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L'architettura del Polifilo tra classico e anticlassico
 

Stefano Borsi
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 24 Luglio 2017, n. 844
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Area Architettura
Molti sono gli aspetti che rendono ancor oggi l'Hypnerotomachia Poliphili un intrigante campo di indagine, anche prescindendo dalla vexata quaestio dell'attribuzione di questo straordinario testo dai molti misteri, o meglio dell'identificazione storica di Francesco Colonna che l'opera stessa, sia pure in modo relativamente criptico, individua come proprio autore. Un approccio particolare merita il rapporto serrato e ricco di sfumature che il «romanzo» intrattiene coll'architettura, e sul quale chi scrive ha da tempo focalizzato l'attenzione [1]. Si tratta di una presenza attiva, sin nelle elaborate scelte linguistiche applicate a questo vasto ma specifico campo tematico, che non si limitano alla mera funzione di ambientazione o fondale scenico dell'azione narrativa. L'architettura, e con essa il medium linguistico di nuovo conio che le è assegnato, partecipa in pieno all'elaborato disegno intellettuale che si cela dietro il complesso racconto «a chiave» del sogno di Polifilo. Non si tratta di un linguaggio messo solo al servizio della narrazione – e dei vari registri emozionali ad essa connessi – ma dell'intrigante vettore di ammiccamenti continui e di vere e proprie chiavi interpretative che permettono di guardare più in là, di individuare il soggetto celato dietro la lussureggiante profusione di enigmi e di allusioni. La comprensione, peraltro non sempre agevole, delle componenti di questo singolare rapporto tra Francesco Colonna e l'architettura può fornire non trascurabili informazioni sul suo mondo e anche sul suo inafferrabile metodo di lavoro. Va da sé che questo comporta, ma non è un aspetto che si vuole particolarmente indagare in queste pagine per evidenti ragioni di spazio, una ricognizione a tutto campo delle fonti dell'elusivo autore e delle sue reali conoscenze in materia che molto dice anche sul piano strettamente biografico, permettendo di chiudere definitivamente anche l'annosa querelle attributiva su cui già tanto è stato scritto.

L'architettura evocata da Colonna rivela apporti variegati e assai stratificati, con evidenti concessioni alla teoria architettonica (Vitruvio e Alberti su tutte) ma anche con empiriche valutazioni di tipo personale, in gran parte ricavate dall'antico. Non si tratta di un approccio banale: né per quanto riguarda la doviziosa scelta dei modelli letterari, né per la selezione di suggestioni tratte dagli exempla architettonici dell'antichità, spesso ibridate, integrate per analogia o liberamente (e disinvoltamente) sovrapposte. Una dinamica di metodo estremamente rivelatrice dell'atteggiamento dell'autore. Se l'antico ha un riconosciuto valore esemplare, in una sorta di – implicitamente dialettica, e costantemente raffrontata con la modestia e pusillanimità del presente – continua validante nobilitazione dell'invenzione moderna, esso non assume mai la valenza di una cristallizzazione normativa, non inclina alla tendenza a una concezione monistica del classico.

Esso innesca e supporta l'invenzione poetica, stimola l'intelletto, coinvolge i registri emotivi, scatena il gioco erudito dei rimandi, alimenta il continuo percorso euristico perché, tra le molteplici virtù e competenze che deve avere l'architetto, Colonna postula che egli sia anche «indagatore curioso». L'architettura del visionario sogno polifilesco è letta per molteplici disiecta membra, costituisce l'evocazione di un grande spazio urbano di cui si legge a stento una continuità spaziale. Si tratta di un fatto voluto: l'autore fa sentire tutto il peso dell'azione inesorabile del tempo, tempus edax e rerum prosternator, che aveva catalizzato l'attenzione di Leon Battista Alberti nelle ultime pagine del De re aedificatoria. Una concezione storicistica, metamorfica, profondamente anticlassica nelle sue corde segrete, che spiega bene una delle ragioni della straordinaria fortuna del testo – e delle sue notevoli immagini – ben oltre i limiti della grande stagione rinascimentale: basti pensare, a parte episodi eclatanti come l'elefante obeliscoforo della Minerva o l'obelisco triangolare di Ferdinando Sanfelice, alla continua suggestione esercitata su Borromini [2]. La struttura a somnium vel visio si dispiega in un percorso continuo che è certamente iniziatico, ma che si traduce fisicamente in un itinerario che si snoda tra gli episodi monumentali di una grande città morta. Nonostante una densa coltre di filtri e sovrapposizioni, l'autore dissemina indizi di vario tipo per consentire al lettore erudito di identificare quale sia questa città: l'antica Praeneste si affaccia di continuo tra le righe ma sfugge ad arte alla comprensione di chi ne ignori la realtà del XV secolo, la consistenza archeologica, la storia.

