Daniel
Libeskind afferma che la
valenza estetica di una sua opera architettonica conta quanto
l’esperienza personale che se ne può fare al suo interno.
Diversi criteri per raggiungere lo stesso risultato: osservare,
valutare, occupare uno spazio per comprenderlo, per dargli un
significato, realizzarlo.
Questa
ricerca di evasione dalla
dimensione obbligata, l’aspirazione verso qualcosa che sia altro,
ha portato la parabola
del progresso architettonico fino al margine estremo rispetto il
punto di partenza, verso la conquista di una dimensione psicologica;
il visitatore al suo interno, immerso in una forma museale lontana
dalla logica simmetrica tradizionale e da un percorso prestabilito,
diviene un personaggio del ciberspazio di Novak, un visitatore che
interpreta il significato dell’opera che ha davanti in un modo
unico e sconosciuto ad un altro visitatore. Potrebbe partire da qui
una nuova riflessione sul concetto di visitatore (spettatore,
fruitore) liquido,
con un radicale cambio di prospettiva e di approccio al lavoro di
organizzazione di una mostra.
L’approccio
alla didattica in
chiave contemporanea non può prescindere dai risultati ottenuti in
campo scientifico nello studio della percezione degli spazi. Se
intendiamo la didattica come un’esperienza, sia essa di
avvicinamento al mondo museale, sia come accompagnamento una
tantum, ritengo
sia
necessario considerare gli studi sulla percezione come fattori di
influenza determinanti in un percorso espositivo. La didattica non
può più affidarsi esclusivamente a materiali di supporto alla
visita, laboratori o lezioni sul posto, ma modificare i metodi in
funzione dello spazio, secondo una necessità fondamentale per lo
sviluppo museologico contemporaneo.
Le
ricerche che riguardano la
percezione degli spazi sono funzionali non solo alla comprensione
degli stimoli e delle risposte prodotte dal cervello durante
l’occupazione di un determinato luogo ma, anche allo studio in fase
di progettazione di un edificio. A tal proposito, risale al 1998 la
scoperta di un’area della corteccia paraippocampale specializzata
nel «codificare la geometria dell’ambiente circostante».
Tale area si attiva nella percezione di paesaggi urbani, spazi
naturali esterni, edifici e rappresentazioni virtuali di spazi
interni su uno schermo, particolare che non può non riportare alla
mente la teoria di Novak e del cyberspace.
Di particolare
interesse, è l’importanza che l’esperienza e la conoscenza
assumono come variabili: maggiore sarà la familiarità di un dato
edificio e delle prassi architettoniche per l’individuo, maggiori
saranno gli stimoli che l’area della corteccia sarà in grado di
captare e elaborare. Quindi, da un punto di vista museologico, le
singole conoscenze architettoniche e spaziali influiranno durante una
visita anche prendendo in esame complessi monumentali classici e
esposizioni di oggetti bidimensionali o tridimensionali che siano.
Che si tratti di un museo che espone in prevalenza quadri su tela e
che si sviluppi in un edificio dalla struttura classica o che si
parli di un’architettura liquida occupata da installazioni
luminose, lo spazio circostante influirà, seppur in modo
diametralmente diverso, nella lettura degli oggetti. Viene in aiuto
della mia tesi l’opera di Harry F. Mallgrave, L’empatia
degli spazi, e gli
studi riportati nelle sue pagine; i modi secondo i quali il corpo
umano reagisce neurologicamente nella lettura di un determinato
spazio, sono stati indagati da Irving Biederman e Edward Vessel.
Secondo la tesi
dei due studiosi, il cervello umano tende per natura alla conoscenza,
ed è per questo particolarmente sensibile a determinati stimoli.
Semplificando in queste righe i processi chimici e neurologici che
permettono connessioni tra gli spazi esterni e le attività interne
al nostro corpo, il risultato dello studio dimostra come, in presenza
di un edificio che impegni il cervello nell’osservazione e che
ricopra gli aspetti di novità
e piacevolezza,
si
attivino i trasmettitori oppioidi - le endorfine naturali del
corpo - mettendo in azione il «circuito
dopaminergico del piacere».
