“M’è
venuto voglia estrema, sentendo, vedendo, et leggendo di tante Ville,
di farmi mezzo poeta, villaio intero; […] Così ho composto cinque
libri di Ville, i quali stampati si vedranno. […] Io pongo hora qui
le mie Ville distinte, non in quel modo ch’io l’ho lette in
leggende; ma come l’ho studiate sul libro da Dio composto, scritto
per mano della natura”.
Con
queste parole lo scrittore Anton Francesco Doni introduce il suo
libro sulle Ville.
Ciò che mi ha indotto ad occuparmi del testo delle Ville
è stata la particolarità dell’argomento e l’ambiguità di un
personaggio come il Doni, il quale nella sua opera è stato in grado
di unire sia il mondo delle lettere, con il quale era in contatto,
sia il mondo delle arti. Con questo termine intendo non solo l’arte
in senso stretto, con il quale si include pittura, scultura e
architettura, ma anche la musica e il teatro e quindi il mondo delle
arti visive e figurative.
Particolarmente
rilevante è il manoscritto di Doni delle
Ville
o Cinque
Ville,
in quanto permette un excursus
completo sulla sua ampia rete di conoscenze, sia di ambito personale
in riferimento alle varie dediche presenti nei codici manoscritti,
sia di ambito artistico per la descrizione di pitture, sculture,
apparati figurativi e ornamentali, i quali dovevano essere presenti
nelle varie ville da lui descritte.
Il
riferimento al mondo artistico è una costante e rivela una personale
propensione alle rappresentazioni allegoriche di difficile
decifrazione iconografica, dimostrando la cultura erudita dello
scrittore.
Anton
Francesco Doni, letterato, teorico, utopista e tragediografo può
essere considerata una delle personalità di spicco del manierismo
italiano. In relazione alla varietà dei suoi interessi non si può
parlare di un percorso lineare compiuto dal Doni, in quanto si è
occupato di vari aspetti riguardanti il panorama sociale, politico,
culturale e artistico a lui contemporaneo. A contatto con i maggiori
esponenti del mondo artistico, tra cui lo scultore Baccio
Bandinelli,
di cui fu ospite negli anni trenta del Cinquecento, dimostra uno
straordinario interesse per il mondo delle arti visive, oggetto di un
cospicuo numero di scritti. Ognuna delle sue opere è caratterizzata
da una scrittura piuttosto originale e artificiosa, che colloca Doni
quasi in contrasto con gli stereotipi della cultura del suo tempo e
con questo si può fare riferimento alla sua passione per l’arte di
Tintoretto, Tiziano, Michelangelo e Bandinelli. Ovviamente ciò
presuppone una consolidata conoscenza della differenza che
caratterizza l’arte dei quattro grandi maestri e il loro modo di
operare. Michelangelo, sostenitore del disegno, padre di tutte le
arti e base dell’Idea artistica, così come Bandinelli, da Doni
definito un eccelso disegnatore, mentre Tiziano maestro del colorito
e uno dei principali esponenti della scuola veneta, al pari di
Tintoretto, considerato uno dei punti di arrivo della grande arte
veneziana.
In
relazione alla mole della sua opera, Doni dimostra di essere uno
scrittore prolifico, attivo soprattutto negli anni ’50 del XVI
secolo e sebbene in alcuni casi si possa parlare di plagio da altri
autori, il suo interesse per la teoria dell’arte, oggetto di
dibattito tra gli studiosi a lui contemporanei, lo porta alla stesura
di celebri trattati, tra cui “I
Marmi”,
”Il
Disegno”,
”Le
Pitture”
e “Le
Ville”.
Ho
ritenuto più interessante concentrarmi sullo studio delle
Ville
doniane, in quanto dalla pubblicazione di Ugo Bellocchi pochi sono
stati gli studi relativi al testo e questo mi ha portato ad
un’analisi critica sia del manoscritto, sia del contesto
storico-artistico coevo. Infatti, dallo studio delle Ville
sono
giunta ad istituire dei nessi con il panorama artistico contemporaneo
a Doni, cercando sempre di dimostrare il suo completo inserimento
nell’èlite
culturale del tempo.
Le
Ville della campagna fiorentina
“Di
fuori presso alle mura della città sono bellissime abitazioni di
cittadini con ornati giardini di meravigliosa bellezza e il contado
pieno di palazzi e nobili abitazioni”.
Così Gregorio Dati nella sua Istoria
di Firenze
descrive il fenomeno che sta interessando il territorio campestre
fiorentino e a mio avviso, le sue parole sono particolarmente
significative, perché ben illustrano la portata di quello che si
rivelerà essere un totale cambiamento nelle consuetudini della vita
quotidiana.
Le
ville della campagna fiorentina sono formate da complessi rurali
commissionati dai vari esponenti della famiglia De’ Medici,
già
da tempo intenti in investimenti fondiari, in maniera tale da
aumentare il numero dei loro possedimenti. Sebbene numerose siano le
ville che i Medici si sono fatti costruire, a partire dalla Villa di
Cafaggiolo (fig. 1) e quella del Trebbio (fig. 2), ai fini dello
studio ivi condotto ritengo di rilevante importanza un
approfondimento di quei complessi architettonici presenti nel ducato
fiorentino che sono stati commissionati, costruiti o ampliati durante
gli anni di pubblicazione del testo doniano e quindi coevi alle
Ville.
