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Archeologia e arte contemporanea: forme analogiche
 
Valeria Roggi
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 11 Aprile 2017, n. 836
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Lo studio riflette sulle analogie tra archeologia e arte investigate attraverso il confronto tra il pensiero creativo contemporaneo e il ricorso ai metodi e alle questioni propri del contesto archeologico.

Il pensiero creativo, soprattutto a partire dalla seconda metà del XX secolo, si è spesso legato ai processi, ai metodi e alle questioni dell’archeologia. Lo scavo stratigrafico, il recupero, la classificazione e catalogazione dei reperti, la policromia della scultura antica, il calco sono diventati oggetto di approfondimento artistico.
Le analogie tra archeologia e arte sono state investigate dall’archeologo britannico Andrew Colin Renfrew che, nel testo Figuring it Out, propone una riflessione sulle affinità tra i due ambiti di ricerca. “To figure out” - capire, comprendere - è l’azione che sia gli archeologi sia gli osservatori/autori dell’arte contemporanea compiono nel fruire dell’oggetto artistico sia esso reperto o arte nuova. L’archeologo scava, scova reperti, esplora antichi siti e cerca di dare un senso a quel che trova; le azioni compiute dall’archeologo sono analoghe a ciò che accade nel processo creativo dell’opera d’arte contemporanea che coinvolge l’autore e il fruitore dell’oggetto artistico [1].

Per dimostrare le connessioni tra l’archeologia e l’arte del tempo presente è utile esplorare le strade percorse dagli artisti che inseriscono nel proprio lavoro lo studio e la comprensione del passato dell’umanità. C’è qualcosa in comune tra l’interazione dell’archeologo con gli oggetti delle sue ricognizioni di scavo e il lavoro dello scultore nell’approccio ai materiali da impiegare per creare oggetti artistici.

Un approccio analogo a quello che ha l’archeologo nei confronti del frammento è utilizzato sia da Michelangelo Pistoletto in opere come Paradiso contemporaneo (fig. 1), allestito alle terme di Caracalla, che da Jannis Kounellis con Senza l’antica prospettiva (fig. 2), presso lo stadio di Domiziano. Pistoletto e Kounellis considerano il ricorso all’antico come una necessità insita nella natura umana, un elemento che sopravvive a se stesso e ogni volta si presenta agli occhi di chi lo osserva allo stesso tempo uguale e diverso [2]. Questi artisti intervengono usando materiale di scavo per dar forma a opere fatte di forme semplici, linee o cerchi; la rovina in tal modo diventa metafora della volontà di distruggere per rigenerare, di decostruire per creare nuove forme, della possibilità di selezionare per conoscere e offrire un’interpretazione critica. In entrambi il ricorso alla rovina risente della condizione dell’uomo moderno che abita una realtà frammentaria e, per questo, anela alla ricomposizione di un’unità perduta.
Il processo sistematico di scavo, raffinato dall’impiego di un metodo stratigrafico volto al recupero del contesto, torna anche in altri artisti.

