«Dal
mio corpo in putrefazione cresceranno dei fiori
e
io sarò dentro di loro: questa è l'eternità»
(Edvard
Munch)
Edvard
Munch (Løten 1863 - Ekely (Oslo) 1944), artista simbolista nordico,
estremamente complesso, discusso ed affascinante, si muove tra Secessione, Simbolismo
ed Espressionismo
.
È stato troppo spesso relegato all'enunciato di artista
dell'angoscia,
al mito dell'autore
dell'Urlo,
sempre sul ciglio dell'abisso, in bilico tra il dolore per i ripetuti
lutti familiari, la passione per le turbolente ed intense relazioni
amorose, l'annichilimento derivante da occasionali turbe di tipo
psico-sataniche e cronici atteggiamenti di alcolismo spinto.
Munch
è stato certamente questo, ma non solo, e associare la sua arte
unicamente al vissuto personale, a quell'urlo
senza fine tipico
della κοινὴ
esistenzialista nordica, significa ridurne il lavoro a racconto
autobiografico di stampo ottocentesco, specchio di una vita, nonché
banalizzarne la sofisticata ed affascinante ricerca artistica,
rischiando di non penetrare le estese crespe del suo operare
creativo, che ha aperto la strada non solo all'Espressionismo,
di cui il maestro è, indiscutibilmente, l'iniziatore, ma a gran
parte dell'arte contemporanea lato
sensu.
Ammirato
dai grandi pittori del Novecento, quando ancora la critica non lo
apprezza, il Norvegese è, ad ogni evidenza, il poco riconosciuto
precursore della vera Arte
Moderna,
da lui scaturiscono molteplici tendenze del Secolo Breve:
dal Colorismo
percettivo
di Umberto Boccioni
alle stilizzazioni estreme di Alberto Giacometti, dall'Informale
di Antoni Tapiès all'Art
Brut
di Jean Dubuffet, da Francis Bacon a Lucian Freud, fino
all'Espressionismo
astratto di
Jasper Johns.
L'assurdo
e triste destino di eventi tragici, sebbene abbia influito
enormemente sulla maturazione di sentimenti di tipo pessimista e sul
concepimento e genesi di molte delle sue pitture, non può e non deve
essere l'unica chiave di lettura, altrimenti il suo agire
risulterebbe significativamente limitato ad aneddotica registrazione
di precisi e cupi momenti di vita.
La
sua arte, invece, ambisce ad inserirsi nel dibattito culturale aperto
dalla filosofia e dalla letteratura dell'epoca, ci parla della
condizione generale dell'uomo del suo tempo sia da un punto di
vista introspettivo che in rapporto alle numerose contraddizioni
storico-sociali delineatesi a seguito dello sviluppo industriale. Nei
suoi quadri non si descrivono eventi, si rappresentano sensazioni
intime e dolorose, emozioni provate dal Nostro come riflesso
universale delle condizioni di fine secolo. La grande novità del suo
operare, dunque, consiste proprio nell'aver saputo infondere sulla
tela non accadimenti, ma situazioni emotive condivise ed
individuabili nella società dell'epoca. «Come
Leonardo da Vinci ha studiato l'anatomia umana e ha sezionato i
corpi, io ho tentato di sezionare l'anima»
scrive l'artista nei suoi taccuini, come a voler indicare che il
suo lavoro, spesso nato da schizzi letterari, si prefigge di
comprendere pienamente l'anima per giungere a postulati universali
e, dunque, sempre veri .
Questo è il motivo per il quale, guardando i suoi quadri, spesso
avvertiamo quella sensazione di disagio ed imbarazzo che nasce
dall'assistere involontariamente a momenti di vita privata,
frammenti di un mondo di cui non facciamo parte. La verità è che
tali cornici, colte dalla fosca, malinconica e psichicamente labile
personalità del maestro, sono una visione, divenuta globale, di ciò
che l'umanità è chiamata ad affrontare e patire quotidianamente.
E allora, guardando la Bambina
Malata
(fig. 1)
Fig. 1 - EDVARD MUNCH, Bambina Malata, 1885-86
olio su tela, 120 × 118,5 cm., NasjonalMuseet, Oslo
Foto cortesia di Giorgia Duò
non ci troviamo di fronte all'ingiusta e triste sorte della
sorella quattordicenne prematuramente morta, piuttosto,
all'attualizzazione della vicenda che diventa l'espediente per
riferire della condizione di sofferenza e malattia a cui l'intero
pianeta è drammaticamente destinato. L'autobiografismo, quindi,
sebbene sia un motore di eccezionale potenza per la creazione
artistica, non può e non deve essere considerato, come troppo spesso
è stato fatto, l'unica motivazione espressiva.
Il
suo estro complesso, tutt'altro che lineare, istintivo, per certi
versi raffinato, affianca per tutta la vita l'assillante sforzo
creativo di volgere le proprie esperienze in azioni figurative e
letterarie, di valore assoluto. Di questo straordinario impulso
artistico è testimone, e, per noi, fonte di conoscenza fondamentale,
il vasto e tumultuoso corpus
di scritti (lettere, minute, appunti diaristici, lavori narrativi,
taccuini e manoscritti ...) in cui il maestro riversa, ossessivamente
e morbosamente, le sue molteplici e feconde intuizioni, per
decantarle col tempo e poi farle riaffiorare, dai bozzetti letterari,
nell'attività pittorica (fig. 2)
Fig. 2 - EDVARD MUNCH, Fogli con note manoscritte
e disegni dal Skissebok MM T 2547
1930-1935, MunchMuseet, Oslo
Foto cortesia di Giorgia Duò
Uno stream
of consciousness,
diciamo oggi, un fiume in piena in cui il ricordo e la visione
personali si uniscono nell'esperienza pittorica per sfociare in una
sorta di opera
totale,
tra arte e vissuto, in cui l'elemento creativo rappresenta una
scelta necessaria .
La
scrittura, come le tele, testimonia delle trepidazioni e delle
preoccupazioni che devastano il suo animo, narra di storie dolorose,
di incontri e di abbandoni, riferisce di solitudine e di smarrimenti,
di amanti sottomessi e di amori perduti, di frangenti che travolgono,
in un vortice di strazianti passioni e sofferenze, la sua devastata
interiorità che diventa quella dell'intera società, alla ricerca
del significato e della possibilità di “esistere” .
I
suoi appunti ci informano, anche, dell'instancabile sperimentazione
perseguita dentro e fuori i materiali, nella pastosità degli strati
di colore, attraverso le tecniche e la composizione fino alle scelte
conclusive che rendono il suo lavoro un chiaro e definitivo gesto di
volontà, la cui genesi è maturata anche tra le pagine di questa
sorta di scrittura-laboratorio (figg. 2 e 9).
Questa
mania di appuntare pervicacemente ogni aspetto vissuto e provato,
rappresenta una specie di eco sensoriale ed emotiva, insieme fluida
e densa, della vita stessa del pittore, leggendo, infatti, le sue
annotazioni avvertiamo le medesime sensazioni che percepiamo dalla
visione dei suoi travolgenti dipinti .
L'epistemologia
sul maestro, orientata da sempre verso una ricerca di corrispondenze
precipue tra esperienze vissute e/o raccontate negli scritti e
produzione pittorica, ha seguito, abbiamo detto, un indirizzo critico
fortemente riduttivo, circoscritto al riscontro vita
privata-accadimento, in quanto non contempla quell'universo
esistenziale di crisi e di conflittualità interiori ed esterne,
esplorato e reso eloquentemente dal Nostro, tipici della classe
medio-alto borghese della società del tempo. Mettere a fuoco
unicamente la vicenda personale significa non comprendere la portata
rivoluzionaria di un'operazione che fa della propria esistenza lo
strumento per svelare e raccontare le numerose ed irrisolte crisi e
contraddizioni in atto. E, sebbene la maggior parte delle forti e
intense annotazioni, soprattutto quelle della maturità,
rafforzerebbe questa propensione a vedere nella sua arte
l'illustrazione di avvenimenti tragici, nonché la restituzione
delle reazioni emotive che tali episodi hanno generato, ribadiamo che
l'orientamento che lega la sua imponente e potente attività alle
sole esperienze di vita negative si profila troppo limitativo: si
pensi, per esempio, ai soggetti magistralmente espressi nel Fregio
della vita ,
al complicato e difficile rapporto con l'altro sesso, ai problemi
di amicizie, inimicizie ed indifferenza sociale, o ancora alla
questione dell'abuso di alcol ,
tutti temi condivisi largamente con gran parte della società
dell'epoca. Un'esegesi, dunque, che banalizza un lavoro, che,
invece, si inserisce nel più ampio contesto di sviluppo e crescita
di relazioni universali e sentimentali lato
sensu.
In
quest'ottica, allora, l'aspetto biografico assume una valenza
interpretativa sopravalutata, perché relega la produzione del
Norvegese a mero e marginale racconto episodico e, seppur maestra
nell'illustrare in modo incisivo e decisivo le vicende personali ed
emotive, tralascia l'effetto dirompente e sconvolgente esercitato
sull'ambiente e sul quadro artistico coevo, ancora chiuso e
conservatore, da cui proviene e in cui si muove. Non possiamo
certamente ignorare che le novità introdotte da Munch abbiano
ispirato, in
primis,
ma non solo, l'abbiamo detto, gli espressionisti, che considerano
l'artista una sorta di padre spirituale, e che la sua arte abbia
avuto un ruolo di precorritrice sulle successive correnti
dell'Informale
e dell'Espressionismo
Astratto.
La
forte influenza esercitata sulla κοινὴ
artistico-culturale della seconda metà del Novecento è dovuta,
allora, soprattutto, al valore intrinseco del suo agire: le sue tele,
non mere rappresentazioni di momenti, penetrano ed esplorano il
contesto emotivo di precisate circostanze, e, attraverso un inedito
uso di strumenti e materiali, partecipi del processo creativo,
l'artista si distingue per una capacità di tramutare l'esperienza
individuale in un lessico pittorico nuovo, profondamente comunicativo
e sofisticato, latore di messaggi e significati universalmente validi .
È un qualcosa di potente che non può, certamente, essere
considerato, come talvolta è stato frettolosamente fatto, secondario
all'intenzione di raccontare esperienze personali. E, allora,
scopriamo che Munch, con un linguaggio diretto ed intenso, al limite
del brutale, coglie e rende emozioni palpabili e sensazioni difficili
da rivelare, riesce, cioè, a far affiorare, con forza, il senso di
solitudine e malessere, nonché quel vortice di decadenza della
società, tipici del suo tempo.
La
grande novità della sua opera consiste proprio nel distacco dalla
realtà fenomenologica e nel contatto con l'interiorità e con le
emozioni, a cui il maestro dà forma, plasmando immagini palpitanti,
vivide, visibili, tangibili, e assolute in cui riconoscersi.
Nei
dipinti, è lui stesso ad affermarlo, le paure, i timori e i
sentimenti diventano pretesto per restituire, con efficacia, impulsi
assoluti e totalizzanti, che riportano a quelle sensazioni cupe e
tenebrose della condizione umana propria della sua età, «non
è precisamente mia intenzione - leggiamo nel Diario
- ricostruire la mia vita. Piuttosto è mia intenzione cercare le
forze segrete della vita, per tirarle fuori, riorganizzarle,
intensificarle allo scopo di dimostrare il più chiaramente possibile
gli effetti di queste forze sul meccanismo che è conosciuto come
vita umana, e nei suoi conflitti con altre vite umane»
.
E
se l'infanzia dell'artista è, indubbiamente, disturbata da
sciagure ed avversità che minano l'emotività del giovane e
contribuiscono a generare quello stato di profonda angoscia proprio
del suo agire, che, evidentemente, prima di riversarsi nella sua
arte, è già presente nell'animo e nell'esistenza del maestro,
non possiamo condividere neanche l'idea di coloro che vedono il
germogliare della sua introversa e mesta personalità nella mera
fascinazione, provata dal pittore nei confronti di sentimenti
negativi, quali ansia, inquietudine, sofferenza e morte, tipica dei
suoi tempi e di latitudini nordiche. Eleggere certe esperienze
personali a spiegazione dell'impulso creativo e della tetra visione
del Norvegese o legarle ad una fantomatica attrazione per sentimenti
di tipo esistenzialista rimane ancora una volta troppo riduttivo,
sebbene romanticamente seducente.
La
sua pittura, intrisa di introspezione e di acute analisi dei moti
interiori dei soggetti, non è, lo ribadiamo, il semplice risultato
di esperienze individuali o di inclinazioni familiari (non
ritroveremo altrimenti analoghi esiti e simili ricerche nelle vicende
raccontate dalle coeve pièce
letterarie di drammaturghi connazionali), né la diretta conseguenza
del fascino inebriante provato per il tetro esistenzialismo nordico.
Il fatto che Munch condivida il suo pensiero con quello di scrittori
scandinavi come Henrik Johan Ibsen (1828-1906) e Johan
August Strindberg (1849-1912), corrobora la teoria secondo cui
le sue restituzioni pittoriche e, di conseguenza, quelle degli autori
citati e non, siano il risultato di altre suggestioni di natura
socio-culturale .
Tutte queste manifestazioni artistico-letterarie recano, infatti, il
segno e il fascino esercitati anche dalla contemporanea corrente
filosofica di matrice nordica (Kirkegaard, in
primis,
Schopenhauer e Nietzsche), nonché dalla neonata scienza
psicanalitica di
Freud, a cui l'artista si accosta con interesse morboso .
La
novità del suo linguaggio, dunque, non è una vicenda isolata, ma ha
riscontri analoghi nella cultura nordeuropea lato
sensu.
