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L'eredità di Bruno Munari: dalle sperimentazioni artistiche ai laboratori didattici  

Maria Esposito
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 14 Maggio 2023, n. 937
https://www.bta.it/txt/a0/09/bta00937.html
Articolo presentato il 4 Maggio 2023, approvato il 12 Maggio 2023 e pubblicato il 14 Maggio 2023
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Area Didattica

La figura di Bruno Munari (Fig. 1) si staglia nel panorama artistico e intellettuale del Novecento come personalità eclettica, in grado non soltanto di influenzare profondamente il suo contemporaneo, ma anche di anticipare tendenze successive e di lasciarsi alle spalle un'importante e caleidoscopica eredità. Figura poliedrica, egli non fu “soltanto” un artista: la sua settantennale carriera creativa lo vede infatti attivo come sofisticato intellettuale, designer, divulgatore e scrittore prolifico. Accanto a questo, particolare attenzione va rivolta alla sua intensa attività pedagogica, spesso trattata con superficialità - sebbene mai davvero trascurata - volendo nello specifico soffermarsi sul contributo di Munari alla didattica e alla letteratura per l'infanzia, i cui tratti distintivi sono tradizionalmente considerati i libri illustrati (e, nella fattispecie, le superfici tattili, opere uniche nel loro genere), i laboratori per bambini, i giocattoli pedagogici, oltreché la pionieristica invenzione della video-didattica, frutto della collaborazione dell'artista con scuole e musei di tutto il mondo, e la cui applicazione definisce il cosiddetto “Metodo Bruno Munari”. L'analisi puntuale di tale aspetto dell'opera munariana sembrerebbe pertanto imprescindibile per trattare non soltanto della personalità e della lunga carriera dell'artista milanese, ma soprattutto e più in particolare per avvicinarsi alla comprensione del suo approccio – ludico, e solo in apparenza disimpegnato – nei confronti dei piccoli allievi, costantemente invitati e spinti a riappropriarsi del tavolo del gioco attraverso la manipolazione della materia, creando collage, dando vita a nuovi oggetti e quindi imparando a rapportarsi al mondo attraverso modalità che ancora oggi si rivelano essere assolutamente avanguardistiche.



Fig. 1 - Bruno Munari. Foto cortesia di Maria Esposito
Fig. 1 - Bruno Munari
Foto cortesia di Maria Esposito

Com'era fatto, dunque, il mondo in cui muoveva i suoi passi la mente brillante del giovane Munari? È fondamentale tener presente, innanzitutto, che con il passaggio dal regime fascista alla democrazia, la scuola italiana stava vivendo un periodo di profondi mutamenti. La studiosa Monica Galfrè 1 mette in luce in che modo i “disastrosi effetti della guerra” si fossero configurati come vere e proprie minacce per il Paese, anche e soprattutto rispetto al mondo dell'istruzione inteso nella sua globalità: furono, questi, anni contrassegnati da una necessaria defascistizzazione dei libri di testo per bambini, la quale fu ottenuta tramite un cauto e progressivo allontanamento dalle idee gentiliane e mediante il ripristino del controllo da parte dei partiti comunisti e socialisti: l'intervento sulla scuola era avvertito come assolutamente necessario, e «[...]sentito come una parte essenziale per la ricostruzione del paese» 2. A tale proposito, uno dei primi obiettivi fu quello di ottenere la riapertura degli istituti scolastici, i quali erano rimasti chiusi a partire dagli inizi del 1942. Una volta riaperte le scuole, molte istanze dovettero essere prese in considerazione: prima di tutto fu necessario definire dei programmi scolastici che ruotassero intorno ai cardini e agli ideali del pensiero laico e liberale. Ancora, Galfrè indica come nel contesto delle istituzioni furono introdotte influenze prima del tutto impensabili se non addirittura bandite, come ad esempio la didattica montessoriana. Ulteriore supporto alla libertà di insegnamento e di apprendimento si ottenne quando, nel 1947, si raggiunse la liberalizzazione del mercato dell'editoria.

Cosa significherà, tutto questo, per Munari? Meneguzzo, a riguardo, scrive che «la fine della guerra coincide davvero [...] con l'inizio di una consapevolezza operativa che come primo atto fa ritrovare a Munari la libera professione» 3. La liberalizzazione del mondo dell'editoria viene percepita da Munari come una possibilità di apertura a nuove sperimentazioni, e più in particolare sarà in questo contesto che prenderanno vita i suoi tentativi di ammodernamento della propria visione, specialmente per quanto riguarda il campo grafico.

Altro aspetto fondamentale che verrà accolto da Munari è, di nuovo, quello sociale: malgrado i tentativi messi in atto dalla Costituente nella definizione della Costituzione di porre rimedio a questioni cruciali e fino ad allora mai davvero affrontate - come l'obbligo scolastico e l'assistenza sociale - permane nel tessuto sociale italiano una radicale disparità nell'alfabetizzazione, con un accesso all'istruzione secondaria che continua a presentarsi come elitario, oltreché esclusivo al solo genere maschile. La disparità dell'alfabetizzazione rispecchia, com'è intuibile, una disparità nei salari e di classe, cui si cerca di porre rimedio, tra le altre cose, anche attraverso l'istituzione di corsi scolastici popolari, specie nei contesti rurali e contadini. Munari interiorizza ed elabora queste istanze senza porsi in una posizione di conflitto nei riguardi delle stesse, ma, al contrario, adattandovisi: le limitazioni economiche diventano il punto di partenza per l'ideazione di giocattoli che nascono da materiali di recupero, fornendo in questo modo un'opportunità di crescita e di apprendimento ai bambini. Questo nuovo sentire si esprime, in Italia, anche con gli esempi delle sorelle Agazzi e di Don Milani, il quale, nel suo “Lettera ad una professoressa” definisce la scuola come un «[...] ospedale che cura i sani e respinge i malati» 4: tutto ciò contribuirà alla nascita di una filosofia scolastica nuova, anti-elitaria e maggiormente sensibile alle necessità delle classi sociali sfavorite. Contestualmente, l'Italia vive una rinascita sul piano industriale che consentirà un miglioramento delle condizioni di vita di tutti i cittadini, permettendo loro di partecipare attivamente alla costruzione della nuova forza economica del paese, non soltanto attraverso il processo di produzione (la scuola assumerà un ruolo fondamentale per la formazione della nuova classe operaia), ma anche nel senso di consumatori.

La scuola pertanto acquisisce un ruolo fondamentale per la coesione sociale e per la costruzione dell'identità del paese. A tale proposito è significativo citare l'articolo 9 della Costituzione Italiana: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e  il  patrimonio  storico  e  artistico  della Nazione» 5. In tal senso, le istituzioni ripongono particolare attenzione al ruolo dei musei nel contesto della scuola: molte delle nuove proposte didattiche da questo momento in poi avranno come riferimento l'educazione artistica dei discenti, in particolar modo incoraggiando l'incontro tra il bambino (che vive il museo come un luogo ad egli lontano, talora finanche noioso) e le opere d'arte.

A tale proposito, Giuseppe Zago sottolinea come «dopo la caduta del regime fascista, i musei vennero chiamati ad acquisire un ruolo centrale in campo educativo all'interno del più ampio progetto di rinnovamento democratico della società civile» 6: l'esperienza museale, pertanto, acquisisce ufficialmente un fondamentale ruolo didattico e pedagogico allo scopo precipuo di formare la cultura e l'identità dei piccoli scolari. Anche la figura dell'insegnante riflette un mutamento che sottende la stessa intenzione: il maestro non ricoprirà più il ruolo di detentore della conoscenza, ma piuttosto incoraggerà metodiche ed esperienze didattiche di tipo collaborativo, allo scopo di costruire un'esperienza collettiva e condivisa del sapere.

La radicalità e l'importanza di tali mutamenti investiranno pienamente la sensibilità di Munari, consentendogli di attraversare un periodo di studio e di maturazione artistica che lo condurranno, in ultima analisi, all'elaborazione dei suoi celebri Libri tattili.


Ma qual è il punto di vista di Munari rispetto allo stato dell'arte della didattica italiana, in particolar modo nei confronti dell'insegnamento artistico?

Per rispondere a questa domanda è necessario fare riferimento ai numerosi j'accuse che Munari dissemina in più di uno dei suoi scritti: egli non fatica a denunciare la totale inadeguatezza del sistema scolastico ed accademico italiano nei confronti della preparazione artistica dei discenti, i quali avrebbero ricevuto, secondo l'artista, un'istruzione piatta, vuota e forzatamente nozionistica, finendo con l'ottenere un'aridità intellettuale e culturale in quegli stessi individui che meriterebbero invece di essere opportunamente accolti e guidati.