Una
personalità coeva a Doni, che descrive come la campagna fiorentina
sia caratterizzata dalla presenza di queste nobili dimore è Ludovico
Ariosto, il quale esprime in versi la grande ammirazione per questo
tipo di residenze:
“A
veder pien di tante ville i colli
Par
che il terren ve le germogli.
Se
[…] fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,
non
ti sarian da pareggiar due Rome”.
L’attenzione,
sia dei trattattisti che degli architetti, alla realizzazione dei
vari complessi architettonici, designa un processo di sviluppo
edilizio e di affermazione della villa suburbana come luogo
ricreativo. La villa rappresenta il luogo ideale per istituire dei
paralleli con la tradizione antica e ricreare lo stile di vita
classico, attraverso un riferimento costante ai passatempi delle
grandi civiltà classiche. Molto probabilmente, l’entusiasmo nei
confronti di un passato glorioso dimostrato dalla classe
aristocratica è dato dalla volontà di far rivivere la civiltà
antica e i topoi
che maggiormente l’hanno caratterizzata. Il principale referente è
la concezione classica di otium
delle antiche ville romane, ripreso dalla letteratura classica e che
trova un’applicazione da un punto di vista tipologico e
strutturale.
Tra
le dimore con le quali è possibile istituire dei confronti con
l’opera di Doni, vi sono la Villa medicea di Pratolino, oggi nota
come Villa Demidoff (1568), la Villa di Lappeggi (1569), l’Ambrogiana
(1574) e la Màgia (1583).
La
particolarità delle ville medicee menzionate è la loro
raffigurazione pittorica nelle famose lunette di Giusto Utens, che
permettono un approfondimento della struttura architettonica e del
contesto circostante data la precisione del rilievo architettonico e
delle vedute a volo d’uccello, costituendo una fondamentale fonte
documentaria iconografica , ma anche artistica e architettonica.
La
condivisione del medesimo arco cronologico determina degli ipotetici
nessi, sia da un punto di vista architettonico, sia facendo
riferimento agli apparati figurativi e decorativi presenti
all’interno delle dimore. Inoltre, se si fa riferimento alla
pubblicazione del manoscritto reggiano del 1565 si comprendono le
infinite possibilità offerte da uno studio relativo alle Ville
medicee di questo periodo. Una prima caratteristica che emerge da un
confronto delle Ville
di Doni con l’intensa fase di costruzione, è l’accostamento
della residenza del signore con un contesto naturalistico
scenografico, sintomo del gusto manierista, che mira a stupire e
meravigliare il visitatore tramite fontane o grotte ad incrostazione
e spettacolari giochi d’acqua. La diffusione di questo tipo di
decorazione, specialmente nell’Italia centrale, è data
dall’abbondanza dei materiali fossili, la cui “natura di pietra”
permette le più disparate varianti per la realizzazione di grotte e
fontane rustiche. Oltre l’uso di conchiglie e molluschi, vi è
l’utilizzo di cozze, ostriche e telline, che permettono la
realizzazione di mascheroni grotteschi e un tipo di ornamentazione
detta “a rose”.
Le
ville, oggetto del presente studio, costituiscono una fonte di
primaria importanza per un’analisi sia del mecenatismo mediceo e di
autocelebrazione del potere politico, sia della vasta opera di
investimento e rilevamento fondiario, iniziata sotto Cosimo I e
proseguita con Francesco I e Ferdinando I. Essi sono i principali
propulsori di un processo di sistematica conversione di aree urbane
in rurali, iniziato nel Trecento e giunto all’apice nel
Cinquecento.
Una
testimonianza sulla massiccia edificazione in corso dal XII secolo
fino al pieno XVI secolo è quella di Giovanni Villani, che scrive su
quella che considera una moda, in quanto “non v’era cittadino che
non avesse edificato o che non edificasse in contado grande e ricca
possessione, e abitura molto ricca. […] E sì magnifica cosa era a
vedere”.
A mio parere, l’affermazione del cronista trecentesco attesta di
una vera e propria “mania” che i fiorentini, ed in particolar
modo i Medici avevano per le ville, che diventano sia luoghi
emblematici di raffinatezza e cultura erudita - grazie ai passatempi
letterari e filosofici - sia tenute agricole e quindi fonte di
sostentamento.
Il
processo di privatizzazione di alcune aree può essere considerato
come l’adozione di una precisa strategia politica che, attraverso
la gestione privata del territorio, mira ad un programma
autocelebrativo in cui il mito di hortus
conclus
viene accostato al concetto di sovranità totale sul territorio. La
renovatio
urbis
dei Medici determina un legame tra il giardino e la politica
granducale. Infatti, l’hortus
è concepito come uno spazio deputato al doctum
otium umanistico,
quindi alla contemplazione filosofica e alle pratiche
collezionistiche, ma diventa anche il luogo privilegiato di accordi
politici e quindi deputato al negotium.