Dall'avvicinamento alle riflessioni e posizioni dei protagonisti
del tempo, attraverso la lettura (Schopenhauer e Kirkegaard) o la
conoscenza diretta (Nietzche, Freud, Strindberg e Ibsen), Munch
matura quel senso incombente di angoscia e di morte che aleggia
pesantemente nei suoi quadri e che riverbera nei pensieri dei
filosofi e negli scritti dei poeti e drammaturghi.
In
particolare, il maestro è colpito dalle considerazioni di Kirkegaard
sulle vicende del singolo individuo, tormentato da quel sentimento
dell'angoscia
in cui il Norvegese si ritrova .
La stessa visione progressiva della vita umana che il danese elabora
secondo un incedere a step
(fase estetica, fase etica, fase religiosa) ispira la struttura del Fregio
della vita,
concepito, abbiamo visto, come la risultanza di quattro momenti
progressivi del vivere dell'uomo (1. Nascita
dell'amore;
2. Amore
che fiorisce e sfiorisce;
3. Paura
di vivere;
4. Morte).
La
sintonia tra i dipinti di Edvard e gli scritti filosofici di Søren è
ancor più tangibile se si considera che entrambi mostrano un
approccio alla vita minato tragicamente dal senso della malinconia e
dal pessimismo; inoltre, i due, dal punto di vista
biografico-relazionale, vivono vicende non dissimili. Nel Diario
il pittore annota che la sua arte «(...)
ha le sue radici nelle riflessioni sul perché non sono uguale agli
altri, sul perché ci fu una maledizione sulla mia culla, sul perché
sono stato gettato nel mondo senza poter scegliere» ,
analogamente il filosofo scrive di essere preda «fin
dall'infanzia (...) della forza di un'orribile malinconia, la cui
profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente
capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di
vivere»
.
Per
tutta la vita ambedue, schiacciati dal tormento dell'infelicità,
conducono un'esistenza inquieta, in bilico, sull'orlo di un
abisso che provoca ad entrambi amare delusioni, a partire dal
fallimento dei rispettivi rapporti amorosi: da una parte Munch e
Milly Thaulow
o Tulla Larsen
e dall'altra Kierkegaard e Regina Olsen .
Tra
i due, però, troviamo anche una sostanziale differenza, nonostante
il dolore provato per la storia sofferta con Regina, Søren riesce a
scorgere la via della fede che gli consente di intravedere la luce e
di affrontare il senso di inadeguatezza sociale e sentimentale che lo
assilla. Attraverso la preghiera, per il filosofo, l'uomo, nella
sua finitezza, può avvicinarsi a Dio e all'infinito, riuscendo a
superare il tormento terreno .
E, dunque, mentre Kierkegaard avverte la presenza dell'Eterno e
vacilla perché si sente piccolissimo e fragile al suo cospetto, ma
può, comunque, scegliere di avvicinarsi e salvarsi, Munch, come
Nietzsche, non trova consolazione nella religione ed urla disperato
il suo grido di dolore. Per il pittore non esiste salvezza, ma solo
dannazione ed afflizione, la vita è condanna ad una forma di
sempiterno panico esistenziale ed universale cui tutta l'umanità è
drammaticamente ed ineludibilmente destinata .
E se la felicità non appartiene al suo mondo, l'inferno diventa
per lui l'unica certezza .
Questo
senso di angoscia assoluta e di profonda rassegnazione sono evidenti
nei suoi celebri autoritratti. In Autoritratto
con sigaretta (1895,
olio su tela, 110,5×85,5 cm, NasjonalMuseet,
Oslo), l'immagine di sé, spaurita e smarrita, avvolta
simbolicamente da l fumo della sigaretta, tenuta nella mano
tremolante, appare all'improvviso come abbagliata da un lampo.
Dipingendosi atterrito, il Norvegese esprime quella sensazione
provata da chi inaspettatamente si trovi dinnanzi alle tenebre della
morte, rischiando di esserne inghiottito, e comunica quel malessere
cronico che lo accompagna per tutta la vita. Nei suoi abiti eleganti,
com'è solito presentarsi in pubblico, Munch si raffigura sicuro di
sé, ma, al tempo stesso, latentemente, avvertiamo una sensibilità
nevrotica che il pittore, apprendiamo dai suoi appunti, cerca di
controllare assumendo l'alcol .
Ed è proprio tra i gangli infernali del regno di Lucifero che Edvard
si dipinge in Autoritratto
all'inferno (1903,
olio su tela, 66×82 cm, MunchMuseet,
Oslo): una figura completamente nuda, circondata da minacciose fiamme
ardenti e da lunghe ed inquietanti ombre che assillano l'uomo in
modo perpetuo e rappresentano la morte, il terrore di vivere, nonché
il dolore e la difficoltà di esistere. Un'insolita stesura di
colori, a tinte livide, costituita di pennellate dense e pastose,
supporta e asseconda virtuosisticamente la soffocante sensazione che
attanaglia il pittore e l'umanità in un processo che lentamente,
ma inesorabilmente, si estende al pubblico osservatore.
Sono
quadri che scavano negli abissi dell'animo umano e fanno emergere
sentimenti reconditi e spaventosi, quelli che segnano la vita
dell'artista, dell'uomo e della società intera. Non è più
tempo per l'arte tradizionale, è arrivato il momento per
dipingere «(...)
esseri viventi che respirano e sentono, soffrono e amano. Sento che
lo farò, che sarà facile. Bisogna che la carne prenda forma e che i
colori vivano» .
Breve
nota biografica
Nasce
il 12 dicembre del 1863 a Løten, un villaggio a Nord di Oslo,
durante un inverno particolarmente freddo, è un neonato fragile che
mostra fin da subito una condizione respiratoria compromessa, uscire
all'aperto è troppo pericoloso e decidono di battezzarlo in casa
in tutta fretta. Figlio di un medico militare, proveniente da uno dei
lignaggi più illustri del luogo, Munch lega i suoi problemi psichici
all'inclinazione patologica del padre Christian (1817-1889),
predisposto a malattie mentali e affetto da disturbi ciclotimici
(un'affezione dell'umore caratterizzato dall'alternarsi di periodi
ipomaniacali e di momenti di moderata depressione), fluttuando, nello
specifico, fra stati depressivi causati dal senso di colpa per non
aver saputo curare e salvare la moglie Laura Catherine Bjolstad
(1837–1868), morta il giorno di Natale a soli 30 anni, ed episodi
di esaltazione mistico-religiosa. Il nonno paterno, un importante
membro della comunità religiosa del posto e lo zio Peter Andreas,
noto studioso, considerato il padre della storia norvegese, fanno
parte di una stirpe insigne, dalla quale Munch-padre si discosta.
Egli decide, infatti, di diventare medico, quando la medicina
rappresenta ancora una pratica poco metodica, prossima più alle
superstizioni e credenze medievali che non alla scienza odierna.
Rispetto alle attese del casato, per via dello status
di origine, opera una scelta divergente, dissonante, apparentemente
incomprensibile che, malpagata, costringe la famiglia a vivere ai
limiti della povertà, e che oggi rivela l'ipotetico disturbo di
cui verosimilmente soffre, “diagnosticato”, in tempi recenti,
dalla Prof.ssa Lilliana Dall'Osso, primario della Clinica
psichiatrica dell'Ospedale di Pisa e presidente del Collegio degli
Ordinari italiani di Psichiatria .
Del genitore e del suo instabile stato psicologico Edvard scrive
diffusamente nei suoi taccuini,
«mio
padre discendeva da una stirpe di poeti, con sprazzi di genialità,
ma portava anche segni di degenerazione» .
Christian, inoltre, si lega al movimento pietista, una corrente del
protestantesimo particolarmente rigida, cupa, esigente ed
intransigente. Le diverse testimonianze raccolte lo dicono
eccentrico, goffo, maldestro, talora infantile ed imprevedibile,
sempre ben vestito “come i lord inglesi”, con un alto grado di
cultura e conoscenza storica, brillante nella conversazione, incapace
di stare fermo .
Il quadro caratteriale rilevato collima, secondo la psichiatra, che,
studiando il pittore dal punto di vista comportamentale, ha preso in
considerazione anche il genitore, con una diagnosi di disturbo dello
spettro autistico, verbale, ad alto funzionamento cognitivo, senza
ritardi mentali, patologia probabilmente condivisa dal figlio Edvard .
Dopo
una prima esperienza lavorativa come medico sulle Coffin
ships,
le navi dei migranti norvegesi verso gli Stati Uniti ,
in cui si trova a fronteggiare, senza mezzi né strumenti idonei,
situazioni gravi, drammatiche, psicologicamente impattanti (la
medicina dell'epoca è ancora molto poco sviluppata e il suo ruolo
è riconducibile più a una funzione di un
prete-confessore-assistente che non di medico-curatore-salvatore), si
mette a disposizione della comunità del villaggio d'origine. È
soprannominato il dottore “degli ultimi”, colui che senza rimedi
efficaci, a mani nude, cerca di affrontare, più per vocazione che
per soddisfazione personale, contesti difficili, gravati da
tubercolosi, lebbra, epidemie di colera e febbri tifoidi. Nel 1864, a
seguito dell'impiego assunto da Christian, presso la Fortezza
Akershus, nella capitale, quando il pittore ha solo un anno, la
famiglia, madre, padre e 4 fratelli (Johanne Sophie (1862-1877),
Peter Andreas (1865-1895), Laura Catherine (1867-1926) e Inger Marie
(1868-1952)) si trasferisce a Christiania (poi, Kristiania
(1878-1924), e, dal 1925, Oslo). Dopo la morte della moglie per tbc
(1868) l'uomo comincia a manifestare i primi sintomi di instabilità
dell'umore, con manifestazioni di iper-religiosità, nonché
diverse forme di fobia per sangue e virus (dal Diario
apprendiamo che il padre è «...
spesso impaurito dalla preoccupazione medica di non aver usato
sufficiente igiene (...)»
e che secondo il figlio «...
non avrebbe mai dovuto fare il medico, fare il poeta sarebbe stato
più adatto a lui» .
L'artista riferisce anche di episodi di discontrollo e disturbi
dell'umore che sfociano talora in violenze fisiche sui figli,
punizioni corporali giustificate dal padre, a posteriori, con le
proprie convinzioni religiose .
L'immagine del padre in preghiera, inginocchiato nella luce fredda
delle notti artiche torna ossessivamente nel Diario
del pittore: «Quando
nostro padre non era in preda a un attacco religioso era lui stesso
un bambino, rideva e giocava con noi, si divertiva e ci raccontava
storie. Per questo era doppiamente orribile, per noi, quando ci
puniva, fuori di sé per l'intensità della sua violenza».
Questo
aspetto umorale del carattere paterno, che contrasta con la mite e
gentile personalità mostrata in precedenza, induce la psichiatra a
ritenere che l'evento luttuoso della morte della moglie sia da
ritenersi la causa scatenante e il momento d'esordio dell'affezione
del disturbo bipolare della personalità, rimasto, fino
all'accadimento, latente nella psiche del genitore .
Munch
è, inizialmente, indirizzato dal padre verso studi ingegneristici,
che, intrapresi nel 1879, sono abbandonati l'anno seguente, a 17
anni, per una carriera di tipo artistico-intellettuale. Il suo
talento è riconosciuto da più parti, critica e pubblico sono
convinti che presto si affermerà come il pittore più importante
della capitale, ma quando comincia a sperimentare, con testarda
perseveranza ed ostinazione, quello stile personale, inedito, spesso
incomprensibile ai più, libero e fuori da ogni schema o modello
conosciuti, il suo lavoro suscita scandalo e forti perplessità,
anche nei sostenitori più convinti. Si guadagna la fama di pazzo e
Christian teme che anche Edvard abbia ereditato il “gene della
follia”, già manifestato dalla sorella Laura, e che ne condivida
il destino. La giovane inizia a mostrare precocemente sintomi
psichiatrici, riconducibili ad una spiccata fragilità mentale,
affiancata da ossessioni religiose, a cui, verso i 14 anni si
aggiungono malinconia ed erotomania per anziani sacerdoti, che nel
corso del tempo la portano a lunghi, ripetuti e prolungati periodi di
ricovero in cliniche e nosocomi per schizofrenia ,
il padre crede che le “strane” ed inaspettate pitture del figlio
rappresentino i prodromi di una malattia mentale non ancora
palesatasi. L'idea ossessiona il genitore e cerca di indurre il
figlio ad affidarsi alla preghiera ed a Dio.
Molteplici
e gravi lutti famigliari costellano la vita del maestro sin dalla
tenera infanzia, attraverso l'adolescenza fino alla vita adulta.
Nel 1868, quando Edvard ha solo 5 anni, subito dopo la nascita della
sorellina minore Inger Marie (1868), la madre Catherine muore,
trentenne, di tubercolosi; il bambino, e non può essere altrimenti,
vive tragicamente l'evento. I quattro fratelli sono affidati alle
cure della zia materna Karen Bjølstad (1839-1931), una pittrice
dilettante che sollecita ed incoraggia tutti i fratelli, in
particolare il piccolo Edvard, che già mostra un'inclinazione
artistica non comune, a dedicarsi al disegno e alla pittura durante
tutta la loro giovinezza. La donna, in tempi non sospetti, intuendo
precocemente le difficoltà psicologico-comportamentali del giovane,
lo introduce al mondo dell'arte, anticipando quelli che sono dei
moderni approcci comunicativo-relazionali, indica, cioè, la via dei
colori e del disegno come possibile modalità espressiva alternativa
per creare un rapporto con il mondo esterno.
A
7 anni il bambino disegna a carboncino sulle ricette del padre,
medico militare, e le sue doti sono già chiare a molti.
