Abstract:
Fernando
Caruncho’s Lectio Magistralis at the Florence University’s Aula
Magna del Rettorato has been the opportunity for a later four-handed
reflection after an unexpected and friendly conversation. Explicitly
requested, the Spanish landscape designer kindly answered to some
tank questions, sharing personal creative experiences and active
commitments as an international standing designer. In illustrating
his professional activity Caruncho explained his ethical
responsibility concept while creating a garden. He illustrated his
personal tension in connecting his projects to the many intervention
locations’ variabilities, sites’ emotional and analytical
perception, project’s discipline and philosophy. He definitely
dwelled on the Landscaper’s imperative for a personal and
professional response to some vital linkage necessities to historical
stratification and contemporary social processes.
Key-words:
Fernando Caruncho, Pietro Porcinai, Mediterranean garden, landscape,
project’s philosophy, Genius Loci, Pietro
Porcinai Association ONLUS.
Abstract:
La
Lectio Magistralis tenuta da Fernando Caruncho presso l’Aula Magna
del Rettorato di Firenze è stata occasione di successiva riflessione
a quattro mani, dopo un’amichevole chiacchierata in risposta ad
alcune estemporanee domande, sulle sue personali esperienze di
percorso creativo e impegno attivo come progettista di fama
internazionale. Illustrando il proprio lavoro Caruncho ha condiviso
il concetto di responsabilità etica davanti alla creazione di un
giardino, a lungo soffermandosi sull’imperativo di risposta
personale e professionale del paesaggista alle necessità connettive
dell’attualità sociale a stratificazione storica e memoria
culturale. Esternando la personale filosofia di progetto ha inoltre
descritto la tensione all’interconnessione del disegno con le
variabilità dei siti di intervento, la percezione emotiva e
analitica dei luoghi, la stessa disciplina progettuale.
Parole
chiave:
Fernando Caruncho, Pietro Porcinai, giardino mediterraneo, paesaggio,
filosofia di progetto, Genius Loci, Associazione Pietro
Porcinai ONLUS.
L’occasione
della Lectio Magistralis Pensando
a Pietro Porcinai. El Projecto del Jardín Mediterráneo
tenuta da Fernando Caruncho il 6 maggio 2015 presso l’Aula Magna
del Rettorato dell’Università degli Studi di Firenze - promossa,
con l’Associazione Pietro Porcinai ONLUS, da Claudia Maria Bucelli
e Marco Cillis - ha maturato, in un estemporaneo intenso colloquio,
una riflessione in condivisione di idee, suggestioni emozionali,
ispirazioni e fattivi percorsi di progetto in replica a veloci
domande con risposte generosamente offerte, poco prima della
conferenza, davanti a un caffè. In una successiva più approfondita
rielaborazione Caruncho ha entusiasticamente condiviso la propria
visione del giardino come opera d’arte viva, che, unica, detenga un
processo naturale, un tempo di esistenza, piccolo eppure eterno, come
eterna è l’emozione che ne scaturisce. Ha illustrato il proprio
approccio professionale di paesaggista in relazione identitaria ai
siti, alla memoria storica, alla percezione emotiva e analitica dei
luoghi, alla filosofia di progetto, alla definitiva traduzione
formale e realizzazione fattuale del giardino - collegamento fra uomo
e natura, eletto spazio di meditazione - fra impressioni di silente
attesa, percorsi creativi e disciplina del fare nell’instancabile
intima educazione alla sensibilità progettuale.
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1,
2
Fernando
Caruncho Fotografie cortesia di © Toni Mateu
D:
L’ideologia
del giardino è
negli ultimi anni sempre più oggetto di studi non solo in
riferimento ai grandi esempi storici, a noi pervenuti più o meno
integri o ereditati nelle loro citazioni filosofiche, poetiche,
letterarie e artistiche, ma anche e soprattutto in relazione agli
esempi contemporanei. Qual
è per te come uomo e come paesaggista il significato del giardino?
R:
Il giardino è uno spazio senza tempo, un luogo di contemplazione che
trasforma, eleva, sublima, in cui la verità si rivela, permettendo a
ognuno di entrarvi in contatto. Questo processo investigativo e
conoscitivo svela la verità a colui che la cerca nel giardino
attraverso la materia stessa che lo costituisce, in particolare
tramite quella sottile materialità di luce che, riverberandovisi, ne
disvela la dimensione trascendentale. A questa dimensione percettiva
sovrasensibile - che è personale e unica per ciascuno e in cui
chiunque può riuscire a ritrovare la memoria del proprio giardino
d’infanzia - si accompagna uno stato di innocenza primigenia dove i
semi di conoscenza accumulati nel percorso del vivere possono
germogliare, generando nel tempo il giardino della maturità.
Tuttavia
il giardino dell’infanzia che portiamo dentro permane quale ideale,
desiderio, passione irrefrenabile a creare. Disporsi nella condizione
d’animo di recuperare quest’immagine innocente ci induce ad
aprirci, a far riaffiorare dentro di noi figure antiche che emergono
in superficie. A questo punto non serve alcuno sforzo grafico: il
giardino è già dentro di noi, ed entrando in gioco lo spirito del
luogo, il Genius
Loci,
la mano è automaticamente guidata alla definizione delle linee di
progetto che emergono, a poco a poco, da sole.
Il
giardino è anche il luogo in cui l’uomo trova le personali
corrispondenze con il mondo. Siamo tutti anelli della lunga catena
del percorso circolare del tempo. Siamo il presente del passato, del
presente, del futuro, e il giardino ci aiuta a comprendere questa
pluridimensionalità temporale. Sentirsi anello di questa lunga
catena significa essere consapevoli del nostro collegamento alla
storia in un processo che guarda al futuro ma non dimentica il
passato. Questa consapevolezza è fondamentale perché senza una
chiara cognizione della memoria passata il lavoro del paesaggista
perde ogni significato. Immergersi in questa dimensione è come
ripercorrere il mito della caverna di Platone o come emozionarsi a
rileggere Dante, scoprendo quella piccola parte di Dante che portiamo
dentro, oppure come passeggiare ancora una volta per l’Alhambra, e
di cortile in cortile percepire la luce, riconoscendo così la
vibrazione, le forme e le voci del nostro giardino interiore. Tutto
questo unisce alla dimensione universale, facendo comprendere con
l’intelligenza del cuore e il lume della ragione che siamo parte di
un continuum in perenne divenire. Un giardino non può mai
prescindere da questo percorso, da questa ‘catena della memoria’
che ci lega al passato per trovare il nostro futuro.
D:
Alla
luce di questi
orientamenti ideologici, sostegno al tuo approccio al giardino, puoi
parlarci di come hai conosciuto Pietro Porcinai e di quali
impressioni i suoi giardini hanno suscitato in te?
R:
Quando ho visto per la prima volta l’immagine di un giardino di
Pietro Porcinai ero un giovane studente di filosofia. Quest’immagine
(il giardino del Roseto a Firenze, ndr), pubblicata su una rivista,
ha suscitato in me un’impressione fortissima. E’ stato come
quando, percorrendo una strada di campagna, improvvisamente un cervo
ti balza davanti e quest’apparizione ti colpisce profondamente e
istintivamente rimani immobile, ammutolito e ammirato mentre lo
guardi fuggire via. E’ stato, allo stesso modo, l’impressione di
un attimo, un’emozione intensissima. Fu tale la veemenza di questo
impatto emotivo che decisi di conoscere Porcinai, volevo incontrarlo,
parlargli, stringerli la mano, e volli anche scrivergli una lettera
che però per pudore non inviai. Per me fu tuttavia un impulso, una
spinta potente verso quella che sarebbe stata la mia scelta di vita.
