Chi,
se non l’urbanista e l’architetto creativo, dovrebbe essere il
primo responsabile custode del nostro possesso più prezioso, il
nostro ambiente naturale, e della bellezza e adeguatezza del nostro
spazio vitale, come fonte di soddisfazione sentimentale per un modo
di vivere nuovo?
Walter
Gropius, Architettura integrata, prima ed. 1955,
Milano, Il
Saggiatore, 1963
Modernissimo
Gropius è un omaggio al pensiero illuminato del maestro
berlinese, precursore di un modo nuovo di concepire, costruire,
vivere l’architettura. È il 1955, quando l’architetto raccoglie
articoli e saggi scritti durante gli anni trascorsi all’Università
di Harvard (Cambridge, Massachusetts) dal 1937 al 1952, come preside
della Facoltà di Architettura, da qui vedrà la luce Scope of
Total Architecture, che lungi da volere essere un trattato
specialistico è piuttosto una riflessione ampia e profonda sul
cambiamento epocale attraversato dall’architettura. Cambiamento che
Gropius sente e vive appieno, insieme ai contemporanei Le Corbusier e
Mies van der Rohe, all’interno di quel Movimento Moderno
egregiamente celebrato dalla penna di Nikolaus Pevsner1.
Lo storico tedesco è tra i primi a tracciare un percorso
dell’architettura che da William Morris prosegue dritto fino a
Gropius: un fil rouge che scandisce con forza
l’inizio di un
nuovo lessico architettonico, identificato appunto dall’aggettivo
moderno. Un impeto che attraversa tutta l’Europa, a fianco delle
Avanguardie novecentesche, con un comune denominatore: giungere ad un
nuovo linguaggio, rompere con la tradizione.
I
“pionieri” delineati da Pevsner sono al contempo architetti e
teorici, binomio affatto casuale, che lascia intravedere il senso di
grande responsabilità etica, oltre che l’indiscusso spessore
culturale, dei protagonisti di una stagione certamente felice per
l’architettura. Gropius condivide con Le Corbusier e Mies van der
Rohe un impegno quasi pedagogico, certo che l’architettura, al di
là del mero costruire, possa influire positivamente sulla vita
dell’uomo. I tre maestri si ritrovano fianco a fianco in più
occasioni, in primis nel rinomato studio di Peter
Behrens2
a Berlino, uno dei più avanzati sul fronte della ricerca estetica e
tecnologica a servizio dell’industria. Qui Gropius, nominato primo
assistente nel cantiere della fabbrica AEG, avrà modo di seguire
Behrens nel suo ruolo di art director aziendale,
tra i primi
della storia, con un impegno che non si limita alla sola fase
costruttiva, ma comprende tutti gli aspetti relativi
all’elaborazione, produzione e comunicazione del prodotto,
anticipando gli esiti del moderno industrial design.
Un’esperienza che sarà capitale per il giovane architetto.
«Nel
1908, quando portai a termine il mio periodo di formazione
preparatoria e iniziai la mia carriera professionale con Peter
Behrens, la concezione prevalente dell’architettura e della
formazione architettonica era ancora totalmente improntata al dominio
stilistico degli “Ordini” classici accademici. Fu Behrens che mi
introdusse a un metodo di lavoro basato sulla coordinazione logica e
sistematica come concetti imprescindibili nell’affrontare problemi
di natura architettonica»3.
È il 1927 quando
Gropius, Mies van der Rohe e Le Corbusier, concluso l’apprendistato
presso il decano Behrens, lavorano a stretto gomito per un quartiere
sperimentale a Stoccarda, insieme a molti altri colleghi europei.
L’occasione è la seconda mostra del Deutscher Werkbund4, la
Lega tedesca degli artigiani, all’interno del quale matura la nuova
generazione di architetti tedeschi.
«Lo
scopo del Werkbund – dice lo statuto – è di nobilitare il lavoro
artigiano, collegandolo con l’arte e con l’industria.
L’associazione vuol fare una scelta del meglio nell’arte,
nell’industria e nell’artigianato e nelle forze manuali; vuol
mettere assieme gli sforzi e le tendenze verso il lavoro di qualità
esistenti nel mondo del lavoro; forma il punto di raccolta per tutti
coloro che sono capaci e desiderosi di produrre un lavoro di
qualità»5.
Questa
volta la regia è affidata a Mies, che coordina i lavori per il
Weissenhof, letteralmente villaggio bianco (perché il bianco sarà
il colore guida dell’intero movimento) costruito in posizione
periferica rispetto alla città. Una sorta di sobborgo satellite che
diviene ben presto una vetrina architettonica irrinunciabile per
quanti si riconoscono nel rinnovato linguaggio: un trionfo di grandi
terrazze, tetti piani, ampie finestre, realizzati attraverso
metodologie innovative che permettono di abbattere tempi e costi di
costruzione.
