Tradurre
la fisicità del corpo umano in rappresentazioni visuali è sempre
stato un problema cruciale nell’intera storia dell’arte europea,
e una delle maggiori preoccupazioni di artisti e filosofi dell’età
moderna. Il potenziale discorsivo delle immagini che riguardano il
corpo umano abbraccia categorie intellettuali di enorme rilevanza,
poiché esse racchiudono la possibilità di destabilizzare un sistema
culturale basato sull’implicita veridicità di nozioni
scientifiche, sociali e politiche. Durante l’età moderna, gli
artisti, medici e filosofi della natura europei erano impegnati in
furiosi dibattiti riguardo a tali questioni, per via di vorticosi
cambiamenti sociali, prodigiosi sviluppi tecnologici, e un peculiare
susseguirsi di scoperte che si sviluppavano, parallelamente, negli
ambiti sia geografico che anatomico.
Questo
articolo si concentra su una piccola serie di figure anatomiche
prodotta da Giulio Bonasone, incisore e pittore bolognese, nella
seconda metà del sedicesimo secolo, che riguarda sia la percezione
del corpo umano sia la sua rappresentazione figurativa in modalità
non tradizionali. Bonasone fu un artista di discreto successo attivo
a Bologna e Roma tra il 1531 e il 1574,
autore di numerosissime stampe e alcuni dipinti; nel suo ancora oggi
autorevole catalogo Le
Peintre Graveur,
Adam Bartsch lo definisce un noto incisore, prolifico e inventivo
nelle sue riproduzioni ma non sempre costante nella qualità dei suoi
lavori.
Prodotta, secondo Stefania Massari, intorno ai primi anni 60 del
cinquecento,
la serie anatomica oggetto di questo studio presenta diverse
caratteristiche di peculiarità ed enigmaticità, che non trovano
precedenti nella pure abbondante produzione di studi anatomici del
periodo. Questa collezione, che consta di 14 immagini indipendenti
tra loro, non è ancora stata sottoposta a una analisi approfondita:
questo testo dunque si propone di colmare, parzialmente, tale lacuna.
Nello spazio limitato di questo studio, la discussione non
comprenderà la collezione di incisioni nella sua interezza, ma si
concentrerà su alcune stampe che rivestono un particolare interesse
nell’ambito dello sviluppo di conoscenze e pratiche anatomiche.
Il
carattere singolare di queste figure è immediatamente evidente: in
diverse tavole, le figure interagiscono con una varietà di oggetti
ambigui, o estranei ai canoni stilistici tradizionali delle immagini
anatomiche moderne (un globo, una corda, un oggetto rettangolare, un
ramo di un albero rinsecchito). (Fig. 1, 2, 3, 4) Diversi temi ed
elementi presenti in immagini ben più conosciute del Quindicesimo e
Sedicesimo secolo, come ad esempio le fedeli riproduzioni di ogni
muscolo, organo od arto, oppure l’inserimento della figura umana in
qualche genere di ambiente naturale o architettonico, sono
stranamente assenti. I corpi che popolano le incisioni anatomiche di
Giulio Bonasone esistono in uno spazio privo di connotazioni,
posizionati precariamente su una superficie piatta e anonima. Più
simili a fregi marmorei dell’età antica che a immagini incise su
carta, ogni figura appare in rilievo, contrapposta a un cupo e
monotono sfondo costituito da spesse linee nere.
In
questo articolo si vuole suggerire che queste figure, piuttosto che
proporre una accurata raffigurazione del corpo umano ad uso degli
studiosi di medicina, rispondano invece alle complesse implicazioni
sociali e psichiche indissolubilmente legate al violento atto di
dissezione. Nell’età moderna il corpo umano manteneva ancora il
suo implicito valore in quanto immagine di Dio e centro ideale del
cosmo; eppure, si apprestava a diventare sempre più un mero soggetto
di norme culturali, legislazioni e vincoli. Tuttavia, il corpo andava
ricoprendo una importanza sempre più cruciale nell’ambito della
produzione del sapere: non è un caso che il termine sviscerare
indichi non soltanto l’atto di indagare, approfondire, studiare
esaurientemente, ma anche quello, assai più crudo, di sventrare,
lacerare, distruggere. Annullare il corpo per arrivare a conoscerlo,
dunque. Una simile nozione, e conseguentemente complesse tensioni
intellettuali e sociali, era già presente durante l’età moderna,
quando la pratica di dissezionare cadaveri a scopo (principalmente)
didattico cominciava a diffondersi in tutta Europa.