L'approccio intellettualistico dell'autore quattrocentesco si traduce, al di là delle petizioni di principio di formale ossequio all'antico o di vis polemica indirizzata al corsivo moderno, in un'inventività libera ed esuberante, del tutto svincolata da un'interpretazione rigorosa del classicismo. Criptici simbolismi, dislocazioni di episodi monumentali «parlanti» secondo un percorso iniziatico, esibizione di materiali pregiati da Schatzkammer, insistiti elementi alchemici, compiaciuti riferimenti eruditi, tutto concorre a edificare una vaporosa dimensione mitica, leggendaria più che semplicemente letteraria, dell'architettura immaginata da Francesco Colonna. Spazi dilatati di una vera «non città» metropolitana senza tessuto abitativo, senza una definita forma urbana, senza un continuum che non sia il filo etereo ma opulento del visionario racconto, in un accentuato e suggestivo rovinismo che, a differenza di quello di Mantegna, appare del tutto incurioso della sovrapposizione del moderno e delle secolari stratificate logiche del riuso. Un elemento che suggerisce qualcosa dell'intento rievocativo di Francesco Colonna, se si considera la distruzione di Palestrina operata nel 1437 dalle truppe del cardinal Vitelleschi che di fatto aveva introdotto una grave cesura nella continuità abitativa determinando lo spopolamento del borgo raso al suolo. Muti resti «collapsi et disiecti», edifici ridotti a strutture larvali («quasi redacti al primo rudimento»), avvolti in un silenzio («loco solitario et desertato») che esprime tutto il peso della storia – anche recente – ma che permette di apprezzare nonostante la «fragmentata et semiruta structura» che limita la piena visibilità l'architettura sonante, i rigurgiti e il flusso idrico nel tempio di Venere Physizoa o lo stridore della statua girevole della Fortuna.

Anche quando sarebbe lecito attendersi l'emergere di un modello architettonico egemone [3], Colonna dà corpo a un'immagine elusiva, gigantesca nelle proporzioni, inafferrabile nell'aritmologia dei codici proporzionali, un gigantesco tempio «in forma di città» rovinato e disarticolato in cui non è difficile leggere la suggestione dei grandi santuari ellenistici latini, della Fortuna Primigenia a Preneste, di Ercole Vincitore a Tivoli, di Giove Anxur a Terracina (citato nel testo: «Iove Anxuro»). Se la suggestione si fa più insistita, sino a permettere l'individuazione di un modello attentamente indagato come nel caso di Villa Adriana, anche in questo caso l'antico non è un edificio singolo ma una vera «città morta»: «Tivoli vecchia», non a caso, la chiamavano i contemporanei. Colonna in ogni caso ha i suoi modelli, ma è molto attento a non scoprire del tutto il proprio gioco. L'architettura fa parte di questo ludus ricercato ed elitario, partecipa della continua ipersollecitazione intellettuale del lettore, del lussureggiante racconto a chiave, del complicato gioco a specchi pazientemente imbastito dall'autore. E a tutto ciò concorre anche il ricercato linguaggio architettonico, in gran parte giocato sul piano obliquo dell'interscambio continuo Vitruvio-Alberti, ma esteso anche a sollecitazioni antiquarie, veterotestamentarie e medievali. Poiché questi aspetti sono stati già affrontati da chi scrive, con particolare riguardo al tempio di Venere Physizoa [4] e ai rapporti con le indagini su Villa Adriana [5], sposterò in queste pagine l'attenzione sul vero e proprio momento iniziale di questo singolare spazio concesso all'architettura nel testo: l'illustrazione del grande monumento piramidale coronato da obelisco.