«L’Esposizione
di Stoccarda presenta al pubblico per la prima volta un panorama
unitario del movimento moderno. Il confronto diretto tra le opere di
molti architetti, provenienti da varie nazioni, mette in evidenza i
propositi comuni piuttosto che le differenze e fa vedere la
convergenza sostanziale fra molte ricerche che hanno origini diverse.
Non c’è stata una progettazione d’insieme e i vari edifici sono
semplicemente accostati tra loro, come nei soliti quartieri
periferici. Se però si riflette che gli edifici sono pensati come
prototipi, adatti per essere ripetuti in serie e valgono in certo
senso come campioni di altrettanti quartieri, il Weissenhof può
essere considerato una rappresentazione allusiva della città
moderna»6.
Così,
sull’onda del funzionalismo, gli autori chiamati a Stoccarda
condividono non solo tecniche e materiali, ma un pensiero comune, che
presto darà vita ai CIAM7
(Congrès Internationaux d’Architecture Moderne), una
ventata di aria nuova per l’architettura e l’urbanistica. Nel
Weissenhof l’intento è quello di promuovere, ciascuno a suo modo,
un’edilizia economica ma non per questo scadente, ovvero un
prototipo di abitazioni replicabili su larga scala. Per l’occasione
Gropius realizza due case, una con una struttura di acciaio, e una
con blocchi di pietra pomice montati a secco, sperimentando nuove
tecniche di prefabbricazione. Il tema è quello dell’alloggio
popolare, ampiamente affrontato in quegli anni e molto caro
all’architetto che si dedica alla progettazione di quartieri in
diverse città tedesche, senza tuttavia tralasciare la partecipazione
a convegni internazionali, segno di una chiara inclinazione teorica
comune ad altri colleghi, con i quali condivide sì un iter
lavorativo ma soprattutto un’affinità intellettuale.
Questa
comunione di intenti è chiara fin dagli anni del Bauhaus8,
quando il problema della formazione degli architetti è sentito con
particolare attenzione. Così Gropius nel 1919 avvia a Weimar una
scuola avveniristica, preludio al moderno campus,
nata dalle
ceneri delle vetuste istituzioni artistiche con una forte carica di
innovazione didattica. Sotto gli auspici del suo fondatore,
l’architettura è ritenuta sommo vertice, la guglia più alta di
una imponente cattedrale gotica, proprio come nella veste grafica
concepita da Lyonel Feininger per l’occasione. Si tratta del Manifesto
del Bauhaus (1919), dove la cattedrale, frutto di un
lavoro collettivo, simboleggia un impegno corale: arte e architettura
si uniscono senza attrito, come facce di una stessa medaglia. Perché
l’arte non è, o meglio non può essere secondaria nella formazione
di un futuro architetto-designer, al pari della perizia tecnica, e
dell’attenzione al processo di produzione seriale. Come scrive
Gropius:
«Capii
che un architetto non poteva avere alcuna speranza di realizzare le
proprie idee se non era in grado di influenzare l’industria del
proprio paese, stimolando di conseguenza, la nascita di una nuova
scuola di design, una scuola che avrebbe dovuto necessariamente
acquisire e saper sostenere un ruolo autorevole e significativo.
Capii anche che per raggiungere questi obiettivi era necessario avere
un corpo di collaboratori e di assistenti in grado di lavorare non
obbedendo automaticamente a direttive superiori, come una orchestra
alla bacchetta del direttore, ma in modo autonomo, seppur
collaborativo, in vista di una causa comune»9.
A
questo scopo servivano maestri, e non teorici, nel senso più stretto
del termine. Artisti, del calibro di Kandinskij o Klee, rispondono
alla chiamata del Bauhaus, lontani anni luce dagli ambienti
accademici ma trasgressivi quanto basta per trasmettere agli allievi
il senso del colore, del ritmo, della composizione. Certo, nessuno
dei due ha mai insegnato, ma nella visione di Gropius questo non
costituisce un limite, anzi. Entrambi attivi nella professione hanno
piena padronanza della disciplina, ciò li rende dei veri meister,
al pari di architetti come Meyer o Mies Van der Rohe ai quali Gropius
consegnerà il testimone in qualità di successivi direttori della
scuola, confessando tra le righe di essere stato troppo assorbito dal
ruolo di preside, a scapito del lavoro e dell’attività
intellettuale.
«Nel
1928, quando mi parve che la stabilità e il futuro del Bauhaus
fossero assicurati, lasciai la direzione al mio successore e tornai
ad esercitare la libera professione a Berlino, dove potei dedicare
più tempo agli aspetti sociologi e strutturali del problema
abitativo»10.
L’esperienza
Bauhaus avrà profonde ripercussioni sulle nascenti scuole di
architettura e sul futuro del disegno industriale, ma rimarrà unica
nel suo genere, come unici rimarranno i suoi maestri ed i loro
rispettivi metodi. Un approccio laboratoriale, è questa la novità
più grande proposta dall’istituto, affiancata dal dialogo aperto e
costante, complice la struttura di cittadella universitaria, tra
docenti e discenti, che si traduce in infinite occasioni di scambio,
e perché no di guadagno, quando Gropius, sordo alle polemiche,
metterà in produzione i progetti degli studenti più meritevoli,
anticipando quel sodalizio formazione/lavoro, oggi così attuale.