Tradizionalmente,
le figure anatomiche dell’età moderna esprimevano con enfasi quasi
retorica la propria autorità culturale. L’attenzione minuziosa per
i dettagli e la fedele aderenza all’apparato testuale, che
generalmente le accompagnava, rivendicavano una credibilità che
dipendeva dalla assoluta aderenza alle forme naturali. In questo
ambito, tuttavia, è fondamentale evidenziare come il concetto di
anatomia come disciplina scientifica, e del resto la nozione stessa
di “scienza”, fosse alieno alla cultura e alle pratiche dell’età
moderna.
Le concezioni di quel periodo che riguardavano il mondo naturale e
gli elementi in esso contenuto, tra cui il corpo umano, non erano
disposte attorno categorie inamovibili: la produzione del sapere era
un processo fluido, basato spesso più rappresentazioni visuali che
sullo stabilirsi di norme, leggi e convenzioni. L’immaginazione
dell’artista non era assoggettata a sistemi filosofici o
scientifici, ma era al contrario un autonomo mezzo creativo, con la
propria autorità.
Uno
dei concetti essenziali, nella produzione e diffusione di questo
genere di immagini, era l’assimilazione del corpo umano alla
configurazione divina dell’intero cosmo. Per questa ragione le
illustrazioni appartenenti a trattati di storia e filosofia naturale
tendevano a rappresentare il corpo umano (maschile) come modello
idealizzato, la forma naturale nella sua accezione più perfetta.
Tale pensiero combinava dogmi religiosi con le auctoritas
dell’età antica, tra cui fondamentalmente il precetto filosofico
pretagoreo secondo cui “l’uomo è misura di tutte le cose”.
Tornando alle figure anatomiche di Giulio Bonasone, è evidente come
sia la varietà di movenze, gesti e azioni ad essere uno dei punti
focali di questa serie di immagini, piuttosto che una
rappresentazione idealizzata del corpo. Le espressioni facciali,
distorte e tese, così come le tensioni irrealistiche, forzate e
contratte dei muscoli tradiscono un’attenzione a questioni ben
diverse. Per riconoscere appieno l’unicità di queste immagini,
tuttavia, è necessario contestualizzarle rispetto ai contemporanei
sviluppi nello studio del corpo umano.
La
pubblicazione in sette volumi del De
Humani Corporis Fabrica di
Andrea Vesalio nel 1543 rappresentò, come è generalmente noto, una
svolta nelle modalità di visualizzazione e cognizione del corpo.
(Fig. 5) Includendo illustrazioni originali, riccamente dettagliate e
direttamente corrispondenti al corpo testuale (con l’ausilio di
annotazioni, inscrizioni, cartigli), questo trattato di anatomia
umana sviluppava e promuoveva non solo un sistema di pratiche
innovative riguardo alla medicina e all’esplorazione del corpo
durante le dissezioni, ma anche una nuova epistemologia basata sul
corpo umano, tesa a individuare norme e regole, alla ricerca di un
corpo ideale. Come già accennato, i problemi di veridicità e
attendibilità riguardanti la riproduzione del mondo naturale e dei
sui elementi per mezzo di immagini assunsero nell’età moderna un
carattere ancora più cruciale nella raffigurazione del corpo umano.
Queste rappresentazioni, infatti, caratterizzavano la produzione e la
diffusione del sapere anatomico tanto quanto le contemporanee
scoperte mediche, al punto che le nozioni di dissezione e identità
personale diventarono presto interconnesse, se non addirittura
mutualmente dipendenti.
I
rinnovamenti apportati dalla Humani
Corporis Fabrica
consistevano non solo nella correzione di alcuni errori commessi da
Galeno, già comunemente noti ma ancora parte del sapere medico
generale. Piuttosto, come ha argomentato Andrea Carlino nel libro La
Fabbrica del Corpo,
Vesalio proponeva una nuova metodologia di ricerca, attraverso la
quale non soltanto affermava il potenziale didattico della
dissezione, ma forniva anche un mezzo per una verifica critica ed
empirica della conoscenza del corpo che era stata tramandata da testi
più antichi.
Vesalio era stato il primo a rendersi conto di come la pratica della
dissezione fosse l’unica guida possibile per una descrizione
affidabile delle varie parti del corpo umano. Il metodo che
introdusse era così sia didattico che investigativo, tanto che corpo
e testo contribuivano insieme a comunicare questo nuovo sapere. Dalla
Fabrica
perspira così una particolare enfasi sull’importanza di combinare
contributi visuali a insegnamenti e ricerche più astratte.