Per brevità devo prescindere da altri tipi di indicazioni mutuate da altri ambiti disciplinari che Colonna utilizza abilmente, in un'esibizione erudita dietro la quale si celano criptici elementi identificativi. Nel nostro caso, per esempio, un ricco repertorio di essenze vegetali, descritto ampollosamente prima di giungere al gigantesco edificio piramidale, vuole probabilmente fornire indicazioni topografiche, intanto delimitando – in un procedimento vagamente tolemaico – una precisa fascia climatica, poi stringendo il cerchio in modo più mirato, come è stato già osservato, per la presenza delle palme [6]. A queste ultime si può aggiungere quella dei «frondosi Esculi» in cui non è difficile, sulla scorta di una suggestione plutarchea, intravedere un richiamo all'antica origine di Preneste o meglio al tentativo di spiegazione paretimologica del toponimo, da escli traduzione latina di prini (da cui Prinisto latinizzato in Praeneste) [7].

Da lontano l'imponente edificio appare a Polifilo una grande torre d'avvistamento (una «specula», la definisce adattando un lemma latino di Alberti), poi la struttura si evidenzia e la descrizione si fa più precisa. I dati metrici sono forniti all'antica, ed è oggi arduo pensare se Colonna fosse in grado di conoscerne i valori in modo esatto: anche la misura precisa del ben più familiare piede monetale romano fu recuperata da Fra Giocondo solo nel XVI secolo. I dati metrici non solo evidenziano il gigantismo della struttura (configurando, sia pure entro ragionevoli margini d'approssimazione, un fronte di oltre milletrecento metri), ma trasmettono indicazioni proporzionali e allusioni aritmologiche più complesse. Della grande piramide l'autore indica il numero esatto di gradini (1410), anzi fornisce due dati ricordando che gli ultimi dieci erano riservati al basamento dell'obelisco (1410-10=1400) ed è facile pensare che tali indicazioni – apparentemente superflue o marginali – assumessero per Colonna un significato simbolico preciso. Se è difficile ricondurlo a singoli edifici di riferimento, tutti ancora da individuare, non si può fare a meno di osservare che le due cifre proposte – se interpretate come allusive indicazioni cronologiche – corrispondono a due momenti importanti della storia recente di Palestrina. Nel 1400 maturò la crisi tra i Colonna prenestini e Bonifacio IX, e nel 1410 ci fu la riconciliazione tra essi e il nuovo pontefice Giovanni XXIII [8]: date che dicono molto della posizione personale di Francesco Colonna nei difficili anni del pontificato di Alessandro VI [9].

Sono gli elementi descrittivi che permettono di ancorare l'edificio immaginario polifilesco al modello del grande santuario prenestino, ma in un contesto arricchito di svariati elementi eruditi e di spunti di altri edifici ritenuti altrettanto esemplari: l'idea stessa dei gradini sembra evocare i resti imponenti del grande tempio del Quirinale, il cosiddetto Frontespizio di Nerone all'epoca appartenente ai Colonna di Genazzano, i cui gradini marmorei furono riutilizzati per la scalinata dell'Aracoeli [10]. Tuttavia, la «fragmentata et semiruta structura» descritta da Polifilo fornisce una pletora di agganci alla realtà archeologica prenestina e alle difficoltà di lettura interpretativa che si sarebbero potute ricavare sullo scorcio del XV secolo dall'osservazione diretta del santuario della Fortuna. Colonna non pare affatto uno sprovveduto in fatto di architettura, perché coglie l'importanza dell'intercapedine tra costruito e rupe di sostegno («Il quale immenso quadrato cum le collaterale montagne dil convalle, non se adheriva. Ma intercapedo et separato era da luno et laltro lato dece passi») e dell'esposizione al soleggiamento per l'illuminazione dell'edificio. Più tecnica è l'osservazione sulle sostruzioni: «opposita et obstinata resistentia di fornici sotto mai potesseno sostenire né supportare» in cui è chiara la lettura dinamica delle forze a contrasto delle spinte delle strutture di sostegno. Non è difficile riscontrare simili sostruzioni a fornici cementizi nelle zone basamentali del palazzo baronale di Palestrina, e il racconto di Polifilo che percorre gallerie quasi impenetrabili e varca soglie oscure a prezzo di rischi e fatica sembra davvero rievocare la forte impressione che l'incontro con le imponenti strutture preesistenti suscitava al momento di ristrutturare il palazzo colonnese sovrastante. Il gioco degli ammiccamenti talvolta è molto meno esplicito: l'uso insistito della metafora del diamante nella descrizione dell'edificio («adamantineamente fastigiata et portentosissima Pyramide», «miranda et exquisita Symmetria gradatamente Adamantale») obbedisce ancora una volta a logiche simboliche (altrove già indagate da chi scrive [11]) ma stabilisce pure un inatteso nesso con la realtà del palazzo prenestino di Francesco Colonna, richiamandone il portale dall'eloquente bugnato a punta di diamante. Anche il tema polifilesco di «AMOR VINCIT OMNIA» è strettamente connesso alla lussureggiante simbologia del diamante e giustifica questa scelta. Lo chiarisce un passo di Onorio di Autun: «Fertur quod Prometheus quidam sapiens primus annulum ferreum ob insigne amoris fecerit, et in eo adamantem lapidem posuerit; quia videlicet sicut ferrum domat omnia, ita amor vincit omnia; et sicut adamas est infrangibilis, ita amor est inexpugnabilis» [12]. L'inespugnabilità, va da sé, è un ideale che abbraccia più declinazioni, tutte parimenti auspicabili per il palazzo di una famiglia aristocratica dalle (molto) alterne fortune politiche.