Come sottolinea Benevolo, questo nuovo approccio didattico, nato
dalla felice intuizione di Gropius, incide profondamente sulla
cultura architettonica.
«L’istanza
formale non è più collocata in una sfera indipendente, capace di
dar luogo ad una esperienza separata, ma è calata risolutamente
nell’attività produttiva. Il lavoro artistico ha per scopo non
d’inventare una forma, ma di modificare, mediante questa forma, il
corso della vita quotidiana e vale in quanto investe tutta la
produzione e l’ambiente in cui vivono tutti gli uomini»11.
Il
motto di William Morris, “arte del popolo per il popolo”,
riassume la nuova sfida rivolta ai progettisti, ossia rendere la
bellezza alla portata di tutti. Gropius, insieme ai colleghi che
sposano la causa del funzionalismo non è immune a questo appello,
anzi ne diventa protagonista con una personale linea di azione.
Rispetto alla diatriba tra artigianato e industria, che aveva animato
il dibattito tra gli esponenti del Werkbund, preferisce non
schierarsi a favore dell’uno o dell’altro termine, convinto che
in medio stat virtus. Infatti, né
l’artigianato è pura
creazione, dovendo sempre confrontarsi con la tecnica, né
l’industria è pura manualità, perché il processo seriale
presuppone sempre un’istanza creativa. Si tratta dunque di attuare
una sintesi tra prassi e teoria, e ciò a partire dalla conoscenza
dell’intero processo. In quest’ottica, è fondamentale un modello
educativo che consenta di formare nuovi e più consapevoli addetti ai
lavori. Sarà questo, in una data fase della sua vita, l’impegno di
Gropius, ma certamente non l’unico.
La
vera svolta nella vita dell’architetto, infatti deve ancora
arrivare: l’occasione sarà la triste diaspora di intellettuali in
fuga dalla Germania nazista, un lungo elenco di cui farà parte anche
Gropius. Nel 1937 gli Stati Uniti lo accolgono con entusiasmo, del
resto il suo nome è già noto in ambito universitario, sia come
progettista che come teorico e animatore culturale. Lo attendono una
florida carriera accademica, come professore di architettura della
prestigiosa Graduate School of Design di Harvard,
una vivace
carriera architettonica, con importanti committenze sia pubbliche che
private, seguiti da una serie di premi e riconoscimenti. Qui, non
solo il suo pensiero si completa, ma egli riesce a far proprio il
linguaggio architettonico locale, introducendo strutture e finiture
lignee, la presenza di portici e brise-soleil,
segno di un
graduale adattamento al nuovo contesto. Se, per dirla con Ponti, un
architetto dopo dieci anni non è più lo stesso architetto, Gropius
non fa certo eccezione. Nelle sue pagine “americane” traspare la
voglia di cambiamento, evidente fin dalle prime battute di
Architettura Integrata, dove il maestro
si sforza di
raccogliere i pensieri di una vita, supportato dalla moglie Isa
Frank, curatrice della prima edizione del volume.
«Apprendo
un nuovo capitolo della mia vita, che all’opposto di quel che
normalmente ci si attende dopo i settant’anni, mi appare
movimentato e periglioso quanto il tempo che l’ha preceduto,
m’accorgo di essere una figura coperta di etichette, a tal punto
forse da esserne oscurata. Definizioni come “stile Bauhaus”,
“stile internazionale”, “stile funzionale”, sono giunte ad
occultare quasi dietro di sé la mia personalità: e dunque sono
ansioso di aprire qualche spiraglio in questa mascheratura nella
quale gente frettolosa mi ha avviluppato»12.
Prendendo
in prestito le parole di Gropius, egli sente l’urgenza di
strapparsi di dosso una serie di etichette strette e pesanti. Non si
tratta certamente di rinnegare esperienze passate, tanto meno
riferite al Bauhaus che rimarrà emblematico nella storia
dell’architettura. È piuttosto il pericolo di restare imbrigliato
in una rigida griglia preconfezionata a spaventare il maestro, giunto
agli anni della maturità, quando è inevitabile fermarsi a tirare le
somme. Ecco perché, con grande nonchalance,
l’architetto fa
scivolare tra le righe di essere incline ad una scelta multicolore
che corrisponde a quel «desiderio intenso di includere ogni
comportamento organico della vita, anziché escluderne alcuni per
amore di atteggiamenti troppo ristretti e dogmatici»13.
Come afferma, in difesa della categoria, non sono gli architetti a
creare sterili e pericolose dispute estetiche - forse perché
impegnati in attività più edificanti - ma piuttosto i critici,
affannati nel tentativo di incasellare dentro aride definizioni di
stili e scuole, pensieri e affermazioni altrui, spesso senza
comprendere il contesto dal quale scaturiscono. Una polemica dunque,
tutt’altro che velata, verso coloro che si sono limitati a ridurre
il contributo del maestro agli anni di Weimar e, in maniera assai più
grave, verso chi ha letto il Movimento Moderno in maniera errata,
assimilandolo ad uno stile e spogliandolo dei suoi più alti
contenuti sociali.
