In ricordo di Gillo Dorfles
Se
è vero che dare in pasto alle popolazioni i fumetti e i fotoromanzi
significa condizionare tali popolazioni a questo genere di prodotti
artistici, è anche possibile l’opposto; e cioè come spetti
proprio a noi di somministrare attraverso i canali di massa gli
oggetti di buon gusto, se vogliamo che si realizzi un’effettiva
educazione artistica delle popolazioni.
Gillo
Dorfles, Introduzione
al disegno industriale,
Bologna, 1963.
Il
termine design, letteralmente progetto/progettazione, ha subito negli
anni una interessante evoluzione semantica: oggi si utilizza per
definire esteticamente o qualitativamente un prodotto, per
identificare una corrente artistica applicata all’oggetto seriale,
o ancora è declinato a sinonimo di disegno industriale alla luce dei
più recenti indirizzi di studio. Questa varietà di significati
risale alla nascita stessa del disegno industriale, che non ha in
realtà una data ben precisa ma è scandita da particolari
avvenimenti storici che hanno contribuito alla sua diffusione nel
contesto europeo. In questa direzione, alcuni storici del design
considerano la Prima Rivoluzione Industriale inglese (1760-1830) un
momento decisivo, sia sotto il profilo tecnico, per l’avvento
della macchina, sia dal punto di vista creativo: si va delineando,
infatti, la figura del progettista indirizzato alla produzione in
serie. Così, Renato De Fusco individua nei caratteri mobili della
stampa le principali caratteristiche del prodotto industriale, ovvero
standardizzazione e serialità.
Se
la rivoluzione industriale convenzionalmente databile al periodo che
va dal 1760 al 1830, segna il maggiore «spartiacque» tra la
produzione artigianale e quella industriale, almeno un settore,
quello della stampa, anticipa di oltre tre secoli tale rivoluzione e
comunque può considerarsi a tutti gli effetti un’attività
classificabile nel dominio del design.
Considerare
la stampa quale forma di disegno industriale ante litteram
vorrebbe dire ammettere una embrionale manifestazione di design già
in pieno Rinascimento, anticipando di secoli gli esiti della Prima
Rivoluzione industriale. Del resto, il primato inglese nella storia
del design è ampiamente riconosciuto all’Arts and Crafts,
determinante per il fiorire delle arti applicate.
“Arte
del popolo per il popolo” è il grido di William Morris,
considerato padre fondatore del movimento inglese, tra i primi ad
incarnare il ruolo di architetto-artista-designer: le sue wallpaper,
oggetto del desiderio dell’alta borghesia vittoriana, anticipano di
gran lunga gli esiti contemporanei del design come status symbol.
Ribrezzo e soggezione sono i sentimenti di Morris nei confronti della
Great Exhibition, inaugurata a Londra nel maggio del 1851. Un
incredibile successo di pubblico scandito da sei milioni di
inconsapevoli visitatori posti di fronte alla nascita dell’oggetto
moderno, nel suo duplice aspetto estetico e funzionale. D’ora in
poi anche gli oggetti quotidiani, prodotti in serie, reclamano una
nuova dignità formale. Il Crystal Palace, costruito in Hyde Park per
ospitare la grande esposizione del 1851, era stato progettato da
Joseph Paxton con una struttura per i tempi avveniristica, un’anima
di ferro e vetro. Smantellato subito dopo l’Expo e ricostruito, in
proporzioni più grandi, a poca distanza dal suo luogo di origine, fu
distrutto da un incendio nella notte del 30 novembre 1936, fatalità
che sembrò presagire la fine di un’epoca. Nello stesso anno a
Londra si pubblicava la prima edizione di Pioneers of Modern
Design, scritto da Nikolaus Pevsner, saggio capitale per
l’architettura e per il design, che trovò in queste pagine una sua
prima e coerente definizione. Nelle successive edizioni lo storico
tedesco, rifugiatosi a Londra per sfuggire al nazismo, delineò lo
sviluppo del Movimento Moderno: dai grandi pionieri
dell’architettura, quali Gropius e Meyer, ai maestri Le Corbusier e
Mies van der Rohe, passando attraverso la lezione organica di Frank
Lloyd Wright. Nei suoi contributi, certamente interessanti sotto il
profilo storico, egli non tralascia presupposti chiave per la
comprensione dell’architettura e del design, parlando tra i primi
di funzionalità.