L’unione di otium
e negotium
determina la creazione di straordinari scenari naturalistici e
artificiosi, il cui insieme viene considerato una rappresentazione
autocelebrativa della dinastia medicea e del Granducato fiorentino,
impegnato in controversie politiche, ma senza mai trascurare l’arte
e la cultura, usate spesso come mezzi di propaganda politica.
Francesco
I fa costruire la villa di Pratolino e acquista La Màgia e Lappeggi,
mentre Ferdinando amplia l’Ambrogiana.
Esse costituiscono parte di un programma politico che mira alla
trasformazione di tenute agricole in ville suburbane, sintomo della
potenza granducale e simbolo di un nuovo modo di organizzare il
territorio tramite scenari e invenzioni iconografiche sempre più
grandiose ed effimere. Esse possono essere ritenute
un’esemplificazione visiva di una nuova età dell’oro, data
dall’unione tra politica, arti e passioni personali quindi, tra
ubicazione strategica, architettura e caccia.
La
Villa di Pratolino
La
villa di Pratolino, voluta da Francesco I e progettata da Bernando
Buontalenti nel 1568, si trova a nord di Firenze e domina la vista
panoramica su Fiesole(fig.
3). Gli anni del cantiere di fabbrica furono particolarmente
intensi, a seguito della particolarità del progetto architettonico
che richiedeva un oneroso impegno finanziario. Il Granduca aveva
richiesto la realizzazione di un parco, che si qualificasse
architettonicamente come un “giardino dei sensi”, assecondando la
moda manierista e stravagante del tempo, già protesa verso un gusto
bizzarro e tipicamente Barocco. La realizzazione dell’intero
complesso, viene considerata come una riaffermazione del primato
dell’arte fiorentina, secondo la logica dell’invenzione concepita
come convivenza di arte e scienza, infatti “Francesco I, alle porte
della città erge una specie di esposizione permanente della tecnica,
una fiera delle meraviglie”.
Il
parco è considerato come un museo-officina sperimentale o una
trasposizione esterna del personale Studiolo del Granduca, al cui
interno convivono naturalia
e artificialia,
due delle categorie sotto le quali rientravano le passioni di
Francesco I. Il parco, oggetto di poemi encomiastici, viene subito
considerato una delle principali meraviglie della residenza, in cui:
“L’Arte
e la Natura
Insieme
a gara ogni sua grazia porge
E
fra quelle si scorge
La
grandezza del animo, e la cura
[…]
E
fa splender più chiaro ogn’ hor d’ intorno
Di
nuove meraviglie il soggiorno”.
Una
testimonianza poetica sulla fortuna del parco è quella di Francesco
de Vieri, filosofo e intellettuale estremamente colto, presente anche
nelle illustrazioni dell’Attavanta
delle Ville,
il quale considera la residenza fiorentina come una manifestazione
competitiva degli architetti moderni che confrontano le proprie
capacità con gli antichi, in quanto “le opere stupende dell’arte
più ingegnosa degli antichi artefici con quelle dei presenti che in
esso Pratolino si contengono con grande meraviglia e stupore”.
La
costruzione si presenta con un corpo di fabbrica centrale,
caratterizzato dalla presenza di un sistema simmetrico di scale che
permettevano di entrare negli ambienti interni della villa. Queste,
dalle dimensioni ampie, sembrano riprendere quelle ideali descritte
da Doni, che si rifà a quelle della Libreria di San Lorenzo a
Firenze.
Inoltre,
dalla terrazza della Villa si poteva godere della vista del parco
sottostante, caratterizzato da grotte, fontane, sculture e statue
realizzate da Giambologna, Ammannati e Buontalenti. Infatti, essendo
la Villa a muro pieno, essa è costituita da una serie di grotte
artificiali, connotate da artificiosi giochi d’acqua, i cui
meccanismi suscitavano meraviglia ed estasi. I giochi d’acqua
creati dalle fontane caratterizzano la villa iconograficamente,
determinando un’esaltazione dell’elemento acquatico in senso
simbolico. La fortuna di Pratolino è data dal predominio
dell’artificio umano sulla natura e dalla combinazione di fontibus
e xystum,
quindi acqua e viali alberati, che determina la realizzazione di un
complesso architettonico e naturalistico idoneo per il ristoro
dell’animo e la contemplazione filosofica.
La
supremazia dell’ingegno umano è ben testimoniata da un
componimento encomiastico di Giovanni Rosini, che nel 1834 scrive
“per mezzo di macchinette […] l’acqua scaturendo con impeto, e
rempiendone i vuoti, veniva a formare, […] le più curiose e le più
mirabili cose. Il Buontalenti […] avea superato se stesso. Era in
quella rappresentato il passaggio degli uomini dalla barbarie alla
civiltà”.
Le parole di Rosini sono particolarmente significative, in quanto
testimoniano la meraviglia e lo stupore suscitatogli dalla visione di
opere considerate “miracolose e di stupendo artificio”.