Le
incisioni anatomiche di Giulio Bonasone, al contrario di quelle di
Vesalio, non sono prodotte per studi comparativi o analitici del
corpo umano. I corpi, così rozzamente schematizzati, assemblati più
secondo il caso che seguendo studi metodici, non potrebbero essere
più lontani dall’intento normativo della Humani
Corporis Fabrica.
Se le illustrazioni di questo trattato si susseguono l’un l’altra
in un progressivo svelamento del corpo e di ciò che è al suo
interno, in un percorso di scoperta parallelo a quello della lettura
del libro (dove le pagine si fanno metafora di pelle, muscoli, ossa)
in questa collezione di stampe non è presente un simile espediente
metodologico.
È
significativo che la serie di illustrazioni anatomiche di Giulio
Bonasone non faccia riferimento ad alcun testo. Piuttosto che
codificare norme specifiche e comunicare informazioni o dati precisi
e quantificabili, queste figure preferiscono interagire con chi
osserva in modo più immediato, attraverso gesti, posture e mimiche
facciali. Ed è proprio da questo elemento non verbale che scaturisce
il senso di inquietudine di queste raffigurazioni. Naturalmente,
l’atmosfera enigmatica, impenetrabile e a tratti macabra di queste
stampe appartiene anche ad altre immagini di dissezioni dello stesso
periodo (si vedano, ad esempio, le stampe di Charles Estienne e
William Harvey): tutte rappresentano, in modi diversi, la stessa
abietta visione di un corpo morto che torna in vita, eretto in
posizioni naturali come se fosse vivo, che esibisce oscenamente i
propri muscoli, tendini e ossa.
È
Giorgio Agamben a puntualizzare, nel suo saggio Nudità
del 2009, come il desiderio di mostrare la carne, di forzare il corpo
in posizioni incongrue e triviali, sia una strategia psichica tesa a
destabilizzare, a disconoscere la radice divina cui il corpo umano,
nel campo sia teologico che psicanalitico, è indissolubilmente
legato. Ciò che si intende rivelare, in queste posture forzate, è
l’irrimediabile ed irreparabile perdita dello stato di grazia.
La nudità, il corpo nudo (e dunque anche il corpo anatomizzato,
poiché lo stadio estremo di nudità è quello in cui sono rimossi
non solo i vestiti, ma la stessa pelle) come simbolo del sapere
appartiene a un vocabolario filosofico-mistico, perché incarna
precisamente il processo di scoperta, di appropriazione di un
particolare discorso conoscitivo. Sempre Agamben ci ricorda che dalle
immagini scaturisce una particolare fascinazione perché non
rappresentano la realtà, la cosa, l’oggetto, ma più propriamente
la possibilità di conoscerlo, di capirlo.
È
dunque dalla rappresentazione del corpo che è possibile trarre un
più perspicuo sapere anatomico. Questa intuizione, dal gusto quasi
esoterico, trova un essenziale riscontro nelle immagini finora
citate. Non è solo il contenuto di queste illustrazioni, ma anche e
soprattutto le modalità di visualizzazione dei corpi che le situano
in un contesto più astratto e intellettuale, in cui il sapere non è
semplicemente trasmesso ma prodotto ex novo. La comunicazione tra
figure e apparato testuale, i riferimenti all’arte classica, i
contenuti allegorici, i dettagli paesaggistici e le rovine
architettoniche presenti nelle rappresentazioni di corpi nell’ambito
anatomico non sono semplicemente dettagli ornamentali, ma mezzi
iconografici intesi a supportare una concezione particolare della
figura umana. Tutti questi particolari contribuiscono non solo a
produrre e disseminare nozioni specifiche sul valore dello studio
anatomico (riallacciandosi a un’autorevole cultura classica) ma
anche, forse, a mediare tra il desiderio di conoscenza e l’angoscia
generata dall’atto fisico della dissezione, del resto ancora
pesantemente stigmatizzato.
Sia
in Italia che in Europa, i cadaveri venivano anatomizzati in una
configurazione teatrale, durante esibizioni dai forti toni liturgici.
L’autopsia era una pratica soggetta a rapidi cambiamenti: da
lezione privata per studiosi di medicina e chirurgia, si apprestava a
diventare uno spettacolo pubblico, aperto ad un ampio spettro sociale
(artisti, artigiani, o anche spettatori casuali).
