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Una nuova funzionalità psicologica per l’architettura e il design contemporanei

Bibiana Borzì
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell’Arte, 14 Dicembre 2019, n. 883
http://www.bta.it/txt/a0/08/bta00883.html
Articolo presentato il 28 Ottobre 2019, accettato il 19 Novembre 2019, pubblicato il 14 Dicembre 2019
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Area Architettura

In ricordo di Gillo Dorfles

Se è vero che dare in pasto alle popolazioni i fumetti e i fotoromanzi significa condizionare tali popolazioni a questo genere di prodotti artistici, è anche possibile l’opposto; e cioè come spetti proprio a noi di somministrare attraverso i canali di massa gli oggetti di buon gusto, se vogliamo che si realizzi un’effettiva educazione artistica delle popolazioni.

Gillo Dorfles, Introduzione al disegno industriale, Bologna, 1963.



Il termine design, letteralmente progetto/progettazione, ha subito negli anni una interessante evoluzione semantica: oggi si utilizza per definire esteticamente o qualitativamente un prodotto, per identificare una corrente artistica applicata all’oggetto seriale, o ancora è declinato a sinonimo di disegno industriale alla luce dei più recenti indirizzi di studio. Questa varietà di significati risale alla nascita stessa del disegno industriale, che non ha in realtà una data ben precisa ma è scandita da particolari avvenimenti storici che hanno contribuito alla sua diffusione nel contesto europeo. In questa direzione, alcuni storici del design considerano la Prima Rivoluzione Industriale inglese (1760-1830) un momento decisivo, sia sotto il profilo tecnico, per l’avvento della macchina, sia dal punto di vista creativo: si va delineando, infatti, la figura del progettista indirizzato alla produzione in serie. Così, Renato De Fusco individua nei caratteri mobili della stampa le principali caratteristiche del prodotto industriale, ovvero standardizzazione e serialità.

Se la rivoluzione industriale convenzionalmente databile al periodo che va dal 1760 al 1830, segna il maggiore «spartiacque» tra la produzione artigianale e quella industriale, almeno un settore, quello della stampa, anticipa di oltre tre secoli tale rivoluzione e comunque può considerarsi a tutti gli effetti un’attività classificabile nel dominio del design1.

Considerare la stampa quale forma di disegno industriale ante litteram vorrebbe dire ammettere una embrionale manifestazione di design già in pieno Rinascimento, anticipando di secoli gli esiti della Prima Rivoluzione industriale. Del resto, il primato inglese nella storia del design è ampiamente riconosciuto all’Arts and Crafts, determinante per il fiorire delle arti applicate.

Arte del popolo per il popolo” è il grido di William Morris, considerato padre fondatore del movimento inglese, tra i primi ad incarnare il ruolo di architetto-artista-designer: le sue wallpaper, oggetto del desiderio dell’alta borghesia vittoriana, anticipano di gran lunga gli esiti contemporanei del design come status symbol. Ribrezzo e soggezione sono i sentimenti di Morris nei confronti della Great Exhibition, inaugurata a Londra nel maggio del 1851. Un incredibile successo di pubblico scandito da sei milioni di inconsapevoli visitatori posti di fronte alla nascita dell’oggetto moderno, nel suo duplice aspetto estetico e funzionale. D’ora in poi anche gli oggetti quotidiani, prodotti in serie, reclamano una nuova dignità formale. Il Crystal Palace, costruito in Hyde Park per ospitare la grande esposizione del 1851, era stato progettato da Joseph Paxton con una struttura per i tempi avveniristica, un’anima di ferro e vetro. Smantellato subito dopo l’Expo e ricostruito, in proporzioni più grandi, a poca distanza dal suo luogo di origine, fu distrutto da un incendio nella notte del 30 novembre 1936, fatalità che sembrò presagire la fine di un’epoca. Nello stesso anno a Londra si pubblicava la prima edizione di Pioneers of Modern Design, scritto da Nikolaus Pevsner, saggio capitale per l’architettura e per il design, che trovò in queste pagine una sua prima e coerente definizione. Nelle successive edizioni lo storico tedesco, rifugiatosi a Londra per sfuggire al nazismo, delineò lo sviluppo del Movimento Moderno: dai grandi pionieri dell’architettura, quali Gropius e Meyer, ai maestri Le Corbusier e Mies van der Rohe, passando attraverso la lezione organica di Frank Lloyd Wright. Nei suoi contributi, certamente interessanti sotto il profilo storico, egli non tralascia presupposti chiave per la comprensione dell’architettura e del design, parlando tra i primi di funzionalità.

