L’Italia
l’han fatta metà Iddio e metà gli architetti.
Gio Ponti
È il 1957, l’architetto Gio Ponti, all’apice della sua
carriera, pubblica un volume che già dalla copertina racchiude il suo linguaggio,
la sua ironia, il suo mondo intriso di architetture, grandi e piccole: Amate l’Architettura. L’architettura è un
cristallo. Il titolo suona come un monito, un’avvertenza sussurrata con
grazia ed eleganza, nello stile di Ponti. Il libro infatti non vuole essere un
trattato di architettura e non è destinato, secondo le intenzioni dell’autore,
ad un pubblico di addetti ai lavori. È piuttosto un prezioso ideario, una
piccola architettura da tasca, con pagine colorate, foto, disegni, paragrafi,
che seguono i voli pindarici del pensiero pontiano. Idee, ripetizioni,
contradizioni: questo libro le racchiude tutte, «perché un uomo, un Architetto,
dopo dieci anni è un altro uomo, un altro Architetto»,
così questo libro appare diverso dal precedente L’Architettura è un cristallo (1945). Scorrendo le pagine il
lettore si troverà di fronte a profezie per gli architetti, maturazioni
personali, fantasia di precisioni, incanto dell’architettura, donne e
architettura, solo per citare alcuni dei capitoli, o meglio dei pensieri in
libertà, contenuti nel volume. E nonostante la parola architettura ricorra
spessissimo, e per ovvie ragioni, l’autore sottolinea che non si tratta di un
libro architettato, ma piuttosto di una collezione di idee, fatto come un
dipinto, «a riprese a ritocchi, a particolari» [2]
ed «in parte scritto per aforismi: desiderio di isolare i pensieri ed
esprimerli brevemente».
Un libro così può nascere solo da un innamorato dell’architettura, quale fu
Ponti, ed essere dedicato agli amanti dell’architettura, a chi sogna
l’architettura. Un tributo all’arte - perché per l’autore l’architettura è arte
- che nella fase zenitale del percorso pontiano si trasforma in un diario nel quale
raccogliere esperienze e posizioni maturate nel tempo.
Architetto, artista, designer, art director, teorico, Ponti è stato tutto questo e molto altro
ancora. Con lui, e grazie a lui, si inaugura la florida stagione nel made in Italy, promossa da riviste come «Domus»
e «Stile» (che ha egregiamente diretto), cavalli di battaglia nella diffusione
del design e del linguaggio architettonico moderno. In tempi non sospetti, la
scommessa dell’architetto consiste nel rilanciare l’industria italiana
investendo sulle risorse manifatturiere presenti nel territorio: non bastava
puntare sulla qualità del prodotto, era piuttosto un problema di linguaggio.
Siamo negli anni Venti, la produzione è fortemente ancorata a schemi del
passato, a stili e modelli regionalistici, ma Ponti è lontano anni luce da
questa visione. Nel 1923 diventa direttore artistico della Richard Ginori, inizia
a sperimentare l’importanza del disegno, della funzione, della comunicazione,
in una parola del design. L’architetto è chiamato a progettare tutto: spazi
pubblici e domestici, arredi, oggetti quotidiani, fino ai biglietti d’auguri. La
sua è una lezione onnicomprensiva che mette a nudo la complessità del ruolo
dell’architetto nella società contemporanea, uno dei temi portanti del volume
pontiano, sorprendentemente moderno nell’impostazione ed ancora attuale nei
contenuti. Dalle pagine del suo libro
Ponti lancia una sfida: amate gli architetti ma siate esigenti con loro,
richiamateli sempre alla loro responsabilità. Esigete da loro «case felici e
perfette»,
«scuole e istituti bellissimi», «teatri
e cinematografi stupendi», «biblioteche
perfette»,
«musei pieni di vita», «auditori
meravigliosi per la musica», «chiese
protettrici della preghiera»,
«felici giardini»,
«aeroporti e stazioni perfetti».
Ma soprattutto «esigete da loro, sempre, una architettura piena di simpatia
umana, piena di immaginazione, nitida, essenziale, pura: pura come un cristallo».