Esiste
invece un altro volto dell’architetto, forse meno noto, ma
altrettanto sorprendente: quello del modernissimo Gropius. Un volto
che reclama grande attenzione anche rispetto agli sviluppi
dell’architettura contemporanea, profetizzati in tempi non sospetti
proprio dal nostro architetto. In particolare, le pagine di
Architettura integrata offrono un brano
ancora attualismo del
panorama architettonico, facendo emergere quanto il pensiero di
Gropius sia stato progredito e rivoluzionario, influenzando colleghi
e studenti di quella generazione. Formazione degli architetti
e
dei progettisti, Architetto contemporaneo, Urbanistica ed edilizia
popolare, Per un’Architettura integrata: sono questi i titoli
che aprono le rispettive quattro parti in cui è diviso il volume,
annunciando in fieri gli interessi primari del
maestro.
Il
dibattito sulla formazione degli architetti resta un punto cruciale
di quegli anni: Gropius che lo aveva ampiamente affrontato con
l’istituzione del Bauhaus, può finalmente ritornare sul tema,
stilando una sorta di bilancio di quella esperienza. Da subito si
chiarisce che «l’obiettivo della Bauhaus non era propagandare un
qualunque “stile”, sistema o dogma, ma semplicemente esercitare
un’influenza rinnovatrice, dar nuova vita al comporre»14.
In altre parole, non si voleva creare uno stile Bauhaus, semmai il
contrario, rendere libero il processo creativo, con una distanza di
sicurezza rispetto allo stagnante accademismo. I tempi erano maturi
per affrontare il binomio estetica/produzione seriale, alla luce di
ciò occorrevano giovani professionisti in grado di poter dialogare
con l’industria, e questo imponeva una urgente revisione del loro
iter formativo. Perché: «solo in casi
assai sporadici sono
state istituite scuole preparatorie con lo scopo di formare questi
nuovi tipi di lavoratori, capaci di fondere in sé le qualità di un
artista, di un tecnico, di un uomo d’affari»15.
Questa è stata la grande scommessa avviata a Weimar.
Gropius
intuisce che la figura dell’architetto-designer sarebbe stata di lì
a poco non solo molto richiesta, ma costantemente messa alla prova da
mutamenti di natura economica e sociale. Ecco dunque l’importanza
di uno sguardo trasversale, interdisciplinare, che implica strategia
e lavoro di squadra, oggi requisito indispensabile in qualsiasi
ambito della progettazione, che si tratti di architettura o disegno
industriale. Si fa strada la consapevolezza che la creazione dei
“tipi standard” per i beni di uso quotidiano è una necessità
sociale, e che dunque il concetto stesso di standard, prendendo in
prestito le parole di Gropius, va rivalutato come pregio culturale,
piuttosto che ingiustamente declassato ad ogni tipo di produzione di
massa. Del resto, era stato l’amico Le Corbusier, nel suo celebre
Vers une architecture (1923), ad
anticipare queste tematiche,
e non sorprende, proprio con la medesima volontà di riabilitare il
significato del termine standard.
«Realizzare
uno standard significa esprimere tutte le possibilità pratiche e
relazionali, dedurre un tipo riconosciuto conforme alle funzioni,
rispettando il principio del massimo rendimento con l’impiego
minimo di mezzi, mano d’opera, materiali, parole, forme, colori,
suoni. […] A causa della concorrenza infaticabile le innumerevoli
case di produzione sono state obbligate a dominare la concorrenza e,
per questo, a partire da un certo standard di realizzazioni pratiche,
è intervenuta la ricerca di una perfezione, di un’armonia che
stanno al di là del mero fatto pratico: ricerca che si è espressa
non solamente in manifestazioni di perfezione e di armonia, ma anche
di bellezza»16.
Questi
maestri ripongono dunque massima fiducia nella serie, certi che può
contribuire a divulgare in maniera esponenziale una rinnovata
estetica e una democratica diffusione della bellezza, dalla piccola
scala del design, fino alla grande scala dell’architettura. In
serie, infatti, possono essere costruiti oggetti ma anche case.
«Sentiamo
dire: “l’epoca moderna pone l’accento sulla vita, non sulla
macchina” e “lo slogan di Le Corbusier ‘la casa è una macchina
per viverci’ è ormai roba vecchia”. A esso si associa una
visione dei primi pionieri del movimento moderno, come uomini di idee
rigide, meccanicistiche, dediti alla glorificazione della macchina e
del tutto indifferenti agli intimi valori umani. Essendo io stesso
uno di questi mostri, mi domando come riuscimmo a sopravvivere su
così misere basi»17.