L’aspetto ritualistico delle dissezioni umane, una solenne
combinazione di punizione pubblica e produzione di sapere, di norme,
di convenzioni, è un aspetto fondamentale della cultura dell’età
moderna, e gioca un ruolo importante nell’analisi e comprensione di
raffigurazioni anatomiche. Come ha specificato Jonathan Sawday nel
suo fondamentale libro The
Body Emblazoned,
pubblicato nel 1995, performance così drammatiche combinavano prassi
teatrali, dimostrazioni bio-politiche di potere giudiziario, e infine
allusioni filosofiche all’origine divina del corpo umano, con tutte
le sue implicazioni teologiche.
I concetti di crimine e punizione erano nozioni inestricabilmente
legate tra loro nella cultura dell’Italia rinascimentale. La
dissezione pubblica come massima pena, una pratica comune in Italia
già dalla seconda metà del tredicesimo secolo, era concepita non
solamente per evocare terrore all’idea di una così pubblica
umiliazione, di una violazione totale del proprio corpo, ma anche per
aggiungere un’altra accezione, addirittura più morbosa e crudele,
a una sentenza già assai severa: l’interdizione della sepoltura
cristiana, che dunque implicava una punizione postuma –ed eterna-
dell’anima del criminale, cui era negata la possibilità di
accedere al Paradiso.
Inoltre, lo stigma sociale associato alle dissezioni pubbliche
giaceva anche nella drammatica violazione dell’onore personale e
familiare, e nell’umiliazione generata dall’esposizione pubblica
del corpo nudo.
Questi temi dovevano essere ben presenti nella mente degli artisti
che si dedicavano a illustrazioni anatomiche, ed è indubbio che
provocassero reazioni emotive non indifferenti, inevitabilmente
destinate a riemergere nella propria produzione artistica.
È
assai probabile che lo stesso Giulio Bonasone si recasse spesso al
teatro anatomico di Bologna per assistere a questi spettacoli. Del
resto, lo studio delle proporzioni umane e la visione in prima
persona di ossa, muscoli e legamenti era considerato (ed è tuttora)
l’approccio obbligatorio per imparare a rappresentare in modo
corretto il corpo umano, e dunque tappa obbligata per artisti o
aspiranti tali. Fu inizialmente Lorenzo Ghiberti, nei suoi
Commentarii
del 1447 a dichiarare esplicitamente che “[bisogna] auere ueduto
notomia acciò che' llo scultore sappi quante ossa sono nel corpo
humano uolendo comporre la statua uirile et sapere e muscoli sono nel
corpo dello huomo et cosi tutti nerui et legature sono in esso.”
L’importanza di tale dichiarazione non può essere ridimensionata:
tuttavia, idee simili esistevano già, in nuce, come attesta Leon
Battista Alberti, il quale, nel trattato De
Pictura
del 1435, consiglia ai pittori di disegnare il corpo nudo componendo
dapprima le ossa, poi i muscoli, e infine la pelle,
dando così per scontata una certa conoscenza metodica dell’anatomia
umana da parte dell’artista. È comunemente noto come già nel
primo cinquecento, lo studio dell’anatomia nel percorso di
formazione artistica avesse una posizione consolidata nelle
cosiddette pratiche della “bella maniera”,
specialmente dopo i progressi di Leonardo e Michelangelo nello studio
della composizione realistica delle figure umane. Innumerevoli studi
di singole ossa, arti e muscoli rimangono ancora oggi, a prova di
quanto fosse esteso lo studio dell’anatomia umana in quel periodo.
L’atto
punitivo dello scorticamento (la rimozione della pelle) era un’altra
pratica associata non solo allo studio anatomico e al sistema
giudiziario, ma anche ad attività artistiche. Secondo diversi
studiosi di cultura medievale e rinascimentale, tra cui Sarah Kay,
rimuovere la pelle come atto punitivo era non solo un ricorso
legislativo, ma anche una forma di giustizia poetica o morale. Benché
istigato come punizione, tale processo poteva essere in un certo modo
invertito, e addirittura accolto come un atto penitenziale, una sorta
di sacrificio cristiano, ponendo il criminale in una dimensione quasi
cristologica.
Così, l’estrema sofferenza di una simile tortura, sia fisica che
intellettuale (il dolore fisico e la perdita definitiva di identità)
può essere sublimata in una astratta, quasi spirituale
invulnerabilità.
Un
dettaglio interessante, a proposito del legame tra anatomia e intento
punitivo, è che nel famoso teatro anatomico di Bologna,
particolarmente attivo a metà del sedicesimo secolo, ogni dissezione
pubblica iniziasse con la cerimoniale, formulaica descrizione della
morte del cadavere anatomizzato in quella particolare occasione (di
solito, il criminale veniva impiccato).
