Beni comuni
Salvatore Settis
nasce a Rosarno (RC) l’11 giugno 1941. Dopo aver frequentato il corso di laurea
in Archeologia classica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa consegue la
laurea nel 1963. I suoi interessi di studio riguardano la storia dell’arte
antica, la storia della tradizione classica e la storia dell’iconografia e
dell’arte religiosa europea, dal Medioevo al Seicento. Il forte interesse di
Settis riguardo al tema del bene comune si evince dalle sue dichiarazioni e dai
suoi libri come Azione popolare.
Cittadini per il bene comune in cui il professore fornisce una
differenziazione tra il concetto di bene comune e quello di beni comuni:
Al singolare, il “bene comune” è un
principio immateriale che appartiene all’universo dei valori e include i diritti
fondamentali: salute, lavoro, istruzione, eguaglianza, libertà. Al plurale, i
“beni comuni” possono essere cose tangibili (come l’aria, l’acqua, la terra; ma
anche proprietà immobiliari), delle quali la generalità dei cittadini o una
specifica comunità può rivendicare la proprietà o l’uso.[1]
Il dibattito
riguardo ai beni comuni si è acceso in seguito all’assegnazione nel 2009 del
premio Nobel per l’economia ad Elinor Ostrom, «for her analysis of economic governance, especially the commons»[2]. La studiosa statunitense
sviluppa le sue ricerche a partire dagli studi dell’economista e sociologo Mancur
Olson, dell’ecologo Garret Hardin e dalle riflessioni su
come alcune comunità sovraintendono ai beni comuni lavorando su gestione
condivisa dalla collettività, manutenzione e riproduzione dei beni escludendo
chi non rispetta le regole dai vantaggi che ne derivano. Pubblicando nel 1990, per
Cambridge University Press, il volume
Governing the Commons: The Evolution of
Institutions for Collective Action la Ostrom, insieme a Charlotte Hess,
direttrice della Biblioteca Digitale dei Commons dell’Indiana University,
tratta di come le strutture di diverse comunità abbiano:
un rapporto privilegiato e necessario con
un determinato bacino di risorse condivise (common
pool resource): aree di pesca ad Alanya (Turchia), a Mawelle (Sri Lanka) e
sulla costa della Nuova Scotia (Canada), aree a pascolo presso Törbel (Vallese)
e altrove in Svizzera, boschi e terre di Yamanaka e altri villaggi del
Giappone, canali e acque d’irrigazione a Valencia e in altri luoghi della
Spagna, ma anche nelle Filippine.[5]
Per la studiosa
statunitense identificare a tutti i costi una proposta di “strategie comuni
nella gestione dei commons” impedisce
di incaricare le autorità di realizzare un regolamento per le risorse. Secondo
la Ostrom la soluzione è invece:
una teoria, su base empirica, di forma di
azione collettiva (collective action)
fondate sull’auto-organizzazione e l’auto-governo.[6]
Charlotte Hess ed
Elinor Ostrom nel loro studio La
conoscenza come bene comune indicano con beni comuni, oppure commons:
un termine generico che si riferisce a una
risorsa condivisa da un gruppo di persone. In un bene comune, la risorsa può
essere piccola e servire un gruppo ristretto (il frigorifero di famiglia), può
prestarsi all’utilizzo di una comunità (i marciapiedi, i parchi giochi, le
biblioteche ecc.), oppure può estendersi a livello internazionale o globale (i
fondali marini, l’atmosfera, Internet e la conoscenza scientifica). I beni
comuni possono essere ben delimitati (come nel caso di un parco pubblico o di
una biblioteca), possono attraversare confini e frontiere (il fiume Danubio,
gli animali che migrano, Internet), oppure possono essere privi di confini
delimitati (la conoscenza, lo strato di ozono).[7]
Inoltre, le due
studiose ci dicono come chi si è occupato di beni comuni li differenzia in
“bene comune come risorsa” e in “bene comune come regime di diritti di
proprietà”:
i sistemi di risorse condivise - chiamate
“risorse comuni” (common-pool resources)
- sono tipi di beni economici, indipendenti da diritti di proprietà particolari.