La presenza di queste due caratteristiche, – novità e piacevolezza
– stimola la curiosità, rendendo l’apprendimento più veloce e
allontanando la noia, uno dei fattori responsabili dell’attivazione
del processo dello «stufarsi»
teorizzato
dall’architetto Adolf Göller
nel 1887 all’interno del saggio, What
is the cause of perpetual style change in architecture?. Göller
considerava l’architettura come un gioco,
un oggetto intrinsecamente piacevole che non aveva bisogno di essere
giustificato da un significato altro.
I
motivi che determinavano il continuo cambiamento stilistico nella
progettazione architettonica sono stati teorizzati da Göller secondo
due concetti psicologici: quello di «memoria iconica» e quello
dello «stufarsi».
I due concetti, come spiega Mallgrave, sono collegati e dipendenti
l’uno all’altro. L’apprezzamento di un dato progetto
architettonico aumenta nel corso del tempo in relazione alla maggiore
conoscenza, alla chiarezza dell’oggetto e all’affermarsi dello
stile. Allo stesso tempo, appena il nostro occhio riesce ad
abbracciare in pieno la complessità dell’architettura, la
soddisfazione smette di crescere e viene sostituita dalla noia, il
processo dello «stufarsi». È in questo momento che deve
intervenire l’architetto: per Göller il processo che più di tutti
esemplifica tale attività è il passaggio che è avvenuto tra
l’architettura del Rinascimento e quella del Barocco. L’inserimento
di alcuni moduli costruttivi, alcune variazioni all’interno di una
corrente e il passaggio modulare da un tipo all’altro, sarebbero
escamotage
che
rallenterebbero l’assuefazione visiva.
Da un
punto di vista
architettonico e museale la progettazione degli spazi secondo linee
curve e la ricerca di un continuo scambio tra interno ed esterno,
privilegiando la luce naturale, risultano scelte vincenti se
paragonate agli studi di Biederman e Vessel. Altri aspetti
interessanti riguardano le tipologie di scenari preferiti dai
soggetti esaminati: sono maggiormente apprezzati gli ambienti
naturali rispetto a quelli costruiti e tra questi ultimi, gli uffici
rivestiti di vetri riflettenti e affacciati su uno spazio cementato
sono decisamente i meno graditi.
Alla luce di tali informazioni, è evidente il marcato interesse per
la costruzione di edifici sempre più inseriti nell’ambiente, per
la prevalenza di linee curve e superfici trasparenti che mettano in
relazione l’interno con l’esterno, la scelta di aree geografiche
dal forte impatto visivo, anche quando, ovviamente, non è possibile
inserire la costruzione in uno scenario naturale.
Una ricerca
del neurobiologo A.D. “Bud” Craig collega lo studio delle
emozioni all’osservazione dell’architettura, dimostrando come la
corteccia insulare, attiva con tutte le categorie dei sentimenti,
funzioni, in entrambi gli emisferi, seguendo il circuito neuronale
del sistema nervoso autonomo periferico, suddiviso nei sottosistemi
simpatico e parasimpatico: questi sottosistemi funzionano in maniera
reciproca e opposta a seconda degli stimoli ricevuti, bilanciando, ad
esempio, la frequenza cardiaca.
In correlazione e in maniera simmetrica al lavoro del sistema
autonomo, la corteccia insulare e nel caso specifico l’insula
destra è associata ad attività che producono un dispendio
energetico, mentre l’insula sinistra è associata ad attività di
rilassamento; vivendo una situazione interessante, fisicamente e
mentalmente coinvolgente, l’insula destra si attiva, così come
quando proviamo sentimenti di empatia o dolore; in situazioni
rilassanti, ascoltando musica piacevole, provando sentimenti di
affetto, si attiva l’area sinistra.