La presenza ricorrente di corde nelle illustrazioni anatomiche di
Giulio Bonasone sembra essere un riferimento esplicito a questa densa
cultura di punizione, umiliazione e rituale pubblico. Sorprende
l’atteggiamento quasi insolente di questa figura (Fig. 2), che
volta categoricamente le spalle allo spettatore, quasi a rievocare,
escludendo ogni possibilità di contatto visivo, la propria perdita
di identità, la propria riduzione da uomo, creato a immagine e
somiglianza di Dio, a oggetto di studio, non più dominatore della
natura ma semplice elemento parte di essa.
Questo
stato duale del corpo, teso tra sacralità e materia, sembra essere
concretizzato in questa incisione (Fig. 3) in cui la figura umana è
letteralmente sdoppiata: il corpo è per metà ancora ricoperto dalla
carne e per metà scheletro. Nelle illustrazioni anatomiche dell’età
moderna questo tipo di raffigurazione si avviava già a diventare un
tropo ben codificato, non soltanto perché rappresentare
contemporaneamente la pelle, i muscoli e le ossa sottostanti offriva
una quadro comprensivo di come le strutture ossee influenzino il
movimento dei muscoli,
ma anche perché si riferiva a concetti allegorici e filosofici
riguardanti la caducità della vita terrena. Un esempio significativo
di questa tendenza si riscontra, ad esempio, in questa incisione
prodotta da Domenico del Barbiere ispirata a un disegno di Rosso
Fiorentino (Fig. 6), dove due écorché
(figure di corpi scorticati) e due scheletri sono rappresentati
simultaneamente: l’esasperata minuzia con cui i muscoli, contratti
in pose forzate e innaturali, sono raffigurati, riflette il
vocabolario visuale del contemporaneo stile manierista. Se i dettagli
dei trofei e delle spoglie di guerra sono facilmente riconoscibili
come riferimenti allegorici al valore effimero delle conquiste e
glorie terrene, l’enigmatica tenda che funge da sfondo nella parte
destra dell’immagine, e il sudario che avvolge lo scheletro a
sinistra, quasi facendo il verso alla corona d’alloro che cinge la
testa dell’écorché
che lo accompagna, sono evidenti allusioni all’inevitabilità della
morte. Nelle stampe di Bonasone, invece, simili riferimenti
allegoriche sono accuratamente evitati. Inoltre, lo scheletro di
questa immagine, (Fig. 3) se messo a confronto con quello di Domenico
del Barbiere, è rappresentato goffamente, senza alcun interesse per
l’accuratezza delle forme (si veda ad esempio il dettaglio della
mano destra, dove sia il palmo che le dita sembrano ancora avvolte
dalla carne); è evidente come l’attenzione sia riservata
interamente al gesto dimostrativo, enfatico, quasi retorico, del
braccio destro. L’enigmatico oggetto rettangolare su cui si poggia
la mano destra, possibilmente un dettaglio architettonico o perfino
un tronco d’albero, reso in termini estremamente stilizzati,
contribuisce a rendere questa incisione ancora meno decifrabile. Ma è
forse il particolare dell’espressione facciale che genera il cupo
senso di angoscia e smarrimento che pervade questa immagine. La bocca
aperta, quasi a emettere un continuo lamento, e le palpebre abbassate
(o, forse, aperte su bulbi oculari cavi) rendono questa figura più
una terribile visione infernale che una rigorosa illustrazione
tecnica.
Il
parallelo tra l’incisione effettuata dall’artista sul metallo per
produrre le immagini e quella eseguita sul cadavere durante l’atto
anatomico era indubbiamente ben presente nelle menti di chiunque si
occupasse di tali pratiche. Le stampe, facilmente accessibili e
riproducibili su larga scala, diventarono presto il modo più comune
ed efficace per trasmettere e diffondere ogni tipo di sapere, tra cui
quello medico-anatomico, generando così uno stile con canoni e
vocabolari visuali ben definiti nelle proprie convenzioni di
rappresentazione. Durante l’età moderna l’incisione, una tecnica
che richiede una particolare specializzazione e caratterizzata da
lunghi procedimenti e risultati non sempre all’altezza, era
concepita non solo in relazione ai materiali che utilizzava, ma anche
alla sua natura e alle sue potenzialità. Come Sarah Kay ha
dimostrato, una delle peculiarità culturali pertinenti al medioevo e
all’età moderna era considerare il materiale d’uso (nel caso
delle incisioni il metallo e la carta) come ulteriore spazio di
significazione all’interno dell’immagine,
e le similarità tra l’atto di rimuovere la carta dalla placca, e
strappare la pelle dal corpo non poteva passare inosservata.