Percepii infatti chiaramente in quell’istante come, nel fluire
della storia, tutti i giardini succedutivisi, dalla loro ideazione
alla realizzazione formale, erano ancora collegati, anello dopo
anello, nella catena del tempo, ancora essendo rappresentativi di
quel personale umano dialogo con la natura e con il mondo che non si
era interrotto come temevo. La catena dei giardini nel tempo era
dunque ancora interconnessa, era ancora viva. Proprio grazie a Pietro
Porcinai gli anelli di questa catena, dall’antichità remota alla
realtà contemporanea, continuavano a connettersi, ancora dialogando,
nell’oggi, con l’anima dell’uomo. Conoscevo, certo, l’opera
dei paesaggisti del xx secolo, fra gli altri quella di Jellicoe. Mi
mancava però l’immagine del giardino del sud, il giardino
mediterraneo nel suo segmento di contemporaneità. Sentivo in quel
momento di orientamento personale la necessità di una continuità
proprio nella tradizione mediterranea, per potere supportare la
scelta in quella strada che sentivo mia. La nostra tradizione
ispanica ci ha dato Tudurì e Forestier, ma a me mancava ancora
qualcosa. Sentivo l’intimo bisogno di qualcuno che mi restituisse
un’impressione forte, consentendomi una ‘tracciabilità’ nel
percorso della tradizione mediterranea contemporanea del giardino.
Questo qualcuno fu proprio Pietro Porcinai che tramite l’immagine
di un suo giardino realizzato a Firenze mi mostrava la perfetta
sintesi di quello che si può chiamare il giardino mediterraneo, che
va da Istambul a Siviglia, da Damasco a Parigi. Noi siamo infatti
tanto di Damasco, di Istambul, della Sicilia, quanto di Granada e di
Firenze. In seno alla cultura mediterranea apparteniamo a tutti
questi luoghi. Sentii dunque intimamente di potermi collegare
all’esempio di quel giardino, al pensiero del progettista, Pietro
Porcinai, che lo aveva creato, trovando così il mio orientamento.
Questa fu per me una gioia grandissima, mi sentivo connesso ad una
persona continuando ad appartenere al mio mondo e al mio tempo. E
questa continuità di appartenenza per me era, ed è tutt’ora,
vitale.
Ho
conosciuto dunque Pietro Porcinai nel suo lavoro, e successivamente
ho conosciuto Firenze e ho capito perché Porcinai creò questo tipo
giardino, il suo giardino. La sua ispirazione di progettista, la sua
cultura mediterranea, la sua connessione a quello splendore di
cultura rinascimentale e fioritura d’arte che qui si era generata
avevano prodotto questo frutto, giungendo in lui ad esiti del tutto
personali, diciamo così, ‘alla fiorentina’. Mi immagino, ancora
adesso, Pietro Porcinai a villa Gamberaia, nell’elitario contesto
culturale proprio dei suoi anni giovanili, immerso in quell’ambito
agricolo, artigianale e lavorativo connesso all’esistenza e alla
vita della villa, con il paesaggio tutto attorno, suo padre che lo
introduceva al giardino… Se Porcinai ha dato una grandissima
educazione al giardino è stato proprio in continuità ad una memoria
e tradizione precise, fin da Marsilio Ficino, fin da Pico della
Mirandola. Quando ho visto il giardino di Porcinai ho rivisto
l’Umanesimo, ho rivisto la connessione alla natura e al paesaggio,
incomprensibile se non attraverso la congiunzione alla
stratificazione storica, alla cultura, alla poesia, all’arte, alla
letteratura, tutte tradotte dalla memoria passata in giardino
contemporaneo.
3,
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5
Panorama verso Firenze dal giardino ‘Il Roseto’, e scorci delle
siepi formali davanti alla villa , Giardino ‘Il Roseto’, Firenze,
maggio 2015
D:
Da
giovane studente a
professionista di giardini permane, a quanto ci dici, un tuo sguardo
sul lavoro di Pietro Porcinai. Come definiresti la tua attività di
paesaggista e quali personali suggerimenti hai tratto dall’approccio
del paesaggista italiano?
R: Il mio lavoro è il lavoro del
giardiniere, ma è anche parzialmente
quello stesso lavoro degli agricoltori che hanno disegnato nei secoli
il paesaggio dell’Europa. Porcinai era per formazione ed educazione
familiare intimamente giardiniere, ed era fiorentino. La sua cultura
era principalmente quella del Rinascimento, alla quale egli affiancò,
nella realizzazione dei suoi giardini, i materiali ‘locali’ sia
di Firenze che della Toscana. Proprio in questo posizionarsi nella
propria cultura e nella propria terra si definisce l’internazionalità
di Porcinai, che non a caso divenne un paesaggista di alta fama.
Riscoprendo cioè il passato, la cultura del Rinascimento, e
appoggiandosi alla specificità locale della sua terra e della sua
città nella tradizione artigianale e nei materiali scelti per
tradurre in realtà i suoi progetti, Porcinai ha definito le basi
fondative del suo lavoro, quello spessore identitario al quale ha
affiancato la propria capacità progettuale e creativa. Proprio lo
spessore, la ricchezza, la bellezza, nel vero senso del termine,
dell’opera di Porcinai, a mio avviso è costituita a tutti gli
effetti da questa sua ‘tracciabilità’, cioè dalla possibilità
per noi oggi di leggere, risalendo ai fondamenti della sua arte,
ricercandoli nei luoghi e nella cultura che furono suoi, lo spessore
di stratificazione delle sue creazioni. Nei suoi progetti leggiamo
ancora un intenso dialogo con il passato nel deciso orientamento
verso un linguaggio progettuale del futuro, nella volontà, meditando
sulla memoria e sulla tradizione, di definire un nuovo giardino per
il xx
secolo.
Non
tutti hanno la capacità o la volontà di confrontarsi con la storia,
con la tradizione, con le radici della propria cultura, ma a mio
avviso chi non si fonda su questa tracciabilità sviluppa il proprio
percorso progettuale sul vuoto, letteralmente. E’ un falso, ed è
anche, il suo, un atteggiamento molto pericoloso. Un tale
orientamento, privo di riferimenti e di confini, dentro al quale
molti inseriscono il proprio lavoro, è instabile, ingannevole. Il
legame al passato in previsione del futuro, invece, è
importantissimo, è anzi fondamentale per costruire qualcosa di
duraturo, che abbia radici e sostanza, che non sia solo un
divertissement stilistico. Lo stesso Rinascimento nacque da una
profonda riflessione sul passato, dalla riscoperta e
reinterpretazione del passato classico.
In
Pietro Porcinai questa ‘tracciabilità’ è proprio un filo di
connessione dal passato al futuro, anzi, dalla lezione del passato
alle problematiche del presente allo sguardo e proposte per il
futuro. Oggi vedo attorno a me poca ‘tracciabilità’. Il passato
è poco considerato, è come se avesse perso prestigio, e si
rifuggisse la riflessione sulla storia, sul tempo trascorso, sugli
eventi precedenti. Non si presta abbastanza attenzione a leggere la
stratificazione degli avvenimenti attorno a noi, lo stesso ritmo
della produzione per il professionista è velocizzato, pochi secondi
- non di più - e deve scaturire il progetto, manca il tempo della
riflessione. Si produce quantitativamente ed estensivamente molto, ma
si rimane in superficie, manca la profondità del progetto, e questo
è un vero e proprio disequilibrio che riflette una condizione
mentale accelerata che si ripercuote in ogni modalità di lavoro.
Deve essere ritrovato il tempo della riflessione, del contatto con il
giardino, è una questione a mio avviso vitale.
D:
Può
essere questa
un’esortazione da offrire ai giovani, un messaggio da trasmettere
a chi non solo come persona ma come giardiniere decida di rapportarsi
al giardino?