Partendo da queste osservazioni si è cercato di capire se sarebbe
possibile basare la progettazione architettonica di un edificio anche
alla luce di tali dati. Gli edifici andrebbero divisi in edifici
rilassanti e edifici stimolanti, e lo scopo finale da raggiungere
dovrebbe modificare l’intero studio di forme e materiali. Nel libro
di Mallgrave sono presi ad esempio due edifici che potrebbero
appartenere alle due categorie: la Neue
Nationalgalerie
(fig.1)
a
Berlino, progettata da Ludwig Mies van der Rohe e la Philharmonie
di Berlino (fig.2)
di
Hans Scharoun. L’osservazione dell’opera di van der Rohe,
caratterizzata da forme regolari e simmetria degli alzati, stimola
l’attivazione dell’insula sinistra, legata a emozioni vicine alla
calma e al rilassamento. La regolarità degli ambienti, l’uso di
materiali freddi (sia metaforicamente che a livello tattile) non
spingono verso l’esplorazione o la scoperta degli spazi, e creano
un collegamento con la parte più razionale del nostro cervello.
Al
contrario, entrando nella
Philarmonie
di Berlino, le linee sinuose, l’uso di materiali familiari
come il legno e la
pietra, sembrerebbero maggiormente indicati per stimolare una visita
coinvolgente. L’altro aspetto fondamentale nell’opera di Scharoun
è la totale assenza di un percorso predefinito e di una pianta
regolare. L’ambiguità delle forme e l’assenza di livelli
definiti al suo interno, rendono l’opera accattivante, spingendo il
visitatore a compiere un’esperienza stimolante.
Gli stimoli che attivano l’area insulare destra non sono solo
fisici, non si è solo spinti ad attraversare ed indagare lo spazio,
ma anche mentali: la mancanza di un apparente ordine predefinito, e
la dissonanza rispetto alle sale da concerto alle quali la maggior
parte di noi è abituato, spingono la ricerca anche a livello
mentale. In spazi come questo si cerca di capire, di attingere dai
ricordi, di soddisfare la curiosità verso la quale il cervello umano
è naturalmente spinto.
Nella
progettazione di un
edificio, in particolare di un nuovo museo, non dovrebbe essere
considerato solo l’aspetto visivo e spettacolare dell’opera. Gli
studi sulle relazioni tra emozioni e architettura, seppur ancora
esigui, hanno dimostrato che l’esperienza che gli individui
compiono negli ambienti è multisensoriale e che il rapporto che si
crea con un luogo avviene prima di tutto a livello neurologico,
stimolando una vasta gamma di emozioni. Come spiega ancora Mallgrave,
oggi un’architettura studiata su un progetto esclusivamente
d’impatto visivo non colpisce nel profondo,
proprio perché non considera l’aspetto emozionale e interiore
dell’occupante, la relazione che si andrà costruendo.
Se
consideriamo gli edifici in
Italia alla luce di queste teorie, notiamo che la quasi totalità
degli istituti scolastici statali, degli uffici, delle aree pubbliche
di servizi, non è stata progettata pensando all’impatto che gli
spazi avrebbero avuto sulle attività per le quali furono destinati.
È come se fosse stata creata una parentesi di vivibilità per
determinate categorie di attività: l’occupazione degli spazi
scolastici da parte degli studenti, dovrebbe in maniera preponderante
stimolare la loro attività di apprendimento, che come abbiamo visto,
è influenzata enormemente a livello neurologico dallo spazio
vissuto. A questo riguardo apro una parentesi: nel volume, Museo
come territorio di Esperienza,
l’ambiente, in ambito pedagogico, è descritto come un «terzo
educatore»,
concetto teorizzato da Loris Malaguzzi. L’ambiente è considerato
esattamente come una presenza, insieme a insegnanti e alunni, che
influisce e supporta le attività svolte al suo interno,
dall’apprendimento alla socializzazione. Lo stesso discorso vale,
di conseguenza, per gli ambienti didattici museali, che secondo le
autrici non possono più essere dei semplici «spazi didattici», ma
devono essere considerati come «spazi significanti», che
rispecchiano il patrimonio del museo e il suo progetto educativo.