L’importanza
delle grotte presenti a Pratolino è data dalla preziosità dei
materiali di costruzione che connotano la decorazione interna come
allegorie di una Wunderkammern
de aquatilibus.
Nella residenza la realizzazione di grotte e fontane, con materiali
facilmente reperibili, ma estremamente preziosi, ha determinato
un’accentuazione del binomio naturalia
e artificialia,
a favore di una considerazione della villa di Pratolino come
“giardino delle meraviglie”.
Quelle maggiormente degne di nota sono l’Appennino
di
Giambologna scolpito nel 1580, al quale venne aggiunto il Drago
di Foggini, la cappella esagona del Buontalenti, la Fontana
del Mugnone e
la Grotta
di Cupido.
A
mio parere, la statua di Giambologna (fig. 4) può essere considerata
una delle meraviglie sia della storia dell’arte del Cinquecento che
di Pratolino. La scultura è stata oggetto di interesse sia da parte
dei contemporanei che degli antichi visitatori, estasiati di fronte
alla visione di un così “maraviglioso colosso[…] in atto di
sedere […]; composto di pietre e, spugne”.
L’interesse
di Francesco I per la realizzazione del complesso e il posizionamento
delle statue, fontane e sculture è di tipo decorativo, ma
soprattutto egli mirava a stabilire dei nessi con gli antichi Déi e
gli uomini del passato visti come exempla
virtutis.
In quest’ottica risulta ben comprensibile l’affermazione di De
Vieri, secondo cui l’Appennino ricorda “la gran superbia degli
antichi giganti; che tentarono mettendo monte sopra monte di prendere
il cielo; i quali furono fulminati da Giove”.
Inoltre,
una fonte iconografica da tenere in considerazione sono alcuni
disegni di Giovanni Guerra( fig 5 – 6 ), che illustrano i mirabili
giochi d’acqua realizzati dalle fontane e dalle grotte presenti. La
loro realizzazione costituisce una testimonianza visiva di quel
legame che Francesco I mirava a stabilire con la mitologia, che
rivive nelle parole del Verino. La descrizione della Fontana della
Fama “la cui statua stando dritta con una tromba menando l’ali
terribilmente suona”
e del Dio Pan “mirabilissimo, perché non solamente e’ si muove
rizzandosi e riponendosi a sedere, ma ancora perché suona il suo
strumento musico e muove gli occhi e tutto il capo”costituiscono
delle ekphrasis
che
nobilitano l’ingegno umano, artefice della spettacolarizzazione di
Pratolino.
La
loro importanza è data da una enfatizzazione sia del ruolo
dell’acqua, che viene mitizzata, sia del ruolo stesso della Villa,
le cui opere sono “piacevolissime a riguardare per la loro bellezza
e diversità, sono per l’importanti verità il viver bene di gran
pregio e per l’occulte e ingegnose e stupende”.
A
mio avviso, la loro presenza concorre a rendere Pratolino uno
scenario ideale direttamente legato alla mitologia a seguito della
presenza del Mugnone
(fig.
7), divinità fluviale che accentua l’importanza dell’elemento
acquatico. Gli apparati scultorei presenti all’esterno
caratterizzano la villa in opera d’arte e di architettura, la cui
unione la connota come natura
artificialis.
Una
testimonianza iconografica delle grotte è costituita dalla lunetta
di Giusto Utens, il quale dipinge dall’alto la villa e il parco
circostante, soffermandosi su dettagli artistici e architettonici,
che possono sfuggire ai più. Dalla veduta prospettica del pittore
emerge una suddivisione simmetrica del parco, bipartito in Parco
Nuovo e Parco Vecchio.
Questa ripartizione ritorna anche in Anton Francesco Doni, il quale
afferma la necessità affinchè “il giardino o horto, […] ha da
esser diviso in duo parte, […] con belle vie larghe tirate a filo
compartitamente. Alcune siano benissimo lastricate, […] et altre
stiano nette del continuo e rase”.
Inoltre, il Parco Vecchio era dominato dalla presenza della scultura
Giove di Baccio Bandinelli (fig. 8), connotata dai suoi attributi,
l’aquila e il fulmine. La presenza di questa scultura determina
un’ulteriore sottolineatura della bipartizione del parco, che si
trovava sotto il segno della terra nella parte vecchia e quindi del
logos,
e dell’acqua nella parte nuova connotata da grotte e ninfei,
dedicati a Venere.
Dalla
lettura del testo e dalla visione della lunetta dipinta emerge una
corrispondenza testuale e iconografica e dalla veduta prospettica a
volo d’uccello si può godere in maniera individuale di una
percezione visiva ammirabile solo dall’alto.
Purtroppo,
la villa è andata distrutta ed è possibile immaginare la Pratolino
di Francesco I, nota come “teatro di delizie, di magnificenza e di
comodi”,
solo tramite raffigurazioni artistiche e descrizioni testuali, che
costituiscono delle ekphrasis
pittoriche.