Lo studio dell’archeologia e dei monumenti del passato ha indubbiamente stimolato la ricerca artistica di Anne e Patrick Poirier che hanno sviluppato una poetica basata principalmente sull’idea della memoria e della fragilità umana, legata alla violenza distruttiva del tempo e della storia [3]. L’opera dei Poirier si manifesta da subito come un lavoro di carattere concettuale sulle modalità della catalogazione dei saperi. Nell’opera del 1970 Villa Medici. Quindici Erme (fig. 3) calchi di statue romane sono inseriti in teche di legno protette da un vetro molto sottile; sopra ogni erma, un cofanetto custodisce alcune foglie e una fotografia della scultura. L’immagine fotografica e l’idea del frammento sono metafora della memoria umana che può ricordare gli eventi vissuti non in modo completo, ma solo per singoli fotogrammi.
L’opera Ostia Antica. Costruzione (fig. 4), realizzata tra il 1971 e il 1972, è un plastico in terracotta che riproduce la planimetria del sito mostrando una ricostruzione in miniatura di tutta l’area degli scavi con grande precisione nei dettagli. Con una tecnica simile vengono prodotte altre opere come Isola Sacra e la più complessa Domus Aurea la cui struttura si presenta divisa in vari reparti (Le Réduit des Antiques, Le Jardin Noir, La Bibliotèque Noir). In una sorta di archeologia parallela a quella ufficiale, con calchi di carta giapponese, fotografie, ricerche d’archivio, i due artisti rilevano frammenti e rovine di siti archeologici, contemporanei o immaginari.
I Poirier analizzano il significato profondo della rovina con l’opera  Exegi Monumentum Aere Perennius [4] (fig. 5) del 1988 che immobilizza l’immagine dinamica della caduta con i singoli rocchi franati a terra. Intorno al grande zoccolo è scolpita l’iscrizione, ironica e derisoria, che titola l’opera: Exegi Monumentum Aere Perennius; un titolo ambiguo che ironicamente dimostra come la colonna - realizzata con un materiale durevole quale è l’acciaio inossidabile - seppur caduta e spezzata, sia testimonianza delle rovine prodotte dal tempo e, allo stesso tempo, della permanenza delle forme antiche nel presente [5].
La loro ricerca si basa sulla riflessione sul tempo e sui suoi effetti rovinosi; in tal senso il termine rovina fa riferimento a tutto ciò che proviene dal passato senza conservare l’aura del monumento ma solo il suo valore testimoniale. Ciò dimostra come la ricostruzione del passato non sia una materia solo dell’archeologia e che, con strumenti diversi, anche l’artista può riattivare la memoria dei luoghi. I Poirier ripristinano la realtà dei siti e degli oggetti antichi seguendo il percorso scientifico di un archeologo e valorizzando l’approccio emozionale dell’arte.

Come appare evidente nel lavoro dei Poirier, anche l’oggetto principale d’indagine archeologica, la rovina – impronta del passato che rappresenta una sorta di materializzazione della memoria –  è divenuto materiale fertile per la ricerca artistica contemporanea.
In anni recenti le rovine antiche sono state spesso accostate alle macerie contemporanee, in una visione sinottica che sembra voler connettere la fine dell’età antica con il crollo delle moderne certezze.  A occuparsi di rovine contemporanee è il fotografo Massimo Siragusa con la serie Twentynineseconds che, citandone la durata, fissa la devastazione del sisma del 2009 in Abruzzo. In uno degli scatti, titolato Onna (fig. 6), l’ambiente barocco e la luce chiara di una chiesa stridono con gli accumuli di macerie in primo piano esprimendo un contrasto dall’aspetto quasi teatrale. L’artista invita l’osservatore a contemplare le rovine del presente proponendo una rilettura critica delle conseguenze materiali del terremoto [6]. Con simile accento teatrale, Piranesi aveva indagato le rovine del passato riflettendo sul crollo del mondo antico, costretto dal tempo e dalla storia a soccombere al moderno divenire [7] (fig. 7).

Una tecnica legata all’archeologia ripresa dagli artisti - in modo particolare per l’applicazione che ne viene fatta a Pompei - è il calco. Nel febbraio del 1863 Giuseppe Fiorelli, al tempo direttore degli scavi, diede l’ordine di versare del gesso liquido in una cavità incontrata dagli operai che scavavano nel vicolo tra le insulae VII 9 e VII 14 (da quel momento chiamato Vicolo degli Scheletri). Si ottenne così il primo calco completo di un corpo umano al quale si aggiunsero nel tempo quelli di molte altre vittime. Le carni erano consunte, ma la cenere che aveva ricoperto i corpi ne aveva conservato l’impronta. Nei giorni immediatamente successivi Luigi Settembrini, letterato amico di Fiorelli, descriveva i ritrovamenti con lirico entusiasmo sul “Giornale di Napoli”:

«è impossibile vedere quelle tre sformate figure, e non sentirsi commosso […]. Sono morti da diciotto secoli, ma sono creature umane che si vedono nella loro agonia. Lì non è arte, non è imitazione; […] è il dolore nella morte che racquista corpo e figura. Finora si è scoverto templi, case ed altri oggetti che interessano la curiosità delle persone colte, degli artisti e degli archeologi. Tu, o mio Fiorelli, hai scoperto il dolore umano, e chiunque è uomo lo sente». [8]