Nel seguente passo particolare attenzione è rivolta alla formazione degli studenti universitari:

    «Noi abbiamo avuto sempre una educazione a base letteraria. La letteratura doveva essere la sede della conoscenza, il massimo del sapere. Il linguaggio è il principale strumento del pensiero, ma non è il solo. Esso è fatto di una serie di parole messe in fila, secondo un ordine lineare. Queste parole si possono pronunciare una alla volta, una dopo l'altra. In natura tutto avviene simultaneamente; se tentassimo di spiegare tutto quello che percepiamo dalla natura, simultaneamente con le parole, ne verrebbe fuori un coro informale in cui ognuno dice parole diverse. Probabilmente questo strumento del pensiero che è il linguaggio, ci permette di capire solo una parte del mondo in cui siamo, altri fenomeni li dovremo capire con altri strumenti. La comunicazione visiva è uno di questi altri.» 7

Secondo Munari, una formazione spiccatamente letteraria è una formazione che tende veicolare un pensiero eccessivamente “lineare”, limitando le capacità degli individui di raccogliere ed elaborare dati ed informazioni in modo elastico e anzi forzando le proprie attitudini creative e immaginative in compartimenti stagni che finiscono con l'inibire del tutto le qualità intellettuali dei discenti e dei futuri individui. Prendendo in prestito e confrontandosi anche con idee mutuate dallo psicologo Rudolf Arnheim 8, Munari ha ragione di credere che la formalizzazione del pensiero, così come pensata e attuata dalla didattica italiana, finisca con il limitare le potenzialità non solo dei soggetti minorati o intellettualmente svantaggiati, ma paradossalmente anche i più dotati tra i discenti che non si riconoscono negli stretti confini di un pensiero così forzatamente strutturato.

Questo particolare tipo di attitudine della didattica, non sorprendentemente, ha per vittima designata proprio l'educazione artistica, intesa qui come principale responsabile dello sviluppo delle facoltà estetiche dello studente. L'insegnamento dell'arte viene drammaticamente trascurato dalle istituzioni, sulla scia dell'idea che la scienza debba costituire l'unico “vessillo” di razionalità ed intelletto e, al contrario, che l'arte sia il campo d'azione del sentimento e delle passioni: la scuola, quindi, sarebbe autorizzata ad ostracizzare qualsiasi tipo di educazione estetica per favorire un'educazione al pensiero razionale. In questo senso, si pone qui l'antica e mai davvero superata questione della “separazione dei saperi”, che vuole da un lato l'”arte”, intesa come espressione di sé, svago, talora relegata a mero “sfogo” rispetto ad impegni intellettuali ritenuti più seri, e dall'altro lato la “scienza”, posta come contraltare nella sfera delle discipline intellettuali. In questo senso Munari ritiene assolutamente necessario il superamento di tale opposizione, cercando una soluzione che consideri un'alternativa “via di mezzo” che preveda l'integrazione dei due campi dell'attività umana, in modo che l'uno possa servire l'altro:

    «Tutte le regole della tecnica erano buone regole di comunicazione visiva: l'accostamento dei colori per ottenere il massimo della brillantezza o comunque un effetto voluto, le regole di composizione che arrivano fino alle misure armoniche della sezione aurea, e tutto ciò che i dadaisti hanno buttato all'aria perché (a ragione) erano ormai regole inadatte alla nuova sensibilità. Regole stancamente applicate nelle scuole statiche, regole che appartenendo al passato diventano pura accademia e infatti l'arte di quei tempi andava sempre più restringendo la sua funzione di comunicazione visiva per diventare un fatto di élite, valido solo per competenti altamente specializzati. Tanto è vero che ancora oggi ci vogliono gli interpreti (i critici d'arte) per spiegare al pubblico ignorante che cosa l'artista voleva dire. Di pari passo gli artisti si sono sempre più chiusi nelle loro torri d'avorio, nei loro linguaggi segreti e così oggi siamo nel bel mezzo della massima confusione dalla quale si può uscire solo ristabilendo delle nuove regole» 9

Consapevole del fatto che l'alta formazione accademica in ambito artistico sia destinata ad una ristrettissima cerchia di eletti, Munari dedicherà la maggior parte dei propri sforzi al mondo dell'infanzia, intendendo operare in tal modo una sorta di investimento per le generazioni future. Le idee di Munari risuonano con quelle di Jean Piaget, come evidenza Marucci:

    «Il famoso psicologo Piaget ha detto che non si può cambiare la mentalità di un adulto. Io ho tenuto diversi incontri e conferenze a livello universitario, in scuole medie, in scuole elementari e adesso, finalmente, sono arrivato alla scuola materna. È lì che bisogna operare, altrimenti i bambini sono già condizionati a un pensiero distorto, a un pensiero chiuso; sono soffocati nelle loro possibilità creative e fantastiche. Quindi, se si vuole cambiare la società, è proprio lì che si deve operare per sperare in un mondo migliore fra qualche generazione» 10

E allo stesso tempo, come messo in luce da Gillo Dorfles, Munari comprende come l'arte sia destinata ad «inserirsi nelle più basse stratificazioni culturali dopo che la loro vera qualità è stata del tutto o parzialmente alterata».11 In ultima analisi, Munari sente come un'urgenza la necessità di rimodernare e svecchiare il sistema scolastico, trasformandolo in un sistema dinamico ed adatto alle nuove esigenze degli studenti, specie dei bambini: «[...] la nostra scuola è troppo vecchia»12.

In conclusione, i bambini devono ricevere un'educazione tout court, e devono essere incoraggiati a ragionare non soltanto per nozioni e concetti formalizzati, ma anche attraverso quegli strumenti che sono indispensabile allo sviluppo di un'attitudine creativa ed espressiva; accanto a questo, è fondamentale che l'accesso all'istruzione artistica non sia più appannaggio delle classi più abbienti, ma che venga garantito a chiunque, specie alle masse più distanti dalle grandi questioni intellettuali.

Punti chiave della pedagogia munariana

La pedagogia munariana può essere intesa come la summa delle molteplici esperienze di Munari relative al campo dell'arte, del design e della letteratura: attraverso di esse, l'artista milanese mette a punto una prospettiva originale, personale e concreta rispetto a quali possano essere gli strumenti adatti a permettere la formazione culturale ed individuale di ciascun bambino. Va precisato, tuttavia, che Munari elabora una pedagogia che non finirà mai col definire tale, dal momento che egli si considerò lungo tutta la sua carriera nient'altro che un artista in perenne ricerca. In che senso, quindi, l'opera di Munari si inserisce a pieno titolo nell'ambito pedagogico?

La risposta a questa domanda si trova in numerosi elementi disseminati lungo la sua intera opera, non soltanto nei suoi più conosciuti giocattoli, ma in particolare anche in molti degli scritti che produsse nell'arco della sua vita. La pedagogia, il cui scopo è quello di considerare l'individuo nella sua totalità, non può prescindere dal fornire e definire gli strumenti che consentono di “imparare ad imparare” per poter dare vita ai propri desideri e dare voce ed espressione alle proprie necessità, quindi in ultima istanza a formare la personalità dell'individuo.

Munari, quindi, attraverso i suoi Laboratori, si occupa di adattare ciascuna esperienza didattica sulla base delle esigenze dei piccoli destinatari che ne usufruiranno, occupandosi non soltanto dei contenuti, ma soprattutto prestando particolare attenzione a quello scrigno polimorfo che è la persona-bambino, sfaccettato e ricco di timori, emozioni, desideri e necessità.


Pedagogia dell'apprendimento

Aspetto fondamentale della pedagogia munariana, quindi, è la centralità dell'individuo nella sua interezza nel corso del processo di apprendimento. Pertanto, primario è considerare ed integrare ciascun aspetto del destinatario della didattica: non vanno tralasciati gli aspetti sociali, culturali e caratteriali del bambino, che contribuiscono ciascuno in un modo diverso alla costruzione della personalità individuale. La pedagogia dell'apprendimento pone al centro della propria ricerca, assieme a questo concetto, anche il “principio di unicità” secondo cui ciascun individuo sarebbe dotato di una «irripetibile originalità, non soltanto nelle manifestazioni ma anche nelle identità, nella profonda e acuta percezione della propria totale irriducibilità» 13. Accanto a questo, al bambino è riconosciuto un ruolo attivo nel processo dell'apprendimento, così come è attribuito un ruolo centrale all'ambiente ed al contesto entro cui tale processo di muove: in particolare, la famiglia e la scuola sono ritenute alla stregua di laboratori di ricerca all'interno dei quali i bambini e gli adulti sovrappongono, intrecciandoli, i propri processi conoscitivi, permettendo in questo modo un'evoluzione condivisa giorno dopo giorno. Una simile dimensione, quindi, favorirebbe non soltanto la relazione del bambino con il mondo al di fuori di sé (la scuola, la famiglia, la collettività), ma, attraverso di essa, permetterebbe l'incontro tra questo e quegli aspetti personali e privati che costituiscono il mondo interiore di ciascuno: è proprio intorno a questa idea che si incardina il tentativo di costruire un metodo conoscitivo dei processi che sono alla base dell'apprendimento, in consonanza con le teorie dell'apprendimento di Jean Piaget 14. Lo psicologo identifica, nel processo conoscitivo, due precisi momenti, che sono definiti in primo luogo dall'assimilazione (momento in cui l'individuo riceve degli stimoli da parte dell'ambiente esterno a sé) e dall'altro l'accomodazione (momenti in cui quegli stimoli sono adattati e si relazionano a quel sistema di conoscenze pre-acquisite, consentendo di attuare meccanismi critici, comparativi e di rielaborazione di quegli stessi schemi conoscitivi, facendo proprie le nuove conoscenze derivanti dal processo. Si desume che l'esperienza ricopre un ruolo cruciale, permettendo all'individuo di mettere in discussione il proprio assetto di valori e arricchirlo continuamente, in occasione di ciascuna esposizione.