Per Ponti l’architettura moderna ha una vocazione sociale
perché diversamente dal passato non è più espressione monumentale e celebrativa
legata alla committenza o succube dell’autorità politica. L’architetto è
finalmente libero di esprimere posizioni, inclinazioni, volontà personali,
portando avanti il rapporto esclusivo architettura-destinazione, ben diverso da
quello committente-architetto (legato al passato). Certo, sostiene Ponti, «è
ben vero che un rapporto di destinazione è sempre esistito nell’architettura,
ma esso era determinato dal committente; oggi invece è l’Architetto stesso che
lo assume come determinatore della propria opera, e non vuole obbedire che ad
esso». L’architettura,
dunque, è essa stessa determinatrice di una civiltà ed in questa direzione «gli
scritti di architettura di Le Corbusier sono programmi sociali veri e propri:
quando egli dice, come condizione dell’architettura che a ciascun uomo va dato
tanto di sole, d’aria, di spazio, d’acqua, egli fa politica, politica sociale, politica dell’architettura».
L’architetto è il vero e solo protagonista della propria
opera, ma il suo compito è tutt’altro che concluso. Infatti l’architettura
secondo Ponti non si limita al semplice costruire. L’argomento è spinoso e
riguarda una querelle per certi
aspetti attuale, quella fra architettura ed ingegneria. Ponti la affronta senza
mezzi termini, senza spirito di erudizione, grazie ad una sintassi chiara e
semplice, leitmotiv del suo volume.
[…] Gli ingegneri costruiscono benissimo ma
operano solo nello spazio, e interessatamente: però la vera costruzione in
tutti i campi è quella architettata: opera nel tempo, con un principio e un
fine astratti, disinteressati, e con una «perpetuità» di espressione; gli
architetti costruiscono «nel tempo», nella cultura; è allora opera d’arte
costruita per sempre: diverso il destino della tecnica: scompare perché è
progressiva, e si consuma nell’uso: l’Architettura resta perché è arte e va
oltre l’uso.
Dichiarare l’architettura eterna perché costruita per durare
nei secoli vuol dire elevarla ad opera d’arte, quindi non soggetta al giudizio
e all’incedere del tempo, destino riservato alla tecnologia. Già nel 1923, Le
Corbusier nel suo Verso una architettura
si era soffermato sul rapporto fra ingegneria e architettura, con queste
considerazioni:
Estetica dell’Ingegnere, Architettura, due cose
solidali, conseguenti, l’una in piena fioritura, l’altra in penoso regresso.
L’ingegnere, ispirato dalla legge dell’Economia e guidato dal calcolo, ci mette
in comunicazione con l’universo. Raggiunge l’armonia. L’architetto,
organizzando le forme, realizza un ordine che è pura creazione della sua mente;
attraverso le forme, colpisce con intensità i sensi, e, provocando emozioni
plastiche attraverso i rapporti che egli crea, risveglia in noi risonanze
profonde, ci dà misura di un ordine partecipe dell’ordinamento universale,
determina movimenti diversi del nostro spirito e del nostro cuore; è qui che
avvertiamo la bellezza.
Un ennesimo tributo all’architettura quello reso dall’architetto
svizzero, che Ponti cita nel suo volume come un maestro, al pari di Mies van der
Rohe, Gropius, Nervi, invitando i lettori a conoscere le opere dei grandi
architetti ed a leggere i loro libri. Se per l’architetto Jeanneret-Gris le
opere degli ingegneri sono sul cammino della grande arte, Ponti è fermamente
convinto che l’arte, dunque l’architettura, non è, e non potrà mai essere né
progressiva né in mano agli ingegneri.
La macchina è progressiva, nel trasformarsi ogni
macchina è migliore della precedente. E poi è figlia della meccanica, si muove
per essere, per servire. L’architettura è figlia di un sogno: come i sogni non
si muove: i sogni sono fermi e vaniscono: l’architettura sta; ha una sua vita
statica, anzi estatica; ha una sua vita, una «esistenza architettonica». Non è
progressiva, lo ripeterò mille volte, ogni architettura è solo diversa dalla
precedente.
A conferma della sua tesi Ponti aggiunge che una costruzione
costituita dalla ripetizione orizzontale e verticale di elementi uguali non
possiede una dimensione architettonica, cioè di composizione, di forma finita,
ma è piuttosto puro ritmo, ripetuto, ripetibile, prolungabile per aggiunte
successive. Una simile costruzione non può essere considerata architettura/opera
d’arte, ma appartiene semmai
all’ingegneria, per sua natura eclettica, «ardua e bellissima disciplina»
che crea opere basate sulla tecnica, dunque ripetibili e moltiplicabili,
superandosi continuamente.