L’architettura
e il design destinati alle masse devono essere funzionali, nel senso
che devono riuscire bene accette a tutti, portando in primo piano
proprio la loro funzionalità. Una sedia può essere nello stesso
tempo scomoda e un’opera d’arte, ma soltanto un eventuale
conoscitore giungerà a preferire le qualità estetiche a quelle
utilitaristiche. La difesa della funzionalità è quindi la prima
parte delle nostre fonti.
Come
evidenziato da Maurizio Vitta «i due eventi - il rogo e il libro –
segnarono ciascuno a suo modo l’epifania del design»:
da un lato l’incendio del Crystal Palace, con il suo forte impatto
simbolico cancellò le tracce di un passato carico di cattivo gusto,
dall’altro il testo di Pevsner diede vita ad un nuovo filone di
ricerca, inedito ed accattivante.
Una
storia sempre in bilico quella del design, a partire dal suo status,
al confine con arte, architettura, sociologia, economia,
comunicazione. Ecco perché, con Tomás Maldonado, possiamo
considerare molteplici storie del modern design, che tra loro
hanno forse in comune un elemento: una sostanziale svalutazione dei
prodotti della tecnica, già presente in epoca classica.
In
realtà, i prodotti della tecnica – di qualsiasi tipo di tecnica –
sono stati soggetti per secoli alla più tenace discriminazione. E
anche – forse in modo ancor più deciso – gli uomini che si
occupavano sia della loro invenzione e progettazione, sia della loro
effettiva produzione. Si è sostenuto come la radice storica di
questa discriminazione debba essere ricercata nell’antichità, e
più concretamente nella società schiavista greca, con il suo
disprezzo per i lavori manuali e meccanici considerati di natura
infamante: compito di schiavi come di fatto erano.
Domandarsi
come si sia arrivati al superamento di questa secolare
discriminazione significa, in pratica, individuare i passaggi storici
che hanno reso possibile l’avvento del disegno industriale.
Dapprima è tuttavia necessario soffermarsi su quella che è
generalmente considerata la storia del modern design. A
rigore, si tratta non di una storia, ma di molteplici storie.
Solo
di recente la critica ha scelto di guardare oltre, contemplando
nell’ambito del design non solo progetti e progettisti, ma in
maniera trasversale società, pubblico e oscillazioni del gusto, per
dirla con Dorfles. I tempi sono maturi per accogliere nuove e
interessanti prospettive di ricerca, a partire da ciò che possiamo
definire il progetto della bellezza.
È
lecito parlare del design come di un progetto della bellezza?
L’idea che il bello possa essere progettato è stato a lungo
negata; e d’altra parte non tutti sono d’accordo nel ritenere che
si possa attribuire un valore di bellezza agli oggetti di uso
quotidiano né che sia compito del designer fondare su criteri
puramente estetici il disegno del prodotto. Il problema è antico, ma
il design vi ha trovato, nonostante tutto, la sua origine stessa, la
sua ragion d’essere e il suo travagliato destino. […] Tutta la
sua storia è segnata da quest’ansia di bellezza, che vi si
espresse variamente, ma con continuità.