Munch,
che fin da piccolo soffre di attacchi di polmonite, all'età di 13
anni si ammala piuttosto gravemente di tisi ed è costretto a passare
un lungo periodo di tempo tra casa o il sanatorio. Vive la sua
condizione con consapevolezza e terrore, la madre, morta otto anni
prima, aveva lo stesso male. Suo padre, psichicamente labile e
fomentato da un credo religioso iper-maniacale, nonostante sia un
medico, molto poco scientificamente, si affida alla preghiera ed
invita il ragazzo a fare altrettanto per rafforzare il sua credo.
Il
timore di morire rappresenta per il Norvegese una vera e propria
preoccupazione che, nata quando era giovane, continuerà a
perseguitarlo per tutta la vita, e nonostante non si ammalerà mai di
tisi vivrà nella fallace convinzione di essere destinato ad una fine
precoce. I Munch non sono l'unica famiglia colpita da malattie
polmonari e affezioni respiratorie, tra la fine dell'800 e l'inizio
della Seconda
Guerra Mondiale,
quando finalmente si trova la cura, la tubercolosi causa milioni di
vittime. Fino al 1882, quando il microbiologo tedesco Robert Koch
(1843-1910) scopre il batterio della tbc, la malattia è percepita
con un alone di mistero e negli ambienti artistici ed intellettuali,
viene idealizzata e ricondotta a temperamenti sensibili e di
talento. L'aspetto tubercolotico, corpo magro e filiforme, pelle
pallida ed occhi febbricitanti, diventa quasi una tendenza estetica,
il compositore Frédéric Chopin (1810-1849) e il violinista Niccolò
Paganini (1782-1840), per le sofferenze patite e l'orribile morte,
sono visti come sex
symbol
dell'epoca. Poiché, fino agli anni Venti del XX sec., non
esiste una cura, tenere sotto controllo i sintomi con un ambiente
sano, rappresenta l'unico modo per allontanare e convivere
degnamente con la malattia. Coloro che possono permetterselo,
viaggiano, nei mesi invernali, verso il clima mite dell'Europa
meridionale e, dalla metà del XIX secolo, fare trekking in montagna
diventa un modo per scongiurarne gli effetti. I sanatori polmonari
nelle Alpi, dove i pazienti sono soggetti a rigide routine il più
possibile all'aperto, poiché i medici ritenevano che l'aria
rarefatta e pulita avesse un effetto positivo sui polmoni, fioriscono
e vivono il loro periodo di massimo splendore. Verso la fine
dell'Ottocento, la tubercolosi è così diffusa tra la classe
operaia da diventare un grave problema sociale. Nei quartieri
popolari delle grandi città, con le loro deplorevoli condizioni
igieniche, la malattia trova terreno fertile e si radica
profondamente tra la popolazione. È solo nel 1944 che i
microbiologi Selman Waksman (1888-1973) e Albert Schatz (1920-2005)
sviluppano la streptomicina, l'antibiotico in grado di curare la
tubercolosi, che, in combinazione con il miglioramento delle
condizioni igieniche, ha portato a una forte diminuzione del numero
di casi di infezione. Uno strano dispositivo, munito di
istruzioni, acquistato da un farmacista tedesco di Berlino, nel 1921,
consistente in un serbatoio di ossigeno e due bocchini, destinato
probabilmente alla cura e all'attenuazione di problemi polmonari e
bronchiali, è stato ritrovato, alla morte del pittore, nella casa di
Ekely. Il congegno medico, molto moderno per l'epoca, è oggi
conservato presso il MunchMuseet,
ed è stato probabilmente usato dal Nostro per alleviare e trattare i
sintomi che, con certa regolarità, si ripresentavano. Non sappiamo
se l'inalatore abbia realmente funzionato, ma il maestro,
effettivamente, non svilupperà mai la malattia, ciononostante vivrà
per tutta la vita con il timore costante di ammalarsi: il colore
rosso del sangue, memore dell'espettorato, e il senso di difficoltà
respiratorie, infatti, ricorrono vividamente ed insistentemente in
tutta la sua produzione. In un perpetuo stato
d'ansia e fragilità,
persuaso di essere lui stesso destinato a una fine precoce, a
dispetto del suo convincimento, Munch vivrà, invece, fino all'età
di 80 anni.
Edvard,
dunque, migliora, ma, nel 1877, si ammala e muore la sorella Sophie,
di poco più grande, a cui è molto legato, lasciando in lui
“l'atroce senso di colpa del sopravvissuto” .
L'evento traumatico della visione della giovane confinata a letto,
sofferente della stessa patologia che ha ucciso la madre, è per il
pittore un'immagine assillante e costante che il Norvegese rivive
continuamente, con palpitanti rappresentazioni mnemoniche del
capezzale della sorella defunta, sia nella scrittura che nella
pittura. A distanza di tempo, tra il 1885 e il 1886, Edvard realizza
la prima versione di Fanciulla
malata
(fig. 1), e nel 1893, dipinge Morte
nella stanza della malata.
Entrambe le composizioni sono conosciute in diverse copie. Il ricordo
della madre riecheggia, infine, in La
madre morta e la bambina.
Nel 1889, viene a mancare il padre, la cui condizione, di soggetto
affetto da disturbi maniaco-depressivi, cui si innestano le forti
crisi di deliri religiosi, ha certamente compromesso la serenità e
la routine familiare del piccolo Edvard, che cresce segnato da
quell'emotività labile e lugubre che riconosciamo diffusamente
nella sua opera. L'immagine del genitore morto ritorna nel quadro L'uscita
del feretro.
Nel 1895, è il turno del fratello Andreas, sulla cui dipartita il
pittore ironizza nel Diario
che la sua salute particolarmente cagionevole, non gli avrebbe
consentito di sostenere la tensione e i dispiaceri che il matrimonio,
appena celebrato, gli avrebbe procurato. In realtà, Andreas muore di
polmonite, ma la circostanza rappresenta una delle tante occasioni
per il maestro per dichiarare, in forma neanche troppo velata, la sua
personale visione misogina e negativa del rapporto di coppia, verso
cui non prova attrazione poiché la sola idea di una relazione
duratura lo travolge e lo rende infinitamente piccolo ed impotente.
La morte e la malattia, insomma, sono presenze costanti ed
inevitabili nella vita del pittore, la cui infanzia-adolescenza è
stata immersa nella prospettiva totalizzante e soffocante della
scomparsa. In diversi passi del Diario
si rileva l'opprimente condizionamento, «malattia,
pazzia e morte - scrive a proposito della sua fanciullezza - furono
gli angeli negri attorno alla mia culla» ;
e, dopo la scomparsa del fratello, annota che la «(...)
madre era di origini contadine, una famiglia dalla volontà tenace,
ma corrosa alla radice dalla tubercolosi. (...) padre (...) portava
anche segni di degenerazione. [...]» ,
quindi, dichiara di aver «ereditato
due dei più spaventosi nemici dell'umanità: il patrimonio della
consunzione e la follia» .
La sua crescita risulta evidentemente compromessa e influenzata dalle
vicende vissute che certamente hanno indirizzato il suo pensiero
verso un pessimismo che è, però, anche, come abbiamo visto, una humus
culturale diffusa ampiamente nel pensiero intellettuale e nella
filosofia nordeuropea del tempo.
Gli
Inizi
Nel
novembre del 1880, a dispetto della volontà del padre che lo avrebbe
voluto ingegnere, abbandona gli studi tecnici per iscriversi alla Statens
Håndverks-og Industriskole
di Kristiania (Scuola
per l'industria e l'artigianato poi Scuola Reale di Disegno) ,
una pseudo-accademia artistica, fondata da un suo lontano parente,
Jacob Edvardsson Munch ,
che frequenta, in orario serale, dal 16 dicembre dello stesso anno.
Le lezioni prevedono insegnamenti tradizionali, improntati al tipico Naturalismo
di matrice nordica praticato e diffuso in tutto il Paese (forme
artistiche usuali, lontane dai grandi ideali d'avanguardia che si
stanno diffondendo in Europa, frutto di una mentalità ancora gretta,
perbenista e schiacciata dalle convenzioni bigotte del tempo e del
luogo). Dapprima segue il corso di ornato disegnato, quindi,
dall'agosto del 1881, accede alle classi di modellato tenute dallo
scultore classicista Julius Olavus Middelthun (1820-1886), che lo
forma egregiamente nel disegno a mano libera .
Presso la Scuola
Reale,
però, si respira la stessa soffocante atmosfera provinciale, chiusa
e ristretta del mondo scandinavo e dell'ambiente familiare in cui
cresce. Kristiania è, infatti, una piccola città di provincia, con
centomila abitanti, è dominata da una borghesia puritana e da
un protestantesimo settario che non consente agli stimoli e ai
fermenti culturali delle capitali europee di penetrare.
Il
dibattito sull'arte nella capitale, si apre solo negli anni ‘80,
grazie alla generazione di artisti, di ritorno dalle città europee,
che diffondono un fare legato al Realismo
pittorico della Scuola
di Monaco,
al Naturalismo
di ispirazione francese (che talvolta si spinge sino all'immagine
fotografica) e all'Impressionismo,
secondo una resa assolutamente originale ed indipendente, rispetto ai
modelli, che declina verso un Verismo
intensificato e malinconico, che accentua la percezione visiva e che
piace molto al pubblico conservatore scandinavo .
Questo soggettivismo di fondo, tipico delle opere dei maestri
nordici, inizialmente, ben si adatta all'indole fragile e
malinconica del Norvegese che, in principio, ne adotta anche lo
stile, per poi, però, allontanarsene drasticamente attraverso la sua
inappellabile e, per certi versi, incomprensibile rivoluzione
pittorica. In Munch matura, infatti, la vivida ed indiscutibile idea
che l'arte debba rispondere a nuove esigenze, molte delle quali
ancora inespresse e latenti, quelle di una compagine i cui valori
stanno entrando decisamente in crisi .
In Norvegia, però, domina ancora radicata la classica concezione
secondo cui è compito del pittore documentare la propria vita
attraverso la produzione artistica. Questo ritardo culturale, di una
società legata saldamente a formule del passato, è alla base del
difficile rapporto del maestro con la sua città di origine;
Kristiania e i suoi abitanti non sono pronti ad accogliere le novità
presto introdotte dalla sua pittura, né provano a comprendere il
fatto che l'arte si sta evolvendo verso forme e linguaggi nuovi e
mai praticati fino a quel momento. E anche quando il maestro,
celebrato come capostipite dell'arte moderna, raggiungerà una
certa fama internazionale la sua città faticherà a comprenderlo e
manterrà sempre un atteggiamento di tiepida accoglienza.
Nel
marzo del 1882, terminato il suo breve ciclo di studi superiori,
inizia un percorso di tipo professionale, in atelier,
luoghi non istituzionale, sotto forma di apprendistato e sotto
l'egida di quella cerchia di pittori più anziani che, come abbiamo
detto, rientrati da un soggiorno formativo all'estero, è piuttosto
aggiornata sui movimenti d'avanguardia europei e ritiene che sia
loro dovere istruire le nuove reclute. Nello stesso anno, Edvard e
cinque colleghi amici prendono in affitto uno studio e Christian Krohg
(1852-1925), affermato e valente pittore naturalista, esponente
di punta dell'arte nazionale, si propone come loro guida .
Di
questo periodo è l'imperioso Autoritratto
del MunchMuseet
(1882, olio su tela, 26×19 cm, MunchMuseet,
Oslo), in cui l'effigiato, in posa teatrale e con tratti spigolosi
ed asciutti, ostenta una indubbia sicurezza mista ad ambizione,
sottolineate da un forte contrasto di luci e ombre. Il risultato è
in evidente antinomia con la palese e coinvolgente emotività dei
ritratti più tardi, già analizzati. Di poco successivo è
l'Autoritratto
del ByMuseet
(1882-83, olio su cartone non preparato, 43,5×35,5 cm, ByMuseet,
Oslo) dove l'autore introduce un sensibile cambiamento in senso
sperimentale della tecnica: la pennellata perde definizione e il
soggetto acquista l'intensità psicologica dei quadri successivi .
Il pretenzioso ed altero cipiglio dell'effige giovanile lascia il
posto ad una vulnerabilità che sopraffà e turba il pubblico,
sorpreso di scorgere in un adolescente uno sguardo così carico di
tensione e fragilità: gli occhi lucidi, consapevoli e l'espressione
profondamente malinconica dovrebbero, infatti, trovarsi in fisionomie
adulte, provate dalla vita e non in giovani appena ventenni che si
stanno affacciando al mondo. I segni di inquietudine e tristezza
fanno, dunque, presto la comparsa nella personalità, nell'arte e
negli scritti del pittore che annota che «malattia,
pazzia e morte»
sono «gli
angeli negri attorno alla mia culla» .
Nelle
estati del 1883 e del 1884 Thaulow crea, a Modum (Contea di Viken),
un'Accademia
en plein
air
per allievi-pittori, i cui corsi, nel '84, sono seguiti da Munch.
L'anziano maestro riconosce subito il talento del giovane e gli
propone di farsi carico delle spese di viaggio affinché possa
completare la sua formazione a Parigi e visitare i Salon,
imprescindibile vetrina dell'arte d'avanguardia europea .
Per problemi di salute la visita è, però, rinviata alla primavera
dell'anno seguente.
Nel
1883, il giovane debutta alle mostre di Kristiania
Kunst og Industristiutstillingen,
prima, e Høstutstillingen,
poi, con alcuni lavori, studi selezionati di paesaggi urbani e scene
di povertà e d'interni norvegesi, che già si distinguono per
originalità e modernità .