L’architettura e il design destinati alle masse devono essere funzionali, nel senso che devono riuscire bene accette a tutti, portando in primo piano proprio la loro funzionalità. Una sedia può essere nello stesso tempo scomoda e un’opera d’arte, ma soltanto un eventuale conoscitore giungerà a preferire le qualità estetiche a quelle utilitaristiche. La difesa della funzionalità è quindi la prima parte delle nostre fonti2.

Come evidenziato da Maurizio Vitta «i due eventi - il rogo e il libro – segnarono ciascuno a suo modo l’epifania del design»3: da un lato l’incendio del Crystal Palace, con il suo forte impatto simbolico cancellò le tracce di un passato carico di cattivo gusto, dall’altro il testo di Pevsner diede vita ad un nuovo filone di ricerca, inedito ed accattivante.

Una storia sempre in bilico quella del design, a partire dal suo status, al confine con arte, architettura, sociologia, economia, comunicazione. Ecco perché, con Tomás Maldonado, possiamo considerare molteplici storie del modern design, che tra loro hanno forse in comune un elemento: una sostanziale svalutazione dei prodotti della tecnica, già presente in epoca classica.

In realtà, i prodotti della tecnica – di qualsiasi tipo di tecnica – sono stati soggetti per secoli alla più tenace discriminazione. E anche – forse in modo ancor più deciso – gli uomini che si occupavano sia della loro invenzione e progettazione, sia della loro effettiva produzione. Si è sostenuto come la radice storica di questa discriminazione debba essere ricercata nell’antichità, e più concretamente nella società schiavista greca, con il suo disprezzo per i lavori manuali e meccanici considerati di natura infamante: compito di schiavi come di fatto erano.

Domandarsi come si sia arrivati al superamento di questa secolare discriminazione significa, in pratica, individuare i passaggi storici che hanno reso possibile l’avvento del disegno industriale. Dapprima è tuttavia necessario soffermarsi su quella che è generalmente considerata la storia del modern design. A rigore, si tratta non di una storia, ma di molteplici storie4.

Solo di recente la critica ha scelto di guardare oltre, contemplando nell’ambito del design non solo progetti e progettisti, ma in maniera trasversale società, pubblico e oscillazioni del gusto, per dirla con Dorfles. I tempi sono maturi per accogliere nuove e interessanti prospettive di ricerca, a partire da ciò che possiamo definire il progetto della bellezza.

È lecito parlare del design come di un progetto della bellezza? L’idea che il bello possa essere progettato è stato a lungo negata; e d’altra parte non tutti sono d’accordo nel ritenere che si possa attribuire un valore di bellezza agli oggetti di uso quotidiano né che sia compito del designer fondare su criteri puramente estetici il disegno del prodotto. Il problema è antico, ma il design vi ha trovato, nonostante tutto, la sua origine stessa, la sua ragion d’essere e il suo travagliato destino. […] Tutta la sua storia è segnata da quest’ansia di bellezza, che vi si espresse variamente, ma con continuità5.