Gropius,
con un chiaro riferimento alle polemiche sorte intorno al pensiero di
Le Corbusier, racchiuso nello slogan la maison est une
machine à
habiter18,
puntualizza che il funzionalismo non andava inteso come puro processo
razionalistico, ma comprendeva soprattutto problemi psicologici. Ciò
significa che i progetti dovevano funzionare psicologicamente prima
ancora che fisicamente, senza mai perdere di vista i bisogni emotivi,
quindi l’uomo nella sua globalità. Per comprendere fino in fondo
il significato di queste parole, si rende necessaria una premessa.
Nel
1932, la mostra The International Style: Architecture since
1922
al Moma di New York, consacra il successo del Movimento Moderno e dei
suoi esponenti. I due curatori, il critico Henry-Russell Hitchcock e
l’architetto Philip Johnson, si occupano anche del catalogo19,
con una selezione di circa ottanta opere e più di settanta
architetti. Tra questi nomi risuonano quelli di Gropius, Le
Corbusier, Mies van der Rohe, Breuer, Aalto, solo per citare una
piccola rappresentanza dei maestri. Nelle intenzioni dei due
organizzatori, oltre ad una valenza meramente didascalica,
l’esposizione doveva servire a far conoscere al pubblico americano
le conquiste dell’architettura europea, «depurate dal loro forte
contenuto sociale, per farne uno strumento utile all’approccio
pragmatico del capitalismo americano»20.
Il Movimento moderno viene dunque non solo privato della sua
originaria vocazione sociale, ma descritto attraverso una serie di
regole e dettami codificabili in uno stile. Accade insomma
l’irreparabile, perché proprio gli esponenti di punta del
funzionalismo si erano opposti alla definizione di stile, ritenuto
anche da Gropius espressione del passato e retaggio di un pericoloso
accademismo. Infatti, non esistono regole fisse, né tanto meno
elementi compositivi validi universalmente, ma il buon professionista
deve rimanere fedele al proprio linguaggio e rivendicare una propria
autonomia creativa. Altresì deve essere in grado di servire e
dirigere, quindi guidare tanto il cliente che il proprio team
di
lavoro, senza tralasciare ciò che è in cima a questo percorso, il
fine ultimo dell’architettura: la felicità dell’individuo. Su
questo punto Gropius si sofferma con particolare enfasi, quasi con
una raccomandazione rivolta alle nuove leve dell’architettura:
«Vorrei
che ci fosse una più intensa ricerca da parte dell’architetto, di
quali esattamente siano i requisiti di questa cosiddetta “felicità”.
Ci fu un tempo in cui gli architetti erano tentati di pensare che il
possesso di un tetto che non lasci filtrare la pioggia sia il
requisito più importante della felicità; ma abbiamo poi scoperto
che sebbene esso possa arrestare la pioggia, non determina
necessariamente un clima umano felice»21.
L’eco
di questo pensiero, animato dal clima avanguardistico dei CIAM,
arriverà anche in Italia. Il nostro Gio Ponti ne sarà grande
sostenitore, certo di una vocazione sempre più politica, sociale,
didattica dell’architettura, che non può ovviamente prescindere
dai bisogni dell’uomo, dalle posizioni estetiche e dalla
responsabilità dell’architetto considerato educatore al buon
gusto22.
Il progettista, chiamato a risolvere problemi abitativi, deve
confrontarsi con il nuovo assetto sociologico e prevedere degli
standard che si adattino alle esigenze di ognuno. Così, se massima
luce, sole e aria, sulla scorta di Le Corbusier, devono essere
garantiti in tutti gli alloggi, «ogni adulto deve avere la propria
stanza per quanto piccola possa essere»23.
Questo dà la dimensione concreta di quanto Gropius, al di là
dell’aspetto speculativo, fosse anche estremamente pragmatico. Se
non esistono regole quantitative tout court, esiste
certamente
un criterio generale che ogni regolamento edilizio urbano dovrebbe
assicurare, tenuto conto della nuova organizzazione sociologica.
Dall’alloggio unifamiliare si passa infatti all’appartamento, e
finalmente alla casa con servizi domestici centralizzati. Lo sviluppo
verticale dell’edificio è la soluzione strutturale che meglio
interpreta i bisogni della popolazione moderna, e le obiezioni poste
dai sostenitori della casa singola, contro l’idea del grattacielo
residenziale, appaiono per Gropius del tutto infondate. Infatti, «il
grande edificio alto avrà il vantaggio, biologicamente assai
importante, di una maggiore quantità di sole e di luce, di una
maggiore distanza degli edifici vicini, e la possibilità di
assicurare estesi parchi collegati alle case e aree di gioco tra
blocchi edilizi»24.
Inoltre, se l’abitazione singola con giardino offre la possibilità
di godere di spazi verdi e di maggiore quiete, è comunque più
isolata dal contesto urbano, in molti casi anche dai luoghi di
lavoro, ciò la rende meno economica sul fronte degli spostamenti,
dunque meno adatta allo stile di vita della nuova società
industriale.