Le quattro facoltà munariane: Fantasia, Invenzione, Creatività ed Immaginazione

Nel 1977 Munari pubblica “Fantasia” (Fig. 2), testo fondamentale in cui mette a punto un'indagine intorno a quelle che considera le quattro facoltà umane che fanno di ciascun individuo una peculiare unicità, appunto la Fantasia, l'Invenzione, la Creatività e l'Immaginazione. Il suo lavoro di ricerca prende avvio e si ispira alla sua stessa esperienza di artista, come egli stesso scrive alla prima pagina del volume: «questo studio con l'esperienza che mi viene dall'uso continuato di queste facoltà nel mio lavoro professionale» 15.

Fig. 2 - Fantasia, prima edizione, Universale Laterza, 1977. Foto cortesia di Maria Esposito
Fig. 2 - Fantasia, prima edizione, Universale Laterza, 1977
Foto cortesia di Maria Esposito

Che cos'è dunque, secondo Munari, la Fantasia? Egli la definisce come «la facoltà̀ più̀ libera delle altre», che «può anche non tenere conto della realizzabilità o del funzionamento di ciò che si è pensato» 16. Si tratta quindi sì di una forza in grado di stimolare l'individuo nella genesi di nuovi concetti e pensieri, ma la sua attività e la sua potenza sono imprescindibili dalle relazioni che sono operate nel recinto della mente e che riguardano l'ambiente esterno: simboli, oggetti, figure, persone, linguaggi verbali e non verbali. Il prodotto della fantasia, dunque, origina dall'integrazione e dalla relazione che la mente opera a partire dagli elementi che seleziona nel suo affacciarsi all'ambiente fuori di sé. Questo concetto, che per Munari sarà fondamentale, è negli stessi anni espresso anche da Gianni Rodari all'interno del suo libro “Grammatica della Fantasia“ 17, dove esprime questo stesso concetto tramite il gioco del “Che cosa succederebbe se…”: ponendosi questa piccola domanda, il bambino mette in relazione due elementi, oggetti, persone, trasferendo dall'uno all'altro i significati attraverso la cosiddetta “ipotesi fantastica”. Come sottolinea lo psicologo David Ausubel: «ogni apprendimento significativo comporta necessariamente un trasferimento, perché non si può concepire nessun caso in cui tale apprendimento non sia influenzato dalla struttura cognitiva esistente» 18. Il bambino, quindi, appreso tale meccanismo cognitivo, lo ripete indefinitamente applicandolo via via a ciascuno ambito della propria esperienza, e forgiando in questo modo apparentemente semplice la propria peculiare personalità, più o meno elastica ed adattabile quanto più o meno questo meccanismo è ben oliato. Munari vuole indagare proprio questo aspetto peculiare dei maccanismi cognitivi dell'infanzia (ma, a ben guardare, che si mantengono vivi anche nell'adulto), rintracciandone gli aspetti meno evidenti ad un occhio poco attento: «Pare che il più̀ elementare atto di fantasia sia quello di rovesciare una situazione, pensare al contrario, all'opposto, come si dice: il mondo alla rovescia» 19. La pedagogia munariana, in questo senso, ancora una volta prova a sovvertire quel tipo di didattica che, al contrario, opprime la Fantasia tramite insegnamenti artificiosi, improduttivi e del tutto inadatti alle esigenze dei piccoli discenti (Fig. 3):

    «Quasi tutti i bambini di questo mondo dipingono le stesse cose. In tutto il mondo essi dipingono quello che vedono, quello che sanno, quello che conoscono e cioè un prato, una casa, montagne, un albero e il sole, Cambierà la forma della casa o dell'albero, ma i soggetti sono più o meno questi. E se non saranno aiutati a crescere, dipingeranno da adulti, come hobby, le stesse cose, nello stesso modo» 20.

La seconda facoltà che Munari analizza è l'Invenzione: secondo l'artista, questa si muoverebbe sullo stesso piano cognitivo della Fantasia, cioè attraverso lo stabilirsi di una «relazione tra ciò che si conosce, ma finalizzandola ad un uso pratico» 21, tuttavia al contrario della Fantasia, che si muove in assenza di finalità e in modo potenzialmente assurdo e impossibile, l'Invenzione ricerca nelle relazioni tra gli elementi un senso logico che possa servire ad un utilizzo pratico e concreto. Tale facoltà, quindi, fa sì che l'individuo integri alla Fantasia elementi e scopi di funzionalità, analizzandone e carpendone le ragioni, le logiche e i meccanismi che soggiacciono all'interno della relazione stessa.

La Creatività, infine, pur comprendendo gli elementi delle prime due facoltà munariane, le completa conferendogli un significato di globalità: essa «comprende tutti gli aspetti di un problema, non solo l'immaginazione come la fantasia, non solo la funzione come l'invenzione, ma anche l'aspetto psicologico, quello sociale, economico, umano» 22 e ancora non perde di sottolinearne l'importanza nell'ambito dello svecchiamento del sistema didattico e della pedagogia «risponde a oggettive istanze d'ordine psicologico, d'ordine sociale e d'ordine filosofico. [...] Non a caso la richiesta di creatività va di pari passo con la richiesta di una affermazione più autentica della personalità, di più ampi spazi di libertà, di una rigenerazione della società mediante una tensione etica, senza la quale ogni appello alla creatività è vano». 23

Per Munari, è fondamentale permettere al bambino di sviluppare la capacità di esprimersi in piena libertà, ma è ancor più cruciale educarlo ad acquisire gli strumenti che gli permettano di farlo, poiché la Creatività non va confusa con il caos, né con la mera improvvisazione. Il bambino va quindi accompagnato e stimolato in questo processo attraverso giochi che lo aiutino ad «imparare qualcosa di nuovo, impadronirsi di tecniche nuove e possano capire le regole del linguaggio visivo». 24

Infine, l'Immaginazione è definita da Munari come quel «mezzo per visualizzare, per rendere visibile ciò che la fantasia, l'invenzione e la creatività pensano» 25.

A differenza delle tre precedenti facoltà, l'Immaginazione non necessariamente aggiunge qualcosa di nuovo al pensiero, ma è in grado di riportare alla mente elementi, persone, eventi che non sono presenti, ma che sono relegati tipicamente al passato già vissuto. Antonacci afferma che l'immaginazione è «una capacità empatica profonda di contatto con le cose e con il mondo» che «Si nutre di immagini, visioni, di ascolto, e soprattutto capace di percepire e trovare delle connessioni tra le cose e le persone» 26.

In definitiva, grazie all'esercizio ma soprattutto all'educazione di Fantasia, Invenzione, Creatività ed Immaginazione, è possibile mettere in discussione in modo critico il significato ed il contenuto del proprio pensiero, sovvertendo idee e concetti pre-confezionati e definendo nei bambini, attraverso l'apprendimento, personalità vive e creatrici.



Fig. 3 - Immagine tratta da “Disegnare un albero”. Foto cortesia di Maria Esposito
Fig. 3 - Immagine tratta da “Disegnare un albero”
Foto cortesia di Maria Esposito

Lezioni di Harvard: nuove soluzioni per nuovi problemi

Gli interessi di Munari per il mondo della didattica, come già accennato nei precedenti paragrafi, non guardano esclusivamente alla pedagogia per i bambini, ma allo stesso modo volgono lo sguardo anche alla metodologia dell'istruzione destinata ad un pubblico adulto. Pur afferendo i suoi lavori ad un repertorio pressoché standardizzato di contenuti e temi (sfogliando i testi munariani destinati agli adulti è possibile notare la somiglianza tra le attività suggerite a questi e i consigli e gli esercizi riservati ai laboratori ludo-didattici destinati ai bambini), egli è in grado di adattarne di volta in volta l'espressione a seconda di chi sia il destinatario, fatta forse eccezione per i suoi lavori più tardivi, nei quali sembra voler gettare la spugna rispetto alla didattica per adulti, che gli appaiono sempre meno duttili e ottenebrati da pregiudizi culturali che fanno fatica ad essere sradicati. In un'intervista del 1997, Silvana Sperati, presidentessa dell'Associazione Bruno Munari, chiede a Munari se intravede una possibiltà di crescita e miglioramento anche in tal senso:

«C'è una possibilità che viene da una via indiretta, quando noi, in un laboratorio dove sono presenti alcuni adulti, giochiamo con i bambini o meglio gli insegniamo a fare un gioco, ma senza parlare. Gli adulti, in un primo momento, si meravigliano e si rendono conto che si sono espressi male. L'adulto, però fa un po' fatica a correggersi perché mentre si corregge sa che ha fatto una brutta figura.» 27

In ogni caso, Munari ha dedicato parte del proprio lavoro anche alla didattica per adulti, non soltanto tramite i laboratori di comunicazione visiva, ma anche tenendo delle vere e proprie lezioni che hanno lo scopo di formare figure professionali che vanno dal designer all'operatore estetico: in tal senso, le lezioni vertono proprio sulla teoria del design, sui principi della comunicazione visiva, sul disegno industriale, sulle tecniche di realizzazione di figure, immagini per grafica e pubblicità, nonchè di oggetti.