Se la bellezza applicata agli oggetti quotidiani si impone come antidoto alla bruttezza della produzione seriale, il binomio forma-funzione finisce per non soddisfare appieno le richieste del pubblico contemporaneo. Si afferma in maniera determinante il problema del gusto, centrale nella odierna società dei consumi. Non sorprende che fin dai suoi esordi la storia del design sia stata attraversata da celebri e fruttuose collaborazioni tra progettisti e aziende produttrici, dal fortunato binomio Basile-Ducrot, a quello Behrens-AEG, preludio alla moderna figura dell’art director, colui che costruisce e veicola l’immagine di una azienda. Se Ernesto Basile si occupò di allestire i primi show-room della ditta Ducrot a Roma, senza tralasciare vetrine d’eccezione come le Esposizioni nazionali, Behrens nel 1907 ebbe il compito di progettare ogni aspetto che riguardasse l’AEG: dalla nota fabbrica di turbine, ai prodotti seriali (ventilatori, bollitori elettrici, lampade a bulbo), passando per grafica e la pubblicità. A lui il merito di aver anticipato i tempi, sia con oggetti fortemente basati sul rapporto forma-funzione, sia attraverso il ruolo di artistic consultant, oggi ampiamente diffuso. Questo cambio di prospettiva influisce non poco sul nostro modo di usare e valutare gli oggetti, tutti aspetti di recente indagati dal filone dell’emotional design.

In tempi non sospetti, Gillo Dorfles aveva preannunciato alcune importanti modificazioni, tecnologiche, formali e fruitive, legate sia all’architettura che al design contemporanei. Giusta previsione, tenuto conto che l’iter progettuale contempla oggi diversi aspetti: estetico, funzionale, costruttivo, e non ultimo sensoriale. Ciò ha inevitabilmente modificato la fruizione dell’oggetto e dello spazio, con ripercussioni evidenti sulla nostra vita di relazione. In altri termini, il nostro bagaglio percettivo6 si è modificato con l’avvento delle nuove tecnologie, aprendo la strada ad un rinnovato giudizio estetico rispetto alla coeva produzione seriale. La svolta è epocale, al cambiamento formale dell’oggetto corrisponde infatti una diversa sensibilità estetica, percettiva e fruitiva che non ha precedenti nel passato, perché la chiave di lettura di un prodotto seriale non può essere la stessa di manufatto artigianale. Diversi sono i materiali, diverse le funzioni, diverso è il rapporto tra prodotto e fruitore, il tutto esteso al campo architettonico.

L’approccio estetico all’architettura e al design impone dunque leggi proprie e implica anche una attenta riflessione sull’importanza del gusto divenuto determinante nell’attuale panorama storico, economico e sociale. Fino a che punto, infatti, il design può imporre il suo gusto alle masse? L’interrogativo posto da Dorfles invita a rivedere il ruolo dell’architetto e del designer, alla luce dell’impegno e della responsabilità etica ed estetica, invocata già da Ponti, nel 1957:

[…] L’edilizia non è un atto privato e transitorio ma è un atto pubblico che corrisponde a un decoro pubblico e durevole, e ad una estetica: le facciate sono le pareti della strada e della piazza, non debbono perciò essere lasciate all’arbitrio, al capriccio, alla ignoranza, e al cattivo gusto: l’edilizia privata va intesa come un contributo nell’ordine dell’estetica della città7.

Il progettista ha un ruolo capitale nel processo creativo e produttivo e come educatore ha una responsabilità di natura sociale: influenzare il gusto collettivo. Il design ha assorbito ciò che in passato era prerogativa dell’arte: ciò significa estendere quegli aspetti spiccatamente estetici, un tempo appannaggio esclusivo dell’oggetto artistico, all’oggetto di design.

[…] Ritengo che si possa affermare che l’area di dominio del design nella società futura debba essere ancora grandemente accresciuta; senza tuttavia che questo porti alla eliminazione di quello che ancora vogliamo chiamare “arte”. Il concetto di “arte” e di design, verranno, anzi, sempre più intercambiandosi: si dovrà attribuire a molti settori tecnologici e scientifici un valore estetico, mentre verranno a decadere molte attuali strutture artistiche, che sono, in effetti già ora, esclusivamente “sovrastrutturali” 8.