La “proprietà comune” (common property),
d’altro canto, è un regime giuridico: un insieme di diritti legali il cui
possesso è condiviso.[8]
Anche in Italia il
dibattito riguardo ai beni comuni si è aperto a seguito dell’assegnazione del
premio Nobel per l’economia ad Elinor Ostrom: esempio lampante sono le opposte
posizioni del giurista Ugo Mattei, strenuo sostenitore del benicomunismo, e del filosofo Ermanno
Vitale. Mattei individua nelle enclosures
inglesi il punto di partenza per l’alleanza tra le istituzioni dello Stato e la
proprietà privata che ha polverizzato i beni comuni, mettendoli ai margini. Il
giurista sottolinea come a seguito della battaglia di Hastings[10],
tenutasi nel 1066, Guglielmo il Conquistatore[11]
riuscì a centralizzare il potere dello Stato con una struttura amministrativa
gerarchica. Il filosofo, opponendosi alla visione del giurista, il quale
sostiene la necessità della gestione in comune dei beni essenziali della
collettività, sottolinea come l’economista
Cristiano Andrea Ristuccia[12] nel suo saggio introduttivo
a Governare i beni collettivi di
Elinor Ostrom, “paladina” dei benecomunisti, scrive che in realtà, solitamente,
i beni comuni erano riservati a pochi:
il bene comune
in molti casi non era poi tanto comune in quanto i diritti consuetudinari di
sfruttamento del bene (specialmente quelli più importanti dal punto di vista
economico) costituivano appannaggio di una ristretta cerchia di privilegiati,
tipicamente proprietari terrieri abbienti. Ad esempio, Shaw-Taylor dimostra
come solo un quindici per cento dei lavoratori agricoli dei dieci villaggi in
quattro contee del sud dell’Inghilterra da lui studiati avesse diritto di
pascolo (il più importante dei commons
rights in termini di sussistenza) sui commons
degli insediamenti. Di per sé questo escludeva dal godimento del più importante
dei diritti sul bene comune almeno la metà della popolazione (quella meno abbiente).
[…] Insomma, qui siamo in presenza di studi che non solo rigettano le vecchie
tesi di proletarizzazione del contado a opera delle enclosures (come suggerisce Shaw-Taylor, il carattere largamente
proletario dei contadini inglesi, dipendente dalla monetizzazione del proprio
lavoro, era largamente affermato ben prima delle Parliamentary Enclosures), ma anche confermano dei principi
dell’analisi ostromiana: quello di una chiara e definita delimitazione della
comunità degli aventi diritto.[13]
Quindi sembra che i benecomunisti abbiano addolcito l’immagine di un
Europa medievale nella quale, come scrive Giovanna Ricoveri[14]:
il principe
riconosceva ai contadini senza terra il diritto di raccolta sulle sue terre o
il diritto a coltivare un campo di sua proprietà, per permettere ai contadini
di sopravvivere. In questo quadro istituzionale e sociale, i beni comuni erano
la forma prevalente di organizzazione sociale e produttiva per la massa della
popolazione.[15]
Ugo Mattei nelle sue tesi non sembra convincere neanche Settis il quale
sostiene che:
se vogliamo
affrontare efficacemente un tema tanto importante, e se vogliamo farlo oggi e
non in un futuro indeterminato, è indispensabile muovere dal forte continuum che corre, pur nella reciproca
diversità, fra i “beni comuni” e i “beni pubblici”
della classificazione Rodotà.
Gli uni e gli altri rimandano a nozioni giuridiche di antica e solida memoria
civile, ancora presenti nel nostro ordinamento: i primi, alle forme di
proprietà collettiva che abbiamo convenzionalmente etichettato come “usi
civici”; i secondi, al demanio e al patrimonio pubblico. Nella proposta Rodotà
mutano i nomi e si chiariscono i perimetri, si arricchisce e muta aspetto la
categoria dei “beni comuni”, ma i “beni ad appartenenza pubblica necessaria” e
quelli “sociali” restano di pertinenza dello Stato e delle sue articolazioni.
Se vogliamo
produrre proposte immediatamente operativa, è questo il punto di partenza
necessario, che dev’essere illuminato e interpretato alla luce della
Costituzione. Se, al contrario, volessimo rinviare il nuovo assetto dei beni
comuni a una fase storica in cui nuovissime e imprecisate «strutture di governo
partecipato e democratico», diverse da quelle oggi operanti, sostituiscano lo
Stato nelle sue funzioni (ivi incluse la giurisdizione della rappresentanza
politica, la regolazione del lavoro e della rendita fondiaria, l’università e
la scuola…), finiremmo col concedere molto tempo, anzi troppo, a chi intanto
ogni giorno d’industria a saccheggiare per proprio vantaggio tutte le possibili
tipologie di beni comuni.[17]
Paesaggio
Il paesaggio ha la
caratteristica di essere stato modellato dalla costante presenza dell’uomo e
rispecchia quello raccontato da pittori e poeti: in Italia si è affinato quindi
un senso estetico che collega le opere d’arte alla natura basandosi sulla
categoria della veduta[18]
che ben si assimila sia ad un quadro che ad un panorama e che sintetizza al
meglio la cultura e la natura. Tutto ciò è molto ben espresso nel Viaggio in Italia, effettuato tra il
1786 e il 1788 ma pubblicato nel 1816 grazie alle sue lettere e ai suoi diari,
di Johann Wolfgang von Goethe che scriveva:
Salito a Spoleto, mi sono recato
sull’acquedotto che fa anche da ponte tra una montagna e l’altra. Le dieci
arcate che scavalcano la valle se ne stanno tranquille nei loro mattoni
secolari, e continuano a portar acqua corrente da un capo all’altro di Spoleto.