L’impronta da cui si ottiene il calco è strettamente connessa con ciò che l’ha generata: ne costituisce il sostituto, il doppio. Volendo utilizzare le categorie semiologiche di Charles Sanders Peirce [9], i calchi pompeiani hanno valore di indice perché mantengono una connessione reale col referente, presupponendo un contatto fisico con esso e condividendone alcune proprietà. I calchi furono ammirati non solo come eccezionali documenti archeologici, ma come opere d’arte.
L’artista che nel secolo scorso ha più di ogni altro fatto riferimento ai calchi pompeiani è George Segal. A partire dagli anni Sessanta egli realizza delle sculture applicando sui modelli bende su cui poi versa del gesso liquido; tagliando e ricomponendo la bende ottiene figure immobilizzate in un preciso istante. La suggestione delle vittime di Pompei è evidente in opere come L’olocausto (fig. 8) composta da undici figure in bronzo smaltato, dieci delle quali giacciono inerti al suolo coprendosi parzialmente una con l’altra in un abbraccio di morte, mentre l’undicesima è in piedi dietro il filo spinato.
Ai calchi pompeiani si sono ispirati più recentemente anche altri scultori. Critical Mass (fig. 9) è un’installazione realizzata nel 1994 dall’inglese Antony Gormley nella quale oltre sessanta corpi giacenti in varie posizioni riecheggiano il celebre Orto dei Fuggiaschi scavato nel 1961 a Pompei dall’archeologo Amedeo Maiuri. Guardando all’ambito italiano, I dormienti (fig. 10) di Mimmo Paladino eseguiti a partire dal 1998 devono molto ai calchi pompeiani: figure dalle teste ovali, calve e con ridotti cenni somatici, realizzate in terracotta o in bronzo che giacciono rannicchiate in posizione fetale. Secondo George Kubler un’opera d’arte è sempre «un pezzo di divenire immobilizzato, o un’emanazione del tempo passato» [10]. Proprio tale aspetto e ciò che accomuna i calchi di Pompei alle opere che a essi si ispirano: in entrambi i casi ciò che si osserva è la rappresentazione dell’arresto di un movimento in atto, di un’azione potenziale.

Il metodo scientifico di raccolta, ordinamento ed esposizione degli oggetti proprio dell’archeologia viene impiegato dall’artista americano Mark Dion. Un esempio è l’opera Tate Thames Dig (fig. 11) realizzata nel 1999 setacciando con un gruppo di archeologi e volontari il terreno lungo le rive del Tamigi prima a Millbank poi a Bankside ed esponendo i risultati di questo scavo in una vetrina alla Tate Gallery (un lato contiene oggetti trovati a Millbank, l’altro quelli di Bankside). Frammenti di ceramica, ossa, vetri rotti e ogni sorta di oggetto restituito dallo “scavo” viene pulito, ordinato per tipo, peso e colore, catalogato e collocato all’interno della vetrina; Dion trasforma il banale in oggetto d’arte. Ciò che Dion ottiene è un gabinetto delle curiosità, un contenitore con forti allusioni al fenomeno tipicamente cinquecentesco delle Wunderkammer [11] per l’esposizione delle mirabilia. Già in precedenza Dion aveva adottato metodi pseudo-archeologici per creare le proprie istallazioni. L’incontro con il metodo archeologico avviene nel 1996 con History Trash Scan opera realizzata con oggetti recuperati durante uno scavo eseguito a Perugia. Sempre uno scavo sta alla base dell’istallazione Raiding Neptune’s Vault esposta nel 1997 alla Biennale di Venezia costituita dagli oggetti dissepolti, sempre tramite il setaccio, in una decina di metri cubi di laguna veneta. Le raccolte di Dion hanno un potenziale culturale in quanto raccontano i mutamenti della società che ha prodotto quegli oggetti.
La sua ricerca artistica è volta anche all’analisi dei metodi e dei luoghi istituzionali che creano una struttura rappresentativa della natura e della storia umana. Il riferimento alle Wunderkammer rinascimentali diventa palese con la realizzazione di opere come Theatrum Mundi - Armarium  (fig. 12) realizzata nel 2001 in collaborazione con lo scultore Robert Williams ed esposta a Cambridge nella cappella medievale dello Jesus College. La connessione alla tradizione cinquecentesca questa volta non riguarda soltanto la struttura ma anche la scelta espositiva che ricalca l’ordinamento del mondo (Deus, verbum, intelligensus, intellectus, ratio, immaginatio e sensus) elaborato dall’alchimista Robert Fludd (1574-1637). Dion e Williams mettono insieme una grande quantità di oggetti - ossa, animali impagliati, giochi per bambini, libri, pietre, strumenti musicali - e li collocano in armadi e teche allo scopo di ricreare l’atmosfera dei musei di storia naturale. L’osservatore è spinto a guardarsi intorno e ipotizzare connessioni possibili tra la gran varietà di elementi ordinatamente esposti. Il cabinet de curiosités diventa un campo da perlustrare ed esperire attraverso una modalità di indagine tipica di tanta arte contemporanea e propria delle collezioni museali: l’osservatore percorre lo spazio del museo/installazione e cerca di coglierne il significato profondo analizzando oggetti e connessioni. Dion allo Jesus College associa oggetti dalle provenienze più disparate ricreando un microcosmo in cui a teschi, animali impagliati e piante essiccate si aggiungono giochi per bambini, video e libri: la Wunderkammer diventa un contenitore fisico e concettuale in cui convergono cultura antica e sapere moderno [12].