La svolta annunciata da Dorfles è già in atto, se consideriamo che buona parte del nostro panorama formale, fatto di oggetti e architetture, è regolato dalle leggi del design. Ma, funzionalità, ergonomia, buona forma, parametri di giudizio normalmente utilizzati nell’ambito della produzione seriale, non bastano da soli ad abbracciare la complessa fenomenologia contemporanea. L’oggetto prodotto industrialmente va letto alla luce del suo impatto psicologico, della sua efficacia nella comunicazione, del suo valore simbolico. Infatti, se si prendono in considerazione movimenti quali Memphis o Alchimia, si capisce come il rapporto forma-funzione sia drasticamente cambiato: gli oggetti prodotti, ormai scissi dal mero principio di funzionalità, sono liberi di esprimersi con un lessico nuovo che li distingue nettamente dal restante product design. In altre parole, a maestri come Sottsass, Mendini, Branzi, Pesce, il merito di aver messo in discussione quel principio di purezza formale impostosi dal Bauhaus in poi. L’abbandono del binomio forma-funzione e l’avvento del Postmoderno, hanno mosso i primi passi a favore di una architettura e di un design sempre più liberi da leggi universali, permettendo a ciascun progettista la creazione di un proprio linguaggio.

Va poi considerato un altro aspetto, non direttamente collegato al Postmoderno ma semmai al rapido sviluppo tecnologico: la progressiva miniaturizzazione dei componenti elettronici e la sperimentazione materica, che hanno avuto ovvie ripercussioni sull’aspetto formale dell’oggetto. Molti designer contemporanei, si pensi a Stefano Giovannoni, hanno fatto propria questa lezione, lavorando principalmente sulla comunicazione. Una produzione spesso etichettata come ludica ed ironica che parte in realtà da presupposti concettuali molto interessanti, come la rilettura della teoria del consumo e della merce di Jean Baudrillart. Così, la scelta di produrre utensili in plastica, al di là di nuove potenzialità espressive legate al materiale, consente di stabilire un nuovo rapporto tra oggetto e fruitore.

La plastica rispetto all’acciaio ci permetteva di realizzare degli oggetti che avevano un potenziale espressivo molto più evoluto. Si poteva giocare in maniera estremamente libera, non solo sulla forma dell’oggetto, ma anche sulle caratteristiche del materiale, sulla sua trasparenza, addirittura su certi aspetti sensoriali e tattili.

È chiaro che dietro a quegli oggetti c’era un forte spirito poetico: non c’era esclusivamente l’attenzione al mercato ma anche la volontà di creare degli oggetti che potessero relazionarsi con i desideri e l’immaginario del pubblico9.

Ciò significa che il design contemporaneo va ben oltre i criteri di funzionalità e praticità, collocandosi in una sfera altamente complessa e simbolica. Tutti gli oggetti, a prescindere dall’epoca e dal contesto storico, possiedono infatti un plus valore, sia esso affettivo, apotropaico, magico, rituale. Guardiamo ai nostri maestri, la lezione di Castiglioni, Sottsass, Magistretti, Zanuso, è sempre viva, i loro oggetti non hanno qualità strettamente funzionali ma si distinguono per una forte componente estetica, simbolica, progettuale, costituiscono un patrimonio visivo, sono profondamente legati alla nostra memoria, riprodotti in grande serie.

Ciò implica forse una più ampia riflessione sul concetto di multiplo, o meglio di serialità, applicata sia all’arte che al design. Com’è noto il pezzo unico è stato largamente superato dalla condizione di riproducibilità dell’opera d’arte di cui Walter Benjamin è stato grande teorizzatore. Così, alcuni movimenti artistici, arte cinetica, programmatica, fino alla Pop Art o alla Digital Art, hanno realizzato opere con procedimenti affini a quelli della produzione industriale. Gli artisti sono stati testimoni silenti di tale cambiamento, intuendo la necessità di oltrepassare l’aura legata all’unicità dell’opera d’arte. E se i multipli costituiscono il risultato concreto di questo nuovo approccio alla riproducibilità dell’arte, le tecniche incisorie ne sono state certamente un esempio. Venuto meno il principio di opera unica, irriproducibile, irripetibile, si è fatto strada quello di opera seriale, dunque riproducibile in molti esemplari senza che questo ne pregiudichi in alcun modo il valore.

Ciò che viene meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione di «aura»; e si può dire: ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è «l’aura» dell’opera d’arte. Il processo è sintomatico; il significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. Entrambi i processi portano ad un violento rivolgimento che investe ciò che viene tramandato – a un rivolgimento della tradizione, che è l’altra faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità. Essi sono strettamente legati ai movimenti di massa dei nostri giorni. Il loro agente più potente è il cinema10.