Purtroppo non abbiamo a disposizione resoconti puntuali o trascrizioni delle lezioni tenute da Munari nelle sedi istituzionali, Tuttavia, è possibile intuire l'approccio all'aula di Munari attraverso una video-testimonianza interessante di una lezione frontale tenutasi allo IUAV di Venezia nel 1992, in cui l'artista racconta agli studenti, disseminando qua e là aneddoti e ironia, qual è il significato del disegno industriale e quale il suo ruolo nel mondo culturale.

Ben più significative sono, invece, le relazioni tenute insieme nelle “Lezioni di Harvard”, redatto dallo stesso Munari durante la sua breve attività di docente presso l'Università di Harvard, al Carpenter Center for the Visual Arts di Cambridge, Massachussetts, nel 1967, soggiorno durante il quale tenne circa cinquanta lezioni distribuite in quattro mesi, da febbraio a maggio. A tal proposito, l'artista provvedeva ad inviare giorno dopo giorno tali report al giornale milanese «Il Giorno», strutturando una sorta di corrispondenza quotidiana che andrà a comporre, corredata coi commenti, le riflessioni e la bibliografia di prima mano di Munari stesso, il libro che risponde al nome di Design e Comunicazione visiva (Fig. 4). Il volume si apre con questa riflessione:

    «In un ambiente ideale, sia dal lato umano che funzionale, ho potuto sperimentare alcune innovazioni che riguardano il metodo di insegnamento degli elementi basilari del design e del linguaggio visivo. Purtroppo il tempo a mia disposizione era troppo breve per svolgere un corso completo di questi argomenti, tuttavia fu sufficiente a collaudare quello che io pensavo potesse essere un nuovo metodo di insegnamento basato non più sugli antichi concetti di ciò che è bello e ciò che è brutto, ma su ciò che è giusto o sbagliato, secondo un dato principio formatore». 28



Fig. 4 - [Da: <i>Design e comunicazione visiva</i>, Economica Laterza, pp. 198-199]. Foto cortesia di Maria Esposito
Fig. 4 - [Da: Design e comunicazione visiva, Economica Laterza, pp. 198-199]
Foto cortesia di Maria Esposito

Il “principio formatore” cui Munari si riferisce altro non è che l'applicazione delle quattro facoltà discusse nei precedenti paragrafi, che secondo l'artista deve quindi guidare l'apprendimento sovvertendo le vecchie norme accademiche. La platea studentesca del prestigioso ateneo americano fornì a Munari la possibilità di “testare” il proprio “principio formatore” nel contesto di un ambiente multiculturale:

«Gli studenti di questo corso erano di origine diversa e, probabilmente, ciò che era bello per un brasiliano poteva non esserlo anche per un cinese; mentre, dato un principio formatore uguale per tutti, si poteva controllare e capire se la soluzione era giusta o sbagliata. Il concetto di bellezza veniva così sostituito da quello di coerenza formale.» 29

Munari sceglie di tenere delle lezioni del tipo “workshop”, piuttosto che tradizionali lezioni frontali, e decide di impostarle nel modo seguente: innanzitutto, introduce l'argomento del giorno descrivendone brevemente le tematiche e fornendo solo input generici, dopodiché ripartisce gli studenti in gruppi (oppure in singoli) lasciando che rispondano al progetto assegnato ciascuno in base al proprio personale sistema di riferimento estetico. Durante lo svolgimento degli esercizi, l'artista si limita a supervisionare il lavoro e infine di fare da moderatore di quello che sarà il dibattito finale in cui gli studenti descrivono e confrontano i propri risultati. Il tema di ciascun argomento viene stabilito di volta in volta dalla discussione che si è tenuta in aula, a partire dalla quale Munari enuclea una serie di temi che porterà all'attenzione degli studenti nel corso delle successive lezioni. Un certo numero di lezioni, in particolare, sarà dedicato allo studio dei segni e delle superfici. Egli stesso scrive:

«Per la sensibilizzazione delle superfici, dicevamo, gli studenti sono stati invitati a trasformare con ogni mezzo a loro disposizione e inventiva, un normale foglio bianco comune e inespressivo. Solo, però, cercando di modificare la superficie, conservandone l'uniformità, il che vuol dire senza fare delle composizioni artistiche. Perchè è molto difficile limitare un problema. Per imparare bene occorre approfondire tutte quelle cose che l'entusiasmo giovanile fa sembrare immediatamente superabili. [...]. Questa volta, con questa ricerca di sensibilizzazione di una superficie, senza dover esprimere niente, si sono trovati tutti un poco disorientati.» 30

Gli studenti, pertanto, sono invitati a produrre pattern dinamici e vividi, in modo che da questi possano emergere immagini in movimento, animate, dall'artista ritenute fondamentali per ottenere un'ideale comunicazione visiva.

Altro argomento cui Munari dedicherà buona parte del corso è l'analisi di moduli, forme e strutture, specie attraverso lo studio delle proprietà intrinseche ai materiali e agli oggetti, nonché delle loro possibilità di manipolazione, la cui conoscenza è per l'artista cruciale per diventare dei buoni progettisti e per comporre immagini plastiche in modo organico, rispecchiando coerentemente all'esterno la natura delle singole parti. A tale scopo, Munari si serve proprio dell'esempio della natura, fornendo ai suoi studenti degli esempi (alberi, fiumi) cui applicare metodi di indagine sempre nuovi:

    «Tutto ciò avviene nel corso di Visual Studies e gli studenti provano a ricostruire l'andamento di un fiume, non disegnandolo dal vero o ricopiandolo da una carta geografica, ma costruendolo per capire l'andamento di un liquido su di una superficie plastica. Ognuno prende un foglio di carta bianca, grande, e lo appallottola come se dovesse buttarlo via, poi lo distende di nuovo. Questo foglio ha assunto i caratteri plastici di una zona geografica con montagne e colline e movimenti vari di terreno: è come la buccia di un pezzo di superficie terrestre. [...] Su questa specie di plastico geografico gli studenti sono invitati a versare, con delicatezza, un poco di inchiostro di china diluito al punto da ottenere un grigio medio. L'inchiostro corre sulla carta come un modello di fiume, prende sempre la strada più bassa, si ramifica, si allarga dove trova posto e finalmente si ferma.» 31

La restante parte del corso è dedicata, infine, alle tecnologie non tradizionali preposte alla produzione artistica: a tale scopo, Munari si servirà, e non soltanto durante le sue lezioni, di fonti luminose, proiettori indirizzati su schermi plastici allo scopo di ottenere l'animazione di oggetti tridimensionali, nonché subirà la fascinazione del nascente settore della computer graphic, novità verso la quale, di fronte ai suoi studenti, mostra una apertura divertita in barba alle ritrosie dei detrattori delle future arti digitali, nutrendo anzi un certo ottimismo per le possibilità che ne potranno derivare.


La progettazione di giocattoli educativi

Com'è possibile evincere dalla celebre intervista a Bruno Munari da parte del figlio Alberto, la passione dell'artista per i giocattoli per bambini risale già alla sua infanzia: «Da ragazzo (e tanto meno da bambino) non ho mai avuto giocattoli come oggi hanno tutti i bambini, però me li inventavo e li costruivo con quello che trovavo: un ramo biforcato e due elastici di gomma diventavano una fionda» 32; a tale proposito, Bebe Restrelli, allieva prima e collaboratrice poi di Munari, riporta un ricordo particolare dell'infanzia del suo maestro: «Il mio primo gioco fu un gattino vero, vivo, miagolante, trovato nel giardino [...]. Questo forse fu il giocattolo più completo che abbia mai avuto, così pensavo allora, oggi invece mi viene il sospetto che anche io bambino ero il giocattolo del gatto» 33. Munari sa che la prima dimensione con cui il bambino viene a contatto, nel momento in cui questi inizia a muovere i primi passi nel mondo, è quella domestica. Verso la fine degli anni Quaranta, forse anche grazie all'occasione della nascita di suo figlio Alberto, l'artista inizia a dedicare parte della propria attività di ricerca proprio alla progettazione di giocattoli per bambini. Accanto a questo non bisogna dimenticare che, come già accennato nei precedenti capitoli, fin dagli esordi della sua carriera il tema del gioco aveva legato Munari alle tematiche del dadaismo e del futurismo: questo appare particolarmente evidente guardando alla progettazione della Tavola Tattile 34 (Fig. 5), opera in cui l'artista integra le idee marinettiane con gli aspetti della comunicazione visiva e soprattutto tattile dei materiali, immaginando l'opera come uno strumento che possa costituire, per il bambino, una sorta di paradigma per imparare a conoscere i mille aspetti sia di se stesso che della realtà circostante: «la conoscenza del mondo, per un bambino, è di tipo plurisensoriale. E tra tutti i sensi, il tatto è quello maggiormente usato, il tatto completa una sensazione visiva e uditiva, dà altre informazioni utili alla conoscenza di tutto ciò che ci circonda» 35.