Se
la bellezza applicata agli oggetti quotidiani si impone come antidoto
alla bruttezza della produzione seriale, il binomio forma-funzione
finisce per non soddisfare appieno le richieste del pubblico
contemporaneo. Si afferma in maniera determinante il problema del
gusto, centrale nella odierna società dei consumi. Non sorprende che
fin dai suoi esordi la storia del design sia stata attraversata da
celebri e fruttuose collaborazioni tra progettisti e aziende
produttrici, dal fortunato binomio Basile-Ducrot, a quello
Behrens-AEG, preludio alla moderna figura dell’art director,
colui che costruisce e veicola l’immagine di una azienda. Se
Ernesto Basile si occupò di allestire i primi show-room della
ditta Ducrot a Roma, senza tralasciare vetrine d’eccezione come le
Esposizioni nazionali, Behrens nel 1907 ebbe il compito di progettare
ogni aspetto che riguardasse l’AEG: dalla nota fabbrica di turbine,
ai prodotti seriali (ventilatori, bollitori elettrici, lampade a
bulbo), passando per grafica e la pubblicità. A lui il merito di
aver anticipato i tempi, sia con oggetti fortemente basati sul
rapporto forma-funzione, sia attraverso il ruolo di artistic
consultant, oggi ampiamente diffuso. Questo cambio di prospettiva
influisce non poco sul nostro modo di usare e valutare gli oggetti,
tutti aspetti di recente indagati dal filone dell’emotional
design.
In
tempi non sospetti, Gillo Dorfles aveva preannunciato alcune
importanti modificazioni, tecnologiche, formali e fruitive, legate
sia all’architettura che al design contemporanei. Giusta
previsione, tenuto conto che l’iter progettuale contempla
oggi diversi aspetti: estetico, funzionale, costruttivo, e non ultimo
sensoriale. Ciò ha inevitabilmente modificato la fruizione
dell’oggetto e dello spazio, con ripercussioni evidenti sulla
nostra vita di relazione. In altri termini, il nostro bagaglio
percettivo
si è modificato con l’avvento delle nuove tecnologie, aprendo la
strada ad un rinnovato giudizio estetico rispetto alla coeva
produzione seriale. La svolta è epocale, al cambiamento formale
dell’oggetto corrisponde infatti una diversa sensibilità estetica,
percettiva e fruitiva che non ha precedenti nel passato, perché la
chiave di lettura di un prodotto seriale non può essere la stessa di
manufatto artigianale. Diversi sono i materiali, diverse le funzioni,
diverso è il rapporto tra prodotto e fruitore, il tutto esteso al
campo architettonico.
L’approccio
estetico all’architettura e al design impone dunque leggi proprie e
implica anche una attenta riflessione sull’importanza del gusto
divenuto determinante nell’attuale panorama storico, economico e
sociale. Fino a che punto, infatti, il design può imporre il suo
gusto alle masse? L’interrogativo posto da Dorfles invita a
rivedere il ruolo dell’architetto e del designer, alla luce
dell’impegno e della responsabilità etica ed estetica, invocata
già da Ponti, nel 1957:
[…]
L’edilizia non è un atto privato e transitorio ma è un atto
pubblico che corrisponde a un decoro pubblico e durevole, e ad una
estetica: le facciate sono le pareti della strada e della piazza, non
debbono perciò essere lasciate all’arbitrio, al capriccio, alla
ignoranza, e al cattivo gusto: l’edilizia privata va intesa come un
contributo nell’ordine dell’estetica della città.
Il
progettista ha un ruolo capitale nel processo creativo e produttivo e
come educatore ha una responsabilità di natura sociale: influenzare
il gusto collettivo. Il design ha assorbito ciò che in passato era
prerogativa dell’arte: ciò significa estendere quegli aspetti
spiccatamente estetici, un tempo appannaggio esclusivo dell’oggetto
artistico, all’oggetto di design.
[…]
Ritengo che si possa affermare che l’area di dominio del design
nella società futura debba essere ancora grandemente accresciuta;
senza tuttavia che questo porti alla eliminazione di quello che
ancora vogliamo chiamare “arte”. Il concetto di “arte” e di
design, verranno, anzi, sempre più intercambiandosi: si dovrà
attribuire a molti settori tecnologici e scientifici un valore
estetico, mentre verranno a decadere molte attuali strutture
artistiche, che sono, in effetti già ora, esclusivamente
“sovrastrutturali” .