Nonostante le tecniche di riproduzione si siano con il tempo perfezionate, il pericolo è sempre latente: viene meno quel prezioso hic et nunc dell’opera, ossia la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova. La nascita della fotografia è stata un evento capitale per la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, con effetti immediati sulla fruizione e sulla percezione dell’opera, sempre più accessibile ad un vasto pubblico. Le opere perdono il loro fascino mistico, la loro natura devozionale, e al valore cultuale si sostituisce gradualmente quello culturale. Il progressivo abbandono dell’aura assume una valenza positiva nella riflessione benjaminiana, non solo l’arte diventa più accessibile al pubblico ma è finalmente liberata da quell’atteggiamento reverenziale che aveva caratterizzato i secoli passati. La serialità, dunque, è un ulteriore punto di contatto tra design e opera d’arte e, estesa all’oggetto, favorisce la sua circolazione nella sfera sociale. A questo proposito Giulio Carlo Argan, in occasione del I Congresso Internazionale dell’Industrial Design (Milano, 1954), si esprimeva così:

Un punto che bisogna tener fermo è il carattere di esteticità del design: è questo che autorizza l’intervento nei processi produttivi con lo scopo di limitarne l’aspetto meccanicistico e ripetitivo, ed è questo che garantisce il progresso nella produzione attraverso il rinnovarsi delle forme e l’inserirsi di forme nuove nella serie. Quel carattere estetico dipende necessariamente da un’esperienza estetica, che a sua volta non può essersi affermata che attraverso lo studio delle forme storiche dell’arte; il design trova la sua giustificazione e la ragione della sua funzione in quella esperienza molto più che in un astratto concetto dell’arte11.

Oltre ad aver diffuso il concetto di industrial design, delineandone le principali caratteristiche poetiche, il Congresso Internazionale milanese contribuì alla formulazione di categorie critiche valide per la lettura dell’oggetto prodotto in serie. I tempi erano maturi per dare al design un proprio statuto: aziende come Olivetti e Kartell avevano dato impulso all’economia del dopoguerra, la Rinascente in Piazza Duomo a Milano era simbolo di una nuova stagione di rinascita e di consumismo. Un congresso dedicato al design era dunque d’obbligo nel contesto italiano degli anni Cinquanta, sia per promuovere la nuova figura del designer, sia per diffondere, nell’opinione comune, nuova consapevolezza rispetto agli oggetti prodotti in serie. L’intervento di Argan, dunque, è stato per certi versi profetico, anticipando alcune tematiche - quella legata al piacere estetico dell’oggetto e quella connessa alla serialità - oggi centrali nel campo della teoria e della prassi progettuale.

Un prodotto creato per l’industria risponde non solo ad esigenze meramente funzionali ma contempla altri aspetti, come la possibilità di suscitare una sensazione di piacevolezza, visiva, tattile, o più in generale sensoriale. Se la storia dell’architettura contemporanea, come del resto la storia dell’arte, è stata attraversata da un periodo di estremo rigore formale, suggerito dai protagonisti del Movimento Moderno, il design non è da meno. Così le architetture radicali, postmoderne, insieme alle più recenti opere decostruttiviste, hanno costituito una valida alternativa ai dettami imposti dall’International Style, mentre il design si è opposto allo slogan poetico “ciò che è funzionale è anche bello”. Nel periodo che possiamo definire post Bauhaus si è affermata infatti una determinata estetica dell’oggetto, caratterizzata in primis dall’aderenza tra forma e funzione. In altre parole, per giungere al good design era sufficiente che la forma corrispondesse alla funzione. Se analizziamo un qualunque oggetto di design capiamo subito che la situazione oggi è radicalmente cambiata.