Per la terza volta vedo un’opera costruita dagli antichi, e l’effetto di
grandiosità è sempre lo stesso. Una seconda natura, intesa alla pubblica
utilità: questa fu per loro l’architettura, e in tal guisa ci si presentano
l’anfiteatro, il tempio e l’acquedotto.[19]
Goethe già
sul finire del XVIII secolo, visitando il nostro Paese, osservava quanto il
rapporto tra uomo e natura fosse profondo, tanto che il poeta tedesco ha sottolineato
come le opere costruite dagli antichi fossero maestose e utili per la società
come se fossero alla stregua di una seconda natura.
Il tema ambientale
si impone, in Italia, quando con la legge 310 del 1964 viene istituita la Commissione d’indagine per la tutela e la
valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio
nota come Commissione Franceschini, dal nome del suo presidente Francesco
Franceschini[20].
Negli atti, resi noti nel 1967, i beni culturali ambientali erano una categoria
autonoma e venivano definiti come:
Si considerano beni culturali ambientali
le zone corografiche costituenti paesaggi, naturali o trasformati dall’opera
dell’uomo, e le zone delimitabili costituenti strutture insediative, urbane e
non urbane, che, presentando particolare pregio per i loro valori di civiltà,
devono essere conservate al godimento della collettività. Sono specificamente
considerati beni ambientali i beni che presentino singolarità geologica,
floro-faunistica, ecologica, di cultura agraria, di infrastrutturazione del
territorio, e quelle strutture insediative, anche minori o isolate, che siano
integrate con l’ambiente naturale in modo da formare un’unità rappresentativa.
Le zone dichiarate bene ambientale possono comprendere anche cose costituenti
individualmente beni di interesse storico o artistico o archeologico; in tal
caso la legge dovrà prevedere che in sede di Conferenza dei Soprintendenti si
adottino misure ed eventuali deleghe di competenza in funzione di
coordinamento, da rendere pubbliche anche per norma degli interessati.
Nella Relazione
Franceschini il concetto di ambiente andava a completare quello di paesaggio
già presente nell’articolo 9 della Costituzione. Il concetto di ambiente come
bene da difendere viene attribuito alla salvaguardia di suolo, acqua, aria e
biosfera. Contemporaneamente, in tutto il mondo comincia ad affacciarsi la
cultura ambientalista con la fondazione di diverse associazioni, tra cui:
-
UNESCO,
la cui Costituzione venne firmata il 16 novembre 1945, entrando in vigore il 4
novembre 1946[21],
mentre la Commissione Nazionale Italiana viene istituita nel 1950[22];
-
Movimento
per la Protezione della Natura (1948, Italia);
-
The Nature
Conservancy nasce nel 1915 chiamandosi The Ecological
Society of America, prende il suo attuale nome nel 1950[23];
-
WWF,
viene fondato nel 1961 in Svizzera[24];
-
FAI,
il cui atto costitutivo e lo statuto vennero firmati il 28 aprile 1975[25].
Antesignano del Fondo Ambiente Italiano è il britannico National Trust fondato nel 1895[26];
-
Getty
Conservation Institute[27].
Inoltre, il
Consiglio d’Europa designò il 1970 come “anno della conservazione della natura”
e l’Onu nel 1972 promuove la Dichiarazione
di Stoccolma sull’ambiente.
In quegli anni
anche in Italia vi furono delle proposte per designare il tema dell’ecologia e
dell’ambiente: spicca la Prima relazione
sulla situazione ambientale del Paese[28]
realizzata dalla Tecneco, azienda, fondata nel 1971 da Eni[29],
che si occupa di filtri aria, filtri olio, filtri carburante e filtri
abitacolo, con il patrocinio del Presidente del Consiglio[30] e
sotto la guida del ministero per la Ricerca Scientifica[31].
In precedenza, ho
affermato che l’articolo 9 della nostra Costituzione introduce il concetto di
ambiente. Tale articolo infatti recita:
La Repubblica promuove lo sviluppo della
cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio
storico e artistico della Nazione.
