L'apertura della mostra
Monet. Capolavori dal Musée Marmottan–Monet, Parigi[1],
al Complesso del Vittoriano, offre la
possibilità al pubblico romano di avvicinarsi, al celebre maestro
dell’Impressionismo, attraverso circa 60 opere, tra le più care al pittore,
alcune poco note, altre mai esposte, provenienti dalla collezione privata
dell’artista, raccolta instancabilmente nell’arco dell’intera sua vita e
conservata, fino alla morte, nella sua famosa Casa di Giverny; dopo la
scomparsa del maestro francese, per volontà di Michel Monet, unico erede
diretto, le opere sono pervenute all’Accademia di Belle Arti parigina di cui la Casa-Museo Marmottan è un’emanazione. La rassegna, curata dalla
storica dell’arte e vice–direttrice del museo prestatore, Marianne Mathieu[2],
è il risultato di una selezione accurata e meditata delle opere impressioniste,
per lo più di mano del maestro, sui lasciti che costituiscono il Museo: nel 1940 Victorine ed Eugène
Donop de Monchy individuano nella fondazione dell’Accademia l’erede della loro raccolta privata[3],
similmente, nel 1966, Michel prevede il lascito a favore dell’istituzione
francese[4].
La mostra mira a ricostruire,
attraverso sei sezioni tematiche, l’intero cammino artistico percorso dal
maestro: a partire dai primissimi lavori di Le Havre, come le, poco conosciute
ai molti, caricature della fine degli anni Cinquanta dell’800[5],
grazie alle quali l’artista comprende che “fare arte” può produrre un guadagno[6],
attraverso i paesaggi di Londra, Parigi, Vétheuil, Pourville e della riviera
ligure, fino alla sua preziosa residenza di Giverny a cui si dedica quasi
ossessivamente nell’ultima parte della sua lunga vita.
Il
suo girovagare alla ricerca di soggetti per lui attraenti è ben spiegato
dall’amico e compagno Guy de Maupassant, con il quale stringe amicizia nel
settembre del 1886, il quale testimonia della straordinaria foga pittorica del maestro:
“Lo scorso anno, in questo paese, ho spesso seguito Claude Monet in cerca di
“impressioni”. Non era un pittore, in verità, ma un cacciatore. Andava, seguito
dai bambini che portavano le sue tele, cinque o sei tele raffiguranti lo stesso
motivo, in diverse ore del giorno e con diversi effetti di luce. Egli le
riprendeva e le riponeva a turno, secondo i mutamenti del cielo. E il pittore,
davanti al suo soggetto, restava in attesa del sole e delle ombre, fissando con
poche pennellate il raggio che appariva o la nube che passava... E sprezzante
del falso e dell’opportuno, li poggiava sulla tela con velocità”[7]
e ancora “L’ho visto cogliere così un barbaglio di luce su una roccia bianca e
registrarlo con un fiotto di pennellate gialle che, stranamente, rendevano
l’effetto improvviso e fuggevole di quel rapido e inafferrabile bagliore.
Un’altra volta ha preso a piene mani uno scroscio d’acqua abbattutosi sul mare
e lo ha gettato rapidamente sulla tela. Ed era proprio la pioggia che era
riuscito a dipingere, nient’altro che della pioggia che velava le onde, le
rocce e il cielo, appena distinguibili sotto quel diluvio”[8].
La
mostra si spiega lungo un percorso tematico, preceduta da una cronologia, molto
ben leggibile, inizia con “Una famiglia – un museo”: la sezione testimonia
l’intimo rapporto, di natura famigliare, che l’artista aveva con i due amati
figli (Jean e Michel), avuti dalla prima moglie Camille Doncieux, morta, a soli
31 anni, nel 1979. A seguito di questo momento di crisi profonda, attraversato dal
maestro per la perdita dell’amata e per il freddo attanagliante vissuto
nell’inverno seguente (tra 1879 e il 1880), probabilmente particolarmente
sentito anche a causa della scomparsa della consorte, le tele dell’artista[9]
progressivamente si spopolano di figure umane e si concentrano sulla natura e
sulla semplificazione dei soggetti[10].