È
indubbiamente utopico
immaginare ogni spazio condivisibile costruito e progettato in base
alle attività che vi si svolgeranno e rispetto agli studi sulle
emozioni dell’architettura; l’adattamento degli ambienti e il
recupero di edifici in disuso è un aspetto rilevante dell’ultimo
decennio e, a mio avviso, necessario per la riqualificazione di
alcune zone urbane delle città italiane, ma questo non può far
perdere di vista i passi avanti compiuti dalla scienza riguardo al
benessere psicofisico delle persone. Per lo stesso motivo, quando
risulta necessaria la realizzazione di un nuovo edificio museale, la
sua progettazione non dovrebbe più prescindere da tali scoperte. Se
uno degli scopi del museo è contenere opere d’arte, quello della
didattica è agevolarne la lettura: queste due azioni hanno la
caratteristica comune di essere rivolte a una categoria terza e
perciò esterna. Il sistema museo non può più apparire come un
sistema autoreferenziale: maggiore sarà il suo interesse verso
l’esterno, maggiore sarà il successo della sua attività. Per far
questo è necessario ripensare i termini della progettazione,
accogliendo le novità che vengono da settori diversi ma che, nel
seguire i suggerimenti, influirebbero significativamente
sull’esperienza attiva. Un museo che punta solo alla plasticità
delle forme, all’elemento sorprendente, non è un museo che
rispetta il ruolo che ricopre. Ricollegandoci allo studio di Craig,
il museo ideale dovrebbe essere in grado di stimolare in maniera
equilibrata sia la corteccia insulare sinistra, sia la corteccia
insulare destra, fornendo a tutti i visitatori le stesse possibilità
di comprensione. Là dove non è più possibile intervenire
architettonicamente, si dovrebbe immaginare un’attività didattica
coinvolgente, non per questo manuale o laboratoriale. Dove invece, si
può ripensare in termini progettuali l’intero sistema, sarebbe
necessario studiare i vari modi della percezione, includendo nel
team,
perché no, anche una figura dal settore delle neuroscienze.
L’alternanza di zone riposanti e di zone coinvolgenti, all’interno
delle quali le attività che si svolgono sono diverse ma comunque
inerenti all’esposizione (quindi senza che bookshop
o aree caffè interferiscano nel percorso), potrebbe rendere la
visita interessante per l’intera durata. Penso, ad esempio, al
concetto di Museum
fatigue,
teorizzato negli anni Venti del secolo scorso: l’abbassamento della
soglia di attenzione e della capacità selettiva del visitatore
durante il percorso museale è maggiore progredendo nella visita e in
zone specifiche del museo. Tale prevedibilità è determinata da
fattori legati ai singoli visitatori, come il dispendio energetico
necessario durante il percorso, all’ambiente cioè al tipo di
allestimento, alla tipologia dello spazio in cui ci si muove, e
dall’interazione fra queste due categorie di fattori. Probabilmente
le ripetizioni di moduli compositivi architettonici standard, come
saloni e lunghi corridoi, influisce notevolmente nel calo di
attenzione. Come abbiamo visto, l’abitudine nel riconoscere uno
spazio, a lungo andare, può portare alla noia e alla conseguente
mancanza di attenzione di un ipotetico visitatore. Rendere i musei
vivibili senza perdere di vista il ruolo ufficiale che ricoprono è
un compito assai arduo, la possibilità di trasformare l’edificio
in un moderno luogo di passeggio è un’eventualità da evitare.
Sebbene questa possibilità possa apparire come un rovescio della
medaglia accettabile, la condizione stessa di esistenza del museo
dipende non solo dalla quantità di biglietti stampati ma,
soprattutto dalla qualità delle visite stesse. Il messaggio che deve
trasparire non è diverso da quello che si è cercato di trasmettere
tradizionalmente: per quanto ritengo sia oggi necessario sottolineare
l’importanza di indicare come soggettiva la scelta di esporre una o
l’altra opera, è l’aspetto comunicativo il principale ruolo che
il museo dovrebbe ricoprire e la didattica accompagnare. Considero,
infatti, che all’idea di educare,
proprio in virtù
della soggettività delle emozioni e delle scelte, debba essere
sostituita l’attività di
comunicare.