R:
Indubbiamente, anzi è quello che mi sento di consigliare. Io
personalmente non ho mai cercato, con un’attività superficiale
meramente quantitativa e frenetica, di rincorrere la notorietà e la
ricchezza. Ho sempre e solo cercato, pur perseguendo l’obiettivo di
potere vivere del mio lavoro, mantenendo così me stesso e la mia
famiglia, di coltivare al meglio il mio giardino, che ancora oggi,
non appena i miei molti impegni me lo consentono, curo personalmente,
seminando, piantando e annaffiando con le mie mani. Occorre per prima
cosa trovare se stessi nel giardino, e sempre continuare a mantenere
questo profondo rapporto con la propria interiorità, mai venendo
meno al dialogo con il proprio interiore e con il giardino. In questo
modo si può trovare l’orientamento al proprio talento, la giusta
modalità per sbocciare, imprescindibile dal rimanere connessi al
flusso vitale della storia, alla memoria della natura e della nostra
cultura. Poi tutto il resto, con ogni certezza, verrà di
conseguenza, verrà da solo. E’ il fatto di essere un giardiniere,
ora, nel presente, che è per me il vero grande successo. Il successo
c’è già, va solo cercato. Porcinai non doveva fare un giardino
alla moda, non doveva disegnare troppo: seguiva semplicemente se
stesso, e il successo gli è conseguentemente arrivato.
D:
Davanti
all’ossessione
contemporanea della fama ad ogni costo il tuo orientamento e il tuo
consiglio si volgono nella direzione opposta, realizzare invece le
proprie aspirazioni più profonde, indipendentemente
dall’ammaliatrice sirena della notorietà. E’ così?
R:
Sicuramente. Mai pensare a raggiungere il successo per il successo,
in qualsiasi lavoro! Se inizi pensando al successo come fine primo
allora la tua vita si trasformerà in una catena di frustrazioni. E’
questo il primo messaggio che mi sento di trasmettere: cercate prima
voi stessi e il vostro giardino, coltivate il vostro giardino. Quello
a cui veramente tengo, che mi interessa come valore trasmesso dal mio
lavoro, sia come insegnamento personale che come frutto del mio
contributo professionale, è spingere i giovani a cercare, trovare,
comprendere il profondo senso di bellezza e vitalità che emana dal
giardino. E’ questo il successo per noi giardinieri, vivere
connessi alla natura, nel giardino. Se decidi di essere un
giardiniere nella tua vita devi seguire la guida della natura, e
credere e continuare a cercare, e certamente troverai la tua
realizzazione e la tua felicità.
Per
me il successo è arrivato senza cercarlo, senza sapere perché.
Ancora oggi non so, non capisco il motivo della mia notorietà. Io
volevo solo vivere del mio lavoro, e che il mio lavoro fosse quello
del giardiniere, intendendo con questo anche il lavorare fisicamente
nel giardino. Credo fermamente che sia la natura che ci porti,
dobbiamo quindi farci condurre dalla natura. “Fatti trasportare
dalla natura!” è quanto direi a qualsiasi aspirante paesaggista,
il consiglio più vero che mi sento di dare. Il senso di natura e
l’aspirazione al contatto con essa già esiste di per sé, è
istintivo, nel più profondo, per ognuno di noi. Quello che il
giardino offre è, nel contatto con il mondo naturale, il potere
lavorare sul reale, stare nella realtà, nell’essenza del reale. Il
giardino è una realtà, non è uno spazio astratto o una pura
astrazione mentale. Chi abita in campagna è a mio avviso
fortunatissimo, in Europa e altrove, proprio per questa possibilità
di contatto con la natura e per l’opportunità di un rapporto
diretto con la realtà del giardino.
Tornando
a Porcinai, proprio in questo vedo il suo insegnamento. L’avere
esaltato e suggerito, tramite i suoi progetti di giardini - direi
addirittura insegnato ai suoi committenti - il rapporto umano con il
giardino e con il paesaggio, o meglio, il rapporto intimo, diretto,
profondo, dell’uomo con il giardino e il paesaggio. L’avere
insegnato il godere del giardino, il passeggiare nel giardino,
trovandovi la propria intima dimensione. E a rapportarsi
continuativamente al paesaggio, alla stratificazione storica, a
questa splendida natura architettata così intimamente connessa ai
giardini in una terra così ricca di storia e di stratificazioni di
memoria.
Essendo
nei suoi giardini e volgendo lo sguardo all’intorno, ecco dunque il
messaggio che questo eccezionale paesaggista ha voluto trasmettere,
la profonda unità fra uomo, giardino, paesaggio, natura. Poi,
professionalmente, la sua capacità di trasformazione dei luoghi, il
gesto sempre più studiato, meditato, approfondito, in colmatura, del
progetto, ritornando più volte a pensare e meditare sullo stesso
disegno, addirittura sullo stesso particolare. Una riflessione che
porta, nella sempre maggiore comprensione, alla migliore soluzione
finale che si traduce ogni volta, necessariamente, in uno spazio
profondamente umanato.
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10,
scorci del Giardino ‘Il Roseto’, Firenze maggio 2015
D:
E’
un problema anche di
formazione? Forse i giovani paesaggisti non sono più abituati a
riflettere sulla memoria, ad essere consapevoli della storia.
R:
I giovani in genere non amano il passato, percepiscono la stessa
gioventù, il loro attimo temporale, come un eterno presente e come
un valore di per sè. Ma a mio avviso nulla ha valore senza
continuità con il passato. La rottura con il passato ha sempre
portato alla barbarie, che ha avuto come risultato devastazione e
cancellazione dell’identità dei luoghi e delle culture, dove la
memoria si è persa, e dove il sapere, la tradizione e l’identità
di interi popoli è andata dispersa.
L’allenamento
alla riflessione sul passato, il passaggio di conoscenza intenzionale
da una generazione all’altra, se non direttamente da persona a
persona, anche nello studio e nella riflessione sulla storia, e la
ricerca stessa delle radici del passato è ciò che veramente dà il
senso della conoscenza e dell’estensione del sapere, della densità
del potere. Il potere è conoscenza, e non c’è conoscenza senza
continuità con la storia. Tuttavia assorbire tale conoscenza
necessita di un vero tirocinio formativo, un continuo approfondimento
di riflessione: se non sei abituato a riflettere e ad interpretare,
alla fine non giungi a conoscere, non giungi a possedere la
conoscenza e ad avere quindi potere. Senza la riflessione sul
passato, alla fine non hai in verità nulla.
D:
Quando
si è verificato
secondo te questo distacco dalle radici del passato nella cultura
occidentale?
R:
La rottura con il passato deriva dalla rottura con la natura: dalla
rottura con la natura il passo alla rottura con il passato è stato
immediato e consequenziale, drammaticamente inevitabile, e ha chiuso
non solo l’uomo ma la stessa città alla natura e alla riflessione
sul passato portando a quelle periferie, uguali ovunque nel mondo,
identiche sia a Madrid che a Firenze, dove si rispecchiano le
conseguenze di questa frattura fra noi e la conoscenza, fra noi e la
nostra cultura, fra noi e l’identità delle nostre città.
Da
questo punto di vista Firenze è nata come un vero e proprio miracolo
di natura e di lavoro dell’uomo, è tutt’ora un miracolo di città
integrata nella natura antropizzata che la circonda e che è
visibile, percorrendola, da molti scorci. Dalla mia camera d’albergo
vedo lo splendido panorama di Bellosguardo, e vedo, ammirando questa
bellezza, come quello che dà l’identità a Firenze sia proprio la
natura, il paesaggio che la circonda, questa bellezza naturale
addomesticata dal lavoro dell’uomo e tradotta in una bellezza
antropica che si integra con la costruzione degli spazi urbani e
degli stessi limiti storici della città, che dai margini della
campagna appena fuori i confini traggono la loro identità. Lo stesso
rapporto felice che si esemplifica a Firenze dovrebbe essere quello
che qualsiasi persona dovrebbe poter vivere e respirare nella città
in cui abita e che percorre. Una persona vuota di paesaggi, come una
città vuota di paesaggi, è infatti morta, vuota di spirito.