L’Architettura invece essendo un’Arte, non è
progressiva e tende a creare solo delle unità perpetue, delle espressioni a s´
stanti, irripetibili. […] Fa subito ridere il pensare ad un «progresso
dell’Architettura»; come fa ridere il pensare ad un progresso della musica,
della pittura, della poesia: il Partenone è il Partenone, e il Battistero di
Pisa è il Battistero di Pisa, e la Rotonda è la Rotonda. V’è una «storia» della
pittura, della musica, della poesia, non v’è un progresso della pittura, della
musica, della poesia.
Le riflessioni pontiane convergono nel pensiero di Max Weber,
convinto sostenitore dell’arte svincolata dal progresso. Il filosofo tedesco
riconosce all’opera d’arte lo status di
forma perfetta e compiuta, come tale dunque non è mai sorpassata, non invecchierà
mai. Ben altro destino attende invece la ricerca scientifica (e per esteso la
tecnologia) che giunge sempre a soluzioni momentanee, provvisorie, poiché «in
campo scientifico ognuno di noi sa che in dieci anni, venti o al massimo
cinquanta anni il suo lavoro sarà invecchiato». A
conferma della vicinanza con le tesi weberiane Ponti scrive:
L’Ingegneria crea prototipi, l’Architettura crea
monotipi. È umoristico pensare ad una automobile non riproducibile, ad un ponte
ad arcate che non si possa ripetere o allungare. È altrettanto umoristico
pensare che la «casa sulla cascata» o la Rotonda siano «da riproduzione». Un
ponte può essere vecchio e superato; ma nessuno pensa che il Partenone, o la
Rotonda, siano vecchi, siano superati: essendo fatti d’arte rimangono fatti
«permanenti», in essi entra un fattore di «perpetuità» (quel termine di
Palladio) una unicità che esclude ogni progresso.
Nelle parole di Ponti riecheggiano quelle di Le Corbusier:
Le Piramidi, le Torri di Babilonia, le Porte di
Samarcanda, il Partenone, il Colosseo, il Pantheon, il Pont du Gard, Santa
Sofia di Costantinopoli, le moschee di Istanbul, la Torre di Pisa, le cupole di
Brunelleschi e di Michelangelo, il Pont-Royal, gli Invalides, sono architettura.
Per l’architetto svizzero l’architettura è gioco sapiente,
rigoroso, magnifico, dei volumi assemblati nella luce, ma soprattutto è un
fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione e prescinde dai problemi di
costruzione, perché «la Costruzione è per tenere su: l’Architettura è per
commuovere». Questo assunto ribadisce
l’affinità di pensiero fra i due maestri: Le Corbusier e Ponti. Se
l’architettura produce opere finite e permanenti, il ruolo dell’architetto va
ben oltre quello di semplice esecutore. Ponti attribuisce alla sua professione
un impegno ed una responsabilità etica, o meglio estetica: l’architetto è un
educatore del gusto e le sue opere, siano esse pubbliche o private,
contribuiscono in maniera determinante all’estetica della città:
L’edilizia non è un atto privato e transitorio ma
è un atto pubblico che corrisponde ad un decoro pubblico e durevole, e ad una
estetica: le facciate sono le pareti della strada e della piazza, non debbono
perciò essere lasciate all’arbitrio, al capriccio, alla ignoranza ed al cattivo
gusto: l’edilizia privata va intesa come un contributo nell’ordine
dell’estetica della città.
Educare al bello, partecipare all’estetica quotidiana,
rientrano a pieno titolo fra i compiti dell’architetto, sempre più gravato da
doveri di natura intellettuale e sociale, perché, è bene ribadirlo, nella
riflessione pontiana l’architettura ha una sostanza, una funzione, una
destinazione meramente sociale. L’architetto, tuttavia, non deve violare il
confine dell’intimità domestica, il suo compito, infatti, si esaurisce
nell’indirizzare e nel guidare il fruitore.
La casa deve avere una personalità sul piano
della civiltà di chi la abita: l’architetto deve istituire i servizi e i mobili
infissi (cucina, armadi, ecc…) il resto è di pertinenza dell’abitatore, e gli
architetti devono influire solo sul gusto, sulla civiltà e sulla educazione
nell’abitare: essi debbono invece influire sulla «produzione» d’arredamento,
non realizzare essi stessi tutto l’arredamento: sul piano dell’esattezza
dell’opera dell’architetto la casa deve essere una «machine à habiter», su
quello invece dell’abitare essa deve essere la sua casa.