Un’altra questione legata all’archeologia indagata dall’arte contemporanea è il colore. La policromia dell’arte classica inizia a essere analizzata già nell’Ottocento quando gli scavi operati a Egina nel 1811 dall’architetto britannico Charles Robert Cockerell avevano rilevato tracce di policromia nelle sculture frontali del tempio dorico dedicato alla dea Afaia. Pochi anni dopo anche l’opera di Quatremère de Quincy, Le Jupiter Olympien del 1814, contribuì al dibattito sulla policromia delle sculture antiche; posizioni poi rafforzate negli anni Venti dell’Ottocento dagli studi dell’architetto Gottfried Semper che, viaggiando prima in Italia e poi in Grecia, contribuirà ad alimentare la diatriba con scavi che dimostrarono come statue, templi e terrecotte antiche fossero in origine dipinti con colori squillanti.
Lo studio di tale aspetto è stato affrontato in tempi recenti dall’archeologo tedesco Vinzenz Brinkmann che, studiando i pigmenti ancora presenti sulle opere antiche, si arma degli strumenti dell’artista e fa rivivere la policromia dell’arte antica mostrando il colore originario delle opere e cancellando gli effetti del tempo e dell’ossidazione. È questo un aspetto della classicità che per lungo tempo la storia dell’arte sembrerebbe aver voluto negare. A partire dagli anni Ottanta del Novecento, attraverso un’attenta analisi dei residui di pigmenti ancora presenti sui bronzi e i marmi antichi, Brinkmann ha dato forma a scrupolose ricostruzioni a colori delle sculture classiche messe in mostra per la prima volta al Glyptothek di Monaco di Baviera nel 2003 (in virtù dell’interesse suscitato, la mostra è ben presto diventata itinerante). Queste copie, realizzate in marmo o gesso e dipinte con pigmenti naturali, sono frutto di accurati studi: le aree dove non c’è alcuna prova della colorazione originale vengono, ad esempio, lasciate bianche (fig. 13). Brinkmann intende far riflettere sull’uso della policromia in statue che si immaginano esclusivamente nel colore del marmo o del bronzo ossidato; una vivacità spesso disturbante che, tuttavia, offre una declinazione inattesa dell’arte classica.
Tra gli artisti che guardano alle sperimentazioni di Brinkmann c’è Hans-Peter Feldmann. Egli a partire dagli anni Settanta del Novecento, realizza sgargianti riproduzioni in gesso di sculture classiche e rinascimentali ricoprendone il bianco candore con colori brillanti e saturi che disturbano la percezione tradizionale dell’antico (fig. 14).

Il ricorso alle forme della stratigrafia è presente, invece, nel lavoro di Tony Cragg che costruisce le proprie opere riflettendo sui concetti di frammentazione e ricomposizione (fig. 15). Assemblando materiali di scarto da forma a cubi solidi costituiti da pezzi di legno di varie dimensioni posizionati orizzontalmente a comprimere gli oggetti in densi strati che ricordano le sezioni geologiche o archeologiche [13]. Nell’ordinamento di frammenti che spaziano dai materiali da costruzione alle riviste scartate, la geometria incontra la selezione casuale.

