, Wilhelm von Gloeden, Taschen, Köln 1996.
WEIERMAIR 2004
Peter
Weiermair (a cura di), The Nude. Ideal and Reality. From the Invention of
Photography to Today, Artificio Skira, Firenze 2004.
WITKIN 2000
Joel-Peter
Witkin, in Pierre Borhan (a cura di), Joel-Peter Witkin. Disciple &
Maître, Marval, Paris 2000.
Vedi anche nel BTA:
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