La
generale rivalutazione dell’edificio multipiano comporta anche una
riflessione apparentemente distante dall’architettura: il nuovo
status sociale della donna, sempre più
impegnata in ambito
lavorativo e dunque con meno tempo da dedicare al ménage
domestico. Non è solo una questione remunerativa ma connessa al
desiderio di maggiore indipendenza femminile. Gropius aveva previsto
anche questo.
«Ne
segue che blocchi di appartamenti a torre, moderni, bene organizzati,
non possono essere considerati alla stregua di un male necessario:
essi sono un tipo di alloggio biologicamente motivato, un genuino
prodotto della nostra epoca»25.
Le
Corbusier, e ancor prima Auguste Perret, avrebbero certamente
approvato queste parole, anche per ciò che riguarda la presenza del
tetto giardino - uno dei cinque punti dell’architettura moderna
teorizzati da Corbu, e messi a punto nella sua Ville Savoye (1931) -
che rende fruibile un luogo della casa di norma adibito a semplice
copertura, regalando all’inquilino una piccola oasi di verde con
annesso solarium. Grazie al calcestruzzo armato è
possibile
infatti costruire solai più resistenti adattandoli alle nuove
funzioni dell’abitare, accogliendo giardini pensili o piscine.
Il
modernissimo Gropius è stato tra i primi a parlare di servizi
centrali e comuni: questi riguardano sia la parte impiantistica, sia
gli ambienti di comune utilizzo (sale ricreative, palestre, giardini
d’infanzia), ormai all’ordine del giorno nei complessi
residenziali e nei grattacieli contemporanei. Negli edifici a torre
il costo di questi servizi può essere ripartito su un gran numero di
famiglie, favorendo socializzazione e tempo libero.
«Una
meta così vasta non può essere raggiunta semplicemente con “case
migliori”. Il problema di costruire case, rappresentando soltanto
una delle molte funzioni comunitarie, non può essere affrontato
senza essere posto in relazione con il rimanente, senza verificare la
capacità della comunità-ambiente di assorbire nuove aree
residenziali, e di assicurare una buona circolazione e una relazione
giusta tra le abitazioni, i luoghi di lavoro e i centri ricreativi»26.
È
un problema di urbanistica insomma, che presuppone una attenta
pianificazione comunitaria da parte degli enti locali, al fine di
evitare l’eccesiva decentralizzazione dei servizi e la creazione di
aree residenziali disordinate. Tutto ciò senza perdere di vista che
l’uomo è un animale socievole, il cui sviluppo, come scrive
Gropius, è favorito dal contatto comunitario: la vicinanza con gli
altri individui è fondamentale, quanto lo è il cibo per il corpo.
Emerge, ancora una volta, l’importanza attribuita al fattore umano,
prioritaria nella poetica funzionalista eppure non abbastanza
recepita. A conferma di ciò, l’architetto descrive una ricerca,
meglio nota come Peckham experiment27,
messa a punto a Londra da due biologi inglesi, Scott Williamson e
Innes Pearse, negli anni Venti del Novecento. In un edificio
appositamente disegnato, dotato di servizi comuni (piscina, caffè,
nursery, palestra, stanze da gioco),
centinaia di famiglie
medie londinesi vennero poste sotto osservazione, nessuna attività
fu loro imposta ma tutte le iniziative nacquero dallo scambio sociale
tra inquilini. L’esperimento ha dimostrato un generale incremento
della salute, favorito proprio dalla «coltivazione dell’humus
sociale»28.
Una lezione di cui fare tesoro, partendo anche dalle priorità che
ciascun centro comunitario dovrebbe avere: un edificio scolastico in
posizione centrale e dimensioni relativamente piccole, a scala umana,
al fine di mantenere i servizi principali nel raggio di spostamenti
pedonali. Il pericolo è dietro l’angolo, perché «mentre dotiamo
l’abitazione individuale di ogni possibile comfort, abbiamo
trascurato i vantaggi di riunione che offre la pubblica piazza:
abbiamo ceduto quasi interamente all’automobile le nostre strade e
i nostri spazi pubblici, e il pedone costretto a ritirarsi su uno
stretto marciapiede, ha perduto il diritto di transito»29.
Considerato che Gropius scrive il suo saggio negli anni Cinquanta,
queste parole sono di una attualità disarmante. Piazza San Marco a
Venezia è esempio chiarissimo di come un tempo, la vita comunitaria,
fosse organizzata intorno a nuclei ben riconoscibili: la cattedrale,
il campanile, il palazzo del potere, e soprattutto la piazza in sé,
luogo di aggregazione e palcoscenico pubblico per feste, parate e
cerimonie religiose. Ragion per cui, l’architetto ritiene che le
città moderne debbano dotarsi di piazze per pedoni, proprio perché
in questi spazi, nel contatto e nello scambio quotidiano, si
sviluppano le radici della democrazia.