Sebbene il suo modus
operandi
ricordi ancora uno stile riconducibile al tradizionale Naturalismo
nordico, in linea con i gusti dominanti della società dell'epoca,
i quadri già esibiscono una maniera riferibile ad una personalità
decisamente autonoma e fuori dal coro. Queste opere,
indiscutibilmente innovative, contraddistinte da esiti non comuni, da
un'espressione pittorica particolarmente movimentata e da un
lessico artistico assolutamente personale ed avanzato, sin da subito,
suscitano un certo interesse e molto trambusto. L'abbondanza di
dettagli, le prospettive inusuali, il linguaggio formale
apparentemente sommario e la pennellata frammentata, indicano un fare
che, la mentalità del tempo, abituata alla paludata compiutezza
accademica, riconduce, però, all'idea di abbozzo o di schizzo
(Ragazza
che accende la stufa,
1883, olio su tela, 96,5×66 cm, Collezione
privata).
Lo spaesamento generale è tale, da indurre la critica a scrivere
dell'esordiente in termini molto poco lusinghieri. Giornalisti,
colleghi pittori e pubblico sono confusi e accusano l'artista di
non portare a termine le tele e di usare una palette
troppo spenta,
ancorché ricca e variata nei toni .
Oggi
escludiamo fermamente che le prove esibite al Salon
siano, come insistentemente è stato insinuato dalla stampa
dell'epoca, il frutto di impreparazione, imperizia, incapacità o
ancora il risultato di studi superficiali, incompleti o scarsi,
riteniamo, piuttosto, che l'aspetto di apparente “non finito”
sia fin dagli inizi una scelta estetica consapevole e mirata, «poco
importa che a una figura manchi naso, orecchie o bocca, come nel caso
di Malinconia» ,
afferma il pittore nei Diario,
o che un volto sia privo di dettagli, lui le dipinge così perché le
vuole così .
La tendenza al “non finito” diventa presto per l'artista un τόπος,
che nel corso della sua esistenza acquisisce un carattere sempre più
drammatico; le larghe ed energiche pennellate, sembrano fondersi con
l'immediatezza primordiale delle forze della natura e vanno a
costituire il tema personale dentro il flusso grandioso e incessante
della vita di tutti. E nonostante queste prime opere esibiscano un
linguaggio pittorico già sfranto, poco definito e scarsamente
chiaro, vi riecheggiano ancora ombre del Naturalismo
dei maestri nordici intrise di influssi francesi; esse vanno, dunque,
ricondotte ancora all'alveo del Realismo,
in quanto sono rette dall'idea di rappresentare persone normali in
ambienti comuni .
Ne Il Mattino
(1884, olio su tela, 96×103,5 cm, Rasmus
Meyers Samlinger
- Bergen
KunstMuseene,
Bergen) ,
una scena d'interni con una giovane, che, interrotto il gesto di
infilarsi la calza, osserva con aria incantata e sognante il chiarore
del sole mattutino, ritroviamo, per esempio, nell'uso della luce,
come pratica di catturare l'impronta di un determinato istante, il
fascino nutrito per pittori come Monet e Renoir, mentre l'attenzione
per ambienti intimi e quotidiani rivela l'interesse per Manet e
Dagas .
Inoltre, la pennellata sintetica richiama il fare alla Gauguin .
Munch, dunque, si dimostra estremamente attento e ricettivo rispetto
a quanto sta accadendo in Europa, ma non imita né copia i colleghi
francesi, su di essi attua la sua personalissima rivisitazione
esibendo una forma espressiva decisamente nuova e già
inconfondibile. La luminosità è verosimilmente il vero soggetto
della tela: la ragazza rivolge lo sguardo alla finestra e lungo la
prospettiva si palesano studiati riflessi di luce (si osservino le
superfici di vetro, il vassoio, la tenda bianca, la testata del
letto, i capelli e la pelle della protagonista, che si tinge di
sfumature rosse, bianche, blu) .
La critica locale e il pubblico conservatore non apprezzano il quadro
che viene licenziato come “affrettato ed insicuro” .
Nel
1885, grazie ad una borsa di studio, il maestro si reca, per la prima
volta, all'estero, le esperienze fatte rafforzano la tendenza verso
un progressivo disfacimento della forma e verso un'espressività
sempre più intensa: la sua ricerca si orienta ancora di più in
senso tecnico-sperimentale e assistiamo all'affermarsi di
elaborazioni e stesure pittoriche inedite, nonché all'ottenimento
di immagini che esprimono affetti profondi.
Raggiunge,
prima, Anversa, dove partecipa all'Esposizione
Universale con
alcuni quadri (Ritratto
della sorella Inger in nero
1884, olio su tela, 97×67 cm, NatjonalMuseet,
Oslo). L'occasione gli consente di osservare e studiare le opere
dei maestri simbolisti francesi esposti: Pierre Puvis de Chavannes
(1824-1898) e di Jules Bastien-Lepage (1848-1884) .
Arriva, poi, a Parigi, e, per tre settimane, visita con accorta e
famelica curiosità i Salon
e il Louvre
,
nonché le gallerie private, tra cui quella di Paul Durand-Ruel
(1831-1922), il gallerista degli impressionisti, che gli consente di
registrare con attenzione e grande interesse l'adesione alle minime
variazioni della luce esercitate dai moderni francesi e di prendere
ad amare le loro rapide esecuzioni .
Oltreché con gli ambienti impressionisti, entra in contatto con
quelli simbolisti e cromo-luministi, e rimane particolarmente
affascinato dall'espressività violenta della pittura emotiva di
Vincent Van Gogh (1853-1890), che in vita raccoglie il plauso e
l'apprezzamento dei soli colleghi-pittori, mentre viene ignorato,
se non pesantemente dileggiato, dalla critica e dalla stampa. Pur non
trovando alcuna affinità con il plain
air,
che non è ancora nelle sue corde, e difatti per il momento non lo
adotta, la sua tavolozza, fino ad ora alquanto limitata e tetra, si
vivacizza e si illumina di colori.
Sulla
scorta dell'esperienza parigina, tornato in patria, accantona
definitivamente e senza riserve il paludato Classicismo,
la pittura di atmosfera e il Naturalismo
quasi fotografico, prevalentemente praticati dai pittori norvegesi,
e, secondo un taglio assolutamente innovativo, memore delle
prospettive alla Caillebotte ,
comincia a dipingere ritratti alla Manet
e opere che restituiscono le suggestioni divisioniste provate per i
maestri neo-impressionisti: la pennellata si carica di luce, le tinte
vengono apposte pure, infine, introduce quel sentimento per la
natura, che successivamente diventerà angoscia e dolore, sua cifra
stilistica, ma che in questa fase è insolitamente vivace e sereno . A questo stadio appartengono Musica
sul Viale Karl Johan,
(1889, olio su tela, 101,5×140,5 cm, Kunsthaus,
Zurigo) , Primavera
sul Viale Karl Johan (1890,
olio su tela, 80×100 cm, Bergen
BilledGalleri,
Bergen) e Corso
Karl Johan sotto la pioggia, (1891, olio
su tela di lino, 38×55 cm, MunchMuseet,
Oslo). I tre
dipinti sono ambientati sulla principale e centrale arteria
cittadina, che collega il Parlamento alla Residenza Reale,
frequentata dall'alta società di Kristiania, ma anche dal popolo e
dagli artisti bohémien
alla ricerca di soggetti degni di essere rappresentati .
L'ombrello rosso, presente nei primi due quadri, e quelli neri, del
terzo, rappresentano evidentemente un omaggio ai maestri parigini
Monet, Renoir, Caillebotte e Seurat. A quest'ultimo, inoltre, vanno
ricondotti anche i tocchi di colore puro affiancati, dati, però,
irregolarmente, non rispettando il rigore scientifico della teoria
dei complementari, perseguito dal Puntinismo
francese. Infine, da segnalare è il rapporto contrastante tra le
figure in primo piano e la strada che corre diagonalmente su uno
sfondo piatto e privo di dettagli di
Musica.
Solo
due anni dopo, come in una macabra danza della follia moderna, il
piacevole viale cittadino, si trasforma in una immagine piena di
ansia ed inquietudine: in uno scenario notturno la via, infatti,
assume le sembianze di un corso di spettri, non liberi e costretti
dalle convenzioni sociali (fig. 3) .
Fig. 3 - EDVARD MUNCH, Serata sul corso Karl Johan, 1892
olio su tela, 85,5 X 121 cm., Bergen KunstMuseene, Bergen
Foto cortesia di Giorgia Duò
Nell'estate
del 1886, trascorre con lo scrittore Hans Jæger (1854-1910) un
periodo in barca, lungo la costa sud-occidentale della Norvegia;
l'anno prima, dopo la pubblicazione di
Fra Kristiania-Bohéme,
romanzo, tacciato di immoralità, l'intellettuale è dapprima
censurato, quindi, condannato alla prigionia .
Personaggio colto, carismatico e controverso, esercita sul Nostro una
forte influenza emotiva: da lui il pittore mutua la fermezza
nell'inseguire ed attuare le sue idee e convinzioni, e il coraggio
di servirsi delle proprie esperienze, profondamente intime e
tormentate, come materia prima, per le sue tele.
Alla
loro frequentazione, dunque, facciamo risalire il nuovo atteggiamento
introspettivo che caratterizza la produzione del pittore a partire
dalla seconda metà degli anni ‘80, e che lancia di diritto il
maestro nel più ampio dibattito europeo sul rinnovamento dell'arte
e sul ruolo da assolvere in una fase storica complicata e controversa
come quella a lui contemporanea. L'artista elabora un proprio
linguaggio, ma, non essendo interessato né all'aspetto oggettivo
delle cose, all'epoca fenomeno già molto in voga, né
all'astrazione, atteggiamento che inizia a farsi strada
nell'Avanguardia
europea,
spronato dal pensiero dell'intellettuale anarchico, che considera
l'esperienza soggettiva l'unico tema degno di essere indagato e
raccontato, comincia a “parlare” della condizione umana; ne
risulta un'espressione visuale fortemente comunicativa, in cui le
vicissitudini individuali, sono al centro della sua attività
creativa .
Questa circostanza, per noi banale, all'epoca si pone in forte
discontinuità con il mondo artistica; rispetto, cioè, alle coeve
ricerche, perlopiù, ancora legate alla figurazione, rappresenta una
vera e propria rivoluzione estetica. Munch dà inizio ad una pittura
che non si vede, ma si percepisce emotivamente, «non
dipingo ciò che vedo – scrive significativamente l'artista –
ma ciò che ho visto»
,
i suoi soggetti non traggono ispirazione dalla realtà circostante,
piuttosto da quanto gli è occorso nel bene e nel male, e la sua arte
diventa espressione di momenti psicologici universali che analizzano
profondamente l'anima dell'uomo moderno, tralasciando totalmente
l'aspetto fenomenologico.
L'amicizia
tra i due si rivela, però, difficile, con Hans il pittore rivive il
problematico rapporto con il padre: la figura del genitore ossessivo
ed autoritario, educatore severo e repressivo ,
ma al tempo stesso altruista, dedito alla famiglia, rispettosamente
borghese e pietista, è nettamente in conflitto con il suo istinto di
autoaffermazione, che subisce il fascino dell'ardente sovversivo,
visionario, figura egocentrica ed ‘egoica'. L'uno è l'esatto
opposto dell'altro e si genera in Munch una condizione di crisi ed
incertezza, soprattutto perché Jæger è apertamente e fermamente
disapprovato dall'anziano padre .
Alla
loro frequentazione, facciamo risalire l'ennesimo cambiamento nel
percorso artistico del Nostro che, dopo la parentesi di vivace e
luminoso colorismo alla francese, torna alle ambientazioni cupe,
tipiche degli anni della formazione. Ricompaiono e prevalgono i toni
scuri e, in linea con quanto accade nei paesi nordici, l'attenzione
passa dal leggero sentimentalismo, tipico di Il
mattino
o della Primavera
sul Viale Karl Johan,
a questioni più marcatamente esistenziali ed intime.
A
partire dalla fine degli anni '80 sia l'arte e che la
letteratura, infatti, si riempiono di atmosfere di matrice
neoidealista e si calano nella cultura con una spiccata attenzione
all'introspezione e un ricorso alla fantasia nell'elaborazione
dei soggetti. D'altra parte, nel decennio 1880-1890, assistiamo, in
tutti i campi, ad un generale slittamento dell'interesse
intellettuale, lato
sensu,
che passa dalle descrizioni ottocentesche della vita a questioni più
profonde e tormentate, dalla malinconia romantica a stati emotivi più
tragici ed angosciosi .
Negli
anni più intensi della loro amicizia Edvard vive la dolorosissima
relazione con Milly, del legame non riesce a parlarne con il padre,
che contrario all'adulterio non può che disapprovare, elegge
allora l'amico agitatore a confidente; in quello stato di
condivisione della soffocante sofferenza, come condizione
esistenziale, è, dunque, Jæger, e non il genitore, a stargli vicino .
E quando l'amante, che non ricambia il suo sentimento, sposa un
terzo uomo, Munch si ritrova particolarmente afflitto ed inizia a
maturare quella concezione, secondo la quale, ogni tipo di relazione
amorosa è destinata al fallimento. La delusione, dunque, ha un
impatto devastante sulla mente dell'artista e il suo ricordo,
combinato con la κοινὴ
culturale-esistenzialista, in cui cresce e si forma, con la
propensione familiare alla fragilità ed instabilità emotive e con
la cultura misogina che contraddistingue in gran parte l'ambiente
intellettuale in cui opera si rifletterà su ogni suo futuro rapporto
con l'altro sesso, producendo, altresì, effetti significativi e
duraturi sulla produzione artistica, qualificandone i soggetti
amorosi in senso drammatico e profondo.