Infatti, la fortuna di Pratolino e il fascino che suscitava rivive
nei componimenti poetici del tempo, che descrivono la Villa come “un
luogo nel quale sono boschi, piante domestiche con arte disposte a
statue di uomini rari per virtù e di Dii de’ gentili”.
La
Villa è da sempre stata considerata uno straordinario complesso
architettonico e scenografico, per la cui realizzazione sono
intervenuti i più eccelsi maestri d’arte che sono stati in gradi
di esplicitare in forma visiva la volontà del Granduca “amante
dell’alchimia e delle arti meccaniche, e soprattutto,
dell’architettura”.
Il
complesso riunisce i vari interessi di Francesco I, interessato alle
scienze, alla botanica e alla tecnica, ma anche alle arti figurative,
sebbene possa essere considerato come un esempio architettonico e
artistico della volontà di isolamento del Granduca, dedito ai suoi
personali esperimenti nei propri laboratori scientifici.
La
costruzione, dopo essere passata di proprietà ai Lorena, inizia un
periodo di lungo degrado e viene spogliata degli arredi, solo nella
metà dell’Ottocento fu trasformata in una residenza principesca,
abitata dai Demidoff fino al Novecento ed infatti, oggi è nota come
Villa Demidoff.
La
Villa di Lappeggi
Lappeggi
(fig. 9) - “luogo del Serenissimo Gran Duca nell’Antella, intorno
al quale rigira il prato ed ha la medesima larghezza, et fuori del
palazzo, non molto lontano sono stalle e tinaie grandissime”-
è uno dei luoghi che meglio simboleggiano lo splendore della
dinastia medicea.
La
villa, a sud di Firenze, fu acquistata da Francesco I nel 1569 dai
Ricasoli per 13.000 fiorini d’oro e fu oggetto di lavori di
abbellimento condotti sotto la diretta supervisione di Bernando
Buontalenti. La durata dei lavori, di ben 47 mesi, determina la
trasformazione di un complesso fondiario in luogo di svago e di
villeggiatura.
Inoltre,
durante la fase di trasformazione del complesso, furono realizzate
stalle, granai e stanze per la servitù, la cui realizzazione può
essere considerata il sintomo di un processo edilizio diffusosi dal
Veneto in Toscana.
Lo
stesso Doni ne parla nella descrizione della Villa
Civile,
soprattutto in relazione alla presenza di “una fabrica rozza,
lavorata alla rustica ma bella, con quella proportione, et comodo che
sia alla famiglia servitrice […]. In questa ci si faranno le
stalle, […] le colombaie, i pollai, forni”.
La descrizione degli ambienti destinati alla servitù permette sia di
delineare la diffusione di un nuovo di tipo di sviluppo edilizio, sia
di dimostrare come lo scrittore sia ben informato sulle diverse
realtà locali, non dimenticando i suoi contatti con il Veneto.
Infatti, molto probabilmente non è da escludere una diretta
influenza di questo processo durante il soggiorno veneto dell’autore,
precedente la stesura delle Ville.
Inoltre,
il riferimento alla presenza di ambienti di servizio, costituisce un
nesso con le Ville
doniane, in cui si sostiene la loro necessaria presenza per il
benessere personale del signore.
Una
testimonianza sulla planimetria e la realizzazione di spazi deputati
alla servitù è data da Giorgio Vasari il Giovane, che scrive
“Appeggio, luogo del Serenissimo Gran Duca nell’Antella, intorno
al quale rigira il prato ed ha la medesimo larghezza, et fuori del
palazzo, non molto lontano sono stalle e tinaie grandissime”.
Questa tipologia è riscontrabile nelle ville venete del tempo,
rispetto quelle tosco-fiorentine, che si rifanno principalmente al
modello della basis
villae
romana.
Inoltre,
Lappeggi può essere paragonata al Podere
di Spasso
di Doni in riferimento alla sua destinazione d’uso e
all’architettura generale del complesso.
Il
collegamento con il Podere
di Spasso,
è dato da “una corte chiusa con le mura attorno, d’un ampia e
ben composta entrata: nella quale sieno da duo parte gli orticini
alti […] pieni di melaranci, cedri fiori, et erbette odorifere,
fragole o altro […]. Due loggette al piano […] nel mezzo delle
quali sia l’entrata del casamento […] che nello entrare abbia
bella et honorata apparenza”.
L’edificio,
dipinto da Utens, si presenta come una corta chiusa con le mura
intorno - la facciata caratterizzata da due ordini di logge e il
giardino - assumendo i connotati di una tenuta agricola.
Dopo
essere stata utilizzata come luogo di villeggiatura e ricreazione da
Ferdinando I, la villa passa agli Orsini di Pitigliano, ma nel 1640
ritorna di proprietà dei Medici, raggiungendo il massimo splendore
con Cosimo III.
Solo
dopo la sua morte la dimora viene abbandonata e battuta all’asta.
La
Villa La Màgia
La
villa La Màgia è una residenza di campagna ubicata nei pressi di
Quarrata e acquistata nel 1585 da Francesco I dai Panciatichi,
tramite il suo segretario personale, Pietro Conti, che tratta con i
creditori di Niccolò Panciatichi(fig.