I ritratti dei figli[11]
sono gelosamente serbati, per tutta la vita, nella dimora di Giverny, mai
esposti al pubblico, essi mostrano il soggetto su sfondo neutro, non presentano
mai quinte naturali, forse per la volontà del maestro di concentrarsi sul
soggetto, senza offrire distrazioni che possano distogliere l’attenzione dalla
figura ritratta verso cui rivela l’amore e l’affetto profondamente provati
dall’artista[12].
Questi ritratti rivelano fattezze poco definite, appena abbozzate, ma il vigore
e la forza emotiva che sottendono alla rapida esecuzione, voluta dal maestro
per rappresentare i propri cari, esaltano la natura intima dei bambini la cui
personalità, sembra voler dichiarare il maestro, non può essere risolta sulla
tela perché ancora in divenire. Sceglie, dunque, un ductus e un modus operandi
che sia quanto di più idoneo a suggerire un carattere in evoluzione, ancora in
via di definizione, pennellate rapide e nervose, parti lasciate volontariamente
incompiute, rendono al meglio questo concetto di mutevolezza della personalità[13].
La ritrattistica, così come concepita dall’artista, diventa una dichiarazione
di amore per la sua famiglia, motivo per cui, probabilmente, le tele
raffiguranti soggetti umani ritratti sono dedicati per lo più ai figli[14].
Sulla
parete opposta si dispiega l’interessante unità che testimonia il Monet
caricaturista: la sua iniziale formazione artistica avviene a Le Havre, un
paesino della Normandia, dove frequenta la scuola locale in cui insegna arti
pittoriche l’anziano maestro Jacque François Ochard[15].
I suoi insegnamenti sono per il giovane Claude fondamentali per iniziare a
dedicarsi al disegno. Realizza schizzi e caricature dei suoi compagni e docenti
che poi regala ai diretti interessati. Il paese è piccolo, non accade mai
nulla, per cui gli omaggi del giovane sono una piacevole novità, questa
circostanza gli regala una certa notorietà nel piccolo ambiente locale. In poco
tempo le sue caricature diventano ricercate e Monet ne approfitta per farsi
pagare i ritratti (10 o 20 franchi a foglio)[16].
Alcune caricature, più che indagare in modo dissacrante la personalità del
soggetto, ripetono “tipi” come, per esempio, la Vecchia normanna (1857) o la Giovane
donna al piano verticale (1858) presenti in mostra.
Il ragazzo espone le sue caricature
presso il cartolaio Gravier, in rue de Paris. Tutte le domeniche la
vetrina si riempie di nuove immagini, montate in cornici dorate[17].
Davanti si affollano curiosi che si divertono, davanti al giovane, ad
individuare il personaggio messo alla berlina tra applausi e risa. Si racconta
che lo stesso Monet che ebbe a dire: “Scoppiavo di orgoglio”[18].
Per perfezionare il suo stile copia di buon grado i ritratti di artisti noti che
può osservare e studiare sui giornali dell’epoca[19].
Replica e conserva per tutta la vita nella sua cartellina le caricature di
personaggi famosi dell’epoca (caricature presenti in mostra)[20],
come Adolphe d’Ennery, scrittore, drammaturgo e librettista francese; Théodore
Pelloquet giornalista e critico d’arte; Jules François Félix Husson, detto
Fleury scrittore meglio conosciuto con lo pseudonimo di Champfleury[21];
Augustin Eugène Scribe notissimo scrittore di teatro[22].
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Fig. 1: Claude Monet, Londra. Il
Parlamento. Riflessi sul Tamigi, 1905, olio su tela, 81,5 x 92 cm, Parigi,
Musée Marmottan Monet.
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Fig. 2: Claude Monet (1840-1926), Vétheuil
nella nebbia, 1879, olio su tela, 60 x 71 cm, Parigi, Musée Marmottan Monet.
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La
sezione seguente testimonia della voglia, sentita come necessità, di Monet di
scovare ovunque luoghi e soggetti degni di essere rappresentati[23].