Analogamente il «vipereo capo della spaventevola Medusa» descritto nel plinto marmoreo richiama i rilievi della vera di pozzo collocata dinanzi al portale del palazzo quattrocentesco, entrambi – portale e pozzo – frutto della ristrutturazione dell'edificio intrapresa dal principe letterato entusiasta lettore di Alberti e appassionato d'architettura negli anni 1485-1493. Ma l'importanza accordata a un elemento apparentemente marginale come il pozzo non è né casuale né del tutto innocente, perché richiama, a mio parere volutamente, la storia stessa del santuario prenestino, nello specifico la vera marmorea di pozzo (pozzo a struttura tufacea di circa sette metri e mezzo di profondità) nella terrazza degli emicicli del grande complesso latino. Ciò permette di sottolineare la sacralità dell'area antistante l'accesso palatino moderno richiamando un'indicazione ciceroniana (De divinatione, II, 85-87): «locus saeptus religiose». Questi inattesi incroci tra testo erudito e realtà locale contribuiscono a rendere estremamente flou il confine tra l'antico e il moderno, dando corpo a un'interpretazione magmatica e profondamente metamorfica della labile ma costante dialettica tra classico e anticlassico. Del resto l'evidenza archeologica propone testimonianze in certi casi eversive di una compiuta rinascimentale teoria degli ordini: nello specifico di quest'area del santuario prenestino un colonnato corinzio presentava un'eterodossa trabeazione caratterizzata dal fregio dorico. Ibridismi cui dà corpo anche Colonna, per esempio descrivendo colonne «Dorice» ma riportando che il loro fusto presenta ventiquattro scanalature («strie») come compete in effetti solo agli ordini ionico e corinzio. Difficile, alla luce della padronanza vitruviana costantemente profusa nel testo, pensare che si tratti di un banale lapsus calami.

Continui richiami al mitico passato dei luoghi, o alle presunte remotissime origini latine di Praeneste, contribuiscono a dilatare sensibilmente le dimensioni e lo spessore dell'«antico». Anche l'assai virgiliana rievocazione di Enea nel Lazio, ricondotta al momento incipitario della drammatica fuga dell'eroe da Troia («il piatoso et lachrymabile caso che il fugitivo dill'ardente patria incautamente perdete la sua dilecta Creusa»), sta a ricordare in modo criptico (sulla scia di Livio, Ab Urbe cond., I, 3) il mito letterario della componente demica troiana degli antichi Prenestini [13]. La vicenda italica di Enea, in chiave locale, corrisponde al regno del mitico re Ceculo (Virgilio, Aen., X, 544-545). La presunta discendenza di questi da Vulcano richiama l'essenza stessa dell'antico santuario, il mundus sotterraneo connesso alle sortes del culto antico, «primigenio» di Fortuna. Colonna – che come l'antico Ceculo poteva considerarsi il moderno rifondatore della città – dà ampia prova di accordare particolare importanza a indicazioni di questo tipo, la cui esatta individuazione rappresenta oggi, si deve ammettere, un lavoro improbo e ricco di incognite.