La
svolta annunciata da Dorfles è già in atto, se consideriamo che
buona parte del nostro panorama formale, fatto di oggetti e
architetture, è regolato dalle leggi del design. Ma, funzionalità,
ergonomia, buona forma, parametri di giudizio normalmente utilizzati
nell’ambito della produzione seriale, non bastano da soli ad
abbracciare la complessa fenomenologia contemporanea. L’oggetto
prodotto industrialmente va letto alla luce del suo impatto
psicologico, della sua efficacia nella comunicazione, del suo valore
simbolico. Infatti, se si prendono in considerazione
movimenti quali Memphis o Alchimia, si capisce come il rapporto
forma-funzione sia drasticamente cambiato: gli oggetti prodotti,
ormai scissi dal mero principio di funzionalità, sono liberi di
esprimersi con un lessico nuovo che li distingue nettamente dal
restante product design. In altre parole, a maestri come
Sottsass, Mendini, Branzi, Pesce, il merito di aver messo in
discussione quel principio di purezza formale impostosi dal Bauhaus
in poi. L’abbandono del binomio forma-funzione e l’avvento del
Postmoderno, hanno mosso i primi passi a favore di una architettura e
di un design sempre più liberi da leggi universali, permettendo a
ciascun progettista la creazione di un proprio linguaggio.
Va
poi considerato un altro aspetto, non direttamente collegato al
Postmoderno ma semmai al rapido sviluppo tecnologico: la progressiva
miniaturizzazione dei componenti elettronici e la sperimentazione
materica, che hanno avuto ovvie ripercussioni sull’aspetto formale
dell’oggetto. Molti designer contemporanei, si pensi a Stefano
Giovannoni, hanno fatto propria questa lezione, lavorando
principalmente sulla comunicazione. Una produzione spesso etichettata
come ludica ed ironica che parte in realtà da presupposti
concettuali molto interessanti, come la rilettura della teoria del
consumo e della merce di Jean Baudrillart. Così, la scelta di
produrre utensili in plastica, al di là di nuove potenzialità
espressive legate al materiale, consente di stabilire un nuovo
rapporto tra oggetto e fruitore.
La
plastica rispetto all’acciaio ci permetteva di realizzare degli
oggetti che avevano un potenziale espressivo molto più evoluto. Si
poteva giocare in maniera estremamente libera, non solo sulla forma
dell’oggetto, ma anche sulle caratteristiche del materiale, sulla
sua trasparenza, addirittura su certi aspetti sensoriali e tattili.
È
chiaro che dietro a quegli oggetti c’era un forte spirito poetico:
non c’era esclusivamente l’attenzione al mercato ma anche la
volontà di creare degli oggetti che potessero relazionarsi con i
desideri e l’immaginario del pubblico.
Ciò
significa che il design contemporaneo va ben oltre i criteri di
funzionalità e praticità, collocandosi in una sfera altamente
complessa e simbolica. Tutti gli oggetti, a prescindere dall’epoca
e dal contesto storico, possiedono infatti un plus valore, sia
esso affettivo, apotropaico, magico, rituale. Guardiamo ai nostri
maestri, la lezione di Castiglioni, Sottsass, Magistretti, Zanuso, è
sempre viva, i loro oggetti non hanno qualità strettamente
funzionali ma si distinguono per una forte componente estetica,
simbolica, progettuale, costituiscono un patrimonio visivo, sono
profondamente legati alla nostra memoria, riprodotti in grande serie.
Ciò
implica forse una più ampia riflessione sul concetto di multiplo, o
meglio di serialità, applicata sia all’arte che al design. Com’è
noto il pezzo unico è stato largamente superato dalla condizione di
riproducibilità dell’opera d’arte di cui Walter Benjamin è
stato grande teorizzatore. Così, alcuni movimenti artistici, arte
cinetica, programmatica, fino alla Pop Art o alla Digital Art, hanno
realizzato opere con procedimenti affini a quelli della produzione
industriale. Gli artisti sono stati testimoni silenti di tale
cambiamento, intuendo la necessità di oltrepassare l’aura legata
all’unicità dell’opera d’arte. E se i multipli costituiscono
il risultato concreto di questo nuovo approccio alla riproducibilità
dell’arte, le tecniche incisorie ne sono state certamente un
esempio. Venuto meno il principio di opera unica, irriproducibile,
irripetibile, si è fatto strada quello di opera seriale, dunque
riproducibile in molti esemplari senza che questo ne pregiudichi in
alcun modo il valore.