Questa
immagine dalla serie di figure anatomiche di Giulio Bonasone (Fig. 1)
mostra una figura che tiene in mano un oggetto simile a un globo
posizionato nell’angolo in alto a destra. Tuttavia, sia la posa del
corpo che l’ombreggiatura di questo oggetto potrebbero lasciare
spazio per un’altra interpretazione forse di più ampio respiro:
sembra quasi che il cadavere scuoiato stia aggrappandosi all’angolo
ripiegato della stessa pagina su cui è inciso. Così come
l’anatomista tira via la pelle dal cadavere, per scoprire le
funzioni interne di un organismo ancora essenzialmente misterioso,
così l’incisore, non più artigiano ma artista conscio del suo
ruolo attivo di intellettuale nella cultura rinascimentale italiana,
tira via la carta dalla placca di metallo, per svelare una nuova
immagine, un nuovo sito di conoscenza. Il corpo scuoiato sembra
tentare di rimuovere ancora un altro strato di pelle, quello della
pagina impressa sulla placca, come a voler ricreare la stessa
procedura cui esso stesso è stato sottoposto.
Altre
tavole nella collezione di stampe anatomiche (ad esempio Fig. 7)
rappresentano il cadavere che rimuove la propria pelle, stringendola
come fosse un mantello, o addirittura una toga. È stato ipotizzato
da diversi studiosi che tale iconografia fosse stata diffusa da
contemporanee rappresentazioni devozionali di San Bartolomeo,
una fra tante quella di Michelangelo nel suo Giudizio Universale. Più
che una convenzione visuale, tuttavia, rappresentare un cadavere
nell’atto di scuoiare se stesso era sia un modo per disegnare le
caratteristiche di ciascun muscolo preservando l’unità del corpo
umano, sia una strategia per generare profonde, viscerali risposte
affettive nello spettatore (e forse, anche per rimuovere medici e
chirurghi da una narrativa densa di tensioni sociali). I cadaveri
“auto-anatomizzanti” popolano non solo le pagine della Fabrica
di Vesalio, ma sono un tropo esistente già da diversi anni, come
dimostra ad esempio il trattato Isagogae
breves in anatomiam humani corporis,
pubblicato nel 1523 da Berengario da Carpi a Bologna (Fig. 8) e
compaiono in testi altrettanto famosi, come la popolare Historia
de la composicion del cuerpo humano dello
spagnolo Juan Valverde de Amusco, stampata a Roma nel 1556. (Fig. 9)
A metà tra un plagio e un genuino tentativo di miglioramento, la
Historia,
com’è
noto, riproduce la quasi totalità delle illustrazioni della Fabrica
di Vesalio (senza attribuirgliene la paternità), combinandole, in
alcuni casi, insieme, producendo così immagini particolarmente
penetranti, che rappresentano ancora oggi un fertile terreno per lo
studio delle pratiche dell’età moderna nei confronti del corpo
umano.
In
simili illustrazioni la pelle, non più percepita come una mera
superficie, diventa invece un sito intellettuale produttivo, dove
venivano proiettate questioni politiche, culturali e psicanalitiche.
Come è stato già discusso, il fatto che la pelle (o la sua
rappresentazione) possa significare allo stesso tempo bellezza e
abiezione, o invocare attrazione e repulsione simultaneamente,
manifesta il potenziale della pelle per contenere significati
molteplici, a volte contraddittori.
E contraddizioni e ambiguità sono parte integrante di questa
illustrazione (Fig. 7). L’ombra del cadavere non si dissolve nello
spazio circostante, come ci si aspetterebbe: invece, si ferma
all’improvviso a contatto con lo sfondo, rinforzando l’apparenza
della figura come un rilievo statuario piuttosto che un corpo
inserito in uno spazio verosimile. Il cadavere è disegnato nel
processo di tirarsi via la pelle, così che il corpo appare, ancora
una volta, come diviso a metà: un lato è ancora avviluppato dalla
pelle, mentre l’altro mostra agli spettatori le proprie interiora.
Una inquietante ombra di quello stesso corpo, tuttavia, pare emergere
dall’ammasso di pelle che stringe nella mano sinistra. Una massa
inerte, appena allungata verso il basso, questo sacco di pelle si
trasforma in un doppio, in scala ridotta, del corpo da cui proviene.