Non basta che un oggetto corrisponda alla funzione pratica, utilitaria, perché risulti positivo. E questo per una ragione semplicissima, e cioè perché esiste una funzionalità non soltanto pratica (quella che ad esempio deve avere una seggiola perché io possa stare comodamente di fronte questo tavolo oppure quello che deve avere un microfono perché io possa parlare senza fatica), ma deve esistere anche, (soprattutto quando si tratta di un oggetto d’uso personale, d’uso individuale) quello che possiamo definire una funzionalità psicologica. Ossia l’oggetto deve avere quei requisiti di piacevolezza, d’interesse di novità che suscitino nell’acquirente il desiderio di impadronirsi di quest’oggetto, non solo, ma deve anche avere quei requisiti che lo semantizzino, cioè che rendano l’oggetto chiaramente significativo12.

La componente psicologica, che consiste nel rapporto che l’oggetto instaura rispetto all’ambiente circostante, è certamente la chiave di svolta che caratterizza l’approccio contemporaneo al design. L’orientamento attuale della critica tiene conto infatti delle ripercussioni emozionali e sensoriali dell’industrial design, che vanno ben oltre il semplice utilizzo del prodotto. Jean Baudrillart è stato tra i primi a proporre un approccio sociologico al design. Se fino alla metà del Novecento gli oggetti che arredavano la casa rappresentavano con chiarezza i valori borghesi, in particolare la famiglia (si pensi al tavolo al centro della sala da pranzo, emblema della società patriarcale), con la frantumazione dell’assetto familiare tradizionale l’oggetto non è più contenitore di tali significati. Lo spazio postmoderno è privo di vincoli, caratterizzato da una organizzazione libera dove gli arredi, sgravati dalla funzione di rappresentare una determinata condizione sociale, diventano sempre più astratti e replicabili. Anche gli specchi, che un tempo riflettevano l’immagine del padrone di casa borghese e dei suoi beni, finiscono per uscire di scena, insieme ai ritratti di famiglia e alle opere d’arte appese alle pareti, sostituite man mano da stampe e riproduzioni. Secondo il sociologo francese, infatti, gli oggetti sono il riflesso di un ordine totale, rispecchiano epoche e culture ed oltre ad un aspetto meramente pratico ne possiedono uno psicologico.

Anche gli oggetti – e i mobili in particolar modo – hanno, oltre alla loro funzione pratica, una funzione primordiale di vaso, che appartiene all’immaginario. A questa funzione corrisponde la loro ricettività psicologica. Gli oggetti sono dunque riflesso di una visione totale del mondo in cui ogni essere è concepito come un “vaso di interiorità”, e i rapporti come correlazioni trascendenti di sostanze13.

Nella creazione di un oggetto, come si è visto, il progettista deve tener conto di variabili diverse: materiali, modalità, costi di realizzazione, comunicazione, pubblicità. Questi fattori finiscono per incidere sulla nostra relazione con l’oggetto influenzando la sfera emotiva e sensoriale decisiva nel determinare il successo o meno di un prodotto, ancor più di altri fattori. Lo studioso Donald A. Norman ha ampiamente indagato questi aspetti, muovendo dal presupposto che il sistema emozionale guida ogni nostro comportamento. L’emozione viene prima della valutazione a livello cognitivo, ecco perché gli oggetti piacevoli svolgono meglio la loro funzione. Queste tesi sono avvalorate da alcune ricerche svolte in ambito psicologico, che hanno a loro volta confermato come lo stato di contentezza favorisca i processi intellettivi ed il pensiero creativo. Norman ha individuato negli esseri umani strutture cerebrali complesse, basate su tre livelli di elaborazione:

[…] Lo strato automatico, precablato, chiamato livello viscerale; la parte comprendente i processi cerebrali che controllano il comportamento quotidiano, nota come il livello comportamentale; e la parte contemplativa del cervello, o livello riflessivo. Ciascun livello gioca un ruolo diverso nella funzionalità complessiva di ogni persona14.