Ciò
che viene meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione
di «aura»; e si può dire: ciò che viene meno nell’epoca della
riproducibilità tecnica è «l’aura» dell’opera d’arte. Il
processo è sintomatico; il significato rimanda al di là dell’ambito
artistico. La tecnica della riproduzione, così si potrebbe formulare
la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione.
Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico
una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di
venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare
situazione, attualizza il riprodotto. Entrambi i processi portano ad
un violento rivolgimento che investe ciò che viene tramandato – a
un rivolgimento della tradizione, che è l’altra faccia della crisi
attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità. Essi sono
strettamente legati ai movimenti di massa dei nostri giorni. Il loro
agente più potente è il cinema.
Nonostante
le tecniche di riproduzione si siano con il tempo perfezionate, il
pericolo è sempre latente: viene meno quel prezioso hic et nunc
dell’opera, ossia la sua esistenza unica è irripetibile nel
luogo in cui si trova. La nascita della fotografia è stata un evento
capitale per la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, con
effetti immediati sulla fruizione e sulla percezione dell’opera,
sempre più accessibile ad un vasto pubblico. Le opere perdono il
loro fascino mistico, la loro natura devozionale, e al valore
cultuale si sostituisce gradualmente quello culturale. Il progressivo
abbandono dell’aura assume una valenza positiva nella riflessione
benjaminiana, non solo l’arte diventa più accessibile al pubblico
ma è finalmente liberata da quell’atteggiamento reverenziale che
aveva caratterizzato i secoli passati. La serialità, dunque, è un
ulteriore punto di contatto tra design e opera d’arte e, estesa
all’oggetto, favorisce la sua circolazione nella sfera sociale. A
questo proposito Giulio Carlo Argan, in occasione del I Congresso
Internazionale dell’Industrial Design (Milano, 1954), si esprimeva
così:
Un
punto che bisogna tener fermo è il carattere di esteticità del
design: è questo che autorizza l’intervento nei processi
produttivi con lo scopo di limitarne l’aspetto meccanicistico e
ripetitivo, ed è questo che garantisce il progresso nella produzione
attraverso il rinnovarsi delle forme e l’inserirsi di forme nuove
nella serie. Quel carattere estetico dipende necessariamente da
un’esperienza estetica, che a sua volta non può essersi affermata
che attraverso lo studio delle forme storiche dell’arte; il design
trova la sua giustificazione e la ragione della sua funzione in
quella esperienza molto più che in un astratto concetto dell’arte.
Oltre
ad aver diffuso il concetto di industrial design, delineandone
le principali caratteristiche poetiche, il Congresso Internazionale
milanese contribuì alla formulazione di categorie critiche valide
per la lettura dell’oggetto prodotto in serie. I tempi erano maturi
per dare al design un proprio statuto: aziende come Olivetti e
Kartell avevano dato impulso all’economia del dopoguerra, la
Rinascente in Piazza Duomo a Milano era simbolo di una nuova stagione
di rinascita e di consumismo. Un congresso dedicato al design era
dunque d’obbligo nel contesto italiano degli anni Cinquanta, sia
per promuovere la nuova figura del designer, sia per diffondere,
nell’opinione comune, nuova consapevolezza rispetto agli oggetti
prodotti in serie. L’intervento di Argan, dunque, è stato per
certi versi profetico, anticipando alcune tematiche - quella legata
al piacere estetico dell’oggetto e quella connessa alla serialità
- oggi centrali nel campo della teoria e della prassi progettuale.