Non riusciamo a cogliere del tutto sino a che punto il gioco fosse condotto in profondità: anche invenzioni apparentemente neutre dell'immaginario colonnese possono celare criptici rinvii mirati alla topografia prenestina. L'aquila con le ali spiegate («passe») poteva alludere a un toponimo locale, la contrada Aquila [14] sorta sul sito dell'antico Foro? Il tempio di Venere Phyzizoa, il cui lanternino è coronato dall'aquila, rievocare la cappella prenestina della Madonna dell'Aquila?  E l'atterrito Polifilo che fugge dinanzi al dragone poteva evocare un altro toponimo locale, il borgo detto lo Scacciato [15]? Le fanciulle che fustigano Polifilo e Polia (xilografia a c. C [vi]) con «virgule» e «rami di querciolo» (altra allusione alla mitica origine antica di Praeneste) o l'erote che con la verga guida il carro (xilografia a c. B ii verso) celano un richiamo al pio sodalizio della Frusta, attestato a Palestrina già nel 1451 [16]? E la «chorea» di danzatori allude alle danze agresti che rievocavano in antico le presunte origini greche di Praeneste [17]? Nel descrivere la zona basamentale Colonna offre un esempio del dilatato campo delle suo fonti. La voce «latastro» è un riconoscibile neologismo albertiano [18], ma «quadrato Catyllo» propone, evocando il Monte Catillo, un singolare ed eloquente aggancio alla toponomastica locale.

C'è poi l'annoso problema del grado di visibilità che avessero all'epoca dell'autore molte antichità prenestine: il caso eclatante è ovviamente il celebre mosaico del Nilo, ma occorre ricordare che un altro pavimento musivo del santuario, apparentemente scoperto (o riscoperto?) a fine XVII secolo [19], rappresentava il ratto d'Europa raffigurato anche in una delle xilografie aldine (a c. k iiii, in basso). Le stratificazioni possono essere molto articolate: un tipico esempio è dato dalle tre porte che obbediscono a logiche simboliche (medium tenuere beati), a suggestioni antiquarie (la porta regia e le due laterali della frons scenae del teatro romano), ma forse alludere ancora una volta alla realtà locale, i tre varchi nelle mura merlate di Palestrina detti di San Cesareo (l'antica statio ad Statuas), del Murozzo, del Trullo [20]. Quando Polifilo ode il suono della grande statua girevole fa riferimento ad architetture sonanti dell'antichità di palese desunzione letteraria ma cita anche l'«erario» che, come aveva già intuito Calvesi [21], rappresenta un esplicito richiamo alla realtà prenestina. Ma questo segna un evidente e assai significativo scostamento dai modelli letterari, perché solo un'iscrizione d'epoca sillana posta nel basamento dell'aula absidata del complesso (CIL I², n. 1463) permette di collegare la presenza dell'antico aerarium al santuario di Praeneste. è una chiara conferma della conoscenza approfondita del sito e dell'importanza accordata da Colonna, sulla scorta di un'indicazione di Alberti, all'esame autoptico dell'architettura.

Tornando all'ecfrasi architettonica del gigantesco tempio (profondamente prenestino nell'ispirazione ma arricchito di svariati innesti) un altro elemento viene sottoposto all'attenzione del lettore. Si tratta del tempietto di coronamento dell'intero complesso, un episodio architettonico inconsueto che mette l'autore di fronte a non poche difficoltà interpretative.  