Come scrive Settis
in Costituzione! Perché attuarla è meglio
che cambiarla, questo articolo ha tre caratteristiche fondamentali[32]:
- La
concatenazione tra sviluppo della cultura, ricerca e tutela. Il Presidente
Carlo Azeglio Ciampi[33],
in un discorso tenuto presso il Palazzo del Quirinale il 5 maggio 2003, lo
definì l’articolo più originale
della costituzione e aggiunse che:
Offre un’indicazione importante sulla
missione della nostra patria, su un modo di essere e di pensare al quale
vogliamo e dobbiamo essere fedeli; […] la stessa connessione tra i due commi
dell’articolo 9 è un tratto peculiare: sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio,
formano un tutto inscindibile. Anche la tutela dunque deve essere concepita non
in senso di passiva protezione, ma in senso attivo, e cioè in funzione della
cultura dei cittadini: deve rendere il nostro patrimonio fruibile a tutti.[34]
2
Il
legame tra la tutela del paesaggio e quella del patrimonio storico e artistico.
Già il 21 agosto 1745 il vicerè Bartolomeo Corsi firmò un Ordine del Real
Patrimonio di Sicilia che esigeva la conservazione delle antichità di Taormina
e i boschi intorno il Monte Etna. Da
questo modello discende il Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004,
che ha il suo antecedente nelle leggi Bottai[35],
approvate nel giugno 1939[36].
3
La
corrispondenza tra il principio giuridico di paesaggio e quello di ambiente.
Nella Carta Costituzionale non si trova traccia della parola «ambientale», ma
la Corte Costituzionale ha affermato che:
la tutela dell’ambiente è valore
costituzionale primario e assoluto, in quanto espressione dell’interesse dei
cittadini
ciò è dato dalla convergenza
dell’articolo 9 con un altro articolo della Costituzione, il 32, che al primo
comma recita:
La Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e
garantisce cure gratuite agli indigenti.
Secondo
questa idea di ambiente il danno ambientale, ossia l’inquinamento, viene
equiparato al danno paesaggistico, quindi la cementificazione: quindi diventa
essenziale proteggere i suoli agricoli[37].
Cosa possiamo fare noi?
Come dobbiamo muoverci
noi cittadini per evitare che l’abbandono del bene comune vada a danneggiare
l’ambiente che ci circonda? Settis ci mostra tre soluzioni per ovviare al
degrado dei beni comuni[38]:
1.
Conoscere
la Costituzione che i cittadini devono usare per difendere i propri diritti,
perché è proprio nella Costituzione che vediamo difesa la nostra memoria e le
basi per il nostro futuro.
2.
Il
buon funzionamento e l’incorruttibilità delle istituzioni. Perché il sempre più
presente malfunzionamento delle istituzioni è dovuto ad un cosciente
impoverimento degli organismi predisposti alla tutela.
3.
L’azione popolare: i cittadini davanti al
deterioramento del paesaggio devono farsi parte in causa. Sia la Convenzione
sull’accesso alle informazioni, la partecipazione dei cittadini e l’accesso
alla giustizia in materia ambientale firmata ad Aarhus,
in Danimarca, nel 1998 ed entrata in vigore nel 2001, che le direttive europee,
di tema ambientale, 2003/4 e 2003/35, recepite in Italia rispettivamente nel
2005 e nel 2008, esortano l’azione
popolare che è comunque prevista dalle leggi italiane[39].
Esempio è la legge 241 del 1990 che all’articolo 9 recita:
Qualunque soggetto, portatore di interessi
pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni
o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà
di intervenire nel procedimento (Legge 7 agosto 1990, n. 241).
Queste tre strade
proposte da Salvatore Settis sono fondamentali per cercare di risolvere il
problema ma, a mio avviso, oltre a sperare che le istituzioni siano incorrotte
e funzionino correttamente, il popolo deve essere cosciente di ciò che c’è
scritto sulla Costituzione e di cosa possono realmente fare, esercitando la propria
cittadinanza, tramite l’azione popolare davanti la distruzione del paesaggio.
Con “azione
popolare” si intende l’adesione dei cittadini ad associazioni, come il WWF, Italia Nostra[41]
e Legambiente[42],
che si occupano di ambiente e beni comuni a livello nazionale. L’”azione
popolare” non va confusa con la “cittadinanza attiva” che invece prevede l’insieme di forme di auto-organizzazione
che comportano l’esercizio di poteri e responsabilità nell’ambito delle
politiche pubbliche[43].
Charlotte Hess ed
Elinor Ostrom riguardo a quella che loro definiscono azione collettiva affermano che:
i beni comuni prodotti collettivamente
richiedono una forte azione collettiva e solidi meccanismi di autogoverno,
oltre a un livello elevato di capitale sociale da parte dei protagonisti
dell’iniziativa.[44]
La partecipazione
della collettività alla vita amministrativa del Paese è sancita dal terzo comma
dell’articolo 118 della Costituzione che recita:
Stato, Regioni, Città metropolitane,
Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del
principio di sussidiarietà.