Ciascun livello gioca un ruolo diverso nella percezione del design, e fattore ancora più importante, lo stato affettivo, sia esso positivo o negativo, modifica il nostro modo di pensare, dunque di interagire con ciò che ci circonda. Gli stati emotivi costituiscono un presupposto di partenza indispensabile per il design, visto che uno stato d’animo piacevole e rilassato predispone alla creatività e consente di superare in maniera più efficace le difficoltà incontrate di fronte ad un dispositivo. In realtà non esiste un design valido per tutti, considerando anche le diversità culturali, sociali, fisiche, che distinguono ciascun individuo. Se è vero che alcuni prodotti finiscono per imporsi sul mercato globale ciò è dovuto sia ad attente strategie pubblicitarie sia a particolari caratteristiche del prodotto. Ecco perché, l’unico modo per rispondere in maniera efficace ad una ampia varietà di richieste è predisporre una vasta scelta di prodotti. Ogni progettista, partendo dal target a cui l’oggetto è destinato finirà dunque per concentrarsi su aspettative diverse. Infatti, individuare il pubblico ed il contesto di riferimento, permette di modulare il progetto tenendo conto delle diversità sociali e culturali, a partire dalla distinzione fra bisogni e desideri. Se i bisogni vanno identificati con ciò che è veramente indispensabile per le attività di una persona, i desideri riguardano invece tutto quello che ci piacerebbe avere. I designer e gli esperti di marketing sanno bene che il successo di un prodotto dipende più dai desideri dell’acquirente che dai suoi effettivi bisogni, per questo mettono in atto strategie di comunicazione in grado di centrare emotivamente l’attenzione del consumatore, definito sempre più attivo da Fulvio Carmagnola. Si parte da un interrogativo fondamentale: che cosa rende un oggetto di design un oggetto del desiderio? La sua forma o la sua funzionalità? Estetica e funzionalità bastano per rispondere alle esigenze di mercato? Nell’era della globalizzazione il design deve fare i conti non solo con sofisticate strategie di marketing ma con l’immagine del brand che lo rappresenta e che aggiunge un valore suppletivo all’oggetto, differenziandolo da altri con caratteristiche simili.

La brand è un fantasma post-marxiano. Credo che sia necessario partire proprio dalla spettrologia per comprendere meglio il concetto. La brand è infatti uno spettro ubiquo, delocalizzato, luminoso e immateriale, galleggiante alla deriva dei flussi mediali.

Non è il simbolo della singola merce o della produzione di merci, nel senso che non si limita a compendiarne la personalità o il contenuto, a rappresentare prodotti ai quali rimanda. Ne è piuttosto l’icona immaginaria, l’inafferrabile alone del referente incerto, indeterminato, aperto a un numero indefinito di narrazioni e di figure15.

L’oggetto acquista dunque un valore simbolico, che trascende sia quello di uso sia quello di scambio, diviene uno status symbol, ovvero segno evidente della condizione economico-sociale di una persona o di un gruppo. Questi particolari requisiti rendono l’oggetto particolarmente desiderato ed ovviamente incidono sul prezzo di vendita. Secondo Carmagnola oggi ci troviamo in una situazione di meta-capitalismo in cui la produzione è fine a se stessa, ciò vuol dire che il valore dei prodotti non corrisponde più al lavoro o alla cura dei materiali, ma principalmente a quello che abbiamo indicato come valore simbolico, immaginario. In altre parole, l’immaginario sociale che un determinato prodotto riesce a trasmettere all’utente lo consacra come oggetto del desiderio. E se il design ha perso la sua innocenza, veicolato dai media e da attente strategie di marketing, non può essere letto ed interpretato attraverso categorie tradizionali, storiche o stilistiche. Una definizione aggiornata deve tener conto anche di fattori economici e simbolici, ovvero legati ai nuovi trend imposti dal mercato. Design e moda sono infatti due sistemi produttivi fondati sulla perfetta sinergia fra estetica ed economia.

In un’intervista in occasione di un Salone del Mobile milanese, Sottsass rimproverava al design attuale di aver perduto la sua carica utopica legata all’invenzione ed alla creatività individuale, e di essersi consegnato alle fredde strategie del marketing. I cinici invocano, da parte loro, il realismo e la presa d’atto che i tempi sono cambiati, che la globalizzazione esige un differente stile di progettualità16.