Polifilo descrive l'edificio in termini non propriamente vitruviani, «spectando ciborio». Già la scelta di questo lemma indizia una sostanziale difficoltà interpretativa del monoptero rispetto alle indicazioni ricavabili dal De architectura (VII, 12 e IV,8). Le difficoltà sono anche di terminologia, come l'autore aveva dichiarato apertamente (a c. b iiii): «Praecipuamente che nella nostra aetate gli vernacoli, proprii et patrii vocabuli, et di larte aedificatoria peculiari, sono cum gli veri homini, sepulti, et extincti». Polifilo descrive il tempietto a sei colonne («sei columnelle»: le proporzioni sono, infatti, inferiori rispetto agli ordini delle terrazze inferiori) discostandosi dalla realtà (sono in effetti sette) per ragioni forse simboliche (più che di difficoltosa leggibilità d'insieme), ma coglie efficacemente il rapporto essenziale tra edificio e corpo sub terra, che intendeva evocare il mundus augurale e divinatorio (oraclum, nell'iscrizione dei Fasti Prenestini, CIL I², n. 235). Le indicazioni ricavabili dal già ricordato passo del De divinatione di Cicerone non sono sufficienti all'autore per spiegare a fondo questa particolare disposizione dell'edificio sovrapposto a «subterranea vacuitate illuminate per una circulare apertura». Non disponendo dell'accesso a soluzioni templari simili tipo il tempio dorico di Pompei, all'epoca ancora sconosciuto, Colonna ricorre all'analogia con gli antichi sacelli con ipogeo a lui più familiari, sul tipo di quello del divo Romolo sulla via Appia. Ne consegue l'interpretazione funeraria dell'ipogeo, che agli occhi di Polifilo si rivela un cimitero. Sostituendosi ai pueri estrattori delle sortes dell'antichità, il protagonista si cala «per uno caeco acclivo scalinato descendendo» nelle oscure viscere che, una volta assuefatti gli occhi all'oscurità, si rivelano come «uno grande et amplo loco subterraneo concamerato in rotondo», con colonne «subacte al perpendiculo dille superastructe dilla cupula», cioè perfettamente corrispondenti alle colonne della peristasi del monoptero sovrastante. L'esperienza autoptica del santuario dell'antica Praeneste emerge qui con sufficiente chiarezza, e non è un caso che le considerazioni «archeologiche» di Polifilo sulla funzione dell'ara sacrificale ipogea e della «fenestricula» per areare il fuoco rituale siano accompagnate da continui richiami all'esperienza personale: «pensai», «et anchora cogitai», «coniecturai», «suspicai». La problematicità della «tholo», di cui la xilografia aldina illustra fedelmente l'ordine corinzio della peristasi (nel testo si fa solo cenno alla trabeazione : «cum lo epistilio, zophoro et coronice», comunque con maggiore completezza d'informazione del corrispondente passo in Vitruvio, De arch., IV, 8, 1, dove sono citati solo i primi due elementi), non deve sorprendere perché si lega a una specifica realtà cultuale (bothros, omphalos, umbilicus, mundus) di cui nel Quattrocento si poteva conoscere ben poco. Ma il singolare rapporto tra sortes e somnia è già in Cicerone (De div., II, 85) ed è uno spunto che Colonna deve aver meditato profondamente. Che si trattasse di una religiosità particolarmente antica egli sembra consapevole, e un indizio rivelatore è il riferimento polifilesco al Padre Libero che richiama l'accenno vitruviano (De arch., VII, 12) all'opera di Ermogene, segnatamente al «Libero Patri Teo monopteros». Nel racconto polifilesco, è stato già notato, «Libero patre» è evocato in due occasioni [22].

La supposta pianta esagonale («La quale era sexangula»), che si direbbe frutto palese d'un equivoco, allontana dal modello reale e obbedisce alle medesime logiche simboliche aritmologiche che portano l'autore a leggere sei colonne e non sette della peristasi, ma è possibile che la piena leggibilità del rudere fosse all'epoca in parte alterata da detriti e vegetazione, cui l'autore stesso fa riferimento: «investito di una obstinata et flexipeda hedera». è possibile che Colonna abbia anche approfondito la questione negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione della sua opera. Si consideri, infatti, che questa parte del santuario potrebbe aver fornito ispirazione a Bramante (e per quali tramiti?) per il Tempietto di San Pietro in Montorio (compreso il ricorso all'ordine dorico, in questo caso applicato integralmente e non solo al fregio), dove le antiche sortes sono sostituite dalle visiones speleolitiche del beato Amedeo, nella grotta gianicolense cui il celebre tempio bramantesco è sovrapposto. Si tratta tuttavia di un passaggio che ha molto del congetturale e sul quale poco soccorso è fornito dal racconto dell'Hypnerotomachia. Un fantasmagorico sviluppo narrativo ha reso piuttosto distanti tra loro la descrizione del grande tempio con obelisco e lo «spectando ciborio» che in realtà, nel modello prenestino, ne costituisce il coronamento sommitale. Ciò offre un'immagine molto nitida della straordinaria flessibilità del metodo compositivo dell'autore e della ricchezza di elementi che mette in campo nelle sue descrizioni e interpretazioni architettoniche. Nello stesso tempo dà la misura di uno spazio estremamente dilatato e disarticolato, che viene ricreato per frammenti ed episodi salienti come in un continuo smontaggio e rimontaggio di texellae. Questo consente all'autore una vasta gamma di depistaggi e dissimulazioni che di Alberti sembra più rievocare l'allusivo Momus che il piano e discorsivo De re aedificatoria. Del resto il meccanismo ricorda quello con cui cela la propria identità, attraverso il ben noto acrostico formato con le iniziali dei singoli capitoli. Anche le letture del santuario latino subiscono la stessa sorte e si distribuiscono in varie sezioni del racconto.