Per definirsi
queste associazioni usano il termine società
civile che spesso sta ad indicare personalità come banchieri ed
imprenditori che per salvaguardare i propri interessi, e di pochi altri,
“scendono in politica” perché ritengono la classe politica inadeguata. Come
dice Settis nel già citato Azione
popolare. Cittadini per il bene comune sentiamo la necessità di una società
civile che:
opera mossa non da interessi di parte ma
per il bene comune. Che antepone la democrazia e la libertà dei cittadini al
profitto della finanza e di imprese parassitarie incapaci di civiltà,
distruttrici di socialità. Che con lungimiranza bifronte costituisce il futuro
in nome di valori che vengono (anche) dal passato. Che si riconosce nella
Costituzione, nella legalità e nello Stato, e perciò chiede alla politica di
ripudiare l’usuale “normativa sulle apparenze”, tutta imperniata sulle parole e
sugli effetti-annuncio, e di governare il cuore dei problemi, il destino degli
uomini e delle cose.[45]
A partire dagli
anni 2000 l’azione popolare diventa,
prendendo ad esempio gli Stati Uniti, class
action. Oltreoceano c’è una normativa a proposito sin dal 1912, in cui si
specifica che:
la class
action si fonda sull’iniziativa individuale o collettiva di soggetti che
ritengono di aver subito un danno; gli effetti del giudizio riguardano anche le
persone che, avendo subito lo stesso danno, appartengono allo stesso gruppo (class), a meno che non vi rinuncino
espressamente (opt-out).[46]
Nel nostro Paese
la class action viene istituita con
il decreto legislativo 198 del 20 dicembre 2009 che al primo comma recita:
Al fine di ripristinare il corretto
svolgimento della funzione o la corretta erogazione di
un servizio, i
titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed
omogenei per una pluralità di
utenti e consumatori possono
agire in giudizio, con le modalità stabilite nel presente decreto, nei
confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi
pubblici, se derivi una
lesione diretta, concreta ed
attuale dei propri interessi, dalla violazione di termini o dalla
mancata emanazione di
atti amministrativi generali obbligatori e non aventi
contenuto normativo da
emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una
legge o da un regolamento, dalla violazione degli obblighi
contenuti nelle carte di servizi
ovvero dalla violazione di standard
qualitativi ed economici
stabiliti, per i concessionari di servizi
pubblici, dalle autorità preposte
alla regolazione ed al controllo
del settore e, per
le pubbliche amministrazioni, definiti
dalle stesse in conformità alle disposizioni in materia
di performance contenute nel decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, coerentemente con le linee guida
definite dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità
delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 13 del medesimo decreto e
secondo le scadenze temporali definite dal decreto legislativo 27 ottobre 2009,
n. 150.
Il primo successo
della class action in Italia è la
sentenza 3512 emanata nel 2011 dal Consiglio di Stato a favore dell’istanza del
Codacons contro le cosiddette “aule-pollaio” determinate da un decreto
dell’allora ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini[47].
L’azione popolare non va considerata come
l’unico rimedio a tutti i mali ma, per dirla con le parole di Salvatore Settis:
come una fase intermedia, necessaria perché i cittadini facciano sentire la
propria voce, perché esercitino una forte influenza sulle organizzazioni
politiche e le istituzioni di governo, spingendole a cambiare radicalmente la
rotta. Per ricreare la cultura che muove le norme, ripristina la legalità, si
fonda sulla sovranità, fa perno sull’interesse collettivo e sulla progettazione
del futuro, l’idea di bene comune e quella di azione popolare sono due facce
della stessa medaglia. Azione popolare
è diritto e dovere di resistenza collettiva al degrado delle città e delle
campagne, alla razzia del paesaggio, all’esilio della cultura e del lavoro,
alla spoliazione dei diritti; è promuovere singole azioni di contrasto agli
atti dei poteri pubblici che vadano contro il pubblico interesse, ma anche
metterle in rete fra loro; è costruire una larga base d’informazione, di
analisi, di consapevolezza. Vuol dire far esplodere le contraddizioni
insanabili fra il dettato costituzionale e le leggi che lo ignorano e lo
aggirano, tra le norme di garanzia e le deroghe e i condoni che le annientano.
Vuol dire riconquistare, in prima persona, un pieno diritto di cittadinanza, in
nome della sovranità popolare, della moralità e della legalità costituzionale.