Scorrazzando per la campagna francese ricerca momenti di vita “luminosi” che
catturino la sua attenzione. Nel 1871,
il pittore si stabilisce ad Argenteuil e nel 1878 a Vétheuil. Con la perdita
della moglie (1879) Claude passa uno dei periodi più difficili della sua
esistenza, la disperazione e la solitudine vissuti si riflettono sul suo
lavoro, e realizza opere potenti, vigorose. Disinteressato alla resa della
presenza umana, le sue tele non mostrano più nulla di descrittivo–aneddotico,
ma si qualificano per la resa, quasi ossessiva, di sensazioni e percezioni: la
morsa del freddo che ha caratterizzato l’inverno tra il Settantanove e
l’Ottanta è per lui un tormento che cerca di rendere nel dipinto del 1879 Vétheuil nella nebbia (Fig. 2). Se
confrontato con Treno nella neve (1875,
Fig. 3), notiamo come l’interesse del pittore si sia spostato dal racconto di
una situazione atmosferica in forma aneddotica della locomotiva a favore di una
semplificazione totalizzante del soggetto di Vétheuil, avvolta nel freddo.
Nella rappresentazione del luogo ogni descrizione episodica è bandita e si
percepisce solo il gelo provato dal maestro in quel momento di crisi. Claude
non racconta più, ma comunica la soffocante sensazione della morsa del
freddo. Tra l’Ottanta e l’Ottantacinque torna di frequente in Normandia, terra
in cui è cresciuto, nei luoghi in cui ha imparato a dipingere en plein air accanto al maestro Boudin.
Il mare, le spiagge e le falesie di Pourville, Étretat e Varengeville concedono
al maestro temi e soggetti convenienti alle
sue preoccupazioni estetiche.
In Barca a vela. Effetto della sera
(1885, Fig. 4) o Étretat, falesia
d’Amont. Effetto del mattino (1885), il paesaggio non è più solo una
raffigurazione descrittiva di terra e mare, ma diventa la rappresentazione,
attraverso una materia spessa e una pennellata allungata, di “forze in azione,
colte nel pieno della lotta”[24].
In questa fase Monet è, dunque, particolarmente affascinato da quei giochi
mutevoli dell’atmosfera tra luce e ombra, da quelle visioni effimere e
discontinue della luminosità sulla superficie dell’acqua che l’artista tenta di
catturare e riprodurre nelle sue opere. Sempre alla ricerca di nuove
esperienze, nel corso delle sue esplorazioni, Monet continua a modificare il
suo sguardo producendo opere sempre inedite. Nel suo girovagare Monet arriva in
Italia, visita la riviera ligure, qui il maestro è abbagliato dalla
“brillantezza”, dalla “magica luce” e dai colori della regione: “tutto è
variopinto e dorato, è meraviglioso e ogni giorno la campagna è più bella, sono
incantato” (Lettera di Monet da Bordighiera a Durand–Ruel, dell’11 Marzo 1884)[25].
Tutta questo entusiasmo origina una tela opera dalla palette inedita (Il Castello
di Dolceacqua, 1884, Fig. 5).
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Fig. 3: Claude Monet (1840–1926), Il treno nella neve. La locomotiva, 1875, olio
su tela, 59 x 78 cm, Parigi, Musée Marmottan Monet.
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Fig. 4: Claude Monet (1840–1926), Barca a vela. Effetto sera, 1885, olio su
tela, 54 x 65 cm, Parigi, Musée Marmottan Monet.
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Fig. 5: Claude Monet (1840–1926), Il castello di Dolceacqua, 1884, olio su
tela, 92 x 73 cm, Parigi, Musée Marmottan Monet.
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Il
suo vagabondare estetico, sempre alla ricerca di un soggetto degno, di un
paesaggio da dipingere, di atmosfere di aria e di luce impalpabili tra Francia
del Sud, Normandia, Paesi Bassi, Olanda, Italia e Inghilterra, a partire dagli
anni Novanta cessa, la necessità implacabile ed ansiosa di ricerca si placa e
comincia a dipingere la rinnovata tenuta di Giverny, che grazie all’aiuto
economico di Durand–Ruel è riuscito ad acquistare[26].