L’attualizzazione dell’archeologia e la ricerca di connessioni tra antico e presente è uno degli aspetti su cui si concreta molta arte contemporanea. L’artista, come l’archeologo, sottrae al passato le sue forme e, riesumandole, le colloca nello spazio dell’agire presente. È interessante notare come tale “vivificazione” dell’antico passi anche attraverso la riappropriazione del sito archeologico che, sempre più, diventa spazio da contaminare con il contemporaneo. Disseppellire i resti archeologici ha, in fondo, il limite di creare una frattura tra il presente attivo e un passato che ha ormai perso la sua vitalità svuotandosi delle proprie funzioni. L’arte contemporanea che si ispira o viene istallata in questi luoghi tenta di sanare questa frattura promuovendo un confronto dialettico tra il moderno e l’antico. Il connubio tra antico e contemporaneo sarebbe, dunque, in grado di riportare in superficie la memoria dei luoghi e il loro valore storico. Attraverso la ricerca dell’equilibrio tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere, il contemporaneo aggiunge all’antico nuovi significati, legati alle tracce passate ma rispondenti ai bisogni attuali e ne favorisce la comprensione profonda e la fruizione attiva.


L'argomento trattato in questo articolo è un approfondimento legato alle ricerche compiute nel redigere il capitolo di chiusura della mia tesi di laurea magistrale
Arte Classica - Arte Povera. La ripresa del classico tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento in Italia. Ringrazio, pertanto, il Prof. Claudio Zambianchi, relatore della tesi, per i preziosi insegnamenti e le proficue conversazioni che hanno guidato la mia riflessione e il Prof. Marcello Barbanera, correlatore, per avermi fornito testi e dati indispensabili per la redazione della ricerca offrendomi utili consigli che mi hanno aiutato ad approcciare gli aspetti dell’articolo più strettamente legati all'ambito archeologico.



NOTE

[1] RENFREW (2003), pp. 26-94.

[2] SETTIS (2004), pp. 101-114.

[3] MARCONE (2010), pp. 217-239.

[4] ORAZIO, Odi, III, 30, 1.

[5] AUGÉ (2004), pp. 98-99.

[6] NORCIA (2015), p. 38.

[7] BEVILACQUA (2015), pp. 126-133.

[8] SETTEMBRINI (1863),  p. 1.

[9] Charles Sanders Peirce (1839-1914) individua tre tipi principali di segni: indici, icone e simboli.
Gli indici sono dei segni in cui l’espressione e il contenuto sono legati da un rapporto di origine naturale e di tipo causale. Le icone sono segni che rinviano a un oggetto o a un evento per analogia, in virtù di una somiglianza con esso. Si tratta di segni prodotti volontariamente, con l’intenzione di comunicare qualcosa. I simboli sono segni nei quali il legame tra espressione e contenuto non ha motivazioni di tipo naturale o analogico, come avviene per gli indici e le icone. Il rapporto tra espressione e contenuto nei simboli è invece di tipo convenzionale, cioè è garantito da una tradizione culturale a cui partecipano tanto l’emittente quanto il destinatario del segno.

[10] KUBLER (2002), p. 28.

[11] Quello delle Wunderkammer (dette anche cabinets de curiosités o camere delle meraviglie) fu un fenomeno tipico del Cinquecento, che affonda le sue radici già nel Medioevo quando nascono le prime raccolte di curiosità. Il termine è un’espressione usata per indicare particolari ambienti in cui, in particolare modo tra XVI e XVIII secolo, gli studiosi e appassionati collezionisti erano soliti conservare raccolte di oggetti di ogni genere ritenuti straordinari purché fossero mirabilia.

[12] RENFREW (2003), pp. 84-94.

[13] ECCHER (1994), pp. 34-47.



BIBLIOGRAFIA


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COEN 2009

Ester COEN, Reperti e amnesie, in Relitti riletti. Metamorfosi delle rovine e identità culturale, a cura di Marcello BARBANERA, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, pp. 158-171.


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Audrey NORCIA, La rovina, nuovo paradigma del XX e del XXI secolo: per una riflessione sull’umanità, in La forza delle rovine, catalogo della mostra (Roma 2015-2016), a cura di Marcello BARBANERA, Alessandra CAPODIFERRO, Verona, Electa, 2015, pp. 34-45.