Vuol dire esercitare con responsabilità e nella sua massima estensione il potere negativo dei cittadini, e farlo
sia in presenza di norme esplicite
sia quando esse appaiono carenti.[48]
Per concludere sul
tema dell’azione popolare vorrei citare nuovamente le parole Settis,
pronunciate in occasione di un corso promosso da Giulia Maria Mozzoni Crespi,
presidente onorario del FAI, presso la tenuta di Zelata dell’azienda agricola
Cascine Orsine, riguardo temi di consapevolezza
spirituale verso il mondo sociale e agricolo[49]:
Si suol dire che «La bellezza salverà il
mondo». È una citazione dall’Idiota
di Dostoevskij. Sono parole che Dostoevskij mette in bocca al principe Myškin,
il protagonista del romanzo, e che in Italia si citano ormai spessissimo. Nel
libro, le parole del principe Myškin, ripetutamente deriso per averle dette,
hanno un contenuto intensamente mistico, sul quale oggi non vorrei insistere.
Mi preme piuttosto dire che troppo spesso sento usare questa frase come un
mantra consolatorio (e liberatorio), ma invariabilmente fuori contesto. Io
vorrei piuttosto dire che la bellezza non
salverà il mondo se noi non salviamo la bellezza.[50]
Patrimonio in vendita?
Questa domanda
sorge in seguito al decreto legge n.63 sulle Disposizioni finanziarie e fiscali
urgenti in materia di riscossione, razionalizzazione del sistema di formazione
del costo dei prodotti farmaceutici, adempimenti ed adeguamenti comunitari,
cartolarizzazioni, valorizzazione del patrimonio e finanziamento delle
infrastrutture, il cosiddetto decreto Tremonti[51] del
15 aprile 2002, diventato legge il 15 giugno dello stesso anno. All’articolo 7
si occupa della Patrimonio dello Stato S.p.a., una vera e propria società per
azioni che si occupa di realizzare attività di interesse pubblico[52]:
1. Per la valorizzazione, gestione ed
alienazione del patrimonio dello Stato è istituita una società per azioni, che
assume la denominazione di “Patrimonio dello Stato S.p.a.”.
2. Il capitale sociale è stabilito in
1.000.000 euro.
3. Le azioni sono attribuite al Ministero
dell’economia e delle finanze. Il Ministero può trasferire a titolo gratuito la
totalità delle azioni, o parte di esse, esclusivamente alla Cassa depositi e
prestiti, alla società di cui all’articolo 8, a società da queste controllate,
ovvero ad altre società di cui il Ministero comunque detenga, direttamente o
indirettamente, l’intero capitale sociale.
4. La società opera secondo gli indirizzi
strategici stabiliti dal Ministero.
5. L’approvazione dello statuto e la
nomina dei componenti degli organi sociali previsti dallo statuto stesso sono
effettuati dalla prima assemblea, che il Ministro dell’economia e delle finanze
convoca entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del presente
provvedimento.
6. Il rapporto di lavoro del personale
dipendente della società è disciplinato dalle norme di diritto privato e dalla
contrattazione collettiva.
7. La pubblicazione del presente decreto
tiene luogo degli adempimenti in materia di costituzione di società per azioni
previsti dalle vigenti disposizioni.
8. Gli atti posti in essere in attuazione
del presente articolo per la costituzione della società sono esclusi da ogni
tributo o diritto.
9. All’onere derivante dal presente
articolo, pari a 1.000.000 di euro, si provvede per l’anno 2002, mediante
corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio
triennale 2002- 2004, nell’ambito dell’unità previsionale di base di conto
capitale “Fondo speciale” dello stato di previsione del Ministero
dell’economia e delle finanze per l’anno 2002, utilizzando per 1.000.000 di
euro l’accantonamento relativo al Ministero medesimo. Il Ministro dell’economia
e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti
variazioni di bilancio.
10. Alla Patrimonio dello Stato S.p.a.
possono essere trasferiti diritti pieni o parziali sui beni immobili facenti
parte del patrimonio disponibile e indisponibile dello Stato, sui beni immobili
facenti parte del demanio dello Stato e comunque sugli altri beni compresi nel
conto generale del patrimonio dello Stato di cui all’articolo 14 del decreto
legislativo 7 agosto 1997, n. 279, ovvero ogni altro diritto costituito per
legge a favore dello Stato. Modalità e valori di trasferimento e di iscrizione
dei beni nel bilancio della società sono definiti con decreto del Ministro
dell’economia e delle finanze, anche in deroga agli articoli 2254, 2342 e
seguenti, del codice civile. Il trasferimento può essere operato con le
modalità e per gli effetti previsti dall’articolo 3, commi 1, 16, 17, 18 e 19,
del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni,
dalla legge 23 novembre 2001, n. 410. Il trasferimento di beni di particolare
valore artistico e storico è effettuato di intesa con il Ministro per i beni e
le attività culturali. Il trasferimento non modifica il regime giuridico,
previsto dagli articoli 823 e 829, primo comma, del codice civile, dei beni
demaniali trasferiti. Restano comunque fermi i vincoli gravanti sui beni
trasferiti e, sino al termine di scadenza prevista nel titolo, i diritti di godimento
spettanti a terzi.