Un altro aspetto da tenere in considerazione riguarda la fiction economy, ovvero l’economia considerata dal punto di vista della merce e del consumo, «un’economia del desiderio, il cui prodotto è un oggetto mediale narrativizzato dalla brand e codificato nel life style»17. All’interno di questa economia finzionale è possibile inquadrare il fenomeno del rétro (molto diffuso nel car-design) che orienta il gusto verso mode passate e lavora su simboli presenti nell’immaginario collettivo.

Se il dibattito sul rapporto forma-funzione ha riguardato buona parte della storia del design, oggi questo aspetto è superato. Come si è visto, il design attraversa territori complessi, è strettamente connesso al desiderio, è in grado di comunicare ciò che è invisibile ed impalpabile. Nella dimensione contemporanea l’oggetto di design si indossa come un abito ma, diversamente dalla moda, resta in qualche modo ancorato al principio dell’utilità, della funzionalità.

La moda ha certo, da questo punto di vista, meno problemi, il gioco della merce assoluta le riesce più facile, la finzione della dépense le viene meglio, mentre l’oscillazione fra l’utile e il puro piacere della trovata formale imbarazza il design. La stessa tendenza recente a introdurre alcuni oggetti di design sotto forma di esemplare unico potrebbe apparire come il tentativo di mimare nel proprio campo sia l’arte che l’alta moda, con la sua sovranità formale, dove l’apparenza prescinde quasi dal corpo18.

Come sottolineato da Gillo Dorfles nell’introduzione al volume Design la Fabbrica del Desiderio (2009) di Fulvio Carmagnola, la situazione esistentiva, economica, e antropologica rappresenta un punto di vista profondamente diverso dalle indagini che hanno privilegiato gli aspetti estetici e progettuali del design. In particolare, la funzione sociale del design legata al desiderio, ovvero la potenza desiderante dell’oggetto, costituisce uno degli aspetti più interessanti sul quale avviare una attenta disamina critica, perché «in effetti ci serviamo quotidianamente delle nostre forchette, dei nostri cucchiai, delle nostre automobili, ma senza aver compreso fino in fondo che gli stessi oggetti non sono che la buccia d’una sostanza corporea molto più sanguigna, di cui ignoriamo, o facciamo finta di ignorare, l’esistenza»19

 



NOTE

1 De Fusco 2007, p.1.

2 Pevsner 1969, p. 23.

3 Vitta 2001, p. 5.

4 Maldonado 2013, p. 16.

5 Vitta 2001, p. 11.

6 Cfr. Dorfles 1996.

7 Ponti 2010, p. 26.

8 Dorfles 1996, p. 19.

9 Giovannoni 2011, pp. 24-28.

10 Benjamin 2000, p. 23.

11 L’intervento di G.C. Argan è contenuto in Morello 2001, pp. 19-20.

12 Dorfles 1996, pp. 130-131.

13 Baudrillard 2007, p. 34.

14 Norman 2004, p. 19.

15 Carmagnola 2006, p. 8.

16 Carmagnola 2009, pp. 22-23.

17 Carmagnola 2006, p. 23.

18 Carmagnola 2009, p. 33.

19 Ivi, p. 7.

		
	

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Patrizia Mello, Design contemporaneo. Mutazioni, oggetti, ambienti, architetture, Mondadori Electa, Milano, 2008.

MORELLO 2001

La memoria e il futuro. I Congresso Internazionale dell’Industrial Design, Triennale di Milano, 1954, a cura di Augusto Morello, Skira, Milano, 2001.

NORMAN 2004

Donald A. Norman, Emotional design. Perché amiamo (o odiamo) gli oggetti della vita quotidiana, Apogeo, Milano, 2004.

PASCA 2007

Vanni Pasca, Come cambiò il panorama domestico, in “L’Europeo”, numero speciale per Triennale Design Museum, Dicembre 2007.

PEVSNER 1969

Nikolaus Pevsner, L’architettura moderna e il design, Einaudi, Torino, 1969.

PONTI 2010

Gio Ponti, Amate l’Architettura. L’Architettura è un cristallo, (prima ed. 1957), Rizzoli, Milano, 2010.

VITTA 2001

Maurizio Vitta, Il progetto della bellezza. Il design fra arte e tecnica, 1851-2011, Torino, Einaudi, 2001.



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