Fig. 5 - Tavola tattile n°16, 1998. Foto cortesia di Maria Esposito
Fig. 5 - Tavola tattile n°16, 1998
Foto cortesia di Maria Esposito

Inoltre nel 1954 Munari vince il premio italiano del design “Compasso d'oro” per la realizzazione della scimmietta Zizì: si tratta di un lavoro che chiude un'esperienza frutto di molti anni di ricerca, dove il senso del tatto acquisisce un ruolo perfettamente centrale nell'opera. La forma originaria della scimmietta Zizì è in realtà da rintracciare in un giocattolo nato alcuni anni prima, sotto incarico da parte della Pirelli, ovvero il gatto Meo Romeo, progetto che aveva visto l'artista alle prese con una serie di nuovi materiali, specie con la gommapiuma:

    «La Pirelli incarica Munari di pensare a un nuovo impiego industriale di un materiale per quel tempo innovativo: la gommapiuma. L'idea di armare la gommapiuma di un sottile filo di rame diventa lo spunto per creare una serie di giocattoli animati. “La gommapiuma dà piacere al tatto, simula la vita senza implicarne i rischi. Come la simula il sottile filo metallico che fa da scheletro ai miei animali”» 36

E ancora Munari stesso scrive, in Codice Ovvio:

    «Mi feci dare alcuni campioni di questo nuovo materiale e cominciai una sperimentazione per capire quali altre cose si potevano progettare in modo che l'oggetto progettato fosse coerente col materiale e con le sue qualità. La qualità più evidente si manifestava attraverso il tatto. Un qualunque pezzo di gommapiuma, manipolato da un bambino, comunica la morbidezza, l'elasticità del materiale che sembra vivo e che, a un bambino, fa venire in mente la stessa sensazione che si prova a tenere in braccio un gattino o un piccolo animaletto» 37

La scimmietta Zizì può essere considerata come una sorta di “paradigma materiale” del metodo munariano: il giocattolo nasce come oggetto inerte e privo di vita, e soltanto grazie all'intervento, alla partecipazione e alla manipolazione da parte del bambino, diretto fruitore oltre che destinatario dell'opera, il gioco può prendere vita e assumere forme potenzialmente infinite. Il concetto di “infinito” non sarà abbandonato da Munari, ma verrà anzi ripreso successivamente per la realizzazione di una nuova serie di giocattoli didattici commissionati dalla ditta di Bruno Danese ed ideati insieme al pedagogo Belgrano e allo IARD, istituto di ricerca di processi formativi con lo scopo di rinnovare la didattica destinata alla scuola d'infanzia ed elementare 38. Anche in questo caso, come per la scimmietta Zizì, protagonista indiscusso è il bambino e la sua capacità di comporre e scomporre i vari elementi che costituiscono i giochi, realizzando ad ogni occasione una storia diversa e stimolando in modo sempre nuovo la creatività, dunque sviluppando il “pensiero progettuale creativo”. Danese ricorda l'impegno profuso dell'artista nel progetto dei kit di materiali e oggetti assemblabili destinati ai bambini, formati da:

    «da una serie di elementi che offrivano al bambino, anche in età prescolare, la possibilità di poter capire costruendo egli stesso la forma fondamentale, molto schematica, delle lettere. Attraverso questi elementi componibili il bambino, secondo Munari, avrebbe potuto creare, in modo libero, altre composizioni.» 39

In definitiva, da questi due esempi è possibile dedurre quale fosse il “filo conduttore” che guida e ispira Munari nel suo lavoro di ricerca nella didattica dell'arte per l'infanzia: il bambino non deve vivere passivamente il prodotto artistico, ma deve interagire con esso con le sue proprie capacità e i suoi propri mezzi, in modo da sviluppare una capacità di interagisce con il mondo attraverso il gioco.


Il libro illustrato: rappresentazioni visive nella letteratura per l'infanzia

Munari frequenta il mondo dell'editoria fin da giovane, come accennato precedentemente, ricoprendo il ruolo di illustratore tra le fila del Secondo Futurismo marinettiano. La prima vera esperienza di illustratore per l'infanzia è da rintracciare nei disegni realizzati per Aquilotto implume di Romeo Giuseppe Toscano del 1929, in cui è possibile ravvisare ancora una certa influenza futurista, da cui l'artista, come si è detto, si discosterà definitivamente solo agli inizi degli anni Quaranta. Nel 1942 Munari pubblicherà il suo primo abecedario con la casa editrice Einaudi: qui è già possibile intravedere uno stile nuovo e più personale, che racchiude in maniera germinale tutto ciò che caratterizzerà la produzione successiva. Le nuove esigenze espressive di Munari nascono in primo luogo da una profonda riflessione sullo stato dell'arte della produzione dei libri per l'infanzia; l'artista è molto critico nei confronti della produzione a lui contemporanea, e a tale proposito scriverà:

    «[...] Cose che il bambino non può capire sono: il lusso di certe edizioni, la stampa preziosa, il libro caro, le illustrazioni poco chiare, le figure non intere (i particolari di una testa ecc.). Che cosa pensa l'editore? Pensa che i bambini non comprano libri, ma li comperano i «grandi» i quali regalano libri, non tanto per interessarli a qualcosa, ma per far bella figura con i loro genitori (non sempre per fortuna) e quindi il libro sarà costoso, le illustrazioni a tanti colori non importa anche se brutte perché tanto il bambino non capisce, è un povero tontolino; l'importante è che l'oggetto sia vistoso. Un buon libro per bambini, con belle figure espressive, con una storia giusta, stampato senza lusso, non avrebbe successo (presso certi genitori) mentre sarebbe molto gradito ai bambini.» 40

«Un buon libro per bambini, dai tre ai nove anni, dovrebbe avere una storia molto elementare e mostrare figure intere, a colori, molto chiare e precise. I bambini sono dei formidabili osservatori e si accorgono di tante cose che agli adulti spesso sfuggono.» 41


Nel 1966, Munari riassume in “Arte come mestiere” tutte le sue idee riguardo la didattica per l'infanzia e soprattutto la progettazione di libri destinati ai bambini:

L'attività di illustratore continua, in questi anni, con la pubblicazione di una collana per l'infanzia edita da Mondadori (costituita da sette volumi caratterizzati da disegni semplificati e di immediata fruibilità da parte dei bambini), dopodiché nel 1960 comincerà la sua fruttuosa collaborazione con Gianni Rodari, pubblicando per Einaudi un nuovo abecedario, ricco di caratteristiche del tutto inedite prese in prestito dalla ormai lunga esperienza di pedagogo dell'artista: l'Alfabetiere. In questo lavoro Munari decide innanzitutto di disporre le lettere in una sequenza diversa da quella tradizionale (a, b, c, d…), ma piuttosto di ordinarle in ordine di “difficoltà di apprendimento”. Ogni lettera è accompagnata e corredata con una filastrocca ricca di allitterazioni e consonanze che hanno lo scopo precipuo di facilitare la comprensione visiva e la ripetizione dei fonemi:

    «Non mi sono preoccupato del senso logico perché ai bambini non interessa; sentite cosa dicono nei loro giochi: aliulè chetaprufì talusinghè tulilem blum tulilem lem blum. Cosa c'è di interessante in questa sequenza di parole inventate? C'è un ritmo sonoro e certe vaghe immagini» 42

Accanto a questo, Munari intravede la possibilità di attirare l'attenzione dei piccoli discenti lavorando sulle fattezze del libro stesso, oggetto affascinante verso cui il bambino mostra spesso una innata curiosità in quanto materiale da manipolare, sfogliare e conoscere innanzitutto in modo multisensoriale:

    «In certi casi un bambino di tre anni può già interessarsi alle immagini di un libro fatto per lui, più avanti si interesserà anche alla storia, poi leggerà e capirà fatti sempre più complessi. È ovvio che ci sono fatti e avvenimenti che il bambino non conosce perché non li ha mai sperimentati e quindi non capirà cosa vuol dire quando il principe (tipo oggi inesistente) si innamora della principessa (altro tipo come sopra). Egli fingerà di capire o sarà interessato ai colori dei vestiti o all'odore della carta stampata, ma non sarà certamente molto interessato.» 43

­­In questa cornice si materializza l'interesse di Munari per il “libro-oggetto”, fascinazione che a ben vedere può essere riconosciuta parzialmente già a partire dal suo periodo futurista: basti pensare al progetto e all'illustrazione di L'anguria lirica (lungo poema passionale) 44, realizzato con pagine di latta, e soprattutto alla serie dei Libri illegibili, la cui realizzazione ha occupato Munari per un lunghissimo periodo di tempo, dal 1949 fino al 1997. Ancora una volta in collaborazione con la ditta Danese, nel 1979 Munari progetterà la serie dei Prelibri, dodici piccoli volumi in formato 10x10 centimetri, tutti intitolati “Libro” e tutti ideati e costituiti a partire da cartoncini, pezzetti di cotone, plastica, legno e con contenuti non dissimili da quelli dei Libri illegibili: non si troveranno, quindi, illustrazioni e men che meno testi, ma anzi ciascun libro non sarà altro che la rappresentazione di se stesso, attraverso l'amplificazione delle caratteristiche fisiche, tattili, cromatiche e sensoriali tout court dell'oggetto in questione. Il consiglio dell'artista, rivolto agli educatori dei piccoli destinatari dei suoi Prelibri, era di:

    «[…]prenderli e nasconderli nella casa, nasconderli in modo che il bambino li scoprisse ogni tanto [...], magari in una poltrona si trova un oggetto, si tira fuori un pre-libro e si comincia a scoprire che questo oggetto è un oggetto che ha la forma del libro ma che non è un libro.» 45

È altresì importante ricordare che l'attività di illustratore di Munari comprende anche una serie di titoli più tradizionali, sebbene profondamente “munariani” nelle loro espressioni: gli esempi più rappresentativi sono sicuramente rappresentati ad alcuni libri della collana Einaudi Tantibambini, che comprende titoli celebri come Cappuccetto Rosso, Verde, Giallo, Blu e Bianco (Fig. 6) o ancora quelli firmati con lo pseudonimo di E. POI come L'uccellino Tic Toc e Dove andiamo?. In ultimo, Munari pubblicherà (come sarà discusso più avanti nell'elaborato) la serie Giocare con l'arte per Zanichelli, in cui sono contenute e descritte molte delle attività proposte nei laboratori munariani e che sono destinati più precisamente agli educatori che dovranno eventualmente intrattenere e organizzare attività di questo tipo per i piccoli allievi.



Fig. 6 - Cappuccetto bianco, Einaudi, 1993. Foto cortesia di Maria Esposito
Fig. 6 - Cappuccetto bianco, Einaudi, 1993
Foto cortesia di Maria Esposito

Il gioco come strumento pedagogico: avvicinare il bambino all'arte

È il 1974 quando Munari scrive un articolo per Domus - rivista dedicata alla formazione e alla propedeutica della figura del designer - intitolato “Proposta per una scuola di design che comincia dall'asilo”: il tema qui affrontato sembrerebbe immediatamente stridere rispetto ai contenuti abituali della testata, specie considerandone il pubblico di riferimento; tuttavia, ancora una volta, Munari ritiene essenziale sottolineare anche in questo contesto come la formazione estetica dei futuri designer debba cominciare a partire dall'infanzia, allo scopo di sviluppare quanto più precocemente possibile una sensibilità artistica, e allo stesso tempo auspicando che la creatività e la progettualità artistiche possano essere accessibili anche ai non addetti ai lavori 46. Munari stesso, già in Codice Ovvio, sottolinea l'importanza dell'acquisizione precoce di tali strumenti critici e metodologici:

    «La conoscenza di questi elementi formativi del linguaggio visivo concorrerà a formare individui capaci di esprimersi anche nel campo delle comunicazioni visive di cui l'arte è lo stadio più alto e personale. La sperimentazione memorizza facilmente i dati e abitua all'osservazione più esatta delle opere d'arte». 47

Dopo appena tre anni, nel 1977, prenderanno vita i primi Laboratorio d'arte dedicati ai bambini, e in particolare vedrà la luce “Giocare con lʼarte48, frutto della lunga attività didattica svolta da Munari in collaborazione con pedagoghi ed altri esperti 49, nonché scuole e musei di tutto il mondo. Prima di passare ad una trattazione più sistematica dei Laboratori, è essenziale rimarcare che questi continuano tutt'oggi ad essere realizzati tramite lʼapplicazione del «Metodo Bruno Munari» da Beba Restelli 50 presso musei, scuole e biblioteche oltre che nella stessa sede milanese di via Cavalieri: «la realizzazione di laboratori è il naturale completamento di quella pedagogia ludica messa in pratica da Munari decenni prima attraverso la sperimentazione di giochi e giocattoli e soprattutto di libri» 51. Ancora, in Domus, Munari rimarca lo stesso concetto:

    «In Oriente insegnano ai bambini a costruire gli origami, una stupidaggine (per molti adulti superficiali) che però permette al bambino di fare qualcosa partendo da un foglietto di carta colorato quadrato, lo si piega secondo certe regole, e ne esce un giocattolo se le pieghe sono fatte bene. Questo abitua alla precisione, alla osservazione, a capire che esistono delle regole, che seguendo le regole costruttive tutto è facile: chiunque lo può fare. Si scopre alla fine che questa stupidaggine è molto educativa. Da noi invece, a causa di ingorghi culturali nelle menti di certi insegnanti, si portano i bambini e le bambine a vedere, di colpo, i capolavori dell'Arte Italiana nei Musei Più Importanti e così si crea un blocco nei bambini perché essi si rendono conto che non riusciranno mai a fare delle opere d'arte così belle. Secondo me bisognerebbe andare per gradi e cominciare come in Oriente con gli origami, con giochi visivi stimolatori della creatività e della osservazione, con le strutture modulate che occupano lo spazio tridimensionale in modo corretto e semplice, con giocattoli da costruire con moduli combinabili, con pitture non letterarie ma di osservazione del mondo della comunicazione visiva, dei colori, delle textures ecc. E poi invitare i bambini a copiarsi, non nel senso di rubare ma di scambiarsi le esperienze, senza creare competitività, a fare disegni collettivi, a cambiare spesso strumenti e regole, ad aiutare quelli che sono in difficoltà di realizzazione e espressione.» 52

Il primo vero Laboratorio vede la luce nel periodo 15 marzo – 15 giugno 1977, su iniziativa di Munari in collaborazione con l'allora sovraintendente della Pinacoteca di Brera, Franco Russoli, nel contesto del programma Grande Brera intrapreso dalla galleria stessa allo scopo di ampliare e migliorare l'offerta culturale e la sua fruibilità da parte del pubblico: l'intento del direttore era quello di permettere al museo di diventare uno «strumento di comunicazione di massa» 53. Il Laboratorio consisteva in una serie fissa di incontri laboratoriali di vario genere: tale pratica sarà sperimentata qui per la prima volta, e grazie al suo successo ecumenico sarà poi adottato e rinnovato in moltissime altre realtà museali d'Italia. È bene ricordare che, contestualmente, gli anni Settanta saranno per Munari terreno fertile per raccogliere idee e riflessioni sull'arte e sul metodo della didattica dell'arte, integrando la sua esperienza diretta da educatore e divulgatore insieme:

    «Penso che un operatore culturale, se fa delle scoperte, deve comunicarle agli altri e non deve portarsele nella tomba, come fanno certi artisti con i loro segreti. Io credo molto nella comunicazione tra le persone e per questo pubblico tanti libri, spiegando in tutti i particolari come faccio a realizzare certe cose, perché, se c'è qualcosa di buono, deve essere diffusa in qualunque parte del mondo». 54

Così, accanto all'attività didattica rivolta ai bambini, fiorirà anche la serie di libri editi da Laterza e dedicati invece al pubblico adulto, veri e propri libri didattici definiti da Meneguzzo come «ad alto contenuto di parole» 55 che, come accade per i laboratori e spesso proponendo attività del tutto sovrapponibili a quelle rivolte ai bambini, hanno lo scopo precipuo di educare all'arte e di renderla più accessibile a chiunque lo desideri.


Il Laboratorio munariano

La progettazione dei laboratori munariani prende le mosse dall'esperienza passata, a cominciare dalla progettazione dei giocattoli per bambini fino a raggiungere i primi libri illustrati. Il tipico Laboratorio munariano (Fig. 7) si articolava in questo modo: i bambini venivano innanzitutto raggruppati per età, in modo che l'offerta didattica potesse meglio adeguarsi alle singole esigenze dei giovanissimi studenti; a questo punto, i piccoli allievi cominciavano a partecipare alle aree tematiche di gioco, in particolare accedendo ad una sala 56 adibita allo scopo in cui erano sistemati quattro tavoli dotati di tutti i materiali necessari allo svolgimento delle attività, e presso i quali venivano quindi illustrate regole, tecniche e strumenti su cui il Laboratorio stesso si basava. I bambini potevano scegliere liberamente a quale attività dedicarsi: i più piccoli erano introdotti alle singole attività mediante dimostrazioni pratiche piuttosto che con spiegazioni verbali: gli operatori avevano il compito quindi di dimostrare loro «come si fa a fare» 57, seguendo la linea tracciata da Maria Montessori per cui ai bambini non va detto “cosa” fare, ma “come” farlo: «aiutami a fare da me» 58; per i ragazzi di età superiore invece venivano preparati dei tabelloni esplicativi che venivano posti accanto alle opere d'arte, di modo che i ragazzi potessero dedurre autonomamente le regole e le tecniche artistiche che avrebbero dovuto poi applicare. Munari descrive in modo puntuale le singole attività didattiche in Codice Ovvio (riedizione 1994) 59.