11. La società può effettuare operazioni
di cartolarizzazione, alle quali si applicano le disposizioni contenute nel
decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla
legge 23 novembre 2001, n. 410.
12. I beni della Patrimonio dello Stato
S.p.a possono essere trasferiti alla società di cui all’articolo 8 con le
modalità previste al comma 10.
Ovviamente le
contestazioni alla norma furono molte, tanto che venne ritoccata in tre diversi
punti:
1) Si
aggiunse che l’istituzione della «Patrimonio dello Stato S.p.a.» doveva esser
fatta «nel rispetto dei requisiti e delle finalità proprie dei beni pubblici»
(art. 7, comma 1).
2) Anziché
lasciare l’intero funzionamento della Società nelle sole mani del ministero
dell’Economia, si aggiunse (art. 7, comma 4) che le sue direttiva strategiche
devono basati su «direttiva di massima» elaborate dal Cipe (Comitato
Interministeriale per la Programmazione Economica).
3) Si
aggiunse all’art. 7 un comma 12-bis col quale si prescrive che il conto
consuntivo della «Patrimonio dello Stato S.p.a.» dev’essere allegato ogni anno
al rendiconto generale dello Stato (dunque passare per la Corte dei Conti).[53]
Salvatore Settis
nel suo Italia S.p.a. L’assalto al
patrimonio culturale, un libro che, come ha detto il critico letterario Cesare
Garboli, assegnandogli nel 2003 il Premio Letterario Viareggio Rèpaci[54], settore saggistica, dovrebbero leggere tutti gli
italiani perché ci riguarda tutti[55], legge positivamente le correzioni:
nel senso che richiamano seppur vagamente
il carattere di bene pubblico del patrimonio dello Stato (la prima), delimitano
l’arbitrio di un solo ministro (la seconda) e legano più strettamente allo
Stato una società che potenzialmente allo Stato può togliere tutto il suo
patrimonio immobiliare.[56]
Dal punto di vista
pratico la Patrimonio dello Stato S.p.a sembra avere l’incarico di amministrare
al meglio gli immobili che appartengono allo Stato mentre la Infrastrutture
S.p.a. (gruppo a cui il Ministro dell’Economia, tramite decreto, può cedere
tutto il patrimonio) ha come scopo la cessione di beni pubblici, tra cui
ovviamente rientrano anche i beni culturali, con l’intento di sovvenzionare le
opere pubbliche. La critica mossa da Salvatore Settis riguarda la confusione
rispetto all’attribuzione dei ruoli circa la tutela del patrimonio, su chi si
dovrà occupare di determinare il valore dei beni artistici (decreto Tremonti, articolo
7, comma 10) dato che il trasferimento di
beni di particolare valore artistico e storico è effettuato di intesa con il
Ministro per i beni e le attività culturali[57].
Quindi Settis si domanda:
chi «misurerà», immobile per immobile,
quanto il valore ne sia «particolare» al punto da richiedere, mentre le banche
premono, la firma di un altro ministro? Con quali criteri, e da chi fissati,
sarà stabilito quel valore? Infine: l’art. 7 (comma 10) prevede che il
trasferimento di proprietà dallo Stato alla «Patrimonio S.p.a.» «non modifica
il regime giuridico previsto dagli artt. 823 e 829 del codice civile dei beni
demaniali trasferiti». Ma come è possibile, se gli articoli del codice civile
richiamati garantiscono l’inalienabilità dei beni demaniali, e in particolare
di quelli di valore storico e artistico? Delle due l’una: o i beni demaniali
sono inalienabili, e allora non possono essere trasferiti alla «Patrimonio
S.p.a.», o la nuova legge li rende alienabili, e allora non ha senso che essa
richiami le garanzie di inalienabilità del codice civile. Chi vince, il vigente
codice civile o la norma escogitata dal ministro Tremonti? Questa
contraddizione è uno sbaglio o una furberia?[58]
Quando arrivò il
momento di convertire in legge il decreto Tremonti, furono presentanti degli
emendamenti tra i quali l’aggiunta al già citato articolo 7 del comma 10 bis il
quale prevede che:
per
gli immobili demaniali sinora concessi in uso gratuito a tutte le
amministrazioni dello Stato il ministro dell’Economia, con suo semplice
decreto, può stabilire la misura di un «canone d’uso» (leggi affitto), fissato,
sempre dal ministro, sulla base dei «prezzi di mercato dei beni medesimi».[59]
Settis a questo
punto getta luce su chi siano in realtà le amministrazioni dello Stato che
stando al comma 10 bis dovranno pagare l’affitto istituzioni come i tribunali,
le scuole, le università, le soprintendenze che sono state sempre accolte
gratuitamente in edifici proprietà dello Stato:
In altri termini, lo Stato funziona
mediante le proprie strutture ospitandole in edifici di sua proprietà.