Un
prodotto creato per l’industria risponde non solo ad esigenze
meramente funzionali ma contempla altri aspetti, come la possibilità
di suscitare una sensazione di piacevolezza, visiva, tattile, o più
in generale sensoriale. Se la storia dell’architettura
contemporanea, come del resto la storia dell’arte, è stata
attraversata da un periodo di estremo rigore formale, suggerito dai
protagonisti del Movimento Moderno, il design non è da meno. Così
le architetture radicali, postmoderne, insieme alle più recenti
opere decostruttiviste, hanno costituito una valida alternativa ai
dettami imposti dall’International Style, mentre il design si è
opposto allo slogan poetico “ciò che è funzionale è anche
bello”. Nel periodo che possiamo definire post Bauhaus si è
affermata infatti una determinata estetica dell’oggetto,
caratterizzata in primis dall’aderenza tra forma e funzione.
In altre parole, per giungere al good design era sufficiente
che la forma corrispondesse alla funzione. Se analizziamo un
qualunque oggetto di design capiamo subito che la situazione oggi è
radicalmente cambiata.
Non
basta che un oggetto corrisponda alla funzione pratica, utilitaria,
perché risulti positivo. E questo per una ragione semplicissima, e
cioè perché esiste una funzionalità non soltanto pratica
(quella che ad esempio deve avere una seggiola perché io possa stare
comodamente di fronte questo tavolo oppure quello che deve avere un
microfono perché io possa parlare senza fatica), ma deve esistere
anche, (soprattutto quando si tratta di un oggetto d’uso personale,
d’uso individuale) quello che possiamo definire una funzionalità
psicologica. Ossia l’oggetto deve avere quei requisiti di
piacevolezza, d’interesse di novità che suscitino nell’acquirente
il desiderio di impadronirsi di quest’oggetto, non solo, ma deve
anche avere quei requisiti che lo semantizzino, cioè che rendano
l’oggetto chiaramente significativo.
La
componente psicologica, che consiste nel rapporto che l’oggetto
instaura rispetto all’ambiente circostante, è certamente la chiave
di svolta che caratterizza l’approccio contemporaneo al design.
L’orientamento attuale della critica tiene conto infatti delle
ripercussioni emozionali e sensoriali dell’industrial design,
che vanno ben oltre il semplice utilizzo del prodotto. Jean
Baudrillart è stato tra i primi a proporre un approccio sociologico
al design. Se fino alla metà del Novecento gli oggetti che
arredavano la casa rappresentavano con chiarezza i valori borghesi,
in particolare la famiglia (si pensi al tavolo al centro della sala
da pranzo, emblema della società patriarcale), con la frantumazione
dell’assetto familiare tradizionale l’oggetto non è più
contenitore di tali significati. Lo spazio postmoderno è privo di
vincoli, caratterizzato da una organizzazione libera dove gli arredi,
sgravati dalla funzione di rappresentare una determinata condizione
sociale, diventano sempre più astratti e replicabili. Anche gli
specchi, che un tempo riflettevano l’immagine del padrone di casa
borghese e dei suoi beni, finiscono per uscire di scena, insieme ai
ritratti di famiglia e alle opere d’arte appese alle pareti,
sostituite man mano da stampe e riproduzioni. Secondo il sociologo
francese, infatti, gli oggetti sono il riflesso di un ordine totale,
rispecchiano epoche e culture ed oltre ad un aspetto meramente
pratico ne possiedono uno psicologico.
Anche
gli oggetti – e i mobili in particolar modo – hanno, oltre alla
loro funzione pratica, una funzione primordiale di vaso, che
appartiene all’immaginario. A questa funzione corrisponde la loro
ricettività psicologica. Gli oggetti sono dunque riflesso di una
visione totale del mondo in cui ogni essere è concepito come un
“vaso di interiorità”, e i rapporti come correlazioni
trascendenti di sostanze.