Per
tutta la sua vita, Munch avrà un rapporto estremamente complesso e
controverso con l'altro genere, ritenendo il matrimonio
incompatibile con le sue ambizioni artistiche e per il timore di
trasmettere ai figli quella delicata condizione psico-fisica di
carattere familiare (consunzione polmonare e il gene della follia),
non si è mai voluto sposare. In una nota diaristica riporta che
sarebbe stato «(...)un
crimine (...) sposarmi (...) mia madre è morta di tubercolosi (...),
mia zia, forse a causa nostra, vive in uno stato tubercolare. Io
ho sofferto per tutta la vita di raffreddore e bronchite con
espettorato di sangue. Mia sorella Sofie è morta di
tubercolosi. Noi bambini della famiglia crescendo abbiamo
sofferto di forti raffreddori - sono venuto al mondo malato, sono
stato battezzato in casa e mio padre non ci credeva che potessi
sopravvivere - ho dovuto trascurare quasi completamente la scuola –
( ... ) sono stato costantemente attaccato da raffreddori violenti e
febbre MM reumatica - ho avuto perdite ematiche. Mio fratello aveva
un petto debole ed è morto giovane di polmonite. Mio nonno il
prevosto è morto di stenosi spinale - Da questo... mio padre ha
ereditato il suo nervosismo morboso e la sua ferocia - La stessa che
si è sviluppata sempre di più in noi bambini ...» .
Le
sue storie amorose sono paradigmatiche: iniziali incontri, brevi e
spontanei, seguiti da frangenti di attrazione fatale, condivisa, il
più delle volte, da entrambe le parti, quindi, alla passione,
subentrano il tormento e la gelosia che conducono all'inevitabile e
drammatico epilogo di allontanamento. Combattuto, tra lo slancio
verso il genere femminile e la paura di essere respinto, Edvard muore
celibe, nel 1944, all'età di 80 anni, dopo aver vissuto certamente
significative, ma infelici relazioni con diverse donne. Questo
difficile e problematico relazionarsi è, sin dall'inizio della
carriera, fonte di ispirazione per gran parte delle sue tele, nonché
stimolo creativo determinante al concepimento del Fregio, come
abbiamo visto, opera cardine della sua produzione, “poema di vita,
amore e morte” .
La visione dell'amore maturata dal pittore e trasmessa attraverso
il suo lavoro è, dunque, sempre destinata a fallire tragicamente.
Pur considerando ogni esperienza di coppia necessaria ed
indispensabile e sebbene viva sempre appieno ogni momento di ogni
singola vicenda, non arriva mai, l'abbiamo detto, a prendere la
decisione di sposarsi. Quest'atteggiamento di non apertura verso
l'istituzione del matrimonio provoca, nel tempo, situazioni di
attrito e forte conflittualità con le sue compagne, in particolare
con Mathilde Larsen, donna ricca, viziata, gelosa ed ossessiva che
avrebbe voluto convolare a nozze. La tormentatissima relazione
culminerà in un drammatico evento in cui verranno sparati dei colpi
di pistola che feriscono l'artista alla mano sinistra.
La
svolta artistica in Fanciulla
Malata e Pubertà
Tra
l'autunno dell'85 e l'86 iniziano le prime versioni di alcuni
soggetti che poi lo renderanno famoso: Bambina
Malata
(fig. 1) e Pubertà
(fig. 4)
Fig. 4 - EDVARD MUNCH, Pubertà, 1894-1895
olio su tela, 151,5 X 110 cm., NasjonalMuseet, Oslo
Foto cortesia di Giorgia Duò
.
In
un'epoca dominata, in tutta Europa, dalla pittura dei maestri
impressionisti, che cattura l'attimo, il riflesso, l'istante
visivo, Munch, ritenendo suo compito dover andare oltre l'impressione
come manifestazione artistica visuale e, dunque, penetrare gli animi
e comunicare sentimenti e sensazioni vere, dolorosamente vive e
tragicamente attuali, opera scelte artistiche che, per la cultura del
tempo, abituata ad un fare pittorico realistico ed intimista,
risultano “discutibili” se non addirittura incomprensibili. Come
indicato dall'amico Jæger, attraverso il ricordo e la memoria,
attinge alla propria esperienza personale e giunge al pubblico, in
modo inatteso, creando un imprevisto coinvolgimento emotivo che rompe
con la tradizione e fa della tela lo spazio della manifestazione e
condivisione del dolore .
Così,
con Fanciulla
malata (simbolico
e, allo stesso tempo, letterale addio al Naturalismo
della formazione), si
conclude la fase giovanile e comincia la prima maturità,
caratterizzata da una ricerca intima, profonda e forsennata, come
sperimentazione estrema nei mezzi e nei soggetti, che conduce
all'adozione del nuovo e sorprendente modus operandi,
tecnicamente d'impatto e radicalmente moderno, che va viepiù
affinandosi nel tempo .
Nel
percorso del pittore, il quadro, allora, diventa, l'opera di
rottura e assurge ad essere l'emblema della svolta creativa, su
cui, come testimoniato nel Diario,
nei successivi 40 anni, l'artista vi ritornerà più e più volte
realizzando diverse versioni e repliche, modificate nella tecnica e
nel linguaggio espressivo .
Un
fare nervoso ed asciutto esprime, in modo pieno, intatto ed
essenziale, i turbamenti del passato, e mette a nudo quella
sofferenza vissuta che diventa il vero soggetto dell'opera. Non il
banale, per quanto amaro, episodio della malattia, dunque, ma lo
strazio provato sottopelle e il senso di impotenza, dell'artista e di
tutta l'umanità, difficili da gestire .
Il
debutto in “chiave espressiva”, che è anche il centro della
produzione artistica del periodo, nasce, pertanto, dall'intima
rievocazione ed estrinsecazione, non dell'evento in sè, ma del
dramma patito rispetto al ricordo della malattia della sorella
Sophie, morta appena quattordicenne .
Un
secondo impulso al concepimento deriva dall'incontro con una
paziente del padre, Betzi Milson; oltre a ricordargli la sorella
defunta, suscita in Edvard una tale compassione da nutrirne
l'ispirazione al punto da convincerlo a riprodurre quel senso di
pietà che aleggia profondamente nel quadro e che rappresenta
significativamente l'inizio dell'auspicio, risultante
diffusamente nei taccuini, secondo cui non sia più tempo di
dipingere «interni
con gente che legge o donne che lavorano a maglia. Si dipingeranno
uomini che vivono, che respirano, che sentono che soffrono, che amano
(...)» .
La
vicenda si svolge all'interno di una cornice opprimente e
deformata, che sembra consumarsi lentamente, sgretolarsi con la
malattia e seguirne il decorso fino all'imminente dipartita: una
bambina sofferente, pallida come un lenzuolo, con uno sguardo vacuo e
dolente e la testa girata verso un'ombra nera, l'incombente
presenza della morte, si rivolge lucidamente alla persona accanto a
lei, che, china al suo capezzale, provata e prostrata dalla
disperazione, sembra sbiadire nell'ambiente circostante,
probabilmente rassegnata allo strazio della perdita .
È evidente che l'opera, anche dal punto di vista compositivo,
oltreché nella sua componente tragica, vada al di là della mera
rappresentazione oggettiva dell'avvenimento e mostri i segni
tangibili della sua ricerca che, attraverso un'impostazione
prospettica mai vista, volta a toccare il pubblico ed ad infondere
una frustrazione emotiva, si prefigge di esprimere
quell'insopportabile impotenza, provata più e più volte.
E,
allora, assistiamo ad un processo di semplificazione formale che,
unito all'intensa figura di colei che, mentre veglia la
protagonista, già proiettata in una dimensione ultraterrena, pare
dissolversi nel colore, instilla in chi osserva quello stato di ansia
ed afflizione, che, fuoriuscendo dal quadro, si insinua nel
sottopelle del riguardante per far rivivere e percepire
quell'insopportabile senso di impossibilità ad agire ed
ineludibilità per un destino infelice. Non c'è alcun intento
mimetico-descrittivo, l'autore tende solo ad una piena ricerca
espressiva, sostenuta dall'inedita, quanto incomprensibile, per i
tempi, resa pittorica .
Al
Diario Munch affida il racconto della genesi compositiva dell'opera
e della sofferenza rinnovata che accompagna la creazione alla ricerca
della vera espressione: «Quando
vidi la bambina malata per la prima volta – la testa pallida con i
vividi capelli rossi contro il bianco cuscino – ebbi un'impressione
che scomparve quando mi misi al lavoro. Ho ottenuto un
altro quadro buono, ma diverso. Poi ho ridipinto questo quadro
molte volte durante l'anno – l'ho graffiato, l'ho diluito con
la trementina nella pittura – e ho provato ancora e ancora a
ritrovare la prima impressione – la pelle trasparente – pallida –
contro la tela – la bocca tremante – le mani tremanti. Avevo
curato troppo la sedia e il bicchiere, ciò distraeva dalla testa.
Guardando superficialmente il quadro vedevo soltanto il bicchiere e
attorno. Dovevo levare tutto? No, serviva ad accentuare e dare
profondità alla testa. Ho raschiato attorno a metà, ma ho lasciato
della materia. Ho scoperto così che le mie ciglia partecipavano alla
mia impressione. Le ho suggerite come delle ombre sul dipinto. In
qualche modo la testa diventava il dipinto. Apparivano sottili linee
orizzontali – periferie – con la testa al centro [...] Finalmente
smisi, sfinito – avevo raggiunto la prima impressione» .
I
due brani, letterario e pittorico, ci parlano della stessa, intensa
tensione emotiva, provata, vissuta e rivissuta dal Nostro attraverso
il ricordo, che gli consente di abbandonare definitivamente il fare
descrittivo, ormai privo di significato, per giungere al pubblico
attraverso sentimenti e stati d'animo estremi, al limite del
sopportabile. Nelle intenzioni del maestro, lo spettatore deve porsi
in atteggiamento interlocutorio attivo, dev'essere, cioè, capace
di comprendere, elaborare e gestire i turbamenti riferiti, attraverso
una partecipazione empatica. Si nega, dunque, valore alla consumata
contemplazione estatica del soggetto, che genera nel riguardante
superficiali sentimenti di tristezza e compassione, di stampo
ottocentesco, per l'assunzione, invece, di un comportamento
rinnovato e aperto da parte dell'osservatore nel processo di
fruizione dell'opera.
E
allora il pittore, dopo aver abdicato all'idea di ripetere la
realtà, come dimostra la mancanza di disegno, di definizione
prospettica e di chiaroscuro, e aver rivissuto emotivamente la
vicenda nella scrittura, per il tramite del ricordo personale,
infelice, particolarmente traumatizzante e stampato indelebilmente
nel suo animo, richiama alla mente l'episodio e lo ripropone, a
beneficio del pubblico, in Fanciulla
malata, attraverso
un uso originale e sorprendente del colore, dato con una forza
espressiva sconosciuta, che giunge all'emotività più intima dello
spettatore, sconfinando nel territorio, ancora in massima parte
sconosciuto, dell'evocazione .
Così
facendo Edvard rende partecipe il fruitore del dolore e, in uno
stadio successivo, quella stessa sofferenza diventerà sensazione
universale. Non è la morte di Sophie a pronunciarsi, ma tutto ciò
che afferisce all'aspetto più recondito e viscerale dell'evento,
tutte le sensazioni penose e contrastanti provate.
Il
fulcro narrativo e compositivo dell'invenzione munchiana è la
dolcezza vicendevole tra le due protagoniste, la bambina si rivolge
alla donna che le accarezza teneramente le mani in un saluto estremo;
il dettaglio rappresenta il centro prospettico del dipinto, nonché
l'apice emotivo della creazione: un gesto reso volutamente con
tratti veloci e sommari, rapidissimi tocchi di colore che non
definiscono, ma, ancora una volta, evocano, richiamano, invocano
sensazioni inattese .
Affinché il riguardante partecipi alla tragedia in modo
incondizionato e totale, l'artista riduce la fuga prospettica ad
una visione molto ravvicinata e schiacciata che, amplificando ed
esaltando il senso di sofferenza, che impernia ed aleggia nel quadro,
e, dilagando verso lo spettatore, su cui grava il denso e
frastornante silenzio della stanza, esalante l'odore acre della
malattia e della morte, rende l'astante non un mero spettatore, ma
attore della vicenda. Nessuno può sottrarsi alla situazione di
disagio in quanto, suo malgrado, è proiettato all'interno
dell'opera: respira la stessa aria malsana e partecipa
all'incomprensibile dolore dell'angosciante sorte.
Fino
a questo momento nessuno, o quasi, ha mai tentato nulla del genere,
non ci sono modelli a cui guardare o a cui rifarsi e, al fine di
suscitare l'empatia e la commozione auspicate, l'artista si affida,
l'abbiamo detto, all'inusuale impostazione prospettica che proietta
chi guarda nell'evento e alla tecnica pittorica, senza precedenti,
qualificata da pennellate corte, dense, verticali, di tinte cupe,
sovrapposte e successivamente, in alcuni punti, graffiate via, con
la spatola o con le unghie, per far riemergere suggestivamente le
cromie sottostanti. La superficie, allora, diventa materica, grezza,
estremamente espressiva, ed è la pittura stessa, intesa come
gestualità, ad essere dolorosa e travagliata in ricordo dell'agonia
e della sofferenza patite per la morte della Quattordicenne e forse,
come abbiamo detto, reminiscenza della scomparsa della madre .
Sulla sinistra, per esempio, incombe soffocante il dettaglio della
tenda, di un verde scuro indefinito, ottenuto con graffi verticali
che liberano le pennellate materiche e grezze di tinta sottostanti, e
che creano, in chi guarda, l'auspicato e ricercato coinvolgimento.
Il
giovane pittore trasforma così le vibrazioni luminose
dell'Impressionismo
in fremiti psichici anticipatori di alcuni principi della futura
estetica espressionista, attua, cioè, quel intendimento di memoria
arganiana per cui Munch “non crede al superamento, ma al
ribaltamento dell'Impressionismo: dalla realtà esterna
all'interna” .