ORAZIO 2010

Quinto ORAZIO Flacco, Odi ed Epodi, traduzione a cura di Ugo DOTTI, Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 338-339.


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Colin RENFREW, Figuring it out. What are we? Where do we come from? The parallel vision of artists and archaeologists, Londra, Thames & Hudson, 2003.


SETTEMBRINI 1863

Luigi SETTEMBRINI,  I Pompeiani, in "Giornale di Napoli", 17 febbraio 1863, p. 1.


SETTIS 2004

Salvatore SETTIS, Futuro del “classico”, Torino, Einaudi, 2004.

PDF

Fig. 1

Michelangelo Pistoletto,
Paradiso contemporaneo
, 2012,

marmi e mosaici,
9x5 m, Roma, Terme di Caracalla.

Fig. 2
Jannis Kounellis,
Senza l’antica prospettiva
, 2013,

marmi e mosaici, misure non conosciute, Roma, Stadio di Domiziano.

Foto cortesia di
© Manuela Giusto (Inside Art).

Fig. 3

Anne e Patrick Poirier, Villa Medici. 15 erme, 1970, teche, calchi in carta, erbari e foto su ceramica, ciascuna 2x0,45x0,30 m,
Parigi, collezione Centre Georges Pompidou.

Foto cortesia di
© Anne e Patrick Poirier [2016].
Foto cortesia di
© Centre Georges Pompidou, Parigi [2016].

Fig. 4
Anne e Patrick Poirier, Ostia antica. Costruzioni, 1971-72,

terra cotta, 12x6 m,
Vienna, collezione Ludwig.

Foto cortesia di
© Anne e Patrick Poirier [2016].
Foto cortesia di
© Bildrecht, Wien [2016].

Fig. 5
Anne e Patrick Poirier, Erexit monumentum aere perennis, 1988,

acciaio inossidabile, 6x18 m,
Prato, Giardino del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci.

Fig. 6

Massimo Siragusa, Twentynineseconds. Onna, 2009.

Foto cortesia di
© Massimo Siragusa [2017].

Fig. 7

Giovanni Battista Piranesi, Veduta dei resti del tempio di Nettuno a Paestum, 1778, incisione all’acquaforte, 50,5x68,5 cm,
Napoli, Fondazione Giambattista Vico.

Fig. 8

George Segal, L’olocausto, 1982,

bronzo smaltato, installazione ambientale variabile,
San Francisco, Legion of Honor Park.

Fig. 9
Antony Gormley, Critical mass II, 1995,

acciaio, 200x30 m,
Vienna, Remise.

Foto cortesia di
© Antony Gormley.
Foto cortesia di
© Stephen White Photo.

Fig. 10

Mimmo Paladino I dormienti, 1999,

terracotta, installazione ambientale variabile,
Castelbasso, VARIeAZIONI.

Foto cortesia di
© Gino Di Paolo e Mario Di Paolo (Artribune).

Fig. 11
Mark Dion, Tate Themes Dig, 1999,
struttura in legno contenente porcellana, terracotta, metallo, ossa di animali,
vetro e carta, 2,66x3,70x1,26 m,
Londra, Tate Gallery.

Foto cortesia di
© Mark Dion [2017].
Foto cortesia di ©Tate, London [2017].

Fig. 12

Mark Dion, Theatrum Mundi - Armarium, 2001, struttura in legno contenente porcellana, terracotta, metallo, ossa, vetro e carta, 5,02x5,63 m,
Cambridge, Jesus College.

Foto cortesia di
© Mark Dion and Robert Williams.
Foto cortesia di
© Roger Lee Photo.

Fig. 13
Vinzenz Brinkmann,
Statua di arciere troiano dal Tempio di Egina
, 2007,

modellino policromo in gesso, 1,04 m,
Monaco, Staatliche Antikensammlungen und Glyptothek.

Fig. 14
Hans Peter Feldmann,
David
, 2009,
gesso dipinto, 90 cm,
Brescia, Galleria Massimo Minini.

Fig. 15
Tony Cragg, Stack, 1976, legno, cemento, mattoni, metallo, plastica, tessuto, cartone e carta,
2x2x2 m,
Londra, Tate Gallery.

Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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