Coinvolgere
gli studi scientifici
sulla percezione degli ambienti architettonici, sarebbe un modo per
compiere e aggiornare in maniera complessa ogni aspetto delle
attività museali.
Il
successo che riscuotono gli
edifici di architettura liquida proviene, prima ancora che dalla
validità delle esposizioni al suo interno, dalla curiosità che i
volumi provocano negli osservatori: si torna al museo non solo per
una nuova esposizione, ma per un nuovo allestimento in funzione dello
spazio.
Quando
torniamo in un luogo come
il MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo a Roma e
decidiamo di compiere il percorso delle esposizioni già visitate in
maniera contraria, quello che si sta cercando di capire, è in quale
modo la percezione dell’ambiente si modifica con il modificarsi dei
punti di vista. Un museo così complesso permette in maniera perfetta
tale ricerca: le suggestioni che provoca l’osservazione dello
stesso spazio da un piano opposto al precedente rendono la visita in
sé una nuova esperienza.
La
curiosità verso un luogo che,
pur non cambiando la sua struttura portante, non appare mai
completamente identico a se stesso produce una curiosità tale nei
pubblici da generare un processo di affiliazione al museo non legato
alla singola opera, ma alla funzione dell’esperienza.
Tra i
progetti non computi da
Zaha Hadid c’è lo studio per la realizzazione del Bee’ah
Headquarters (2014 - ) in Sharjah, una vera cattedrale liquida nel
deserto. Se pensiamo ancora agli studi sul funzionamento del circuito
neuronale del sistema nervoso in relazione alle cortecce insulari
destra e sinistra, alla loro capacità di produrre oppioidi in
occasione dell’attivazione dell’una o dell’altra a seconda
delle emozioni provate, rileviamo l’assoluta portata innovativa di
tale scelta progettuale.
Il
deserto, una zona nella quale
la deprivazione sensoriale
influisce in maniera considerevole sulle capacità percettive,
verrebbe interrotto da una costruzione liquida perfettamente inserita
nell’ambiente, rispettandone i paradigmi e per questo, adattata.
L’improvvisa riappropriazione dei sensi e delle coordinate
spaziali, in un ambiente che con probabilità, sarebbe risultato
fortemente connotato architettonicamente, avrebbe riattivato gli
stimoli e la curiosità, riequilibrando le attività dei due sistemi,
creando un passaggio da interno a esterno e viceversa, fortemente
stimolante. L’eccezionalità di tale progetto, sebbene sia rimasto
sulla carta, è paragonabile alla sua unicità. Tenendo conto della
difficoltà di inserire edifici così complessi nella quotidianità
urbana delle città europee, non è impossibile ricercare
quell’equilibrio che sembra mancare in alcuni scenari. L’arte, di
qualsiasi forma di arte
si parli, non può ovviamente essere ricondotta unicamente ai
progressi scientifici della percezione: i fattori che entrano in
gioco mentre osserviamo un’opera sono variabili, molteplici e
soggettivi. Così come la progettazione stessa di un edificio non può
tener conto esclusivamente di problemi comunicativi, dovendo
comprendere nella costruzione dello spazio, locali di servizio
interdetti al pubblico.
È
facilmente verificabile nella
quotidianità che il tipo di spazio nel quale ci troviamo influisce
sul nostro comportamento. Altezze da capogiro possono provocare
vertigini, o nei più temerari una certa eccitazione; spazi angusti
con soffitti bassi ci fanno istintivamente abbassare la testa, anche
quando non è necessario; nell’attraversare un percorso buio siamo
spinti a seguire la luce come fosse una guida. Questo modo di reagire
è perfettamente riscontrabile durante una visita al Jüdisches
Museum Berlin realizzato da Daniel Libeskind (fig.3).