D:
In
quale periodo storico
individui quell’inizio della perdita del contatto con la natura che
ha portato all’impoverimento delle nostre città? E in che termini
secondo te sussiste il rapporto che dovrebbe instaurarsi fra giardino
e architettura? E in che modo può secondo te lo stesso giardino
favorire questo rapporto?
R:
La prima guerra mondiale distrusse a suo tempo due intere
generazioni. L’anello di quella catena temporale che univa gli
uomini nella continuità umana e culturale generazione dopo
generazione si è spezzato in quel frangente, perché tali sono state
le perdite umane che è poi mancata fisicamente la connessione per la
continuità e la trasmissione della cultura e della tradizione.
Troppo pochi erano i sopravvissuti per potere sperare in una
continuità della conoscenza, in un’efficace trasmissione della
memoria. Con la seconda guerra mondiale poi oltre alle enormi e molto
maggiori distruzioni e perdite umane è mancato non solo il
contributo di generazioni, letteralmente cancellate in blocco, ma
anche il tempo di rielaborare sulle macerie, di trovare una
continuità di ricucitura. Tutto si è svolto in velocità, si è
ricostruito seppellendo le rovine e dimenticando il passato, spesso
non recuperando quanto ferito e distrutto. Si è interrotta quindi la
catena e si è persa la memoria del passato, e nell’immediato
dopoguerra abbiamo riempito questo vuoto con sollecitazioni
d’importazione, stimoli e pressioni soprattutto d’Oltreoceano,
come il tutto nuovo, la coca cola, gli occhiali da sole…
Il
passato è stato dunque cancellato con un colpo di spugna, e in breve
tempo se ne è persa ogni memoria. Fino ancora agli anni ’20
all’Università di Cambridge dovevi studiare, oltre alle materie
del tuo corso di studi - qualunque esso fosse - anche greco e latino.
Anche se frequentavi astrofisica, insomma, era richiesto e preteso
che tu mantenessi un canale con le tue radici culturali, che fossi in
grado di parlare al passato e quindi di conoscerlo, che comprendessi
le radici della tua cultura studiando queste lingue antiche. Ora non
si studia più il latino neanche in percorsi di studi che lo
richiederebbero, anche per quelle culture le cui lingue vi derivano
direttamente e ancora portano vivissima l’impronta di questa antica
lingua. Manca dunque lo studio della storia ma anche della cultura
storica, manca la memoria storica, manca addirittura la lettura,
nessuno legge più! Ci si distrae con film superficiali, è bandita
ogni forma di riflessione - e la lettura facilmente la stimola e
richiede - e quindi si crea un’immagine falsa, ciò che
trasmettiamo al mondo, e che noi stessi percepiamo, non è più un
archetipo, sono solo stereotipi.
Dalla
Bauhaus ad oggi il giardino è stato letto in termini sociali e
politici, come espressione della borghesia e dei suoi miti e
ideologie. Nei testi del Bauhaus non si parla di giardino. La
situazione storica e politica era naturalmente particolare, dopo la
prima guerra mondiale l’architettura era diventata una necessità
conseguentemente alle distruzioni che c’erano state, e
nell’emergenza non c’era tempo di pensare al giardino. Tuttavia è
stata una perdita, perché la conseguenza è stata la
disumanizzazione. Quando l’uomo non ha più la scala di riferimento
dell’albero perde la scala per rapportarsi al mondo. E talvolta
questo è successo, si è persa la scala umana dell’architettura.
Il problema del mondo attuale è fondamentalmente che l’architettura
non comprende anche il giardiniere, non nel senso di paesaggista ma
di sensibilità per il giardino. L’architettura, che deve essere
una conseguenza del luogo, dove ogni piccola cosa ha sempre un’anima,
sta cercando il suo spirito, e lo ritroverà connesso al giardino.
Auspico che i giovani architetti siano sempre sensibili alla natura e
cerchino un modo per connettersi al luogo e alla natura. E’ infatti
impossibile abitare un mondo senza connettersi alla natura. Una delle
sfide del giardiniere è a mio avviso proprio quella di connettere
l’architettura al posto specifico in cui sorge, al luogo.
D:
Come
si pone il tuo lavoro
davanti a questa consapevolezza e come risponde la modalità di
ideazione e realizzazione dei tuoi giardini a queste realtà?
R:
Oggi abbiamo una gestione velocissima di ogni aspetto della nostra
vita. Il flusso di informazioni ci attraversa imponente e frenetico e
tutto attorno a noi cambia ad una velocità impressionante. Il
panorama della nostra quotidianità si modifica quasi a rimi
settimanali, e tu non fai in tempo a capire, ad orientarti, che già
tutto è nuovamente in movimento, in ulteriore trasformazione. Si
tratta di una strategia commerciale fondamentalmente, che ottiene
però il risultato di destabilizzarci nel profondo. E’ una sorta di
ritorno all’oscurantismo del Medio Evo, solo che ora i barbari non
vengono da fuori, siamo noi che ci siamo imbarbariti, siamo noi che
ci siamo trasformati in primitivi e incolti.
La
nostra responsabilità come giardinieri è chiamata fortemente in
causa da questo stato di cose. Io personalmente sento molto questa
responsabilità, mi sento chiamato in causa a dare una risposta, ad
offrire un supporto, un appiglio per contrastare questa deriva.
Quello che trasmettiamo al mondo con il nostro lavoro di giardinieri
è infatti la nostra storia, siamo noi stessi, per questo ci è
richiesto di conoscere la nostra storia, di essere profondamente
consapevoli del nostro passato, della nostra identità, e,
soprattutto, di averla quotidianamente presente, ricordarla,
sapendola trasmettere. E’ questo il messaggio profondo e la
dimensione etica che siamo chiamati ad offrire.
I
valori del giardino sono anche, primariamente, i valori dell’uomo:
il piacere del rapporto con la natura, la lettura del passato per
godere della storia antica tramite la quale riflettere su noi stessi
e sul presente, e soprattutto sul futuro, su dove andiamo. L’amore
per il silenzio e la solitudine, ma per la buona solitudine, la
cessazione cioè di ogni rumore, anche della musica, l’azzeramento
di qualunque distrazione dall’esterno per godere, anche solo cinque
minuti, del vuoto, del silenzio interiore.
D:
Quindi
una dimensione etica e
spirituale del giardino ancora oggi attira l’uomo nel percorso
verso se stesso, per riconnettersi anche alla propria dimensione
identitaria profonda, nonché creativa?
R:
Si, infatti. Se oggi quello cui tutti aspirano è la notorietà,
rincorsa in un turbinio di sollecitazioni e agitazioni che
destabilizzano, quello che fa orrore sembra essere proprio il
silenzio, il contatto con se stessi, il guardarsi dentro cercando
l’invisibile essenziale in noi stessi. Sembra che tutti rifuggano
questa dimensione più intima, più meditativa. Siamo spaventati
dall’entrare in contatto con la parte più intima di quello che
siamo. Ma il silenzio e la solitudine da sempre sono il presupposto
fondamentale dell’arte, di qualsiasi tipo di arte, dello slancio
creativo, dello stimolo alla creatività e della conseguente
produzione e innovazione umana. Senza questo vuoto non si può
realizzare nulla, non si può aspirare a nessuna modalità creativa,
costruttiva, a nessuna innovazione, a nessuna vera umana espressione
del genio, di ciò che ci caratterizza, a nessuna forma di
arricchimento e dialogo fra di noi e di trasmissione dalla lettura
del passato – anche questa richiede silenzio e riflessione - alle
generazioni future.