Si
svolge, dunque, la sezione della mostra dedicata alle Ninfee: “Il mio giardino
è un’opera lenta, perseguita con amore. E non nascondo che ne vado fiero”[27].
Il fienile adiacente la casa diventa il primo atelier dell’artista che continua a plasmare il giardino come un tableau vivant[28]
facendone il suo soggetto prediletto, quello che dipingerà fino alla morte.
Quando non si dedica alla pittura si dedica al giardinaggio. Le piante, dunque,
diventano i temi prediletti della sua pittura. Nel 1893, Monet ottiene, tra
mille difficoltà, il permesso di scavare uno specchio d’acqua in fondo alla
proprietà per potervi coltivare le piante acquatiche. Progetta di dipingere lo
stagno delle ninfee e, tra il 1899 e il 1902, Monet gli dedica due serie di
tele. Lo sfondo dei dipinti è occupato da una vegetazione abbondante che forma
uno schermo sul quale si stagliano le chiazze colorate dei nenufari[29].
Ai nuovi piani pittorici segue la costruzione, nel 1897, di un secondo atelier. Dal 1903, ossessionato dal
soggetto, Monet si dedica ad una nuova serie, il fiore è divenuto soggetto
autonomo, da questo tormento originano i pannelli monumentali, donati nel 1922,
all’Orangerie per festeggiare la fine
della I Guerra Mondiale. Gli ultimi
due decenni della vita dell’artista mettono alla prova il maestro, prostrato
dalla morte dei suoi cari (Suzanne, Alice e Jean), da un’incipiente doppia
cateratta, inizialmente non operabile, e dalla dichiarazione di guerra,
stilisticamente reagisce con una certa libertà espressiva che ha fatto parlare
di aperture alla modernità. Appartato nel suo giardino, dedica una serie di
tele al salice piangente (Fig. 8), da lui piantato personalmente qualche
decennio prima, e che ora diventa il simbolo dell’angoscia e della tristezza
che lo accompagnano. Tra il 1918 e il 1922 lo stagno è ancora oggetto di una
serie, in cui il cielo, le nuvole, i fiori e il bacino acquatico stesso
scompaiono, si percepiscono solo elementi solitari come i rami, su una
superficie di pioggia di colori stridenti[30].
Anche le due serie dedicate al ponte giapponese (Fig. 9), e al viale delle rose
costituiscono opere molto personali, di forte impatto, in cui il soggetto si
disgrega e la materia, un’esplosione di colori, si palesa nella pennellata
vigorosa e nell’ampiezza del gesto. Unico elemento distintivo in entrambe le
serie è lo snello arco al centro della composizione, ricoperto da una fitta
vegetazione che satura lo spazio. A contare per Monet sono la luce, l’aria e
tutto ciò che si frappone tra il soggetto e il suo occhio[31].
Il maestro con questo nuovo modus
operandi apre la strada alla modernità. L’ultima fase della carriera del
pittore, infatti, particolarmente ricca dal punto di vista espressivo, si
colloca tra figurazione ed astrazione, e, sebbene non sia ancora il caso di
parlare di astrazione, certamente non sbaglieremo ad indicarla come “arte non
figurativa”. Dal 1914, incoraggiato da Georges Clemenceau, suo grande amico, e
da Blanche, la figliastra che gli è accanto negli ultimi anni, Monet affronta
l’immenso progetto delle Grandi Decorazioni[32].
Per poter lavorare, senza difficoltà, su questo nuovo ciclo di dipinti, nel
1915, Monet fa costruire, a nord–est della proprietà, un terzo atelier. Il maestro lavora
simultaneamente su più tele, ed interviene con ritocchi, anche a distanza di
anni, fino alla morte, queste circostanze rendono complicato stabilire una
cronologia attendibile ed efficace. A ciò si aggiunga che Monet appronta un
numero considerevole di opere per le Grandi
Decorazioni e solo una parte è scelta per essere esposta all’Orangerie. Molte tele delle collezioni
del Museo Marmottan sono, infatti, state dipinte come parte di quella
colossale impresa. È il caso dei Glicini
(1919–20), che l’autore rinuncia a inserire nel ciclo e di diversi pannelli che
dovevano servire a raccordare tele più grandi[33].