Questo edificio è un vero e proprio museo dell’assenza, è un
contenitore storico e contemporaneamente l’opera d’arte esposta.
È necessario fare esperienza dell’architettura che lo
caratterizza, essendo questo l’unico vero modo per comprenderne
l’essenza. L’opera
è un complesso di diversi spazi raccordati tutti dal tema del vuoto.
Rappresentare il vuoto è per Libeskind il solo modo per raccontare
la tragedia dell’Olocausto, per raccontare la mancanza e
l’annullamento corporeo e psicologico di milioni di persone. Il
vuoto, la linea a zigzag,
la vertigine, sono gli elementi che modificano il passaggio,
influiscono sul percorso del visitatore e lo proiettano in uno spazio
che è soprattutto assenza. Assenza di punti di riferimento, di
prospettiva e di visione globale, sono le caratteristiche del
giardino dedicato a Ernst T. A. Hoffmann, nel quale quarantanove
pilastri in cemento si susseguono su un pavimento a piani sfalsati,
destabilizzando la camminata. Un’alta torre si impianta nello
spazio già claustrofobico dell’intero progetto, nella quale
un’unica, piccola finestra in alto si apre sul rettangolo grigio
(fig.4).
L’interno della torre, visitabile per piccoli gruppi, è uno spazio
desolante e silenzioso, monotono. Il corpo principale dell’edificio,
rivestito di zinco, presenta delle aperture che fungono da finestre
ma per le quali non possiamo ricondurre la descrizione a nessuna
forma, esprimendo, anch’esse, l’orrore della Storia, e per le
quali il termine “lacerazione” appare il più adatto (fig.5).
Lo studio per la
sua realizzazione non può non aver tenuto conto dei diversi modi con
i quali si sarebbe attraversato lo spazio e delle diverse emozioni e
reazioni che avrebbe potuto provocare. È l’esperienza del museo
come insieme, l’unico modo per comprendere fino in fondo il
messaggio.
All’interno di
edifici come il Jüdisches Museum Berlin,
la questione della
didattica diviene un argomento ambivalente. Da un lato, la natura
stessa di museo richiederebbe la pratica dell’attività;
dall’altro, la connotazione spaziale del luogo non lascia spazio a
racconti e discorsi, almeno durante il passaggio negli stretti
corridoi o tra gli angusti percorsi. Una volta entrati nel perimetro
dell’area, compresi i suoi spazi esterni, si riesce difficilmente a
parlare. Il silenzio sacrale che lo avvolge non dà spazio a attività
di interpretazione in gruppi. L’esperienza individuale, studiata e
ricercata, è davvero multisensoriale e collega luogo, corpo e
emozioni senza soluzione di continuità. La didattica dovrebbe
parlare, probabilmente, dei visitatori stessi, senza i quali, qui più
che altrove, il museo smetterebbe di esistere.
Dal
rapporto Linee
guida per la comunicazione nei musei: segnaletica interna, didascalie
e pannelli,
pubblicato nel 2015,
traggo informazioni
interessanti in merito a un progetto di allestimento realizzato
dall’Associazione
dei
Musei Olandesi.
Generalmente, i pubblici vengono suddivisi in tre categorie, in base
al tipo di rapporto e alla frequenza con la quale si trovano nei
musei.
I pubblici
centrali, cioè
i
frequentatori abituali, coloro i quali non lamentano serie difficoltà
di comprensione durante il percorso museale.
I pubblici
occasionali,
le cui
visite rispecchiano appunto una frequenza saltuaria.
I pubblici
potenziali, coloro i
quali pur potendo, al momento non frequentano i musei.
La
categorizzazione appena
elencata non tiene conto del modo in cui si apprendono, se così si
può dire, i diversi messaggi durante una visita. Non si considera
quindi, lo stile di apprendimento
che ognuno di noi adotta e che, come teorizzato da David A. Kolb,
tiene conto di due assunti fondamentali: quello della
«percezione/comprensione» dell’esperienza e quello
dell’«estensione/intenzione» con la quale tale esperienza viene
interiorizzata.