Sembrerebbe logico; ma da ora in poi, minaccia la nuova legge, non sarà più
così. Lo Stato si sdoppia, divorzia da se stesso, paga a se stesso l’affitto,
naturalmente secondo i prezzi di mercato.[60]
La Patrimonio
dello Stato S.p.a. ebbe vita breve: nel 2006 fu inglobata da Fintecna[61],
finanziaria partecipata dal Ministero dell’Economia e delle
Finanze, mentre il 31 dicembre 2010 è stato pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale il decreto sulla «Riacquisizione in proprietà dello Stato di
immobili trasferiti alla “Patrimonio dello Stato Spa”» che prevedeva la riacquisizione da parte dello Stato di
una serie di immobili che erano stati precedentemente attribuiti alla suddetta
società[62].
In un’intervista concessa a Dario Pappalardo de «la Repubblica» il 6 agosto
2015 Salvatore Settis afferma che:
il progetto
dell’allora ministro Tremonti di svendere il patrimonio demaniale è fallito. Ma
non si può cantare vittoria, dato che si continua a svendere i beni pubblici,
delegando l’iniziativa a Regioni e Comuni in modo che non si colga il disegno
d’insieme. Inoltre, le regole per la tutela del paesaggio si allentano
continuamente, e sarà ancor peggio quando i soprintendenti, esautorati,
ubbidiranno ai prefetti. Ma il Paese resta ricco di anticorpi nella società e
nelle istituzioni. Possiamo trovare ancora dei contravveleni al degrado che
incombe.[63]
Inoltre, è necessario
pensare ad un circolo virtuoso ed economicamente sostenibile riguardo tutela,
valorizzazione e fruizione. Un esempio è quello del sito archeologico,
rientrante nella lista dei siti Patrimonio dell’Umanità, di Paestum che ha
iniziato a raccogliere fondi da privati per sostenere le spese necessarie alla
propria conservazione e valorizzazione. Nell’articolo dedicato a questa
tematica da «il Sole 24 Ore» ci viene raccontato di come la campagna di fundraising
“Live for Paestum” si sia prefissa di raccogliere 56.000€ per scavare e
musealizzare la Casa dei Sacerdoti: per raccogliere la gran parte dei fondi è
stato organizzato un evento in cui gli chef Massimo Bottura, Heinz Reitbauer e
Sven Elverfeld hanno realizzato, all’interno del parco, una cena da 800€ per 90
persone. In un anno di attività la direzione del parco archeologico è riuscita
a concludere altri due progetti di fundraising: il Circolo di Athena, ossia un progetto di corporate membership per restaurare
e valorizzare il tempio di Athena, e Adotta
un Blocco di Mura a Paestum, una campagna in cui singolarmente si poteva
contribuire adottando uno o più blocchi di mura della città.
Secondo l’ultimo Rapporto
sul Benessere Equo e Sostenibile sebbene nel 2016 la spesa
pubblica per i servizi culturali sia stata pari allo 0,31% del Pil, ovvero più
bassa della media dell’Unione Europea, l’Italia è risultata tra i paesi che
hanno investito maggiormente per la
protezione della biodiversità e del paesaggio (anche se si tratta solo dello
0,17% del Pil, mentre in Europa si spende in media lo 0,07%): sommando le spese
di entrambi i settori il nostro Paese spende in totale lo 0,48% del Pil, ossia lo
0,003% in meno rispetto la media dell’Unione Europea. Secondo il BES del 2018
l’estensione di parchi, ville e giardini storici è pari a più di 74 milioni di
m2: 1,9 ogni 100 di superficie urbanizzata. Il BES del 2018 rileva
come la tutela del patrimonio paesaggistico e storico-artistico della Nazione,
prevista dal più volte citato articolo 9 della Costituzione, non trovi uguale compimento
nel territorio nazionale: il centro-nord spende il triplo del mezzogiorno (49,6€
pro capite in Trentino-Alto Adige a fronte dei meno di 5€ pro capite della
Campania).
A seguito di
queste considerazioni appare pertanto evidente quanto sia importante che ogni
cittadino si interessi direttamente alla tutela dei beni storico-artistici e
del paesaggio, ossia dei nostri beni comuni.
NOTE
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