Se
il genio si esprime nel silenzio e nel giardino attraverso la materia
e la luce, il giardino, che è materia e luce e favorisce il
silenzio, è conseguentemente piena espressione dello spirito umano.
Puoi avere anche una ed un’unica pianta, un riflesso sull’acqua,
una luce, ed hai un giardino. In un orto chiuso puoi ottenere uno
spazio particolarissimo. Ovunque la luce è materia di
trasformazione, è una questione di attitudine, non di economia e di
dimensioni nella realizzazione di un giardino. E’ difficilissimo
collocare questa presenza così forte sul posto, ma riuscirci
significa dare vita a un giardino, realizzando un luogo che favorisca
silenzio e meditazione, l’incontro con noi stessi. Io personalmente
collego le piante del posto al progetto e studio la luce considerando
il giardino come una scatola di luce nella suggestione, in
particolare, di Francisco de Zurbarán, un pittore di oggetti, nature
morte, ma anche di ritratti, particolarissimo nell’uso della luce.
Nel silenzio incantato suggerito dalle sue nature morte egli è stato
capace di generare come artista quella stessa emozione che nasce nel
giardino, che viene dal giardino riempito dalla luce, e che è
eterna.
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11,
12
Francisco
de Zurbarán, 1620-1649,
Natura
Morta con piatto d’uva,
1639, olio su rame, Bordeaux, collezione privata; Natura
Morta con piatto di limoni,
1640 ca, olio su tela, Madrid, Museo de la Real Academia de Bellas
Artes de San Fernando
D:
Ti
definisci ‘jardinero’
fortemente connesso al paesaggio nell’identità del Genius Loci e
ti riferisci prevalentemente alla dimensione del giardino. Come ti
rapporti alla scala territoriale nei suoi progetti?
R:
Io sono un giardiniere, non un paesaggista. La mia scala è piccola.
La scala grande a mio avviso si relaziona fondamentalmente
all’agricoltura. Il paesaggio naturale è da secoli trasformato
dagli agricoltori e reso antropico, umano. Il paesaggista deve
appoggiare la propria attenzione in primis all’ambito naturale e
alle leggi che lo regolano. Il padre di Giotto era considerato un
grande artista prima di tutto per la sua cultura della natura e della
campagna ed è questo che ha trasmesso a suo figlio, divenuto il
genio che tutti conosciamo. Il paesaggio è l’anima dell’uomo.
L’uomo senza paesaggio resta senz’anima. La scala del paesaggio
si lega anche al mondo sociale, non solo al paesaggista, cambiando il
senso percettivo della campagna e quindi la percezione, da parte di
ogni uomo, del paesaggio e del mondo che lo circonda.
D:
Nell’Amastuola
però sei
intervenuto ad una grande scala territoriale.
R:
Per l’Amastuola, che è uno spazio produttivo, un vigneto, un
paesaggio alimentare con isole di olivi secolari, mi chiamò il
proprietario Giuseppe Montanaro dicendomi: “lei deve costruirmi il
vigneto più bello del mondo!”. Aggiunse che da due anni mi studiava
attentamente - infatti sapeva tutto dei miei progetti - e aveva
scelto me per realizzare questo suo sogno. Mi sono sentito subito
coinvolto, e ho trovato in lui quello che è sicuramente il
committente ideale: un entusiasta con mezzi economici che rendano
possibile dare una realtà al proprio entusiasmo, realizzare il
proprio sogno. E la cosa fantastica è stata che, realizzando un
progetto di grande ritorno estetico oltre che etico – vi sono ad
esempio impiegate modalità di coltivazione biodinamiche - il
proprietario, che credeva profondamente in questo progetto, ha avuto
un ritorno economico sempre maggiore man mano che passava il tempo.
La bellezza ha prodotto anche molta ricchezza.
13
Amastuola
- Foto Massimo Grassi
Montanaro
è un uomo di campagna, una persona nata e cresciuta a contatto con
la terra, che vive a contatto con la natura, e che ha capito e
dimostrato in questa realizzazione assieme a me che l’agricoltura
non è solo sfruttamento ma anche entusiasmo, cultura, etica,
estetica, un paesaggio, un’opera d’arte. Questo vigneto è
diventato famoso perché il proprietario ha ricercato e creduto nella
bellezza dell’identità, cosa difficilissima in un luogo di vigenti
storici. Montanaro ha visto l’agricoltura come un’arte, un bene
al di là della produzione, e le sue fantastiche qualità umane sono
state il segreto del suo successo.
Le
popolazioni che abitano i luoghi devono arrivare a capire che la
bellezza di un progetto implica sempre e inevitabilmente la bontà
del risultato. E’ fondamentale non vedere solo il punto di vista
economico, ma anche in agricoltura, come nel giardino, come nel primo
giardino, dove ciò che era bello era anche utile e buono e
viceversa, unire il bello all’utile e l’utile al bello. Non a
caso in Europa cinesi e americani vengono per trovare la memoria
tramite la cultura, e la stratificazione del bello nei nostri
paesaggi.
Per
me questo progetto è stato una grande esperienza e una grande
soddisfazione, lo reputo ad oggi uno dei miei migliori.
D:
In
seno al tuo iter
creativo che spazio ha il disegno nella formulazione di un’idea
progettuale, e quali sono le fasi del processo che ti portano a
definire un progetto?
R:
Io parto sempre senza idee. Le idee sono nello spazio stesso dove
vado ad operare, nel luogo, nella luce e nella terra, e da lì si
disegnano da sole. Tutto sta a cogliere queste idee, a saperle
leggere. Quando non sono in grado di leggerle comprendo semplicemente
di avere bisogno di aspettare un altro po’ di tempo. Il fondamento
del mio progetto è proprio quello dell’attesa, un’attesa di
illuminazione da parte del Genius
Loci,
o Genius
Lumen.
Spesso aspetto
rimanendo seduto sul posto, come un albero, senza niente, senza
pensieri, aspettando nel vuoto. Sono le cose che vogliono essere in
contatto con noi, noi dobbiamo solo fare loro spazio conformandoci
all’attesa. Questo processo comincia e si sviluppa da solo, senza
sforzo. Le impressioni del luogo entrano nella tua mente attraverso
gli occhi. Devi quindi essere presente, il tessuto della tua mente
deve essere libero e ricettivo. Come una macchina fotografica, la
pellicola deve essere intatta per permettere a questi punti di luce
di imprimersi nella tua mente.
Dopo
avere raccolto queste impressioni faccio uno schizzo, ma proprio uno
schizzo velocissimo, un nulla. E’ un momento di grandi dubbi, ma
vitale ai fini del risultato finale. Allora inizio il processo del
plastico - i miei plastici sono particolarmente grandi, arrivano a
misurare anche 4x3 m - incominciando con la progettazione dell’idea
sul posto, trasponendola poi nel plastico, spesso chiudendo gli occhi
mentre con la mano ne percorro le linee reimmergendomi così, dal mio
studio, nei luoghi del progetto. Con grande sorpresa vedo che la mia
idea su quel luogo funziona. E’ sorprendente, in genere l’idea
che mi è nata dentro è perfettamente adatta per quel luogo. Continuo
allora a lavorare con fiducia sul concetto che ho visto ad
occhi chiusi e lavoro con il plastico dai 6 ai 12 mesi, fino a che
l’idea si fa sul terreno, prende i contorni nel luogo. L’idea
prende corpo, letteralmente, e si integra da sola al sito. Allora
contatto il cliente e lo lascio da solo davanti a questa mia
proposta, e curiosamente il committente, con mia grande sorpresa, è
sempre d’accordo. Questo percorso è un processo di ricerca sul
dubbio, non sul disegno. Il percorso del dubbio, facendosi prendere
dai luoghi, aspettando con fiducia, non avendo paura del vuoto,
affrontando l’incertezza e la sensazione del vuoto, è
indispensabile.