La percezione
e l’interiorizzazione
di cui ho parlato nelle pagine precedenti, trovano ora un riscontro
dal punto di vista didattico oltre che neuroscientifico. Infatti, a
partire dalle due caratteristiche che influenzano i modi di imparare,
è possibile individuare quattro diversi stili di apprendimento. Tale
consapevolezza ha reso possibile la sperimentazione di diversi tipi
di allestimento e, di conseguenza, di diverse attività didattiche.
Ai quattro stili, -il sognatore,
il ponderatore,
il decisore,
il pragmatico
-, sono associati i rispettivi modi di imparare, ad esempio la
necessità di associare l’esperienza concreta all’osservazione
riflessiva, o l’osservazione riflessiva alla concettualizzazione
astratta. Per sperimentare il successo della ricerca sono stati
realizzati in Olanda dei progetti pilota, pensati esclusivamente per
il singolo stile preso in esame.
Ritengo
che immaginare la
didattica come un’attività generalizzata o suddivisa per categorie
di frequenza non implichi miglioramenti nell’approccio dei
visitatori. Vista l’impossibilità pratica di riallestire una
mostra quattro o più volte a seconda del tipo di apprendimento
considerato, troverei corretto un aggiornamento delle categorie dei
visitatori sulla base delle nuove teorie. La percezione delle
architetture, come abbiamo visto, è maggiore quante più
informazioni una persona è in grado di cogliere dall’osservazione,
e sappiamo ormai che anche buona parte della comprensione del
percorso espositivo dipende da nozioni culturali acquisite in
precedenza. Se si riuscisse a far combinare la responsabilità degli
operatori nel trasmettere nozioni inquadrate nel contesto di
riguardo, la necessità di rispettare le singole percezioni senza
deviarle arbitrariamente e le emozioni provate dalla pura
osservazione di un’opera, riusciremmo davvero a segnare una svolta
nel percorso didattico generale.
Non si
intende la comunicazione
dell’arte e dell’architettura come una pratica di meditazione new
age, ma
come uno
studio delle complessità e delle implicazioni dell’attività del
vedere. Credo sia ormai chiaro che osservare un oggetto non è una
semplice azione, e come tale non ritengo corretto suddividere la
visita museale in osservazione
e memorizzazione.
Se durante la permanenza in luoghi come la Galleria 5
del MAXXI questa totalità dell’esperienza appare evidente, non
credo sia una novità assoluta: siamo perennemente immersi negli
spazi e osservare un quadro appeso in una stanza bianca da soli o in
presenza di una scolaresca presuppone stimoli diversi. La differenza
principale, dal punto di vista espositivo, tra i musei classici e i
nuovi musei liquidi, sta nell’allontanamento di questi ultimi dalla
ricerca di una perfezione subordinata alla perfezione stessa
dell’opera d’arte. La perdita d’interesse verso la creazione di
spazi perfetti è giustificata dalla consapevolezza che l’arte non
è mai stata e non ha mai aspirato a raggiungere perfezione e
obiettività. Siamo in grado di percepire molteplici informazioni
contemporaneamente e allo stesso modo, siamo in grado di trattare la
visita in un museo da punti di vista diversi e soggettivi. Immaginare
un aggiornamento delle questioni didattiche dovrebbe interessare
ambiti più ampi e specializzazioni interne maggiori, affinché le
professionalità siano in grado di rispondere a maggiori e diverse
necessità senza dividere, ad esempio, i gruppi di utenti in fasce
d’età. Con il decadere di ideali di oggettività dell’esposizione
decade, di conseguenza, la necessità di uniformare la didattica
secondo criteri assoluti.
La
didattica è e la didattica
serve ad aprire scenari più ampi, portare all’attenzione punti di
vista prima sconosciuti, mescolare ancora una volta conoscenze e dati
storici affinché l’immobilismo culturale non prenda il sopravvento
come accade parlando dei capolavori,
oggetti che ricoprono
perfettamente il ruolo di catalizzatori ma che non percepiamo
più.
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