La citazione lecorbuseriana di machine
à habiter suona come ulteriore omaggio nei confronti del collega svizzero e
conferma l’affinità intellettuale fra i due architetti. E se Le Corbusier nel
suo Verso un’architettura fornisce un
vero e proprio Manuale dell’abitazione,
per «distribuirlo alle madri di famiglia ed esigere le dimissioni dei
professori dell’Ecole des Beaux-Arts»,
Ponti non è da meno. Nelle pagine del suo colorato volume offre al lettore tesi
e consigli sull’abitare, sotto forma di pensieri sparsi. L’architetto propone
una casa semplice, poco costosa, areata, luminosa, costruita con materiali
durevoli. Quanto all’arredo «deve partecipare al massimo all’architettura ed
alla economia della casa, come ne partecipano ora i servizi: ciò che appartiene
veramente all’inquilino e che egli si porterà con sé saranno i libri e le opere
d’arte e l’arredamento propriamente mobile e personale
di consumo: egli non deve traslocare con gli armadi e i servizi». Perfettamente in linea con il pensiero di Le
Corbusier: «esigete muri nudi in camera da letto, nel soggiorno, nella sala da
pranzo. Degli scomparti nei muri sostituiranno i mobili che costano cari,
divorano spazio e hanno bisogno di essere spolverati».
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Fig. 1 - Superleggera di Gio Ponti (1952), installazione realizzata in occasione del Salone Internazionale del Mobile 2013, Milano, 9-14 Aprile 2013, presso Show-room Cassina, Via Durini, Milano (foto di Bibiana Borzì, cortesia della stessa)
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Del resto, i due maestri si sono distinti, anche nel design,
per un criterio progettuale all’insegna della purezza e del rigore formale. La
sedia Superleggera, firmata da Ponti
nel 1952 per Cassina, è un’icona senza tempo, caratterizzata da una estrema
leggerezza, materiale e visiva. Nasce per arredare gli interni pontiani, per
essere spostata e sollevata con un dito (come nella celebre réclame con il bambino che solleva la
sedia) nei diversi ambienti della casa. È la “sedia-sedia”, così la definisce l’architetto,
che riprende volutamente l’archetipo della seduta impagliata, la “chiavarina”,
tipica dell’artigianato ligure. Un oggetto ispirato alla tradizione ma
rivisitato in chiave contemporanea, pensato per i nuovi spazi domestici, sempre
più ridotti e multifunzionali. La Superleggera,
oggi esposta nei più celebri musei di design, ha accompagnato la rinascita
economica e culturale dell’Italia del dopoguerra, divenendo emblema di quel “vivere
alla Ponti” simpaticamente raccontato dalle figlie Lisa e Letizia. Così, l’abitazione
milanese in via Dezza (ultima residenza di Ponti) è una sorta di casa-manifesto:
accoglie spesso artisti, poeti, scrittori, è piena di colore e di luce, lontana
dagli austeri e cupi interni borghesi. È una casa progettata per rendere felici
i suoi abitatori, perché è compito dell’architetto interpretare e comprendere
ogni committente, cucire su misura per lui non una casa-vetrina ma una casa da abitare
che, come nel pensiero heideggeriano, è il fine di ogni
costruire.
Amate l’Architettura, architetti di oggi e di domani, senza
trascurare risvolti etici ed “emozionali” della professione, perché:
La massima lode alla quale un architetto deve
aspirare è che gli abitatori gli dicano: Architetto,
in questa casa che lei ha fatto per noi, noi viviamo (o abbiamo vissuto)
felici: essa ci è cara. Essa è un episodio felice della nostra vita. Ma
perché ciò avvenga occorre che l’Architetto badi più agli abitatori che
all’estetica, e raggiungerà solo così un’estetica di valori sicuri, espressi da
forme giuste, un’estetica di forme indiscutibili, vere: umane.
NOTE
SCRITTI DI GIO PONTI
La casa all’italiana, Rozzano (Milano), Editoriale
Domus, 1933.
L’Architettura è un cristallo, Milano, Editrice
italiana, 1945.
Amate l’Architettura. L’architettura è un cristallo, Genova, 1957,
Società Editrice Vitali e Ghianda (Terza ristampa integrale, Milano, Rizzoli,
2010).
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Weber 1917
Max
Weber, Wissenschaft als Beruf,
1917 (Ed. it., La scienza come
professione, a cura di Paolo Volontè, Rusconi, Milano, 1997).
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