In
questa fase della sperimentazione, ma in generale per la maggior
parte della sua vita professionale, l'artista sceglie e predilige
l'uso della pittura ad olio, una tecnica che si confà per
carattere di malleabilità e duttilità allo scopo di far emergere il
ricordo, che sublimandosi si rivela nel colore per poi apparire
violentemente, come un pugno, nella tela. E, alla ricerca di effetti
evocativi e suggestivi, introduce, anche, diluenti che, liquefacendo
la vernice, fanno scorrere il colore sulla superficie e, segnando e
“sporcando” simbolicamente la tela con metaforici atti di
angoscia, la qualifica come il luogo della manifestazione del dolore.
Ed
è sempre in ottica sperimentale che, a distanza di tempo, l'artista
introduce la cd “cura da cavallo”, come atto finale
dell'asciugatura delle opere, le quali, per acquisire
l'espressività autentica e sincera strenuamente ricercata, quella
che commuove e persuade il pubblico, devono essere sottoposte ad
un'azione temprante e brutale.
Gli
strati di pittura si sovrappongono sul supporto e creano striature
materiche di cromie diverse, la lavorazione imprecisa ed audace della
superficie indica che Munch procede per tentativi e sta sperimentando
alla ricerca della giusta colorazione e del giusto effetto per
rendere quel momento unico di intimità ed emotività. L'esito
finale è dirompente: forme, prive di disegno, scomposte e disfatte,
personaggi di puro colore a guisa di involucri di passioni e di
angosce, grumi emozionali di pittura, stesure apparentemente sciatte
e disattente, in cui si riconosce il gesto della mano, il segno della
setola del pennello e la superficie del supporto. Il tutto suscita,
allo stesso tempo, empatia e sconcerto: la critica, assuefatta
all'imperante pittura classico-naturalista, fatta di immagini
patinate, levigate, imitanti la riproduzione fotografica, grida allo
scandalo per una tecnica esageratamente disinvolta, che lascia troppo
spazio al “non finito”. Ma non si tratta di imperizia tecnica,
come si tende a sostenere da più parti, ma di scelte consapevoli e
coraggiose: al posto della tradizionale descrizione mimetica,
abdicando a qualsiasi regola accademica e a tutte le convenzioni del
disegno, l'artista volutamente propone abbozzi di colore di
intensità espressiva violenta, volti a raffigurare il vivido “non
visibile” .
E
se nel procedimento creativo c'è ancora un certo realismo,
riconducibile all'atto concreto del dipingere, questo viene meno
nell'elaborazione mentale del soggetto e nel modo in cui l'artista
si serve dei materiali: sulle superfici, intenzionalmente trascurate
e scabrose, si riconosce la tela di supporto, si percepiscono le
striature delle setole, il ductus
della pennellata, nonché la stessa azione diretta e risoluta della
mano, tracce di pigmenti scoperti, infine, affiorano dalle spesse
stratificazioni di pittura sovrastanti a guisa di concrezioni,
preannunciando la successiva Action
Painting
astratta.
I
colori (una tavolozza limitata a poche tinte contrastanti, lo scuro
delle vesti della donna e il rosso dei capelli della fanciulla
contraddicono il biancore del cuscino), sono dati talvolta in modo
puro e abbondante, a pochi secondi di distanza, così da creare sulla
parte una miscela pastosa e corposa di cromie (come nel dettaglio
della coperta verde) ,
talaltra, invece, il maestro attende che la tinta asciughi per
avere strati pittorici distinti e sovrapposti, per poi far
riemergere, in alcuni punti, il colore sottostante, grattando via la
pellicola superiore (come nella tenda sulla destra) .
La compresenza di queste due tecniche, indica, abbiamo detto, che
Munch, alla ricerca di effetti pittorici efficaci per restituire ed
evocare istanti di dolore, procede per tentativi e non ha ancora ben
chiaro dove la sua ricerca lo sta conducendo e/o lo condurrà.
La
tela, a testimonianza di quel agire nervoso, risoluto, ma ancora
indeterminato, asciutto ed essenziale, come atto performativo ante
litteram,
che è parte dell'opera stessa, si rivela allora imperfetta,
dall'aspetto incerto, con pigmenti sfilacciati e colori scrostati.
Procedimento e genesi creativi non sono mere condotte mentali, ma
contemplano le azioni fisiche, prima, dello stendere a colpi di
pennello la ridotta materia cromatica, e, poi, del sottoporre a
raschiature decise gli strati di pellicola; così facendo il maestro
agisce direttamente sul coinvolgimento del pubblico che, nel
riconoscere il gesto della mano e il segno delle setole nella scabra
stesura, diventa il destinatario primo e ultimo dell'impressione
psicologica interiore che da prettamente privata diventa universale .
Dopo
circa un anno di lavoro e riflessioni, attestate, si è visto, negli
scritti diaristici, l'opera viene esposta, per la prima volta, nel
1886, al Salone
d'Autunno di
Bergen, con il significativo titolo di Studio,
come a voler sottolineare la provvisorietà della ricerca e della
sperimentazione che, ancora in atto, non sono giunte a termine .
Il
dipinto non incontra l'accoglienza sperata: per il suo aspetto troppo
innovativo e d'avanguardia, suscita biasimi icastici da ogni dove. La
gente è disorientata, indignata e sconcertata, e mentre la stampa
grida allo scandalo e alla mancanza di tecnica, perfino i suoi amici
non gli dimostrano comprensione. Nessuno è pronto per comprendere,
né tantomeno apprezzare, la portata rivoluzionaria della tela,
pertanto critica e spettatori riconducono banalmente l'operare del
maestro a incompiutezza, incapacità ed imperizia tecnica. Il
giornalista, critico e storico dell'arte norvegese Andreas Aubert
(1851-1913), dalle colonne del “Morgenbladet”, attacca il maestro
e lo accusa di aver esposto “un aborto, come quello che Zola
descrive così bene nella sua L'Œvre» ,
qualche riga dopo rincara la dose e paragona sprezzantemente la
composizione ad “un foglio sporco appeso fuori ad asciugare»
.
Anche i colleghi e i compagni pittori non afferrano né gradiscono il
valore di quel nuovo linguaggio, così poco definito ed immediato, si
dimostrano affatto comprensivi per un lavoro che ai loro occhi appare
indecifrabile ed enigmatico. Sulla rivista “Aftenposten” si
raccolgono e si riportano commenti mordaci ed ironici: “peccato che
per i quadri non esistano categorie di premi, altrimenti il dipinto
avrebbe vinto la medaglia d'oro»
o “nessuno altro artista avrebbe mai osato esporre un suo dipinto
assieme a un simile capolavoro» .
E neanche l'amico Jæger, che ha profondamente ispirato “la
svolta” in senso intimista, lo comprende!
Lo
stesso Krohg, guida e mentore di Edvard, che, nel 1881, ha realizzato
lui stesso un dipinto, in stile accademico-naturalistico, sul tema
(Bambina
malata,
1881, 102×58 cm, NasjonalMuseet,
Oslo) ,
muove un'obiezione, seppur generica, all'intera serie di quattro
pezzi presentata dal pittore all'esposizione: afferma che i suoi
quadri “non sono mai del tutto compiuti»
e che l'autore “sembra non mettere mai l'ultimo tocco»
dando l'impressione “che al momento di ottenere quello che vuole
abbia il timore di perdere anche una minima parte di questa materia
preziosa, e non abbia il coraggio di andare avanti per la paura che
possa sfuggirgli quello che ha afferrato» .
E
non è solo il senso di “non finito”, come espressione artistica
d'avanguardia, a confondere il pubblico, il contenuto dei quadri,
infatti, non sempre decodificabile, talvolta oscuro, come spesso sono
le opere di natura simbolista, potrebbe aver contribuito a mettere in
crisi critica e convenuti. Il suo lavoro è indubbiamente percepito
come non terminato, ma il disorientamento generale potrebbe essere
derivato anche dal fatto che, dal punto di vista iconografico, certi
soggetti possano risultare di difficili interpretazione e
comprensione.
Munch,
di indole sensibile e fragile, incline, si è detto, alla
depressione, vive queste critiche con particolare pathos
e amarezza, tutto è molto doloroso, ma, fortunatamente, funge anche
da stimolo e da impulso creativo, per cui la tela diventa un'opera
fondamentale su cui ritornerà ripetutamente durante l'intero arco
della sua carriera, e, più tardi, nel Diario,
scriverà che i suoi lavori successivi originano proprio dal dipinto
in questione .
Negli anni seguenti, il maestro sperimenta stili e tecniche diverse
attorno al tema e, nel 1889, quando ancora si sente ferito dai
giudizi sulla propria pittura, così sperimentale, decide di
dimostrare che quel modus
operandi
non è imputabile a incapacità tecnica o imperizia, come si continua
a sostenere, ma risulta da una precisa scelta estetica: con un fare
piuttosto accademico, che piace molto al pubblico conservatore,
realizza il dipinto, che ripete il “soggetto da cuscino” e che
gli frutta una borsa di studio triennale di 1500 corone: Primavera
(1889, olio su tela, 169,5×263,5 cm, NasjonalMuseet,
Oslo) .
Con questo quadro il Norvegese grida al mondo le sue capacità,
nonché il suo totale disinteresse per il Naturalismo.
E se un'esigenza dimostrativa e di rivalsa presiede all'impianto
tradizionale dell'opera, essa è l'occasione per ribadire la sua
totale indifferenza a tradizione ed accademismi, non vuole essere,
sembra dichiarare, uno dei tanti pittori dell'epoca dei cuscini,
lui è alla ricerca del suo vero posto e il tornare a Parigi lo
porterà a nuove riflessioni.
Nelle
opere seguenti assistiamo ad un processo di universalizzazione dei
conflitti psichici e delle paure personali, per cui l'interesse del
maestro si sposta da eventi individuali ad occorrenze generiche,
drammi dell'umanità, condannata ad affrontare da sola il mondo,
spesso non benevolo, che la circonda. Munch, dunque, sebbene,
ossessivamente concentrato sulla propria condizione, di essere
isolato, cerca di riconsegnare, attraverso i dipinti, lo spaesamento
e l'afflizione generali che tormentano chiunque si adegui o non si
adegui ai tempi. In questo senso, emblematica è la tela Pubertà (fig.
4), in cui il Nostro, con incredibile misura tra emotività ed
intensità fisica, rappresenta la questione adolescenziale femminile
legata al passaggio all'età adulta; un tema assolutamente nuovo,
senza precedenti, che il pittore affronta ritraendo una giovane
smarrita ed impaurita nell'istante in cui comprende il mistero
della sessualità.
Una
creazione straordinaria e perturbante che presenta al mondo lo
spaventoso momento della scoperta e della presa di coscienza della
ragazza, che di fatto assume valenza di passaggio universale cui
tutte le fanciulle sono ineluttabilmente chiamate a percorrere. Anche
in questo caso la composizione è nota in più versioni e, nonostante
la prima sia andata distrutta ,
rimangono le successive a testimoniare la potente invenzione, che,
esposta, nel 1886, assieme a Fanciulla malata,
al Salone
d'Autunno,
per via dell'evidente e provocatorio nudo di bambina, oltreché per
i noti pregiudizi sulle capacità tecniche del maestro, non può
lasciare critica e pubblico indifferenti, la polemica attorno al
quadro monta velocemente e si diffonde altrettanto rapidamente .
La
poco meno che adolescente è ritratta attonita, incredula e spaurita
nel momento in cui deve misurarsi con le trasformazioni fisiche della
crescita. Non è in grado di comprendere appieno il processo
biologico in atto che la sta conducendo al drammatico passaggio da
spensierata bambina a tormentata ed inquieta fanciulla. La minaccia
di un futuro ignoto incombe sulla giovane e, senza riuscire a
metterla a fuoco, ne avverte l'oscura ed opprimente presenza sulla
sinistra, a cui non riesce ad opporsi. L'ombra, animata da occhi
chiusi e da una bocca spalancata in un grido sordo, che preannuncia
il più famoso Urlo
(), sovrasta e sopraffà la ragazza ormai preda di un incubo
palpabile e di uno strazio agonico che, con l'adolescenza, entrano
a far parte inappellabilmente della vita di ogni donna, qualunque sia
la condizione sociale.
La
sagoma nera rappresenta, allo stesso tempo, presagio di scomparsa
della spensieratezza infantile ed entità ineludibile con cui in età
adulta il genere femminile deve inevitabilmente misurarsi, il
trapasso, cioè, dallo stato di fanciulla a quello di donna, le cui
sorti, prestabilite dalle convenzioni del tempo, sono spietatamente
quelle di amare, di procreare, di accudire e di morire senza alcuna
possibilità di deviare da una vita prefissata socialmente. L'opera,
quindi, si carica di quella valenza socio-culturale ampiamente
dibattuta nei circoli intellettuali nord-europei dell'epoca: al di
là, infatti, dell'insopportabile evento psico-fisico che
testimonia, essa si inserisce nella più ampia querelle
relativa alla questione femminile, in cui autori come Ibsen e Jæger,
prima di lui, si sono già pronunciati. Nel 1879, il primo pubblica Casa
di Bambola,
un'aperta critica al perbenismo alto-borghese e alla condizione
della donna nella società vittoriana, qualche anno più tardi, nel
1885, il cattivo
maestro
si inserisce nel
battage
culturale, con il suo romanzo di rivolta, Fra Kristiania-Bohéme,
contro la morale conservatrice, per la liberazione dai pregiudizi e
dai costumi sociali. Con Pubertà
(fig. 4) Munch, alludendo alla perdita della leggerezza e della
libertà, tipiche della fanciullezza, attacca le rigide consuetudini,
che non condivide, cui il genere femminile, suo malgrado, è
costretto .