Nella
creazione di un oggetto, come si è visto, il progettista deve tener
conto di variabili diverse: materiali, modalità, costi di
realizzazione, comunicazione, pubblicità. Questi fattori finiscono
per incidere sulla nostra relazione con l’oggetto influenzando la
sfera emotiva e sensoriale decisiva nel determinare il successo o
meno di un prodotto, ancor più di altri fattori. Lo studioso Donald
A. Norman ha ampiamente indagato questi aspetti, muovendo dal
presupposto che il sistema emozionale guida ogni nostro
comportamento. L’emozione viene prima della valutazione a livello
cognitivo, ecco perché gli oggetti piacevoli svolgono meglio la loro
funzione. Queste tesi sono avvalorate da alcune ricerche svolte in
ambito psicologico, che hanno a loro volta confermato come lo stato
di contentezza favorisca i processi intellettivi ed il pensiero
creativo. Norman ha individuato negli esseri umani strutture
cerebrali complesse, basate su tre livelli di elaborazione:
[…]
Lo strato automatico, precablato, chiamato livello viscerale;
la parte comprendente i processi cerebrali che controllano il
comportamento quotidiano, nota come il livello comportamentale;
e la parte contemplativa del cervello, o livello riflessivo.
Ciascun livello gioca un ruolo diverso nella funzionalità
complessiva di ogni persona.
Ciascun
livello gioca un ruolo diverso nella percezione del design, e fattore
ancora più importante, lo stato affettivo, sia esso positivo o
negativo, modifica il nostro modo di pensare, dunque di interagire
con ciò che ci circonda. Gli stati emotivi costituiscono un
presupposto di partenza indispensabile per il design, visto che uno
stato d’animo piacevole e rilassato predispone alla creatività e
consente di superare in maniera più efficace le difficoltà
incontrate di fronte ad un dispositivo. In realtà non esiste un
design valido per tutti, considerando anche le diversità culturali,
sociali, fisiche, che distinguono ciascun individuo. Se è vero che
alcuni prodotti finiscono per imporsi sul mercato globale ciò è
dovuto sia ad attente strategie pubblicitarie sia a particolari
caratteristiche del prodotto. Ecco perché, l’unico modo per
rispondere in maniera efficace ad una ampia varietà di richieste è
predisporre una vasta scelta di prodotti. Ogni progettista, partendo
dal target a cui l’oggetto è destinato finirà dunque per
concentrarsi su aspettative diverse. Infatti, individuare il pubblico
ed il contesto di riferimento, permette di modulare il progetto
tenendo conto delle diversità sociali e culturali, a partire dalla
distinzione fra bisogni e desideri. Se i bisogni vanno identificati
con ciò che è veramente indispensabile per le attività di una
persona, i desideri riguardano invece tutto quello che ci piacerebbe
avere. I designer e gli esperti di marketing sanno bene che il
successo di un prodotto dipende più dai desideri dell’acquirente
che dai suoi effettivi bisogni, per questo mettono in atto strategie
di comunicazione in grado di centrare emotivamente l’attenzione del
consumatore, definito sempre più attivo da Fulvio Carmagnola. Si
parte da un interrogativo fondamentale: che cosa rende un oggetto di
design un oggetto del desiderio? La sua forma o la sua funzionalità?
Estetica e funzionalità bastano per rispondere alle esigenze di
mercato? Nell’era della globalizzazione il design deve fare i conti
non solo con sofisticate strategie di marketing ma con l’immagine
del brand che lo rappresenta e che aggiunge un valore
suppletivo all’oggetto, differenziandolo da altri con
caratteristiche simili.
La
brand è un fantasma post-marxiano. Credo che sia necessario
partire proprio dalla spettrologia per comprendere meglio il
concetto. La brand è infatti uno spettro ubiquo, delocalizzato,
luminoso e immateriale, galleggiante alla deriva dei flussi mediali.
Non
è il simbolo della singola merce o della produzione di merci, nel
senso che non si limita a compendiarne la personalità o il
contenuto, a rappresentare prodotti ai quali rimanda. Ne è piuttosto
l’icona immaginaria, l’inafferrabile alone del referente incerto,
indeterminato, aperto a un numero indefinito di narrazioni e di
figure.