Il
disegno poi accade in un secondo tempo, e deve essere un frutto della
mente, una proiezione dell’intelletto, non semplicemente un gesto
della mano. Imparare a fare un progetto richiede anche questo
allenamento. Esercitarsi a fare un progetto su un posto che piace è
un esercizio intellettuale e spirituale, anche senza avere un reale
proprietario o un committente di riferimento. Scegliere un posto,
andarci e lasciarsi prendere dal luogo, ricordando che non siamo noi
che prendiamo possesso del luogo, anzi, è il contrario: è il genio
del luogo che ci prende, ci possiede, il Genius
Loci
che è molto più grande
di noi!
Quando
si verifica la necessità di giustificare un progetto al di là del
suo sorgere dal luogo la cosa inizia ad essere per me ‘non vera’.
Io sono abituato a procedere un po’ come una barca, navigo a vista,
sono un intermediario fra la memoria del passato e l’idea. Sento
forte la necessità di trovare questa connessione fra la
stratificazione dei secoli e il senso presente in cui il giardino è
solo un sospiro. Nello spazio della storia un giardino può infatti
durare al massimo un centinaio d’anni, alcuni esempi storici anche
di più, ma in media vive molto poco. Il giardino poi sparirà, ha
vita necessariamente breve, e nel continuum del divenire ritornerà
la natura.
D:
Senza
comprensione del Genius
Loci sembra addirittura non essere possibile per te il percorso di
progetto, è così?
R: Assolutamente. Il paesaggista è uno
strumento imprescindibilmente
connesso al luogo nella generazione del progetto. Quando si contempla
un paesaggio si è nella consapevolezza di portare dentro la propria
idea primordiale di giardino. In quel momento il progettista sa che
il progetto non gli appartiene ancora, è fuori da lui, è un’idea
ancora fuori da se stesso che solamente l’osservazione, la
comprensione, l’interpretazione, l’intuizione di un futuro che è
presente e che origina dal passato farà scaturire. Al termine di
questo processo che non conosce un tempo stabilito sarà possibile
tradurre alcuni concetti astratti emersi in punti reali nel
territorio. Innato nell’uomo è infatti sia il saper interpretare i
luoghi che poter tradurre le proprie conoscenze, le quali nel mio
caso attingono enormemente dal mondo delle arti. Trovo che le
creazioni dell’arte siano quei codici fondamentali della nostra
cultura essenziali per capire il giardino, il bosco, il paesaggio,
l’acqua, l’orizzonte. Successivamente i processi logici,
razionali, funzionali completeranno il percorso nella traduzione
geometrica dell’idea.
Il
giardino ha una profonda connessione con il paesaggio e con la luce.
Il
Genius Loci
si esprime quindi fondamentalmente nel Genius
Lumen.
Nei giardini di
Porcinai c’è un sapiente trattamento della luce. Non ci sono
grandi cambiamenti topografici ma la finalità che tutto diventi
un’emozione continua per connettere l’anima dell’uomo alla
natura tramite il giardino. Pietro Porcinai fu in questo senso un
maestro di realismo, mai perdendo il contatto con la propria anima e
la propria cultura, fungendo da mediatore con il paesaggio e la
natura. Per questo il suo è un linguaggio universale che è oggi
comprensibilissimo, sia per noi che per chiunque altro, in ogni parte
del mondo.
E’
sempre un dialogo quello che si apre e parte dal giardino. Da questo
capiamo che un giardiniere è una persona che deve coltivarsi prima
di realizzare un giardino, per potere così riflettere il mondo
profondo che porta dentro di sé nella creazione della sua opera. Per
arrivare a fare un giardino il giardiniere deve scoprire il mondo e
non lo puoi scoprire se non coltivi in te stesso la tua anima. Di
Porcinai in questo senso amo la discrezione, un valore oggi perduto,
presi come siamo a rincorrere la notorietà. Ma in fondo ad ogni
grande successo c’è sempre fondamentalmente la connessione alla
natura.
D:
La
geometria come dominio
mentale sullo spazio del paesaggio sembra detenere un ruolo
fondamentale nel tuo processo creativo dalla percezione dei luoghi al
disegno finale di progetto.
R:
La geometria è l’unico mezzo per stabilire un contatto con lo
spirito del luogo, lo strumento fondamentale per la traduzione
dell’idea del giardino in realtà. E’ un linguaggio
importantissimo, la più alta espressione di scrittura, il primo
segno tracciato dall’umanità sulla superficie terrestre, cui si
lega il simbolo. Secondo Platone la conoscenza avveniva in direzione
del giardino per il tramite della geometria, e proprio sull’ingresso
dell’Accademia egli aveva fatto scrivere: “qui non entri nessuno
che non sappia la geometria e che non creda che la geometria sia
‘conoscenza’”. Epicuro poi riteneva impossibile la conoscenza
al di fuori del giardino, ritenendo il giardino uno spazio in primis
spirituale, che ogni uomo porta dentro.
Non
esistono poi a mio avviso giardini geometrici o giardini dalle forme
organiche, questa è solo una distinzione della mente perché siamo
ossessionati dalla parola ‘disegno’, che in architettura è
fondamentale, mentre per il giardino il discorso è diverso. Come ho
accennato prima l’idea non è dentro di noi. L’impegno del
paesaggista è quello di vedere l’idea nella connessione al
paesaggio e tradurla con la mente, offrendola poi tramite la
geometria alla realtà del giardino. La mano con cui disegniamo è
solo lo strumento con cui trasferire sulla carta questa immagine.
D:
Come
è possibile secondo te
conciliare nell’iter progettuale l’etica ecologica, il rispetto
del pianeta e l’equilibrato utilizzo delle risorse?
R:
Siamo tutti con un’anima. Trattare le cose con l’anima presuppone
amore sennò la cosa è perduta. Quello che vedo nel paesaggio
coincide con il problema della mancanza di rispetto e dello
sfruttamento delle risorse oltre ogni limite. E’ fondamentalmente
un problema di perdita dell’anima. Abbiamo perso il contatto con la
natura, questo stato dei fatti ne è una prova inconfutabile. Ora la
vita della città significa l’innalzamento di muri e di pregiudizi.
La città pare molto aperta ma in realtà è un luogo estremamente
chiuso, frammentato in tanti luoghi anch’essi chiusi. Sembra molto
grande ma in verità è molto piccola. Attorno a noi si muove un
mondo reale, non virtuale, tuttavia il rischio che sempre
maggiormente ci incalza è quello di vivere in un mondo virtuale.
Ormai morto l’amore per il passato, che consideriamo obsoleto,
viviamo scollegati dalla memoria, ma senza collegamento al passato
non è possibile procedere verso il futuro.
E’
stata l’idea del passato, per esempio, che ha fatto rinascere la
civiltà europea del Rinascimento, e se è pur vero che questa
rilettura sia avvenuta in diversi momenti storici, il Rinascimento ne
rappresenta l’esempio più luminoso.
Il
processo dell’Anima del Mondo è per questo motivo fondamentale.
Arte come Arté, cioè capacità di collegarsi al mondo. Venendo meno
questo collegamento al mondo non solo il progetto, ma qualsiasi
espressione d’arte diventa mera espressione di uno sguardo su di
te, un’autoreferenzialità che non conduce a nulla. Collegarsi
all’anima del mondo è fondamentale allo sviluppo del giardino.
Osservare le emozioni e osservare le anime del giardino è stato
fondamentale per me in questo processo.
14
Mas
de las Voltes – Foto Pere Planells
D:
Ti
è mai capitato di ricevere
lavori o di collaborare con enti pubblici?