La pelle del braccio destro assume, leggermente rigirata, la forma di
una gamba. La pelle staccata dalla gamba, invece, mantiene la sua
forma, e riproduce, quasi rispecchia, quella fatta di carne. Non c’è
incontro né scambio tra queste due figure, il cadavere e la sua
ombra. In quello che sembra un rifiuto di ammettere la propria
frammentazione, la propria dissociazione, il cadavere volta
enfaticamente la testa lontano dal suo doppio, niente più che
un’ombra di se stesso, fatta di pelle appesa attorno al nulla, che
cinge il vuoto. La rimozione della pelle comporta una brutale
eliminazione dell’identità personale, perché mette a nudo uno dei
sommi equivoci della condizione umana: la localizzazione dell’essenza
del proprio io non all’interno del corpo ma sulla pelle,
l’involucro che lo avviluppa.
Nelle
illustrazioni anatomiche, il corpo diviene una entità individuale
che può essere indagata, razionalizzata, normalizzata, rendendo così
lo scisma, lo sdoppiamento tra la carnosa materialità del corpo e
l’intangibile concetto di coscienza individuale, un sito di
produzione di sapere. In queste illustrazioni di Giulio Bonasone, il
corpo diventa quasi uno spazio da colonizzare attraverso una
astrazione mentale, e la sua pelle una rappresentazione territoriale
del luogo in cui avviene l’atto di dissezione. Come nota Didier
Anzieu nel suo saggio L’io-pelle
del 1985, la pelle funziona in una maniera paradossale, poiché è
una forma di identità che percepiamo in modi simultaneamente
opposti: permeabile ed impermeabile, superficiale e profonda,
veritiera e fuorviante, causa di piacere e dolore.
Considerando questi fattori riguardo alle illustrazioni di anatomie e
dissezioni, dove fantasie di mutilazioni cutanee sono liberamente
espresse, Anzieu conclude che taluni artisti rinascimentali avessero
percepito (e rappresentato), ben prima di scrittori e psicanalisti,
il legame tra la pelle e un certo perverso masochismo.
Il tema di infliggere dolore a noi stessi e ad altri è espresso in
modo esplicito in questa incisione di Bonasone, (Fig. 10) dove un
uomo giace morto ai piedi di un’altra figura maschile, parzialmente
scuoiata, che stringe in mano un coltello. Questa immagine
rappresenta una peculiare rielaborazione dei temi e delle convenzioni
iconografiche finora esposte. Se l’immagine del cadavere che
disseziona se stesso era già parte di un consolidato vocabolario
visuale, lo sdoppiamento tra vittima e carnefice non era mai stato
espresso in condizioni così evidenti. Questa illustrazione incarna,
in tutti i sensi, tale processo di separazione corporea. Se nel
trattato di Vesalio è lo stesso corpo ad essere rappresentato più
volte, pagina dopo pagina, rimuovendo di volta in volta strati di
tessuti per giungere dalla pelle alle ossa, questa rappresentazione
preferisce invece sdoppiare il corpo, separandone le funzioni di
vittima e carnefice: è il cadavere a fare anatomia di se stesso.
Queste illustrazioni cercano ulteriori significati attraverso la
messa in discussione del concetto di identità individuale e della
nozione di integrità corporea, frammentandola progressivamente.
Rappresentare
i cadaveri dei criminali come autori della propria dissezione era una
strategia per complicare i rituali che circondavano il compimento del
reato e la comminazione della pena nei tribunali e nei teatri
anatomici. Attraverso l’atto di auto-dissezione, è stato
affermato, questi corpi interiorizzano l’atto punitivo, poiché si
piegano all’obbligo sociale di generare un sapere anatomico;
eppure, allo stesso tempo, resistono ai codici penali dell’età
moderna, dettando i tempi e i modi della produzioni di conoscenza.
In questa immagine, (Fig. 10) il corso degli eventi non è chiaro:
l’incisione potrebbe rappresentare una scena di omicidio, forse una
ricostruzione dell’atto criminale commesso in vita dal cadavere,
ora anatomizzato, che lo ha condotto alla pena capitale e alla
pubblica dissezione. Viceversa, allo spettatore potrebbe essere
offerta una visione della stessa figura in due diversi momenti nel
tempo: l’uomo che lacera la pelle e spalanca il suo addome, sulla
destra, potrebbe star prefigurando il fato (la sua vita dopo la
morte, come produttore di sapere) dell’uomo che giace, senza vita,
ai piedi del piedistallo. Tale immagine, complicando la narrativa
della dissezione, apparirebbe certamente meno disturbante se le due
figure fossero rappresentate separatamente, come accade nel trattato
di Vesalio. Essere invece rappresentati come coppia introduce un
particolare tipo di abiezione, che è generato dal dissolversi di
barriere concettuali tra vita e morte, spazio interno ed esterno, Io
e Altro.