10).
Sebbene
la dimora si trovi isolata rispetto il centro urbano, essa si trova
in una posizione di strategica importanza, in quanto è in un punto
ideale per il controllo della viabilità tra Pistoia e Firenze.
Inoltre,
l’acquisto della residenza si può considerare come la volontà di
aggiungere ai propri possedimenti un ulteriore podere, in maniera
tale da estendere l’area di influenza medicea. Infatti, “la
tendenza conscia od inconscia ad una riconferma delle origini e della
provenienza del ceppo familiare, […] si dissolve ormai
nell’identificazione delle fortune del ceppo familiare mediceo con
quelle dell’intera Firenze. Di qui un programma di investimenti che
si estende sull’intero contado fiorentino, disponendosi a corona
intorno alla città e allargandosi a comprendere l’intera fascia
tra Firenze e Pistoia”.
La
denominazione “Màgia” è stata oggetto di studio da parte degli
studiosi, i quali hanno portato avanti diverse ipotesi relative al
particolare toponimo con il quale la residenza è nota da sempre.
Secondo Silvio Peri, la denominazione deriva dal prototipo di
“Magio”, che molto probabilmente era da riferirsi ai proprietari
precedenti i Panciatichi, i Magi. Un’ipotesi molto più accreditata
è quella di Emanuele Peretti, che risale fino ai primi anni del
Duecento per dimostrare come la denominazione derivi dal nome di un
casato pistoiese. Infatti, un riscontro reale delle supposizioni di
Peretti si ha nel Liber
finium
del 1255, in cui sono delineati i confini dei comuni pistoiesi.
La
dimora viene trasformata dal Buontalenti in una vera e propria tenuta
agricola. La villa era precedentemente utilizzata come fortilizio dai
proprietari originari che la usarono per sfuggire ai Cancellieri di
Pistoia.
L’architetto,
impegnato nella realizzazione delle diverse residenze medicee,
dimostra una straordinaria capacità di soddisfare e assecondare le
esigenze della famiglia granducale, che si vi si affida completamente
per far ispezionare, fortificare e fornire disegni e pareri su opere
di ingegneria idraulica, edilizia civile e militare. Infatti,
numerose sono le testimonianze che documentano l’eccezionalità
dell’intervento buontalentiano, che “passo in tanta stima che fu
capo di tutte le fabbriche così civili come militari”
e ancora “essendo egli stato sempre in carica per lo serenissimo
Granduca di soprintendente delle fabbriche civili e militari”.
La
nuova residenza medicea assume i connotati di una residenza agricola,
grazie ai lavori dell’architetto che si occupa della sistemazione
del parco. Esso risulta essere interamente coltivato e si presume che
fosse usato sia come terreno agricolo che da caccia, a seguito della
passione che aveva il Granduca per tale attività, così come per la
pesca. La pratica di attività ludiche da condurre nella villa è più
volte sottolineata da Doni, che le considera “il nerbo della
necessità di nostra vita”.
Un nesso con le Ville
di Doni si può istituire facendo riferimento al Podere
di Spasso,
luogo deputato alla caccia, alla pesca e adatto al signore che
necessita di allontanarsi dalla frenesia del volgo.
Una
testimonianza iconografica che rende visibile la tenuta al tempo di
Francesco I è la lunetta di Giusto Utens, il quale si sofferma sulla
resa pittorica del territorio circostante e della villa. Dal dipinto
del fiammingo si nota la ricerca di un assetto unitario da dare alla
costruzione, la quale però risulta essere piuttosto irregolare,
essendo di epoca medievale.
Il terreno dipinto da Utens permette di ricollegarsi al Podere
di Spasso
e fornisce una testimonianza visiva della descrizione testuale di
Doni, che si sofferma sulla varie coltivazioni del podere. Le diverse
coltivazioni agricole determinano la necessaria realizzazione di “una
cucina delle più forbite che habbia quel paese. […] Con pozzi, et
quante comodità fanno bisogno”.
La
specificazione di un ambiente esclusivamente dedicato ai cibi è data
dal fatto che il Podere
di Spasso
ideale è pensato come luogo di ristoro, per allontanarsi dalla
frenesia quotidiana della città. A mio avviso, la Màgia è il tipo
di dimora reale che può essere confrontata con quella ideale di Doni
proprio per la perfetta corrispondenza sulla destinazione d’uso.
Inoltre,
la presenza di un lago sia nella proprietà medicea, sia in quella
ideale descritta da Doni, diviene parte integrante della tenuta e
costituisce un ulteriore collegamento con l’opera doniana. Infatti,
“per ultimo diletto tiene il gentiluomo una barchetta da scorrere
in mezzo a i laghetti […] et per potere tal volta sopra l’acqua
cenare”.
Le
notizie sulla presenza di un lago nella residenza, provengono dal
provveditore Benedetto Uguccioni, il quale informa il Granduca che
“da maestro Bernardo Buontalenti Architetto di V.A.S et maestro
Davitte Fortini chapo maestro di questo ufficio mi fu detto che la
A.V.S. haveva comandato che si provvedessi a tutte le appartenenze
per fare muraglia per il lago da farsi cinchuvicino alla Magia”.