La
costruzione di alloggi-tipo, a buon mercato, per assicurare ad ogni
famiglia la base di una vita sana, rimane comunque il nodo
fondamentale della riflessione di Gropius e dell’approccio
funzionalista. La casa come bene primario è un concetto condiviso da
altri architetti-teorici di quel periodo, ed espresso a chiare
lettere nei loro testi, come nel caso dei già citati Le Corbusier e
Gio Ponti. Ma non si tratta semplicemente di costruire nuove
abitazioni, piuttosto di affrontare il problema sotto molteplici
punti di vista: sociologici, economici, tecnici e formali. E se
l’aspetto sociologico è il primo della lista, il lavoro per i
progettisti si complica. In che modo vogliamo vivere? È questa la
domanda posta da Gropius. «La mancanza di unità dei nostri edifici
residenziali sono la prova di quanto vaghe siano le concezioni
generalmente diffuse circa l’alloggio più adatto all’uomo
moderno»30.
Per un architetto abituato a misurarsi con il cantiere, inteso anche
come luogo di sperimentazione, la risposta al problema non può
prescindere da questioni pragmatiche. Urge l’applicazione di nuove
tecniche costruttive, in particolare la standardizzazione di
componenti che possano essere replicate e montate in vari tipi di
abitazione. Grazie all’utilizzo di queste risorse «godremo
dell’esatto incastro delle varie componenti dell’edificio fatte a
macchina, a prezzo fisso e con un tempo di montaggio breve,
accuratamente prevedibile e garantito»31.
Gli
ingegneri sono chiamati in causa nell’impiego di materiali e
tecniche performanti, in particolare la prefabbricazione delle parti
strutturali andrebbe estesa anche a mura, soffitti e tetto,
realizzati attraverso pannelli standardizzati. È interessante notare
come «il tecnico impegnato nella progettazione di mezzi di
trasporto, come camion, navi, automobili, e aeroplani, ha già
sorpassato l’ingegnere edile nello sviluppo dei suoi metodi di
costruzione e dei suoi materiali, in quanto ha già perfezionato
l’uso dei materiali costruttivi prodotti a macchina e omogenei
(ferro, alluminio, vetro) e l’applicazione di parti strutturali
fatte a macchina, costituite di questi materiali»32.
Il lessico utilizzato da Gropius è in perfetto pendant
con Le
Corbusier, nella sua carrellata di “occhi che non vedono”33:
piroscafi, aeroplani, automobili, esempi lampanti di un processo di
standardizzazione che agli occhi dei progettisti può sì contribuire
a risolvere problemi abitativi, ma non può essere considerato
l’unico possibile approccio. In questo percorso, il talento
creativo dell’architetto non viene meno, anzi egli è chiamato ad
una supervisione che riguarda non solo la qualità dei materiali, ma
il loro impiego in un insieme armonico e ben equilibrato. Egli rimane
sempre il detentore della bellezza. Questo concetto è ribadito
nell’ultima parte del volume, un finale travolgente, che Gropius
dedica proprio all’architettura integrata,
accompagnando il
lettore alla scoperta del suo più intimo significato.
È
chiaro da subito il grande ruolo che attende l’urbanista/architetto.
A questo scopo egli dovrà essere pronto ad includere nella propria
visione la terra, la natura, l’uomo e l’arte. In sintesi avere
una “mentalità polivalente”, questa è la ricetta che gli
architetti di ogni tempo dovranno fare propria, una sorta di
testamento spirituale che racchiude il cuore della riflessione del
maestro. «Se consideriamo il fine strategico del pianificare, nella
sua vastità e complessità, vediamo che esso abbraccia la vita
civile dell’uomo in tutti i suoi aspetti essenziali: la
destinazione del suolo, delle foreste, dell’acqua, della città e
della campagna; la conoscenza dell’uomo per mezzo della biologia,
della sociologia e della psicologia; il diritto, il governo,
l’economia, l’arte, l’architettura e l’ingegneria»34.
L’uomo è tutto questo, e l’architettura è a servizio dell’uomo
a tal punto da poter condizionare l’inclinazione alla bellezza. E
non sorprende che Gropius si chieda come un bambino cresciuto in Main
Street (la via principale delle cittadine americane, priva di
monumenti e simbolo di provincialismo), possa essere sensibile alla
ricerca estetica, non avendo potuto esercitare a dovere le proprie
facoltà percettive, in balia di una generale apatia sensoriale.
Questo bambino, una volta cresciuto, sarà un potenziale cliente
dell’architetto, al quale spetta un difficile compito, nella veste
di educatore al buon gusto di pontiana memoria.
Il
maestro conclude il suo saggio scrivendo che una casa non basta: la
vexata quaestio dell’alloggio
contemporaneo impone ai
progettisti di correggere il tiro, a partire dalle componenti umane e
psicologiche del problema per giungere al rapporto
architettura\natura, tema più che mai attuale. E per quanti fossero
ancora in dubbio su questi aspetti, aggiunge:
«Sono
giunto alla conclusione che un architetto o un urbanista degni di
questo nome debbano possedere una visione assai larga e comprensiva
per raggiungere una vera sintesi di una comunità futura. Potremmo
chiamare questo “architettura integrata”»35.