Il
concetto di abiezione è stato concepito e sviluppato estensivamente
da Julia Kristeva nel suo libro Poteri
dell’Orrore,
pubblicato nel 1980. Basato principalmente sulla psicoanalisi
lacaniana, il testo definisce l’abiezione come il processo
infantile di espellere con violenza una parte di sé. Tuttavia, ciò
che è abbietto non può mai essere permanentemente escluso, ma
rimane parte di noi, e ci accompagna attraverso le nostre vite
costantemente, mettendo alla prova le nozioni individuali di identità
e integrità. Secondo Kristeva, il cadavere è il sito principale
dove i limiti tra il sé e l’altro sono cancellati, collassano,
perdono significato. La visione del cadavere ci ricorda che la morte
è inevitabile, ma il cadavere in sé non è semplicemente una
allegoria, un simbolo della mortalità umana. Invece, agisce come una
inestinguibile infezione che intossica le nostre vite, violando i
nostri confini mentali. Il cadavere, l’epitome dell’abiezione,
viene costantemente rifiutato, ma allo stesso tempo è l’unico
elemento da cui non siamo in grado di staccarci.
Questa incisione pare incarnare sia l’incontro traumatico con il
cadavere, sia la sua pervasiva abilità di inquinare le nostre
percezioni. Il corpo morto, che giace sgraziato sulla sinistra, è
ormai ineluttabilmente perduto; quello a destra, che ripete la
propria dissezione strappandosi la pelle e esibendo l’interno del
suo addome (rappresentato, tra l’altro, senza alcun interesse
riguardo la sua correttezza anatomica), si colloca a metà tra la
vita e la morte, cadavere tornato in vita solo per morire di nuovo. I
corpi di Vesalio (anche attraverso la loro coesistenza con le rovine
classiche, che ricordano allo spettatore come integrità e
frammentazione non siano in opposizione binaria ma possono prendere
l’una il posto dell’altra), intendevano trasformare i corpi
anatomizzati in categorie di sapere; quelli di Valverde tentavano di
generare un sito dove esplorare le contraddizioni insite nel tentare
di tradurre la corporeità in rappresentazione.
Questa immagine, invece, sembra porsi un obiettivo completamente
diverso. Certamente il corpo non è rappresentato come la figura
ideale, sede di perfezione e norme comuni; e nemmeno è un tentativo
di rivelare l’inerente instabilità del corpo anatomizzato. Forse,
è una cupa insinuazione che la conoscenza non può essere raggiunta
attraverso l’accumulazione di dati tecnici. L’unità corporea,
persa durante l’atto di dissezione, non può essere più
recuperata; la frammentazione è inequivocabile e inarrestabile.
Nel
limitato spazio di questo articolo si è voluta proporre una nuova
metodologia per una valutazione più approfondita della serie di
figure anatomiche di Giulio Bonasone. L’intera collezione
richiederebbe naturalmente uno studio assai più dettagliato, data la
quantità di originali spunti e particolarità, forse unici nel
contesto dell’Italia Rinascimentale e moderna. Queste immagini
sembrano reagire alle complicate circostanze culturali che
riguardavano lo studio del corpo umano, teso tra la ancora rilevante
autorità religiosa e le nuove tendenze filosofiche, secondo cui
l’uomo poteva (e doveva) essere analizzato attraverso pratiche fino
ad allora riservate ad elementi naturali collaterali. L’effettivo
momento della dissezione, che si apprestava a divenire un rituale
sociale dalle rigorose codificazioni, generava in spettatori ed
esecutori intense reazioni emotive; tali reazioni, al momento della
traduzione dell’atto anatomico in immagini, venivano manifestate in
modalità assai diverse tra loro. Generalmente, il tentativo era di
ricostituire una certa unità corporea nonostante la violenta
lacerazione del cadavere (lacerazione tanto fisica quanto psichica).
Nella serie anatomica di Giulio Bonasone, invece, lo scopo sembra
essere l’opposto: esasperare la divisione tra la fisicità del
corpo e il senso di identità personale, e replicare indefinitamente
l’idea di cesura, sdoppiamento, frammentazione, producendo nello
spettatore uno strisciante senso di morbosa abiezione.
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