R:
Io
lavoro soprattutto con
privati anche se ho avuto qualche esperienza di progetti pubblici. In
genere però il rapporto che si instaura con il privato è diverso,
più profondo. La persona che mi contatta per un giardino privato è
infatti già connessa al posto, conosce il luogo, lo sente, lo
comprende, e quindi il dialogo sul progetto è conseguentemente più
intenso e produttivo. Nel giardino pubblico è tutto più complicato
perché non è possibile definirlo come spazio per la coltivazione
personale ma, ad esempio per lo sport: deve comprendere aree per
varie attività, spazi dove appoggiare le biciclette, etc. Quelli
pubblici sono in genere spazi così completi che l’idea, il
fondamento del giardino si ferma, si blocca. Attualmente sto facendo
con Renzo Piano un giardino pubblico a Santander. Ma per arrivare ad
avere un equilibrio e non perdere il ‘senso di ‘giardino’, per
arrivare cioè a sollecitare l’anima delle persone che lo vivranno,
ci sono molte più difficoltà nell’ambito pubblico. Dove c’è
contatto con la natura invece, dove si pensa di poter andare in un
giardino solo per godere del giardino gustando il silenzio, la luce,
il canto degli uccelli, allora diventa possibile per me pensare e
progettare un giardino. Con gli enti pubblici si creano spesso
parchi, aree verdi, ma non giardini, che sono fondamentalmente spazi
di luce, di meditazione, di tranquillità per lo spirito. Il giardino
è uno spazio dove l’uomo può ritirarsi e rigenerarsi. Siamo
persi, non si coltiva il silenzio e la solitudine, che è
fondamentale per lo spirito umano e che il giardino da sempre ha
fornito. Io insisto su questi temi ma l’interesse politico
pubblico è diverso da quello del giardiniere. In genere non riesco
ad avvicinare questo fatto di anima, meditazione, armonia, alla
finalità politica delle amministrazioni pubbliche.
D:
Come
ti rapporti al problema
della manutenzione dei giardini?
R:
Il giardino deve essere sostenibile, sennò muore in poco tempo. Il
giardino è un’utopia, è rendere reale l’irreale, l’ideale, è
leggere l’idea che lo spirito del luogo ispira al giardiniere e
tradurla in geometria.
C’è
chi oggi nel giardino ricerca l’Arcadia, chi ricerca un ideale, un
paesaggio utopico. Io faccio semplicemente giardini che siano piccoli
specchi che permettano il contatto con il paesaggio e riflettano il
cielo, usando l’arte per fare riscoprire la natura e il paesaggio
all’uomo, ricordandomi sempre che il codice del luogo dove
impiantiamo un giardino non abita sulla terra ma in cielo. Occorre
quindi guardare in alto ancora prima di tracciare qualsiasi segno, di
prendere qualsiasi decisione di progetto. Penso poi sempre a come il
giardino sarà dopo tre anni circa, vedendo le piante nel loro pieno
sviluppo e sempre connettendomi alle specie autoctone, nella precisa
conoscenza del loro percorso di esistenza naturale, del loro arco
temporale specifico.
D:
A
quali nuovi progetti stai
lavorando in questo momento? C’è qualche caratteristica che li
riguarda e che puoi raccontarci?
R:
Un progetto in particolare che mi ha coinvolto a lungo è un’isola
abbandonata nel Maine, negli Stati Uniti: per cinquant’anni
quest’isola è stata completamente disabitata, con la vegetazione
locale che piano piano ne ha ricolonizzato l’intera superficie. La
natura si è nel tempo riappropriata di questo luogo davvero
eccezionale, poetico: uno spazio chiuso eppure arioso e aperto alla
mancanza di limite dell’orizzonte attorno, circondato com’è
dall’oceano. Ebbene, proprio qui l’intervento - particolarmente
coinvolgente e che ha richiesto un tempo lungo di progettazione - è
stato il più leggero, il più semplice, essenziale, minimale. Si è
trattato solo di alleggerire la compattezza del bosco di conifere,
così netto nella scura densità del suo colore, diradando e
allargando gli spazi e contemporaneamente creando coni percettivi
verso l’esterno, verso la distesa dell’oceano, e introdurre
poche, davvero poche variazioni specifiche. Un intervento quindi in
punta di piedi per amplificare il valore del luogo e rendere l’idea
di un isolamento connesso e proiettato all’infinito. L’isola era
già in sé un luogo straordinario, era già un giardino, con nel
sottobosco la sorpresa di un ulteriore, sorprendentemente integro
giardino di muschio, inalterato, intatto. Un contesto molto naturale
dove era sufficiente aprire qualche spiraglio alla luce e alla vista
per permettere a chi lo attraversa di spaziare oltre il confine del
bosco, verso il limite dell’orizzonte, per potere percepire e
godere la distesa dell’oceano da dentro il bosco. Ricordo che
quando vi sono entrato per la prima volta ho avuto una sensazione
intensissima, è stato un momento molto emozionante, e mi sono
ritrovato proiettato nella scena della caccia notturna nel bosco di
Paolo Uccello (Paolo Uccello, Caccia, 1470 ndr), con questa
dimensione frammentata eppure unitaria dello spazio, scandito, in una
geometria dettata dalle leggi naturali, dalla statica verticalità
dei tronchi degli alberi che interfacciano l’azione dinamica della
caccia confinata nell’atmosfera chiusa, misteriosa, buia, segreta
del bosco. Una sensazione intensa, a tratti inquietante, quasi
hitchcockiana, davvero indimenticabile!
15
Paolo Uccello, Caccia, 1470, Oxford, Ashmolean Museum
Altri
lavori poi riguardano un progetto per privati a Montalcino, ormai
quasi terminato, e a Lugano, e poi in Grecia, dove sono coinvolto in
un intervento su un’antica struttura, un villaggio abitato da 300
persone dove le case sono affiancate da antichi orti e giardini, ora
in maggior parte abbandonati. La sfida è quella di ricostruirli
ricollegando architettura, giardino e paesaggio, legando inoltre
insieme gli spazi privati e pubblici che formano nel complesso
l’identità di questo insediamento. E’ stata a questo proposito
istituita una fondazione a fondi perduti per lanciare l’idea,
sostenerla economicamente e permettere di ritrovare questa
connessione fra abitato, orti-giardini e campagna circostante. Tutte
le persone che vi abitano si sono ritrovate in sinergica
collaborazione a questa ricostruzione, riconnettendosi nuovamente con
la natura circostante e invertendo, letteralmente, il processo di
abbandono e il conseguente degrado che caratterizzano tanti tasselli
dei nostri paesaggi.
Fernando
Caruncho in un breve profilo biografico:
Fernando
Caruncho, laureato
in filosofia nel 1975 alla Universidad Autónoma de Madrid, scopre
molto presto la propria passione per il mondo dei giardini. Inizia la
sua carriera nel 1978 studiando Landscape Design presso la Castillo
de Batres School ed integrando da quel momento i propri studi
filosofici e letterari con l'attività progettuale di paesaggista.
Nel
1979 apre il proprio studio professionale, Fernando Caruncho &
Associates, intraprendendo una fortunata intensa carriera che propone
il proprio stile dapprima soprattutto in Spagna, poi nel resto
d'Europa, in particolare in Francia, e in seguito negli Stati Uniti,
in Giappone, in Africa, in Italia. Nei suoi numerosi progetti, oltre
150 attualmente, traspare evidente la sua doppia identità di
filosofo e giardiniere, così come emergono le numerose influenze e
suggestioni di filosofia greca e romana, degli studi formali sui
giardini storici spagnoli, soprattutto moreschi, e sull'arte italiana
del Rinascimento.