Affiora tuttavia anche un'evidente difficoltà a leggere il continuum edilizio che deriva ab ovo proprio dalla vastità inusitata del santuario della Fortuna Primigenia coi suoi numerosi livelli terrazzati. Un edificio monstre, che alla realtà del XV secolo appare in larga parte compromesso, è fatalmente equiparato alla scala urbana della città che si è gradatamente innestata sopra i suoi resti grandiosi. E c'è anche nel racconto del Colonna il senso concreto dell'intrigante voluptas dell'indagine, la palpitante rievocazione dell'eroica epopea di una continua difficoltà materiale dell'esplorazione, aspetti che Polifilo non esita a richiamare in più di un'occasione, e in cui l'illustre modello antiquario ispiratore appare (come dice a c. d iiii) un intrico quasi inaccessibile di «caece viscere et devii meati dille umbrose caverne». Il classico è amor, è passione esuberante, ma è anche esperienza sofferta, coinvolgimento emotivo, fatica fisica di lettura e ricostruzione e questo né l'Alberti né tantomeno Vitruvio riescono a esprimere con quella pienezza rigogliosa che trapela nelle pur iper-erudite, e talvolta divagatorie, pagine polifilesche. Perché l'architettura – e qui agisce davvero nel profondo la lezione albertiana – richiede un alto profilo intellettuale e l'architetto polifilesco è sostanzialmente litteratus. Francesco Colonna non esita a far risalire errori di impostazione progettuale o esecutiva a «ignorantia negativa» e «illitteratura», stigmatizzando l'edificio «senza litteratura, mensura, et arte». L'architetto deve al contrario possedere svariate competenze («multiscio architecto») e dar prova nelle sue opere «di cura, di studio, et de industria». La lezione, non si può negare, è ancora attuale.  





NOTE

[1] Stefano Borsi, Polifilo architetto. Cultura architettonica e teoria artistica nell'Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, 1499, Roma, Officina Edizioni, 1995.

[2] Stefano Borsi, Borromini e il Polifilo, in «Palladio», 25, 2000, pp. 5-18.

[3] Si pensi al Pantheon e a tutto quello che innesca nelle riflessioni architettoniche dell'età umanistica e rinascimentale: l'autore stesso lo cita come valido esempio di ordine corinzio (del portico) anticipando di anni, in un giudizio critico assolutamente notevole, la riproposizione bramantesca nell'ordine del cortile del Belvedere (S. Borsi, cit., 1995, p. 67).

[4] Stefano Borsi, Francesco Colonna lettore e interprete di Leon Battista Alberti: il tempio di Venere Physizoa, in «Storia dell'arte», 109, 2004, pp. 99-130.

[5] Come ho potuto rintracciare, Francesco Colonna di Palestrina possedeva terreni nell'area del Canopo ed è un dettaglio non di poco conto: chissà se a guidare il suo interesse per questa zona del complesso adrianeo non fosse anche la rappresentazione del Canopo stesso nel mosaico prenestino del Nilo (Stefano Borsi, Francesco Colonna e Villa Adriana: un nuovo documento, in «Storia dell'arte», 113/114, 2006, pp. 35-54.).

[6] Maurizio Calvesi, La «Pugna d'amore in sogno» di Francesco Colonna Romano, Roma, Lithos, 1996; Stefano Colonna, Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento, Roma, Gangemi, 2012 per ampia ricognizione storica del contesto storico-politico.

[7] Pietrantonio Petrini, Memorie Prenestine disposte in forma di annali, in Roma, Stamperia Pagliarini, 1795, p. 4.

[8] P. Petrni, cit., 1795, pp. 163 e 165.