I bambini potevano accedere alla collezione della Pinacoteca solo una volta che fossero state completate le attività di laboratorio: qui potevano finalmente entrare in contatto con una grande quantità di opere, alcune delle quali erano gli originali su cui avevano appena lavorato, potendo ora interfacciarvisi con le nuove chiavi di lettura appena apprese:

    «Le tecniche e le regole sono estratte da opere d'arte visiva di qualunque epoca, antica o recente; e vengono presentate ai bambini sotto forma di gioco, con spiegazioni più visive che verbali. I bambini sono liberi di scegliere la tecnica o la regola che più piace, di sperimentarne anche più di una, e non viene dato nessun tema da svolgere. La conoscenza attraverso la sperimentazione stimolerà una progettazione creativa completamente libera». 60



Fig. 7 - Bruno Munari durante uno dei suoi Laboratori. Foto cortesia di Maria Esposito
Fig. 7 - Bruno Munari durante uno dei suoi Laboratori
Foto cortesia di Maria Esposito

L'obiettivo dei laboratori era dunque quello di presentare ai bambini i linguaggi dell'arte visiva (i segni, le gabbie, le textures, le forme, i formati, i colori ... 61) stimolando l'innata curiosità dei fanciulli attraverso lo strumento del gioco, mezzo fondamentale che consente ai giovani allievi di rapportarsi alla realtà ed al mondo circostante e sviluppare ciò che lui chiama il «pensiero progettuale infantile» 62. Tuttavia, la novità essenziale del metodo didattico munariano consisteva, di fatto, in una comunicazione pedagogica del tutto priva di verbalità, in modo che si favorisse una lettura ed una interpretazione immediata delle regole e delle tecniche alla base delle opere, e quindi delle opere stesse, senza che vi fosse la necessità di interporre tra l'educatore e il bambino alcuna sorta di intellettualismo. Il Laboratorio ottenne un grande successo, così che Munari e i suoi collaboratori finirono col costituire un'omonima associazione (Giocare con l'arte) che dal 1977 al 1983 si è occupata di promuovere sia corsi di formazione per educatori di laboratorio che attività laboratoriali vere e proprie. 63



Il Laboratorio multisensoriale e l'esempio di Faenza

È proprio dalla prima esperienza del Laboratorio “Giocare con l'arte” della Pinacoteca di Brera che Munari mutua l'esperienza che lo porterà ad ideare e quindi realizzare i Laboratori multisensoriali 64: l'artista ritiene che i bambini debbano entrare in contatto dapprima coi principi generali sottintesi al lavoro artistico, potendo approcciarvisi solo in un secondo momento, dotati di una nuova consapevolezza. Munari quindi decide di attingere al metodo di Brera per costruire laboratori sempre più sistematici, offrendo ai piccoli allievi attività via via più ampie, comprensive non soltanto di comunicazione visiva sensu strictu, ma anche di strumenti tattili, sonori, di design, tessitura, stampe, materie plastiche e legno. D'ora in poi l'attività di Munari sarà instancabile, distribuendosi i suoi laboratori in giro per il mondo (da Tokyo a Parigi, da Milano a Caracas). A tale proposito può essere utile soffermarsi su uno dei più significativi laboratori tenuti da Munari in questi anni: il laboratorio di ceramica tenutosi nel 1979 presso il Museo Internazionale della ceramica di Faenza, che resiste a tutt'oggi portato avanti da allievi dell'artista stesso. L'allora direttore Giancarlo Bojani scrive a riguardo:

    «Bruno Munari attirò la mia attenzione quando, verso la fine degli anni Settanta, sentivo l'esigenza di avvicinare all'arte ceramica, alle sue tecniche, ai suoi materiali, ai suoi segreti, tanta gente che poneva quesiti in prevalenza elementari avvicinandosi a un Museo così specialistico come quello delle Ceramiche in Faenza. Si trattava di diradare un'aura che impediva anche elementari conoscenze e prassi, passando attraverso le opere compiute, storicamente ed esteticamente complesse per significati e stratificazioni. Munari poteva aiutarmi in questo, con il suo operare ridotto all'osso della semplicità, talora persino disarmante. Una metodologia al cui approccio parve doversi ricondurre soprattutto l'età giovanile, e specialmente infantile, ma con implicazioni anche vaste verso l'età adulta. Non a caso l'esperienza ha poi dimostrato che, attraverso e insieme ai giovanissimi, via via aderissero rispondendo con “umiltà e competenza” anche i grandi, insegnanti, genitori, allievi, ceramisti.» 65

Munari per primo ebbe modo di interfacciarsi alla lavorazione della ceramica costruendosi attorno una squadra di collaboratori esperti in materia, dopodiché potè ideare ed allestire giochi ed attività che avessero lo scopo di far comprendere agli studenti le tecniche di lavorazione e il valore artistico della collezione presente nel museo. Ai partecipanti fu quindi dato modo di scegliere una particolare tecnica cui dedicarsi, tra cui ricordiamo il lucignolo – tecnica con la quale i bambini vengono introdotti al concetto di “corto e lungo”; la tecnica delle palline, manipolate e modellate dai bambini stessi, allo scopo di introdurli ai concetti di grandezza, volume, rapporti, concentrazione; la tecnica della sfoglia, sfruttando le caratteristiche fisiche e tintoriali dei vari materiali, allo scopo di ottenere effetti tattili e visivi combinati e simultanei (multisensoriali); la trafila piccola, per instillare l'idea di tridimensionalità, spazio, equilibrio; le textures, ancora una volta per comunicare il valore tattile delle superfici e dell'effetto visivo che queste creano combinate tra loro 66.


Ma qual era, quindi, l'obiettivo del lavoro didattico di Munari, e quale, più precisamente lo scopo dei Laboratori didattici per bambini e ragazzi? Ancora una volta, la meta è rappresentata dall'attività che si interpone tra il fanciullo e il prodotto del suo lavoro, e il risultato finale acquisisce un rilievo minore rispetto al processo che ha condotto alla sua realizzazione:

    «Ogni gioco ha le sue regole. Il metodo Munari ci insegna le regole, ma anche a trasgredirle permettendo così alle varie personalità di realizzare le loro varianti e quindi a far agire le varie creatività. Non è tanto il prodotto finale da considerare, bensì il modo di imparare. Piaget diceva: “Quello che impara un bambino nei primi anni, resterà per sempre nella sua mente”» 67

Il bambino, dunque, rappresenta il destinatario principale dell'attività didattica munariana:

    «Ci dobbiamo occupare dei bambini e dare ai bambini la possibilità di formarsi una mentalità più elastica, più libera, meno bloccata, capace di decisioni. E, direi, anche un metodo per affrontare la realtà, sia come desiderio di comprensione che di espressione. Quindi, a questo scopo, vanno studiati quegli strumenti che passano sottoforma di gioco ma che, in realtà, aiutano l'uomo a liberarsi.» 68

La sperimentazione della video-didattica: l'esperienza di “Costruire è facile” e de “l'Arte come Gioco”

Come già accennato, la lunga carriera di Munari fu poliedrica e multisfaccettata. Uno degli aspetti spesso meno indagati ed approfonditi rispetto alla didattica munariana in ambito strettamente artistico è sicuramente quello della pioneristica e fruttuosissima video-didattica, attraverso cui l'artista esprime pienamente la propria personalità ormai matura, trascendendo e superando definitivamente qualsiasi regola pre-confezionata e confermando ancora una volta il proprio approccio disimpegnato, giocoso e allo stesso tempo rigoroso e mai puerile nei confronti dei piccoli allievi.

È il 1956 quando la RAI affida a Bruno Munari il compito di mettere a punto una trasmissione unica nel suo genere, che fosse inclusa nel contesto della TV dei Ragazzi: si tratta del programma Costruire è facile, dedicato in particolare (ma non soltanto) ai giovanissimi telespettatori che abbiano il desiderio di realizzare con le proprie piccole mani giocattoli, collage, strumenti musicali, bambole e molto altro imparando a manipolare la materia e a stimolare la propria creatività. Oltre ad essere l'ideatore della trasmissione, Munari in persona sarà conduttore d'eccezione; il primissimo episodio, di cui purtroppo non restano oggi testimonianze dirette, vede Munari esordire con queste parole:

    «Buongiorno a tutti, anche a quelli che invece di andare a pescare sono stati a casa a guardare la trasmissione. Quando torneranno quelli che sono andati a pescare [...] resteranno molto meravigliati nel vedere che voi, che oggi ci state a vedere, avrete alla fine pescato un pesce enorme. Grande come questo! Questo che vedete è infatti il pesce giapponese che costruiremo» 69

Il giovane architetto si presenta in studio con «l'immancabile filo di ferro, dei cartoni, dei pezzi di carta colorati, dei turaccioli, piccoli, grossi, enormi, forbici, pinze, gesso e matita» 70, spesso aiutato da piccoli attori cui insegna a costruire strumenti di ogni tipo. Negli archivi RAI è possibile visionare un particolare episodio di Costruire è Facile, intitolato Lo Strumento a Corde, in cui l'artista insegna ai piccoli telespettatori come costruire una specie di strumento musicale ibrido, che ricorda sia una chitarra che un ukulele, e che Munari battezza «cosòfono»; ancora, in Fotomontaggi, è possibile visionare un Munari alle prese con riviste, ritagli e pezzi di fotografie utilizzati per creare ciò che egli stesso denominerà collage.