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Fig. 6: Claude Monet (1840-1926), Ninfee e agapanti, 1914-1917, olio su tela,
140 x 120 cm, Parigi, Musée Marmottan Monet.
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Fig. 7: Claude Monet (1840–1926), Iris, 1924-1925, olio su tela, 105 x 73 cm,
Parigi, Musée Marmottan Monet.
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Fig. 8: Claude Monet (1840-1926), Salice piangente, 1918-1919, olio su tela,
100 x 120 cm, Parigi, Musée Marmottan Monet.
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Fig. 9: Claude Monet (1840-1926), Il ponte giapponese, 1918-1919, olio su
tela, 74x92 cm, Parigi, Musée Marmottan Monet.
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Il
catalogo
Monet.
Capolavori dal Musée Marmottan Monet, Parigi a cura di Marianne Mathieu
A cura di Marianne Mathieu, il
volume con pregevole copertina rigida, pubblicato da Arthemisia book, mostra
un’accurata cura editoriale. Più che come catalogo, il testo manca, infatti,
delle tradizionali schede di catalogo delle opere, si configura come
un’aggiornata ed attenta monografia che avvicina il lettore ignaro alla
notevole figura del maestro francese, ed allo stesso tempo consente all’esperto
di approfondire aspetti e temi meno noti riguardanti Claude Monet.
L’opera, si apre con i tradizionali
e poco roboanti ringraziamenti preliminari; si limitano, infatti, a due soli
interventi: quello del direttore del Musée Marmottan–Monet, Patrick de
Carolis, e quello della Presidente del Gruppo Arthemisia, Iole Siena, che ha
voluto ed organizzato la mostra.
I saggi, veri e propri scritti di
aggiornamento scientifico sul maestro, sono lavori di studiosi ed esperti del
pittore francese: M. Mathieu, la curatrice (Genesi
delle collezioni Monet del Musée Marmottan-Monet. Da Impressione, levar del
sole alle Ninfee; Monet a Giverny);
Philippe Piguet, storico e critico d’arte contemporaneista (Claude Monet in privato); Aurélie
Gavoille, conservatore museale a Parigi (Monet
caricaturista. Da Oscar a Claude Monet; L’intimità familiare di Monet; Il
giardino di Giverny. Ninfee e fiori dello stagno); Claire Gooden, curatrice
junior al Marmottan (Monet cacciatore di soggetti; Opere ultime).
Con il suo primo intervento la
Mathieu ci restituisce la storia della nascita del museo, avendo cura di
focalizzare il suo discorso sul paradosso del quadro simbolo del movimento
impressionista, Impressione, levar del
sole (1872), l’opera, forse più
significativa del pittore, che però rimane ai margini della storia anche dopo
la rivalutazione del gruppo–non–gruppo.
Anche il suo secondo lavoro è di
carattere generale e punta a ricostruire il periodo in cui Monet si trasferisce
a Giverny nella tenuta La Pressoir;
inizialmente in affitto, l’artista riesce, in seguito, ad acquistare la
proprietà che diventa il suo rifugio fino alla morte. La Mathieu ci racconta di
come i due coniugi, Claude e Alice, trasformano completamente il fondo a loro
piacimento e creano i due giardini: clos
normand e lo stagno delle ninfee. Così operando si realizzano le condizioni
ottimali per consentire al maestro l’interruzione di quell’incessante e
tormentato girovagare alla ricerca di soggetti esprimibili sulla tela. Il
maestro che lavora alacremente al suo giardino, quando non dipinge, non sente
più il bisogno di cercare altrove i temi e i soggetti per le sue
sperimentazioni che non termineranno mai, se non alla morte di questi.
Con il suo scritto Piguet vuole
parlarci del maestro come persona, non come artista, del suo impegno costante e
dedizione verso la famiglia.
Il quarto saggio, della Gavoille,
coincide, curiosamente con la sezione della mostra relativa alle caricature, da
questo momento in poi il volume si fa catalogo, ovviamente non in senso
stretto, la storica introduce e spiega il momento del Monet caricaturista
attraverso le immagini delle opere in mostra e ci accompagna nella comprensione
del passaggio da “O. Monet” a “C. Monet”.