Ancora
una tavolozza scura e poco realistica, in cui il colore risponde ad
esigenze di tipo espressivo: l'incarnato livido del corpo allude,
infatti, ad un fisico sessualmente ancora acerbo, il quale, però,
già mostra i cambiamenti in atto (i seni appena delineati che
contrastano con i fianchi ormai maturi); l'aspetto terroso del
volto rende l'incredulità e lo sbigottimento di colei che
rimpiange l'infanzia e mostra turbamento ed ansia per uno sviluppo
sessuale, anelato, ma per il quale non si sente ancora pronta.
L'opera
è da ricondurre al clima del Simbolismo
europeo: il letto integro e le braccia in posizione pudica
sottintendono metaforicamente alla verginità intatta della ragazza
che, nel nascondersi timidamente, con un gesto di cosciente imbarazzo
ed incrociando allegoricamente gli arti superiori sul pube, dimostra
consapevolezza per il venir meno della spensieratezza infantile e,
allo stesso tempo, palesa il timore per ciò che l'aspetta. A
rinforzare il messaggio emotivo la scelta di dipingere solo
l'essenziale, pregno di significato: il letto, la fanciulla attonita
e la sua ombra sulla parete, tesa a gridare in un urlo sordo come
materializzazione della paura.
A
spasso per l'Europa
Durante
tutti gli anni Ottanta Munch si è fatto notare, ha fatto parlare
molto di sé ed è diventato uno degli artisti più attivi nella vita
espositiva e culturale di Kristiania. A 25 anni, tra l'aprile e il
maggio del 1889, presso la sede della Società
Studentesca della
città,
tiene la sua prima personale: 110 opere che suscitano ancora reazioni
forti e contrastanti sia tra gli esperti che tra gli spettatori.
Piovono critiche da ogni dove, il pubblico conservatore continua a
detestarlo e, sebbene, l'artista raccolga il plauso e l'ammirazione
di molti amici, intellettuali e colleghi-pittori più anziani,
diviene nuovamente bersaglio della feroce stampa tradizionalista e
conformista. Il maestro, inoltre, nella vita, come nel lavoro, non
riesce a mettersi in dialogo formativo con le nuove reclute, che,
invece, si aspettano, così come era accaduto anni prima con lui, che
si proponga come guida e mentore. I lunghi periodi di isolamento, di
cui il Norvegese necessita, per trovare la giusta concentrazione e
per dedicarsi alla spasmodica ricerca di una nuova arte, dal
significato profondo, lo tengono lontano dall'insegnamento e dalla
condivisione, e la distanza fisica ed emotiva dalla cerchia di
giovani artisti è mal interpretata, così anche le nuove leve si
pongono in atteggiamento negativo: mal sopportando i suoi ritiri e la
sua riservatezza, non lo comprendono e lo ritengono egoista ed
egocentrico.
Inaspettatamente,
giungono anche articoli cautamente favorevoli: Aubert continua
a non apprezzare l'aspetto “non compiuto” dei suoi
lavori, ma sul quotidiano “Dagbladet”, scrive
di un grande talento coloristico attribuendo il “non finito”, non
più ad imperizia o incapacità, piuttosto a una forma d'indifferenza
dell'artista per struttura e disegno; si lancia, quindi, nella
previsione che, negli anni, egli possa imparare ed eccellere come
“pittore di figure” .
Sul “Verdens Gang”, l'amico
Krohg stende, invece, una vera e propria ovazione: pur
rimarcando la deplorazione per un modus
operandi definito
“debole e fiacco” e ricondotto, con rammarico, ad una formazione
poco accademica, ritiene che egli sia l'artista del momento e del
futuro, l'unico, in Norvegia, capace di mostrare “(...) quello
che ha sentito e che lo ha emozionato» .
In
questo periodo matura e lentamente si affaccia quel concetto di
natura stilizzata ed alterata in senso simbolico, tanto da perdere
ogni riferimento con la realtà, che, sebbene la vecchia generazione
di pittori naturalisti, cui appartiene lo stesso Krohg, faccia fatica
a seguire, diventa presto tendenza.
Le
deformazioni del soggetto e dell'ambiente rappresentano una tappa
fondamentale, una scelta necessaria che gli consentono di giungere ad
una forma espressiva più intima e profonda; gli enunciati estetici e
i valori classico-formali di ordine e razionalità, già messi in
discussioni precedentemente, ora vengono definitivamente infranti e
lasciano il posto a segni e colori usati in modo anti-naturalistico.
Fonti
di ispirazione e tematiche sono ancora riconoscibili ed intellegibili
in restituzione non più imitative, ma percettive. E come i soggetti
affrontano la decadenza, la distruzione e il dissolvimento della
forma sulla tela, così i quadri materiali subiscono il medesimo
processo di disfacimento attraverso l'introduzione della pratica
della “cura da cavallo”, per la quale supporti e relative
pellicole pittoriche sono fisicamente ed intenzionalmente esposti
alle intemperie della natura .
Così
operando i dipinti diventano protagonisti di un percorso artistico
che è già una moderna performance,
anche
se priva di pubblico, e non è un caso che, a partire da questo
momento, il maestro scelga, quasi sempre, di lavorare all'aperto,
nonostante le rigide temperatura che il clima del Nord-Europa
raggiunge, soprattutto, in inverno.
Durante
l'estate del 1889, affitta una casa a Åsgårdstrand, e, in
novembre, dopo aver ottenuto la borsa di studio per Primavera,
che in ottobre lo porta nuovamente in Francia, il padre muore per un ictus. L'immagine
del genitore morto, rievocata più o meno direttamente in diverse
opere del periodo parigino (fig. 5), ritorna nel quadro L'uscita
del feretro
(1898-1900, olio su cartone, 99×70 cm,
MunchMuseet, Oslo),
in cui si compie il trasporto, poco agevole, della bara del defunto
fuori dalla casa. Un'uscita mesta, carica di tensione, sia per la
difficoltà fisica di portare fuori il pesante feretro, che per lo
strazio emotivo del momento luttuoso .
Inizia
un periodo che lo tiene lungamente lontano dalla sua città
d'origine, diviso tra Parigi, Berlino e altre città mitteleuropee,
passeranno circa 20 anni prima del suo ritorno definitivo in
Norvegia, favorito ed orchestrato dall'amico Jappe Jacob Nilssen
(1870-1931) .
Durante
il secondo soggiorno parigino, poiché, in patria, la sua opera è
stata così aspramente giudicata per mancanza di disciplina e
precisione, decide di iscriversi, assieme a 5 giovani compagni, alla Scuola
di Disegno
di Léon Joseph Florentin Bonnat (1833-1922), dove, però, per una
questione di insofferenza, rimane solo pochi mesi (da ottobre a
dicembre), durante i quali ha il privilegio di poter studiare la
collezione personale del maestro (con opere di Ingres, Géricault,
Delacroix, Couture e des Chavannes), e di recepire, limitatamente ai
suoi intendimenti, e dunque, per la critica solo parzialmente,
quell'esigenza di correzione lamentata, più volte, dalla stampa
norvegese .
Dalle lettere giunte ai famigliari, all'inizio di gennaio 1890, dopo
quasi tre mesi di lezioni, apprendiamo che alla scuola l'artista è
piuttosto apprezzato, “a Bonnat piacciono i miei disegni»,
ma aggiunge anche di annoiarsi e che preferirebbe “dipingere
qualche quadro»
a Saint-Cloud, dove si è trasferito per sfuggire all'epidemia di
colera che imperversa nella capitale .
Prende, quindi, la decisione di interrompere le lezioni. Anche se,
per il compagno di corso, il pittore Karl Konow (1865-1928), la
scelta di allontanarsi, potrebbe, invece, essere dovuta ad un
disaccordo sorto tra l'allievo e il docente sul colore del muro in
un modello .
Parigi
è l'indiscusso centro artistico d'Europa, il fermento culturale
nella città è al massimo della sua effervescenza, oltre alle
celebrazioni per il centenario della Rivoluzione
Francese,
svolte sulla riva destra della Senna, in Campo
di Marte,
si sta organizzando la nuova edizione de l'Expositione
Universelle, in
occasione della quale viene eretta quella meraviglia dell'ingegneria
del ferro che è la Torre
Eiffel (1889).
La sezione delle arti figurative, curata dal critico Roger Marx
(1859-1913), ospita, per la prima volta, pittori, ancora controversi,
come Manet, Monet, Pisarro e Cézanne, e il padiglione norvegese
espone orgogliosamente il
Mattino
che dà al maestro una certa visibilità e l'apprezzamento meritato.
Oltre
a visitare i vari Salon
e l'Expositione,
Edvard prende a frequentare il Caffè
Volpini, dove
per protestare contro le decisioni della giuria, troppo
tradizionalista, che ha escluso automaticamente la nuova generazione
di artisti d'avanguardia, viene organizzata una mostra alternativa.
Tra gli avventori del locale ci sono i giovani emergenti
neo-impressionisti, Gauguin, il gruppo
di Pont Aven e,
fino all'anno precedente, anche Van
Gogh .
Dopo
pochi mesi dall'arrivo nella capitale, prostrato dalla morte del
padre, e per sfuggire ad un'epidemia di colera che ha colpito la
città, si trasferisce nel sobborgo di Saint-Cloud,
in una pensione sulla riva sinistra della Senna dove incontra
provvidenzialmente colui, dalle cui conversazioni prenderà vita il
cd Manifesto
di St Cloud
sul Simbolismo
in pittura: Emanuel Goldstein (1862-1921) .
Nella piccola, fredda e umida camera d'albergo, al secondo piano
dell'Hôtel
Belvédère,
si crogiola nei ricordi della perdita del padre e, devastato dalla
malinconia per il senso di colpa, che lo assale ad intervalli
intermittenti, scrive di non sapere “cos'altro fare se non lasciare
che la (...) pena invada l'alba e il tramonto. Resto solo con milioni
di ricordi che sono milioni di pugnali che mi lacerano il cuore – e
le ferite restano aperte. L'aria è grigia e pesante sui tetti, la
luce svanisce cosi presto – tutto si disegna come un profilo
d'ombra sul vetro – fuori la neve copre con strati sottili camini
e tetti. (...)» .
Non
sappiamo se siano state le poesie di Goldstein sull'amore doloroso o
se sia stato lo stato di sofferenza per la dipartita del genitore o
ancora l'esperienza della solitudine e della lontananza da casa, ma
reminiscenze del suo amore non corrisposto per Milly, vissuto, anni
prima, tra l'estate e l'autunno del 1885, tornano
prepotentemente e malinconicamente alla mente. Nel Diario
parigino il ricordo de “la signora Heiberg” ricompare
insistentemente, a conferma del tormento che continua a presentarsi e
ripresentarsi, ma anche del disturbo di cui soffre, per cui
l'intelletto del maestro non riesce ad elaborare fino in fondo le
vicende occorse, che riappaiono ad assillarlo ed affliggergli la
mente.
Liza
Kaaring, direttrice del museo danese Fuglsang
Kunstmuseum, nel
2019, in collaborazione con il professore Anders Ehlers Dam (1973- ),
scandinavista dell'Universita di Flensburg (DK) e Magne Bruteig
(1948- ), già responsabile del “dipartimento di grafica e disegni”
del MunchMuseet
di Oslo, ha condotto un'interessante ricerca interdisciplinare,
conclusasi nella mostra del settembre dello stesso anno, volta a
mettere in luce la rara e profonda intesa, sia personale che
artistica, tra Goldstein e Munch, che ha condotto i due
all'elaborazione dell'emblema della letteratura simbolista noto
come il Manifesto
di Saint Cloud . La
storica ritiene che l'atmosfera di condivisione delle dolorose
esperienze amorose vissute da Emanuel abbia indotto il Nostro a
recuperare l'infelice ricordo di quanto vissuto in precedenza: «Era
da tanto tempo che non pensavo a lei - però è tornata. Che segno
profondo ha scavato nel mio cervello - nessun'altra immagine può
allontanarlo completamente» . Secondo
Reinhold Heller (1940-
), storico dell'arte tedesco, naturalizzato a Chicago dove è
professore emerito all'Università, il ritorno dei ricordi di Milly
sembra, invece, collegarsi unicamente alla morte del padre, in quanto
la relazione con la donna sposata era stata fortemente osteggiata dal
genitore, profondamente religioso, che disapprovava l'adulterio .
E non sarebbe un caso che il 1889 sia stato anche l'anno della crisi
spirituale, il momento in cui Edvard inizia a rifiutare le tesi
anticristiane dell'ideologo Jæger, da cui prende le distanze,
sebbene sia stato il suo confessore, colui, cioè, che aveva accolto
le sue tristi meditazioni di giovane innamorato .
Sappiamo
che, già prima di compiere il primo viaggio a Parigi, Munch comincia
a tenere un quaderno autobiografico illustrato, fitto di appunti e
note, e, nelle pagine di esso, riferibili a questo secondo soggiorno
nella capitale, vengono espressi per la prima volta quelli che
diventeranno i grandi temi proposti, in seguito, nel Fregio
della vita:
concetti come amore, morte, angoscia, ansia e paura, vengono
analizzati, scomposti, approfonditi e sviscerati dall'artista nel
suo taccuino parigino, che si riempie di parole, colori e disegni
come riflessioni sul progetto artistico ancora in
nuce, che
confluisce, nel 1928, nella stampa, non pubblicata, di Livsfrisens
tilblivelse, Saint-Cloud-manifestet .