Inoltre,
gli studi condotti hanno dimostrato come l’assetto planivolumetrico
della residenza, coincidente con quello attuale, fosse caratterizzato
dalla presenza di un porticato ad L, successivamente rimaneggiato a
seguito dell’esigenza di realizzare nuovi ambienti.
La totale assenza di giardini, artisticamente intesi, può essere
considerata un’anomalia, in quanto essi erano parte integrante
della tipologia ideale di villa, contribuendo ad un’organizzazione
visiva del paesaggio circostante.
Inoltre,
un’altra fonte figurativa e iconografica è fornita da Giorgio
Vasari il Giovane, che realizza una serie di piante rappresentanti le
dimore medicee e vi include la planimetria della residenze pistoiese,
in maniera tale da dimostrare quale assetto essa aveva al tempo in
cui era di proprietà della famiglia granducale.
A
mio parere, la villa si può considerare come una fondamentale
testimonianza architettonica dell’estensione dei possedimenti
terrieri e agricoli, ma anche dell’aumentato potere politico del
Granducato, a seguito della vicinanza con Poggio a Caiano.
La
residenza, dopo la morte di Francesco I passa a Ferdinando I, il
quale dopo aver abbandonato la porpora cardinalizia prende le redini
del Granducato e assegna la Villa al figlio di Francesco I e Bianca
Cappello, Don Antonio De Medici.
In seguito, la residenza viene venduta da Ferdinando II a Pandolfo
Attavanti nel 1645, rimanendo di proprietà privata fino ad oggi.
La
Villa dell’Ambrogiana
L’Ambrogiana
è una tenuta che viene trasformata in villa da Ferdinando I, dopo
essere stata acquistata nel 1587
(fig. 11). Questa costruzione, così come la Màgia, viene utilizzata
come tenuta da caccia e ciò è testimoniato dal segretario
granducale, che afferma “in Toscana comprò e fabricò l’Ambrogiana
solo per comodità della caccia, con molte comodità”.
La
villa, al pari delle altre, viene progettata da Buontalenti, il quale
ingloba la precedente struttura e giunge alla definizione di un
assetto architettonico piuttosto complesso a seguito anche della
presenza di un fiume. Esso è un elemento naturalistico di primaria
importanza, che connota il giardino della villa attraverso l’unione
dell’elemento acquatico con quello terreno. La presenza di un corso
d’acqua è fondamentale per la realizzazione di un “mirabil sito”
e determina un collegamento con il Podere
di Spasso
di Doni quando descrive una tenuta nei pressi del fiume Marzinigo.
L’Ambrogiana
è caratterizzata dalla presenza di uno scenografico giardino, grotte
e giochi d’acqua, dimostrando una maggiore connotazione artistica
rispetto La Màgia, soprattutto in relazione della presenza del
gruppo scultoreo di Ercole e Anteo dell’Ammannati.
La
presenza di grotte, fontane e di diversi gruppi scultorei concorre ad
abbellire artisticamente ed esteticamente l’edificio, che almeno in
questo punto può essere paragonato alla Villa
Civile
doniana, in quanto lo scrittore nella descrizione della residenza
ideale si sofferma sulla delineazione dei diversi apparati decorativi
esterni, quali una “artificiosa montagnetta, […] un laberinto
bello, et in mezzo un chiara fontana”, formata da canali che “hanno
da cadere per via di doccioni ben contesti, sotto la rozza montagna
[…] fatta con gran maestria, fabricata di pietre rozze tutte
bizzarre, et stravaganti”.
Il
dipinto di Giusto Utens costituisce una testimonianza iconografica e
visiva della fase di ultimazione dei lavori, presentando l’assetto
originario complessivo che è stato poi rimaneggiato. L’edificio,
infatti, è una costruzione piuttosto regolare circondata sul lato
sinistro dal giardino, caratterizzato da decorazioni arboree.
L’acquisto
della villa era dovuto al fatto che essa era stata pensato come luogo
di sosta, in quanto si trovava a metà strada da Pisa e soprattutto
come luogo di ristoro e di caccia. Quest’ultima destinazione d’uso
risponde perfettamente ai canoni del Podere
di Spasso
doniano, in quanto “queste son ville da gentiluomini, et da
letterati, perché affistidito uno da travagli della repubblica,
cerca qualche spasso di mente”.
Inoltre,
l’Ambrogiana fu una delle dimore preferite da Cosimo III, il quale
vi raccolse numerose collezioni pittoriche, botaniche e
naturalistiche. Infatti, fece costruire una loggia per ospitare il
Gabinetto di Storia naturale, in maniera tale da permettere a
Francesco Redi, medico e naturalista, di lavorare in ossequio al
nuovo culto dello sperimentalismo galileano.
Quando
la tenuta passa di proprietà ai Lorena viene quasi completamente
abbandonata e Leopoldo II la fa trasformare nell’Ottocento in una
casa di cura per malattie mentali.