Il Monet ritrattista della sezione
che fronteggia le caricature è affrontato nel secondo lavoro della Gavoille,
che ci conduce alla scoperta di un aspetto insolito e poco noto del maestro che
si è dedicato al genere nell’esclusiva intimità familiare.
Segue la pregevole riflessione sul
Monet cacciatore di soggetti della Gooden, uno scritto fondamentale per
comprendere quell’ansia e quel tormento che animano il maestro incessantemente
proteso nella sperimentazione degli effetti mutevoli della luce e dei suoi
riflessi su specchi d’acqua. Anche in questo caso lo studio è supportato dalle
immagini delle opere esposte in mostra.
Il testo dedicato, ancora della
Gavoille, al giardino di Giverny ci parla della fase esplorativa del maestro
teso a ricercare gli effetti impalpabili e mutevoli dell’aria e della luce nel
contesto personale dei due giardini creati appositamente a Giverny. In questo
scritto l’autrice presenta le opere più tarde del maestro, quelle meno
conosciute e non ascrivibili al pittore con immediateza. Nell’immaginario
collettivo, infatti, Monet è il pittore di certe atmosfere, interessato alla
luce ed ai suoi effetti, con questo articolo l’autrice supera questa
“etichetta” entro cui è infelicemente costretto e ci guida verso la conoscenza
di aspetti meno noti del maestro, ma altrettanto genuini ed innovativi, se non
decisamente rivoluzionari. Si tratta del periodo tardo quello legato
maggiormente all’espressione di stati d’animo e sentimenti, che ha fatto
parlare di aperture verso l’espressionismo e l’astrattismo. Anche in questo
caso le parole sono accompagnate e spiegate dalle opere esposte.
Infine, la Gooden si addentra nella
difficile questione delle ultime opere, ci racconta di come ed in quale misura
lo stato d’animo dell’artista abbia influenzato la sua produzione artistica e
del suo opporsi alla guerra con l’idea di realizzare un felice e gigantesco
ciclo pittorico dedicato alle ninfee. Tali pannelli sono donati dall’artista
allo Stato alla fine della guerra, ma la tendenza evanescente, quasi astratta,
delle rappresentazioni non incontra consensi unanimi. Tra le voci c’è anche chi
pensa di coprire le pitture per utilizzare lo spazio dell’Orangerie per esposizioni temporanee. Questa circostanza, di per sé
spiacevole, è stata la fortuna del Marmotton
che visto il poco apprezzamento dell’opera del padre induce Michel, unico erede
diretto, a lasciare le tele rimaste nell’atelier dal padre non alla Nazione,
bensì all’istituzione che ha dimostrato maggior benevolenza nei riguardi dei
lavori di Monet.
Il volume, piacevole a leggersi, e
corredato da bellissime immagini a piena pagina a colori ed in bianco e nero.
Lo screening delle opere non avviene
in forma convenzionale (scheda di catalogo), ma secondo la logica dello
scritto, le opere, infatti, sono coinvolte e dibattute nelle letture
scientifiche svolte.
Le 150 pagine di saggistica e
“catalogo” non esauriscono il lavoro che mostra nelle ultime pagine
un’aggiornata ed articolata cronologia, seguita dall’immancabile, necessaria e
fondamentale per gli studiosi, bibliografia aggiornata.
Dove: Complesso del Vittoriano, Roma
Quando: 19 Ottobre 2017 – 11
Febbraio 2018
NOTE
[1] Monet. Capolavori dal Musée
Marmottan–Monet, Parigi, Roma, Complesso
del Vittoriano, Ala Brasini, dal 19 Ottobre 2017 al 11 Febbraio 2018.
[2] Responsabile
della sezione dedicata a Monet del Museo
Marmottan.