[9] M. Calvesi, cit., 1996, pp. 60-68.

[10] Stefano Borsi, La fortuna del “Frontespizio di Nerone” nel Rinascimento, in Roma, centro ideale della cultura dell'Antico nei secoli XV e XVI. Da Martino V al Sacco di Roma (1417-1527), atti del Convegno internazionale di studi (Roma, Centro di Studi Americani, 25-30 novembre 1985), Silvia Danesi Squarzina (a cur di), Milano, Electa, 1989, pp. 390-400.

[11] Stefano Borsi, Ecce murus adamantinus. Il bugnato a punte di diamante dei Sanseverino in Campania (1466-1470), in Studi in onore di Francesco Quinterio, «Quaderni della Società di Studi Fiorentini», in corso di stampa.
Colonna era stato a Napoli nel 1470, anno che un'iscrizione indica come data di completamento del palazzo Sanseverino. La data del palazzo baronale di Palestrina, 1493, coincide con una fase in cui Francesco Colonna è in trattative diplomatiche con Alfonso II d'Aragona: P. Petrini, cit., 1795, p. 193 riferisce dell'invio a Napoli di un legato colonnese nel 1494.

[12] Onorio di Autun, Gemma Animae, I, 206, de annulo; Jacques Paul Migne, Patrologia Latina, 172, Paris, 1854.

[13] P. Petrni, cit., 1795, pp. 4-5.

[14] Ibidem, p. 203 (in riferimento all'anno 1519).

[15] Ibidem, p. 181.

[16] Ibidem, p. 182.

[17] Ibidem, p. 4, in riferimento al mitico re prenestino Telegono, figlio di Ulisse.

[18] Improbabile la traduzione «lastra» proposta in Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, Marco Ariani e Mino Gabriele (a cura di), Milano, Adelphi, 1998, p. 35.

[19] P. Petrni, cit., 1795, p. 258, in riferimento all'anno 1675.

[20] Ibidem, p. 181.

[21] M. Calvesi, cit., 1996, pp. 75-82.

[22] M. Calvesi, cit., 1996, p. 91.



BIBLIOGRAFIA


BORSI 1989
Stefano Borsi, La fortuna del “Frontespizio di Nerone” nel Rinascimento, in Roma, centro ideale della cultura dell'Antico nei secoli XV e XVI. Da Martino V al Sacco di Roma (1417-1527), atti del Convegno internazionale di studi (Roma, Centro di Studi Americani, 25-30 novembre 1985), Silvia Danesi Squarzina (a cur di), Milano, Electa, 1989, pp. 390-400.

BORSI 1995
Stefano Borsi, Polifilo architetto. Cultura architettonica e teoria artistica nell'Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, 1499, Roma, Officina Edizioni, 1995.

BORSI 2000
Stefano Borsi, Borromini e il Polifilo, in «Palladio», 25, 2000, pp. 5-18.

BORSI 2004
Stefano Borsi, Francesco Colonna lettore e interprete di Leon Battista Alberti: il tempio di Venere Physizoa, in «Storia dell'arte», 109, 2004, pp. 99-130.

BORSI 2006
Stefano Borsi, Francesco Colonna e Villa Adriana: un nuovo documento, in «Storia dell'arte», 113/114, 2006, pp. 35-54.

BORSI 2017
Stefano Borsi, Ecce murus adamantinus. Il bugnato a punte di diamante dei Sanseverino in Campania (1466-1470), in Studi in onore di Francesco Quinterio, «Quaderni della Società di Studi Fiorentini», in corso di stampa.

CALVESI 1996
Maurizio Calvesi, La «Pugna d'amore in sogno» di Francesco Colonna Romano, Roma, Lithos, 1996.

COLONNA 1998

Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, Marco Ariani e Mino Gabriele (a cura di), Milano, Adelphi, 1998.

COLONNA 2012
Stefano Colonna, Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento, Roma, Gangemi, 2012.

ONORIO DI AUTUN 1854
Onorio di Autun, Gemma Animae, I, 206, de annulo; Jacques Paul Migne, Patrologia Latina, 172, Paris, 1854.

PETRINI 1795
Pietrantonio Petrini, Memorie Prenestine disposte in forma di annali, in Roma, Stamperia Pagliarini, 1795.





Vedi anche nel BTA: USCITE DI ARCHITETTURA LIQUIDA








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