Oltre
ai già noti progetti in patria di Mas
Floris,
Masos de Pals, Ollauri
Garden,
La
Roja Rosales Garden,
La Florida, Madrid, Caruncho
Garden,
Madrid, Pazo
Pegullal,
Salceda de Caselas, Bilbao, Postigo
Garden,
Madrid, il Giardino
dell'Università di Deusto,
Bilbao, e il famoso Mas
de les Voltes
nel Castel de Ampurdán, i più recenti sono il Real
Jardín Botànico
di Madrid, l'Ambasciata
Spagnola a
Tokyo, il Thorntorn's
Garden
ad Austin, Texas, il Nordberg
Garden
a New York, il Flynn
Garden
in Florida. E ancora La
Faisanterie
a Biarritz, il Palm
Golf Resort
di Marrakech, l'Hauraki
Gulf Garden,
Kohimarama Beach in
Nuova Zelanda, il Baldesberger
Garden
di Lugano, L’Amastuola
in Puglia,
l’Isola
Bella nel
Maine, USA, la Casa
del Agua
in Grecia e più recentemente i Jardines
de Pereda
presso la Fundación Botín a Santander.
Molti
dei progetti di Fernando Caruncho sono stati pubblicati in note
riviste nazionali e internazionali, non solo di architettura
del paesaggio -
fra le quali Architectural Digest, AD, Elle Décor, Elle Decoration,
House & Garden, Cittadina di campagna, Vogue Decoration, Voga,
New York Times, New York Times Magazine, T Magazine, la rivista The
New York Times, Hortus, Architektur & Wohnen, Ville &
Giardini, Gardenia, Côté sud, The Financial Times, The Herald
Tribune, The Telegraph Magazine, Country House Rusia, Côté Sud,
Country Life - ed in varie opere edite - Gardens
for the Future, Gestures Against the Wild
di Guy Cooper y Gordon Taylor: The
Garden Book,
Editorial Phaidon; Radical
Landscapes
di Jane Amidon, Editorial Thames & Hudson; Around
the World in 80 garden di
Monty Don, Editorial Weidenfeld & Nicolson; Paradise
Transformed,
Ed. The
Monacelli Press; Gärten des Orients. Paradiese auf Erden,
Ed. Dumont; The
Story of Gardening,
Ed. DK;
Gardens
by the Sea,
Ed. Thames & Hudson; Jardins
de la méditerranée,
Ed. Blume; Mediterrane Gärten,
Ed. Dumont Monte; Jardines
Secretos de España, Ed. Blume; The
New Garden Paradise,
Ed. Thames & Hudson - fra le quali è Mirrors
of Paradise.
The
Gardens of Fernando Caruncho,
a cura di Guy Cooper e Gordon Taylor, The Monacelli Press, New York,
2000, che a detta dello stesso Caruncho maggiormente riflette
l'essenza del suo lavoro. E’ ora in preparazione un’ulteriore
raccolta completa dei suoi ultimi progetti. Dal 25 ottobre 2014
Fernando Caruncho è Accademico Ordinario della Classe di
Architettura presso l’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze.
E’ inoltre membro del Cirlulo Fortuny, ECCIA (European Cultural and
Creative Industries Alliance).
Filosofo
e al tempo stesso giardiniere nell'accezione più ampia di
costruttore di giardino e di paesaggio, Fernando Caruncho non ama
essere definito paesaggista. Disegnare il paesaggio infatti equivale
per lui alla creazione artistica nella ricerca dell'ordine profondo
sotteso in natura, cogliendo nel cuore e rielaborando con la mente
impressioni di sospensione e paziente attesa filtrati dalla personale
sensibilità in un procedere profondamente emotivo che tuttavia si
avvale nella traduzione di progetto degli strumenti della
razionalità.
Al
di là della finalità estetica, la modalità creativa progettuale di
Fernando Caruncho si propone come ricerca di quella purezza e
semplicità insita nello stesso ordinamento naturale delle cose, e
come coniugazione, in quell'opera eccelsa della cultura che è il
giardino, espressione creativa dell’azione antropica che si sposa
la realtà naturale locale. E se spazio e tempo sono due parametri
importanti del suo lavoro, la geometria, strumento di trasposizione
di ogni idealità nei morfemi del giardino nonché trama strutturale
e dispositivo di controllo del progetto, è per Caruncho il mezzo per
tradurveli formalmente. Non a caso uno dei temi ricorrenti nei suoi
giardini è la griglia, reinterpretata nel motivo di ampie superfici
quadrangolari o di successioni di pergole, aiuole, ampi spazi
geometrici perimetrati da altifusti. Magistrale anche l'uso del
colore, che sposa l'arancio intenso con gli ocra e il verde delle
foglie declinato in innumerevoli sfumature, tessiture, volumetrie e
modalità di interazione con la luce.
I
giardini di Fernando Caruncho sono spettacolari opere contemporanee,
di grande originalità e forza espressiva, e, nella mediazione
teoretica fra matematica, geometria e filosofia, traducono
nell'attualità la concezione epicurea della conoscenza attraverso il
giardino. Attingono la propria identità dalle radici moresche
andaluse e dagli insegnamenti umanistici e rinascimentali legati
all’arte e al giardino, traendo specifica ispirazione formale
dall'estetica austera del paesaggio iberico, con le sue intense
variazioni di luce ed ombra e le declinazioni luminose moltiplicate
nella più variegata intensità dalla riflessione negli specchi
d'acqua e dalle plurime suggestioni del Rinascimento italiano. Si
animano di armonica emotività e rigore nel sempre ricercato rapporto
con il paesaggio circostante e, permeati di sentimento e suggestione,
ruotano attorno alla quarta dimensione, il tempo, percepito nel
declinare delle stagioni, nella dimensione domestica dei fruitori che
percorrendolo, ammirandolo, in esso si muovono, agiscono, vivono e
faticano, nella quotidiana produzione e manutenzione.
Si
ispirano fortemente ai caratteri della mediterraneità, nella scelta
delle specie botaniche: l'olivo, preferibilmente in esemplari
centenari, il cipresso, l'oleandro, l'escallonia, il bosso, il lauro,
la magnolia, accanto a buganvilleas e gelsomini impiegati in
soluzioni che uniscono armonicamente tradizione e innovazione.
Innovativa è anche la scelta di affiancare piante ornamentali a
alimentari o selvatiche, mescolando compositivamente ciò che fino a
poco fa veniva mantenuto separato nella modalità produttiva,
ottenendo soluzioni di rara suggestione scenografica.
Inventare,
fantasticare, proporre un modo diverso di guardare lo spazio nella
reinterpretazione di innumerevoli spunti non sottrae tuttavia
all’approfondita riflessione preliminare per operare la
congiunzione dell’unicum – giardino e luce - alla
stratificazione del paesaggio circostante e a quella della storia,
della cultura, della poesia, dell’arte, della letteratura,
integrate, su passato e memoria, nelle linee del giardino
contemporaneo. Solo da questo processo di lettura, nel tempo dilatato
del silenzio e della meditazione, la memoria passata, filtrata dalla
personale sensibilità del giardiniere, genera il giardino integrato
al luogo, consapevole connessione, per chiunque vi cammini, con il
racconto della natura e della propria interiorità.
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La
bibliografia è consultabile online presso:
http://web.fernandocaruncho.com/en/publications
SITOGRAFIA
http://web.fernandocaruncho.com/en
Riferimenti
iconografici:
Foto
1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 Claudia Maria Bucelli
Foto
11, 12 da Arnoud Bijl, Birgit Boelens, Hermitage,
Amsterdam: Spanish masters from the Hermitage: the world of El Greco,
Ribera, Zurbarán, Velázquez, Murillo & Goya,
Amsterdam – Hermitage,
2015
Foto
13 Massimo
Grassi – per gentile concessione di Fernando Caruncho
Foto
14 Pere
Planells – per gentile concessione di Fernando Caruncho
Foto
15 da Wikipedia