[3] I due coniugi–collezionisti sono gli eredi
di Georges de Bellio, nobiluomo rumeno naturalizzato a Parigi dagli inizi degli
anni Cinquanta dell’800, e uno dei primi collezionisti degli Impressionisti (la
sua raccolta contava oltre 300 opere tra dipinti e disegni di Manet, Renoir,
Pissarro, Sisley, Morisot e Monet). Tra le sue proprietà, la tela simbolo della
nascita del movimento francese: Impressione,
Levar del Sol (1872). Quando, nel
1932, l’erudito collezionista Paul Marmottan, dona all’Accademia di Belle Arti il suo palazzo, nel XVI arrodissemnt, affinché diventi un museo,
Victorine ed Eugène sono tra i primi a visitare la casa–museo, aperta dal 1934,
e fin da subito pensano di poter esporvi la propria collezione. Nel 1938 l’Accademia è nominata legataria
universale dei coniugi, purché venga allestita, presso il Musée Marmottan, una sala intitolata alla collezione Bellio–Donop de Monchy. Lo scoppio della guerra accelera
i fatti e, alla vigilia dell’entrata in guerra della Francia (01/09/1939), i
Donop de Monchy consegnano alla casa–museo due casse contenente 11 preziose
tele impressioniste (cfr. Marianne MATHIEU, a cura
di, Monet. Capolavori del Musée Marmottan–Monet, Parigi, Roma,
Arthemisia Books, 2017, pp. 20–21).
[4] Dopo la vicenda, poco felice, delle Grandi Decorazioni, ultimi lavori di
Monet, donati dallo stesso maestro, nel 1922, allo Stato francese, per
festeggiare la fine della Grande Guerra,
e, destinati alle sale dell’Orangerie,
esposti solo nel 1927, dopo la morte del pittore, forse per via della spiccata
modernità delle gigantesche tele, Michel Monet, secondo genito di Claude, e
unico erede diretto del l’artista (il fratello maggiore Jean è morto nel 1914),
non prende in considerazione l’idea di lasciare le opere allo Stato, che stava
addirittura pensando di coprire i pannelli per esporre opere contemporanee
nell’Orangerie, e decide di destinare
l’eredità al Musée Marmottan. Per
ospitare questo eccezionale lascito l’Accademia
decide di ampliare il museo (cfr. MATHIEU 2017, pp. 23–25).
[5] In cui si firma
“O. Monet” utilizzando il primo nome Oscar (cfr. MATHIEU
2017, p. 55).
[6] Un profitto non
trascurabile: secondo i calcoli di Marianne Alphant, Monet, nel 1858, avrebbe
venduto un centinaio di disegni per un guadagno di circa 2 mila franchi (circa
7.700 euro attuali) (cfr. Marianne
ALPHANT, Claude Monet une vie dans le paysage, Parigi, HAZAN, 2010, p.
65).
[7] (cfr. MATHIEU
2017, p. 81)
[8] Vanessa GAVIOLI, Monet,
Milano, Rizzoli, 2003 (I Classici dell’Arte, vol. IV), p. 46.
[9] Cfr. II sezione:
“Monet cacciatore di soggetti”.
[10] MATHIEU 2017,
pp. 81–82 e 88.
[11] I suoi figli e i
figliastri, i figli della seconda moglie Alice Hoschedé, con la quale a Giverny
crea la sua nuova famiglia allargata.
[12] MATHIEU 2017,
p. 73.
[14] Soprattutto i due
figli di prime nozze, Jean e Michel, vengono ritratti con un fare tenero dalla
nascita alla pubertà.
[15] Allievo di J. L.
David (1748–1825), artista neoclassico francese per eccellenza.
[16] François
THIEBAULT–SISSON, Claude Monet, “Mon histoire”, in “Les Temps”, 26
Novembre 1900, p. 3.
[17] MATHIEU 2017, p.
58.
[19] La caricatura è
un’arte di gran moda nella Francia di metà Ottocento. Artisti come Honoré
Daumier e Gaspad–Felix Tournahon (detto Nadar) riempiono piacevolmente le
pagine dei giornali parigini (“Le Gaulois” o “Le journal amusant” o su
“Panthèon”).