Ecco
perché il pensiero di Gropius, oltre e fuori il Bauhaus, continua ad
essere modernissimo, quasi a testimoniare che la via indicata dai
mastri funziona come una bussola, è sempre d’aiuto per ritrovare
le coordinate.
NOTE
5 Pevsner op. cit., pp. 122-123.
11
Benevolo 1966, p. 568.
16
Le
Corbusier
1923, pp. 108-109.
18 Cfr. Le Corbusier, op. cit.
19 Cfr. Hitchcock, Johnson 1932.
20
Dellapiana,
Montanari
2015, p. 328.
27 Cfr. Pearse,
Crocker 1943.
33 Cfr. Le Corbusier, op. cit.
35
Ivi, p. 210.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
ANDERSON 2002
Stanford Anderson, Peter Behrens.1868-1940,
traduzione di Antonella Bergamin, Milano, Mondadori Electa, 2002.
ARGAN 2010
Giulio Carlo Argan, Walter Gropius e la Bauhaus,
introduzione di Marco Biraghi, Torino, Einaudi, 2010.
AYMONINO 1980
Carlo Aymonino (a cura di), L’abitazione razionale. Atti dei
Congressi CIAM (1929-1930), Venezia, Marsilio, 1980.
BELFIORE 1979
Pasquale Belfiore, I protagonisti del Movimento Moderno.
Bibliografia ragionata, Bari, Dedalo Libri, 1979.
BENEVOLO 1966
Leonardo Benevolo, Storia dell’architettura moderna,
Bari, La Terza, 1966
BERDINI 1983
Paolo Berdini (a cura di), Walter Gropius, Milano,
Zanichelli, 1983.
BIRAGHI 2008
Marco Biraghi, Storia dell’architettura contemporanea.
1900-1945; 1945-2008, 2 voll., Torino,
Einaudi, 2008.
BUSIGNANI 1972
Alberto Busignani, Walter Gropius, Firenze,
Sansoni, 1972.
CAMPBELL 1987
Joan Campbell, Il Werkbund tedesco. Una politica di riforma
nelle arti applicate e nell'architettura, traduzione di
Nicoletta Polo, Venezia, Marsilio, 1987.
CURTIS 2006
William J. Curtis, L’architettura moderna dal 1900,
traduzione di Anna Barbara e Chiara Rodriquez, Londra, Phaidon, 2006.
DE FUSCO 1974
Renato De Fusco, Storia dell’architettura contemporanea,
Roma-Bari, La Terza, 1980.
DELLAPIANA, MONTANARI 2015
Elena Dellapiana, Guido Montanari, Una storia
dell’architettura contemporanea, Torino, UTET Università,
2015.
DROSTE 1991
Magdalena Droste, Bauhaus 1919-1933, Köln, Benedikt
Taschen, 1990.
GIEDION 1954
Sigfried Giedion, Walter Gropius. L’uomo e l’opera,
traduzione di Giulia Veronesi, Milano, Edizioni di Comunità, 1954.
GROPIUS 1935
Walter Gropius, La Nuova Architettura e il Bauhaus,
(prima ed. 1935), traduzione di Alessandra Salvini, Milano, Abscondita,
2004.
GROPIUS 1955
Walter Gropius, Architettura integrata, (prima ed.
1955), traduzione di Renato Pedio, Milano, Il Saggiatore, 1963.
HITCHCOCK, JOHNSON 1932
Henry-Russell Hitchcock, Philip Johnson, The International
Style: Architecture Since 1922, New York, W.W.
Norton, 1932.
LE CORBUSIER 1923
Le Corbusier, Verso una Architettura, (prima ed.
1923), cura di Pierluigi Cerri e Pierluigi Nicolin, Milano, Longanesi,
2012.
MONTANARI, BRUNO 2014
Guido Montanari, Andrea Bruno jr, Architettura e città del
Novecento, Roma, Carrocci Editore, 2014.
NERDINGER 2005
Winfried Nerdinger, Walter Gropius 1883-1969,
traduzione di Sissy Rizzato, Milano, Mondadori Electa, 2005.
PEARSE, CROCKER 1943
Innes Pearse, Lucy Crocker, The Peckham Experiment. A Study
in the Living Structure of Society, Edinburgh, Scottish
Academic Press, 1943.
PEVSNER 1936
Nikolaus Pevsner, I pionieri del movimento moderno da William
Morris a Walter Gropius (prima ed.1936), traduzione di
Giuliana Baracco, Milano, Rosa e Ballo, 1945.
PONTI 1957
Gio Ponti, Amate
l’Architettura. L’Architettura è un cristallo, (prima ed.
1957), Milano, Rizzoli, 2010.
SAVI,ZANGHERI
1977
Vittorio
Savi, Luigi Zangheri (a cura di), Deutscher Werkbund. 1914.
Cultura, Design e società, Catalogo, Firenze, Uniedit, 1977.
ZAFFAGNINI
1994
Mario
Zaffagnini (a cura di), Architettura a misura d’uomo, Bologna,
Pitagora, 1994
|