L’oggetto
acquista dunque un valore simbolico, che trascende sia quello di uso
sia quello di scambio, diviene uno status symbol, ovvero segno
evidente della condizione economico-sociale di una persona o di un
gruppo. Questi particolari requisiti rendono l’oggetto
particolarmente desiderato ed ovviamente incidono sul prezzo di
vendita. Secondo Carmagnola oggi ci troviamo in una situazione di
meta-capitalismo in cui la produzione è fine a se stessa, ciò vuol
dire che il valore dei prodotti non corrisponde più al lavoro o alla
cura dei materiali, ma principalmente a quello che abbiamo indicato
come valore simbolico, immaginario. In altre parole, l’immaginario
sociale che un determinato prodotto riesce a trasmettere all’utente
lo consacra come oggetto del desiderio. E se il design ha perso la
sua innocenza, veicolato dai media e da attente strategie di
marketing, non può essere letto ed interpretato attraverso categorie
tradizionali, storiche o stilistiche. Una definizione aggiornata deve
tener conto anche di fattori economici e simbolici, ovvero legati ai
nuovi trend imposti dal mercato. Design e moda sono infatti
due sistemi produttivi fondati sulla perfetta sinergia fra estetica
ed economia.
In
un’intervista in occasione di un Salone del Mobile milanese,
Sottsass rimproverava al design attuale di aver perduto la sua carica
utopica legata all’invenzione ed alla creatività individuale, e di
essersi consegnato alle fredde strategie del marketing. I cinici
invocano, da parte loro, il realismo e la presa d’atto che i tempi
sono cambiati, che la globalizzazione esige un differente stile di
progettualità.
Un
altro aspetto da tenere in considerazione riguarda la fiction
economy, ovvero l’economia considerata dal punto di vista
della merce e del consumo, «un’economia del desiderio, il cui
prodotto è un oggetto mediale narrativizzato dalla brand e
codificato nel life style».
All’interno di questa economia finzionale è possibile
inquadrare il fenomeno del rétro (molto diffuso nel car-design)
che orienta il gusto verso mode passate e lavora su simboli presenti
nell’immaginario collettivo.
Se
il dibattito sul rapporto forma-funzione ha riguardato buona parte
della storia del design, oggi questo aspetto è superato. Come si è
visto, il design attraversa territori complessi, è strettamente
connesso al desiderio, è in grado di comunicare ciò che è
invisibile ed impalpabile. Nella dimensione contemporanea l’oggetto
di design si indossa come un abito ma, diversamente dalla moda, resta
in qualche modo ancorato al principio dell’utilità, della
funzionalità.
La
moda ha certo, da questo punto di vista, meno problemi, il gioco
della merce assoluta le riesce più facile, la finzione della dépense
le viene meglio, mentre l’oscillazione fra l’utile e il puro
piacere della trovata formale imbarazza il design. La stessa tendenza
recente a introdurre alcuni oggetti di design sotto forma di
esemplare unico potrebbe apparire come il tentativo di mimare nel
proprio campo sia l’arte che l’alta moda, con la sua sovranità
formale, dove l’apparenza prescinde quasi dal corpo.
Come
sottolineato da Gillo Dorfles nell’introduzione al volume Design
la Fabbrica del Desiderio (2009) di Fulvio Carmagnola, la
situazione esistentiva, economica, e antropologica rappresenta un
punto di vista profondamente diverso dalle indagini che hanno
privilegiato gli aspetti estetici e progettuali del design. In
particolare, la funzione sociale del design legata al desiderio,
ovvero la potenza desiderante dell’oggetto, costituisce uno degli
aspetti più interessanti sul quale avviare una attenta disamina
critica, perché «in effetti ci serviamo quotidianamente delle
nostre forchette, dei nostri cucchiai, delle nostre automobili, ma
senza aver compreso fino in fondo che gli stessi oggetti non sono che
la buccia d’una sostanza corporea molto più sanguigna, di cui
ignoriamo, o facciamo finta di ignorare, l’esistenza»
NOTE
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