[20] È interessante
notare come tutte le sue caricature siano firmate “O. Monet” (Oscar, il suo
primo nome). Solo più tardi muta la sua firma in “C. Monet”, questo mutamento è
sintomatico rispetto alla presa di posizione del giovane nei confronti della
pittura. L’artista comincia a dedicarsi al paesaggio, iniziato dal pittore
normanno Eugène Boudin, incontrato nella bottega del cartolaio Gravier, che dopo aver ammirato le sue
caricature, si congratula con il giovane e spronandolo a non fermarsi al
disegno. Inizia allora a dipingere con l’anziano maestro lungo la costa della
Normandia e, dirà poi l’artista, quelle sedute dal vero hanno rappresentato per
lui una vera folgorazione, grazie alla quale ha abbracciato definitivamente la
sua vera vocazione. Da questo momento si firma “C. Monet” (cfr. MATHIEU 2017,
p. 58).
[21] Scrive, tra
l’altro, numerosi saggi proprio sulla storia della caricatura.
[22] Soventemente
rappresentato per i suoi brillanti vaudevilles
che costituiscono la colonna portante del Théâtre
du Gymnase–Dramatique del quale, nel 1820, Scribe è cofondatore.
[23] Nel 1870, Monet è
a Londra per sfuggire alla leva militare obbligatoria a seguito della guerra
franco–prussiana. L’esperienza è fondamentale per lo sviluppo
dell’Impressionismo: le atmosfere nebbiose e piene di inquinamento lo
attraggono, qui vede per la prima volta i quadri di Turner la cui ricerca sui
mutevoli effetti di luce lo conquista, quel suo tardo modo di rendere la luce
lo cattura, inoltre, incontra Paul Durand Rouel, un uomo fondamentale per la
sopravvivenza dello squattrinato gruppo degli impressionisti ( sarà lui,
infatti, ad rivestire il ruolo fondamentale di mercante d’arte–protettore di
quel gruppetto di sparuti innovatori, in cui nessuno crede, se non lui). Dopo
il Settanta visita Londra altre tre volte come testimoniano i dipinti in
mostra: Ponte di Charing Cross
(1899–1901); Il Parlamento, riflessi sul
Tamigi (1905, fig. 1).
[24] MATHIEU 2017, p.
82.
[25] Ibidem, p. 83, n. 6.
[26] Il 19 novembre
del 1890 Monet, grazie all’aiuto economico dell’amico e mercante di quadri,
Durand–Ruel, che gli anticipa ventimila franchi, diventa proprietario della
“casa dall’intonaco rosa” (cfr. MATHIEU 2017, p. 105).
[27] MATHIEU 2017, p.
105.
[28] L’artista,
appassionato di giardinaggio, trasforma il clos
normand della tenuta, La Pressoir,
piantandovi alberi da frutto e fiori selvatici, come il nasturzio, il papavero,
il nontiscordardimé, e altre specie rare, come le rose, i ciliegi giapponesi,
gli agapanti (Fig. 6) e gli iris (Fig. 7), (cfr. MATHIEU 2017, p. 105).
[29] MATHIEU 2017, p.
106.
[32] Per celebrare la
fine della Prima guerra mondiale, il
pittore di Giverny offre allo Stato francese una serie di venti pannelli sul
tema dei paesaggi acquatici concepiti per essere collocati, secondo l’idea
dell’autore, in due sale ovali dell’Orangerie
delle Tuileries (cfr. MATHIEU 2017,
p. 40).
[33] MATHIEU 2017,
p.107.
BIBLIOGRAFIA
Alphant 2010
Marianne Alphant, Claude Monet une vie dans le paysage, Parigi, HAZAN,
2010.
Gavioli 2003
Vanessa
Gavioli, Monet,
Milano, Rizzoli, 2003 (I Classici
dell’Arte, vol. IV).
Lemaire 1990
Gérard–Georges
Lemaire, Monet, Firenze, Giunti, 1990 (Art e
dossier, n. 48, luglio–agosto 1990).
Mathieu 2017
Marianne Mathieu, a cura di, Monet.
Capolavori del Musée Marmottan–Monet, Parigi, Roma, Arthemisia Books, 2017.
Thiebault–Sisson 1990
François
Thiebault-Sisson, Claude Monet, “Mon histoire”, in “Les
Temps”, 26 Novembre 1900.
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