A
mio avviso, le lunette di Giusto Utens costituiscono una
testimonianza artistica sulla fortuna politica della famiglia Medici,
che attraverso l’unione della componente architettonica, politica e
personale giunge alla realizzazione di complessi, dove “quanto sarà
beatissimo lo starsi in villa: felicità non conosciuta”.
Le
parole di Leon Battista Alberti, sono particolarmente significative
ed eloquenti, in quanto esplicitano il rinnovato interesse per la
realizzazione di complessi architettonici in cui l’uomo può
dedicarsi a tutte quelle attività ricreative per il corpo e lo
spirito. Infatti, lo stesso Doni nelle Ville
compie un vero e proprio elogio della vita in villa, criticando
coloro che cadono nell’otium
negativo.
In
conclusione, ritengo l’opera di Doni centrale per il dibattito
storico-artistico dell’epoca, sia in relazione alla nascente
letteratura artistica, sia in merito alle varie sperimentazioni
architettoniche.
Lo
scrittore richiamandosi alla tradizione classica di Orazio per quanto
riguarda il concetto di ut
pictura poesis,
a lui estremamente caro, e alla tradizione degli
scriptores de re rustica romani dimostra
una completa familiarità con il mondo legato alla pratica artistica.
Infatti, il panorama delle arti figurative del tempo, in un momento
di intenso fervore, permette agli artisti e agli scrittori di
partecipare e di contribuire sia con opere d’arte figurativa, sia
letteraria, consentendo loro di richiamarsi al mondo classico.
Sebbene sempre celata da reconditi simbolismi, la passione per
l’antico di Doni può essere considerata una particolare chiave
interpretativa di quella renovatio
umanistica della cultura classica, vista come exempla
virtutis.
A
mio parere, le Ville
sono un testo di fondamentale rilevanza per l’epoca, sia per il
riferimento alla tradizione trattatistica romana di Catone, Varrone,
Rutilio e Columella, sia quella rinascimentale di Leon Battista
Alberti, dimostrando come nel Cinquecento ormai si è giunti ad
un’evoluzione della concezione classica di otium
e di come Doni non contempli l’unione otium-negotium,
concependo la villa come luogo puramente ristorativo. L’idea di un
luogo concepito puramente per il puro piacere è ben delineata da
Doni, soprattutto in relazione all’opposizione di una dimora
modesta, in quanto la villa viene vista come corrispettivo
architettonico visivo del potere del signore e per questo lo
splendore delle sue forme architettoniche deve essere un riflesso del
potere del signore.
Inoltre,
considero la divisione delle varie tipologie ideali o reali di Ville,
fondamentale ai fini della ricerca condotta in quanto ciò mi ha
permesso di giungere ad una maggiore comprensione del personaggio e
di quanto egli fosse inserito nelle maggiori cerchie culturali di
èlite.
Infatti, le
Ville
permettono al lettore di comprendere bene le frequentazioni di Doni,
che fanno riferimento a personaggi di alta caratura sociale, ma anche
ad artisti da lui consigliati per la realizzazione dei vari tipi di
ville, la cui divisione strutturale dimostra l’esistenza di una
gerarchia sociale in relazione alle dimore da lui descritte.
La
stesura di un testo riguardante le tipologie ideali di Ville, ha
trovato un riscontro nella pratica artistica e in particolar modo
nell’architettura del tempo. Molteplici sono stati i legami e i
nessi che ho tentato di istituire, dimostrando sempre come la figura
di Anton Francesco Doni, membro di diverse Accademie del tempo, fosse
tenuta in grande considerazione e non escludo, la possibilità che i
vari architetti, ingegneri e artisti abbiano fatto riferimento a lui
nella costruzione delle diverse dimore signorili.
Ritengo
che i nessi derivanti dalle Ville
doniane,
possono essere considerati un segnale del rapporto, caro a Doni, tra
il loci
e
la imagines,
in virtù dei legami sempre presenti, tra la parola poetica e
l’immagine artistica che si riscontrano nelle sue opere. Questo
concetto, derivante dal ben noto motto oraziano, può essere qui
tradotto come ut
aedificandi poesis,
in relazione al principale punto di partenza testuale, dal quale poi
derivano una serie di costruzioni della mirabile bellezza, che
rispettano i canoni architettonici dell’epoca.
Nonostante
la figura di Doni sia stata, il più delle volte, oscurata da quella
dei grandi nomi della letteratura, dell’arte e della tipografia, lo
ritengo un personaggio centrale dell’epoca, la cui subordinazione a
tali personalità ha determinato una sorta di oscurantismo, che però
sta venendo meno grazie ai recenti studi sulla sua persona. Infine,
credo che la ricerca condotta e lo studio del manoscritto abbiano
fatto luce sulla sua personalità, sul ruolo svolto in ambito
artistico e letterario, in relazione alla nascente letteratura
artistica e sui suoi molteplici contatti con due delle città
considerate centrali per il mondo dell’arte, Firenze e Venezia.
NOTE