Molti anni più avanti, nel 1991, Bruno Munari collabora con Beba Restelli per la realizzazione di una collana di video-didattica dedicata ai bambini ed agli educatori (compresi genitori, zii, nonni) edita da Metamorphosi TV. Si tratta di una raccolta di videocassette intitolata L'arte come gioco, in cui l'artista dedicherà una serie di piccoli corsi all'apprendimento e alla pedagogia mediata dagli strumenti e dalle tecniche proprie del medium artistico. Momento cruciale del percorso video-didattico è l'insegnamento del metodo munariano, basato su regole rigorose e ben definite, che allo stesso tempo, tuttavia, offre costantemente uno spiraglio di trasgressione che si adatti a ciascun caso particolare e che lasci spazio alla liberazione della personalità e della creatività di ogni singolo allievo: non è essenziale, pertanto, che il prodotto finale risulti perfetto e congruo alle regole prestabilite, ma che attraverso la sua stessa realizzazione il bambino abbia avuto modo di apprendere 71.

All'interno della collana si susseguono sei episodi successivi, ciascuno dedicato ad un particolare strumento proprio del metodo munariano: il Segno, la Forma, il Colore, le Texture, il Collage e la Fotocopia. Per chiarire ancora meglio l'idea e il metodo che soggiacciono alla videodidattica munariana, è opportuno dedicare un'analisi più dettagliata al Collage. Una voce fuori campo all'inizio del video relativo introduce il Collage definendolo così: «Non è la colla che fa il collage» 72 […] «Il collage è fatto di fantasia e di incontri casuali, ottenuti scomponendo e ricomponendo, tagliando e strappando fogli, foto, fotocopie, materiali diversi per colori, texture e forma.» 73

Il laboratorio si apre con Munari che, in presenza di piccoli allievi attori in studio, fa scorrere una serie di opere di grandi artisti del collage (tra gli altri: Picasso, Braque, Kurt) mentre estrae da una cartella cartoncini colorati (colore in fogli), scampoli di forme e colori diversi, e poi cannucce, foglie, riviste, ritagli di illustrazioni, e si appresta ad accostarli e a scomporli e ricomporli a piacere, mostrando le infinite possibilità della composizione (un cane che salta su un'automobile, volti scomposti e fatti a pezzetti). L'unica regola qui è il procedimento necessario ad incollare i singoli elementi del collage: bisogna distribuire con accuratezza la colla sui bordi dei singoli pezzi, per poi pressarli con cura ed evitare che il risultato secchi.


A quasi cinquant'anni di distanza dall'attività di Munari, dunque, è inevitabile considerare quelli che sono stati i risvolti reali e attuali di tali innovazioni e il loro impatto effettivo sul mondo dell'arte dei giorni nostri: malgrado siano stati numerosi i tentativi dell'artista di divulgare nuove idee e suggestioni sul ruolo dell'artista e del designer all'interno della società, secondo una visione che fosse più vicina alle necessità reali dei fruitori, tale impresa non può considerarsi attuata in senso assoluto. La figura del designer, al giorno d'oggi, è diventata, se possibile, ancora più elitaria rispetto al passato, così come le opere d'arte e i musei si sono tramutati in luoghi drammaticamente distanti dalla sensibilità dei non addetti ai lavori. A dispetto di quanto sperato da Munari, secondo cui il design sarebbe «[…] progettazione, più oggettiva possibile, di tutto ciò che forma l'ambiente dove l'uomo di oggi vive» 74, oggi il mondo dell'arte e del design rimane ancor di più schiavo delle regole del mercato e delle mode dettate dal momento, configurando sistemi e modi di lavorare da cui l'artista milanese ha sempre rifuggito e verso cui, non ne dubito, sarebbe stato ad oggi estremamente critico. Un secondo punto problematico, che nasce dalle riflessioni appena delineate, ha invece a che fare in senso più stretto con l'operato del designer: come precedentemente sottolineato, in “Arte come mestiere” Munari delinea la figura del designer nel suo ruolo di un “progettista” di oggetti che seguano una corrispondenza tra forma, materia e funzione, muovendo quindi a partire dalle necessità della società e dai bisogni che l'oggetto deve soddisfare, in assenza di quelle caratteristiche formali accessorie che l'artista definisce, in senso negativo, come “stile”. Anche in questo senso, quindi, il pensiero di Munari può essere considerato del tutto ignorato, se non più semplicemente e forse più correttamente “superato”.

Per quanto riguarda l'approccio munariano all'apprendimento proprio di ciascun bambino, è fondamentale evidenziare la forte componente inclusiva del metodo dell'artista e dei suoi collaboratori, sempre rivolti a coinvolgere in modo irriverente, ironico e leggero i piccoli allievi in attività formative rivoluzionarie, che vanno dai libri illustrati ai Laboratori, e che ancora oggi continuano ad essere organizzati in tutto il mondo e a riscuotere enorme successo sia tra gli operatori della didattica che tra i bambini, fornendo ancora oggi ai futuri insegnanti ed educatori strumenti innovativi e nuove strade da percorrere affinché ogni tappa dell'apprendimento possa essere una fonte sempre viva di curiosità e creatività per ciascun bambino che un giorno diventerà adulto:

    «C'è sempre qualche vecchia signora che affronta i bambini facendo delle smorfie da far paura e dicendo delle stupidaggini con un linguaggio informale pieno di ciccì e di coccò e di piciupaciù. Di solito i bambini guardano con molta severità queste persone che sono invecchiate invano; non capiscono cosa vogliono e tornano ai loro giochi, giochi semplici e molto seri.» 75



NOTE

1 GALFRE' 2017.

2 Ibidem, p. 142.

3 MENEGUZZO 1993, p. 32.

4 MILANI 1967.

5 Costituzione Italiana, art. 9.

6 ZAGO 2017.

7 MUNARI B. 2012, p. 106.

8 ARNHEIM 1974.

9 MUNARI B. 1993, p. 77.

10 MARUCCI 1986, pp. 7˗8.

11 DORFLES 1962

12 MUNARI B. 1993, pag. 8

13 PAPARELLA 1988, p. 43.

14 PIAGET 1936.

15 MUNARI B. 1977, p. 5.

16 Ibidem p. 21.

17 RODARI 1973, cap. 6.

18 AUSUBEL 1968, p. 199.

19 MUNARI B. 1977, p. 34.

20 Ibidem, p. 122.

21 Ibidem, p. 122.

22 Ibidem, p. 122.

23 Ibidem, p. 123.

24 Ibidem, p. 123.

25 Ibidem, p. 22.

26 ANTONACCI 1999, pp. 45-48.

27 SPERATI 1997.

28 MUNARI B. 1993, p. 5.

29 MUNARI B. 1993, p. 5.

30 MUNARI B. 1993, pp 18-19.

31 Ibidem, pp. 65-66.

32 MUNARI A. 1986.

33 RESTELLI 2002, p. 30.

34 MENEGUZZO 1993, p. 92.

35 MUNARI B. 2008, p. 3.

36 BOSONI, PICCHI 1995, p. 64.

37 MUNARI B. 1971, p. 50.

38 PANIZZA 2022, p. 12.

39 D'ALESSANDRO 1995.

40 MUNARI B. 1966, p. 102.

41 Ibidem, p. 100.

42 MUNARI B. 1971, p. 74.

43 MUNARI B. 1966, pp. 97-98.

44 MAFFEI 2008, p. 44.

45 BOJANI 2000, p. 23.

46 MUNARI B. 1974, pp. 1-9.

47 MUNARI B. 1971, p. 136.

48 Giocare con l'arte è anche il nome di una collana nata nel 1979, ideata da Munari e pubblicata da Zanichelli, in cui sono esposte e trattate le basi del «Metodo Bruno Munari».

49 Tra gli altri: Renato Eco (educatore), Piero Polato (designer), Alberto Munari (psicologo).

50 Bebe Restelli è stata dapprima allieva e in un secondo momento collaboratrice di Bruno Munari; insieme hanno provveduto alla diffusione dei Laboratori. È attualmente educatrice e formatrice sul Metodo Bruno Munari®. Nel 1980 fonda il primo Laboratorio privato per poi diventare la direttrice e unica responsabile della progettazione.

51 MAZZOLIN 2014, p. 19.

52 MUNARI B. 1974, p. 1.

53 MUNARI B. 1981, p. 4.

54 MARUCCI 1992.

55 MENEGUZZO 1993, p. 96.

56 MUNARI B. 1981, p. 18.

57 RESTELLI 2002, p. 36.

58 Ibidem, p. 35.

59 MUNARI B. 1971, pp. 138-139.

60 Ibidem, cit. p. 136.

61 MUNARI B. 1981, pp. 20-43.

62 RESTELLI 2002, p. 33.

63 PANIZZA 2022, p. 8.

64 RESTELLI 2002.

65 BOJANI 1994, p. 4.

66 Ibidem, pp. 7-30.

67 RESTELLI 2002, p. 36.

68 TANCHIS 1986, p. 110.

69 ANTONINI, FINESSI 1999, p. 236.

70 BAGLIO 2022.

71 RESTELLI 2002, p. 36.

72 BAJ 1990.

73 Voce fuori campo all'inizio di “il Collage”.

74 MUNARI B. 1966, p. 31.

75 MUNARI B. 1977

  
  
  

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