Da un'annotazione, relativa alla notte di capodanno del 1889,
prende vita il Manifesto:
in una prosa a tratti lirica, scorgiamo, in un episodio accaduto
nella sala da ballo, mentre furtivamente sta tracciando l'immagine
di una coppia seduta ed abbracciata, un baleno epifanico, il pittore
si rende improvvisamente conto di non rappresentare i due amanti per
come appaiono, piuttosto di raccontare la passione impetuosa sottesa
al momento. Quell'istante di illuminazione diventa l'emblema
della compiuta presa di coscienza del fatto che l'arte non può più
occuparsi di descrivere, ma deve andare oltre e scavare nell'animo
della confusa umanità, non si dipingeranno più interni o gente che
legge, scrive il maestro diffusamente nel Diario,
ma «si
dipingeranno uomini che vivono, che respirano, che sentono che
soffrono, che amano. Sento che lo farò , che sarà facile. Bisogna
che la carne prenda forma e che i colori vivano (...). Molti
ritengono che un dipinto sia finito quando il maggior numero
possibile di dettagli è stato completato, ma anche una singola linea
può essere un'opera d'arte (...), un'opera d'arte proviene
direttamene dall'interiorità dell'uomo. L'arte proviene dalla
gioia e dal dolore. Maggiormente dal dolore (...)» .
Le parole rivelano quella rinnovata consapevolezza artistica, nata da
una condizione di crisi personale, non sappiamo se dovuta alla
scomparsa del padre o al clima empatico di condivisione delle
dolorose esperienze con l'amico Goldstein o ancora dalla
combinazione degli eventi, ciò che è certo, invece, è che da
questo momento, sembra proclamare il maestro, il suo lavoro sarà un
qualcosa di intensamente intimo, emotivo, travagliato, nonché
spogliato da qualsivoglia situazione di tipo
fenomenologico-descrittivo.
Prendendo
ulteriormente le distanze da quei motivi legati al Naturalismo,
per volgere l'attenzione solo agli aspetti più profondi e
reconditi dei soggetti, e, non volendo raccontare di grandi passioni,
tipiche della letteratura declamatoria, il maestro si concentra
oltremodo su sentimenti veri e situazioni concrete .
Si perfeziona, dunque, anche a livello teorico, un concetto di arte
legato alla memoria e totalmente avulso dall'osservazione e dalla
μίμησις: l'esigenza di interiorità, cioè, diventa programma
e l'emotività scalza il luogo dell'oggetto. Al maestro non
basta più lo sfaldamento della sostanza cromatica, tipico delle
opere della seconda metà degli anni '80, sente l'esigenza di
dover passare all'idea che un albero possa non essere
necessariamente marrone e verde, ma possa essere rosso e blu, così
come un volto possa essere verde, a seconda dell'urgenza
espressivo-sentimentale che deve diventare regola comunicativa .
In questo contesto epifanico il maestro individua in Van Gogh,
Gauguin e Toulouse-Lautrec gli iniziatori della pittura
dell'avvenire, in quanto hanno saputo imprimere alla propria arte
una forza espressiva inedita ed emotivamente impattante.
In
un'ottica lavorativo-progettuale, Munch continua a fare di sé
stesso lo strumento necessario per indagare i sentimenti
dell'esistenza contemporanea e, tramite gli eventi del suo vissuto
e le sofferenze trasposte sulla tela, si pone come vate delle
emozioni.
Per
la maturazione di questi nuovi intendimenti, ha certamente
contribuito trovarsi a vivere a Parigi e frequentare gli artisti
dell'Avanguardia
francese (Bonnard, Lautrec, Redon, Moreau, Gauguin e le più
importanti personalità del Neo-Impressionismo),
inoltre, ha
contribuito sicuramente visitare, la VII Mostra
degli Indipendants
e, l'anno successivo, la retrospettiva commemorativa su Van Gogh .
Ogni esperienza vissuta ha, infatti, in qualche modo indirizzato e
stimolato il pensiero artistico e teorico del maestro che dalla
visione delle opere di Vincent, di Gauguin e dei maestri simbolisti,
per esempio, deriva l'orientamento, in senso marcatamente
anti-naturalistico, della sua pittura, sempre più espressione di
un'interiorità scomoda ed inquietante, resa attraverso
l'introduzione di forme semplificate e colori non realistici. E
mentre l'arte dissacrante ed irriverente di Toulouse, che ha anche
lui studiato presso Bonnat, lo colpisce molto, soprattutto per le
tematiche trattate, in cui il Nostro ravvede una certa affinità,
specialmente per ciò che riguarda le scene di bordello, che Edvard
comincerà a dipingere a partire dal 1894, il lavoro e le
sperimentazioni dei maestri pointilliste
si ergono, invece, a stimolo creativo immediato, la cui conoscenza,
fin da subito, produce, seppur per un breve periodo, effetti sulla
sua attività. In particolare, l'interesse per il Puntinismo
si focalizza sui concetti relativi al tipico uso e scomposizione del
colore e sull'insistita resa della luce. Il richiamo esercitato
dalle nuove teorie sull'ottica, però, non afferisce all'aspetto
più strettamente scientifico, come la corrente francese
rigorosamente vuole, piuttosto è di tipo stilistico-formale (in
questo senso l'esercizio che fa Munch è più assimilabile al Divisionismo
italiano, piuttosto che non al Neo-Impressionismo
d'Oltralpe).
Si
noti, infine, che, in Norvegia, istanze di tipo cromo-luministe sono
recepite già a partire dal 1886, ma solo dopo il secondo soggiorno
parigino il pittore si cimenta nella nuova tecnica proponendo stesure
pittoriche tipiche del movimento, fuse ad un inedito effetto di
vitalità e dinamismo della superficie, derivante soprattutto dalla
pittura emozionale di Van Gogh.
Il
Simbolismo di Notte
a Saint Cloud
Tra
il 1889 e il 1890, Munch si avvicina al Simbolismo
europeo, per l'artista il movimento implica una forma profondamente
intima, personale e mistica di esplorazione della condizione umana:
la sua opera, già nutrita di suggestioni derivanti dai pittori
francesi, si arricchisce di rimandi ed allusioni .
Ai temi prediletti di Toulouse (legati alla condizione umana di
coloro che vivono ai margini della società), affianca, una tecnica
coloristica che, a partire dalla sperimentazione cromo-luministica,
si unisce in un fare pittorico mutuato idealmente dai due
“confratelli di Arles”, anche se con asperità maggiori: l'uso
del colore si fa ancora più espressivo, travalica, fortifica e
consolida la potenza e il temperamento delle tele di Van Gogh (il cui ductus
pittorico riempie di pittura densa e violenta i suoi quadri) e di
Gauguin (la cui maniera palpitante si alimenta della decoratività
del cloisonné,
di segni curvilinei e di larghe campiture cromatiche, tipiche del Sintetismo).
Il
Norvegese, esasperando la pastosità dei pigmenti e, allo stesso
tempo, diluendone la corposità, raggiunge una fusione quasi totale
tra ambientazione e soggetti ritratti, questi ultimi lentamente, ma
profondamente, mutano aspetto ed assumono fattezze più o meno
spettrali. Uno dei primi risultati di quest'inedito esercizio è Notte
a St. Cloud,
(fig. 5) ,
Fig. 5 - EDVARD MUNCH, Notte a St. Cloud, 1890
olio su tela, 64,5 X 54 cm., NasjonalMuseet, Oslo
Foto cortesia di Giorgia Duò
forse il quadro più significativo dipinto nel sobborgo
parigino .
Per una parte della critica l'opera alluderebbe alla scomparsa del
genitore e rappresenterebbe l'ennesimo tentativo di elaborare il
dolore della perdita sulla tela.
Suo
padre, Christian, infatti, è morto da poco meno di un anno, tra i
due c'è sempre stato un rapporto difficile, d'incomunicabilità e
di estrema conflittualità, il lutto, però, fa cadere il maestro
nello stato di intima e profonda depressione che affiora ed
aleggia nel quadro: all'interno della stanza, immersa nella
penombra, permeata da un'atmosfera triste e malinconica, suggerita
da malcelate simbologie (come la croce proiettata a terra) e dal
predominare di una tavolozza prevalentemente bicroma nei toni
dell'azzurro e del marrone, Munch si ritrae mestamente nelle vesti
del genitore scomparso, «(...)
quando era seduto nell'angolo del canapé davanti alla finestra /
nel fumo bluastro del tabacco» ,
diventandone l'alter
ego
se non la nemesi. L'uomo, o piuttosto la sua ombra, emerge
incorporeo, in secondo piano, e si staglia evanescente contro una
finestra. I tratti del protagonista, assorto nei suoi pensieri, si
fondono nel colore denso del divano, alludendo ad un'esistenza che
sopravvive soltanto nei ricordi del figlio .
Il
pittore dà forma alle magmatiche sensazioni della sua psiche
partendo dall'esperienza atmosferica di tipo francese: crea, però,
un ambiente dall'aurea apparentemente impalpabile, caratterizzata
da un tratto soffice e lieve, che traduce l'angoscia e le pulsioni
interiori, ma che non ha nulla della leggerezza o della felicità dei
soggetti impressionisti o sintetisti, né delle effimere atmosfere
mondane parigine. La cornice entro cui scorgiamo la pensierosa
figura, seduta controlume, si delinea, piuttosto, pregna di gravità
e ricca di richiami ed allusioni. Un senso di inquietudine interiore
e di angoscia pervade la tela, e i timori e le paure, frutto della
fantasia afflitta del maestro, prendono forma nella mente del
pubblico .
La luce della luna proietta nella stanza la doppia croce degli
infissi (ossessivo raddoppiamento di un simbolo di morte che chiude a
tenaglia uno spazio dilatato dalla diagonale prospettica, ma
soffocato dalle tende), mentre fuori dalla finestra, nel tremolio
incerto ed effimero delle barche sul fiume, si avverte quel senso di
fugacità come condanna di tutta l'umanità .
L'inquadratura
obliqua, di tipo fotografico, rinvia alla lezione appresa da Degas e
Lautrec, ma mentre nei francesi, è atta a creare un coinvolgimento
ed una partecipazione fisica alla vicenda descritta, serve, cioè, a
far entrare il pubblico nell'opera in modo privilegiato,
mantenendo, però, lo status
di spettatore, il taglio trasversale, in Munch, diventa funzionale
ad altro, realizza, cioè, uno spazio circoscritto di tipo ansiogeno,
posto ad una distanza tangibile dal riguardante, entro cui l'ignaro
testimone si trova suo malgrado proiettato, come un co-protagonista
costretto a vivere quel senso di impotenza, di afflizione ed ansietà
derivanti dal disagio della prossimità .
Si
noti, infine, la restituzione sommaria, senza precedenti nelle
esperienze d'avanguardia parigine, della figura che risulta, ad
ogni evidenza, da un'esasperazione del tratteggio cromatico di
Monet.
Nel
1890, partecipa, con una decina di lavori, tra cui Notte
a St Cloud
(fig. 5) e Primavera,
al Salon
d'Automne di
Kristiania ;
le tele, contraddistinte dai citati esiti nella stesura pittorica,
sono genericamente e superficialmente, ascritte dalla critica al Neo-impressionismo
e, esposte accanto ai quadri di Monet, Degas e Pisarro, ottengono
critiche molto positive, Notte
è valutato dalla stampa come il risultato più promettente del
soggiorno estero del pittore. Nella successiva edizione, del 1891,
presenta il quadro Notte
a Nizza
(1891, olio su tela, 48×54 cm, NasjonalMuseet,
Oslo)
che, al termine della mostra, è acquistato, dalla NasjionalGallieret della
capitale per
200 corone. Per
la prima volta,un'istituzione statale acquisisce un'opera del
maestro che entra a far parte di una collezione pubblica!.
Con
le tele successive, l'intensità emotivo-psicologica della sua arte
si rafforza sempre di più. Nei primi anni '90 l'artista, diviso
tra Francia, Norvegia e Germania, dipinge la maggior parte delle tele
che entreranno a far parte del Fregio.
Grazie alle varie esposizioni a cui prende parte e alla grande
potenza delle sue invenzioni, il maestro raggiunge una certa fama
internazionale. Esercita uno stile avanti anni luce al Naturalismo
nordico, e i suoi temi e soggetti sono più articolati e profondi
rispetto alle ultime scie impressioniste e neo-impressioniste.
Durante
le estati del 1890 e del 1892, conosce e frequenta la cerchia di
giovani intellettuali simbolisti norvegesi, formata da poeti (Vilhelm
Krag, Sigbjørn Obstferdere, Trygve Andersen) e dallo storico Thiis.
Il gruppo trova estremamente interessante ed innovativa la pittura
del maestro, intrisa di quel Simbolismo
dilagante nella letteratura di tutta Europa, il cui ductus,
abbiamo visto, derivato dalla linea nervosa e morbida di
Toulouse-Lautrec e da suggestioni coloristiche ascrivibili a Gauguin
e Van Gogh, si arricchisce dei nuovi stimoli derivanti dalla neonata
linea curva dell'Art
Nouveau.
Il fascino provato per il pittore è tale da vedere in lui “l'uomo
nuovo” di Nietzsche, colui che, libero dalle catene del passato, sa
essere protagonista del proprio cammino e si trasforma nel viandante
che si avvia verso la nuova aurora dell'arte .
Il
9 febbraio 1891, George-Albert Aurier (1865-1892), acuto e noto
critico d'arte francese, primo ed unico giornalista ad aver scritto
positivamente di Van Gogh ancora in vita ,
pubblica, sulla rivista “Mercure de France”, l'articolo Le
Symbolisme en Peinture. Paul Gauguin,
in cui il movimento, inteso fino a quel momento come una corrente
squisitamente letteraria, viene, per la prima volta, messo in
relazione all'arte ed alla pittura .
Lo stile praticato in questo momento dal Norvegese, intriso di segni
ed allusioni, nonché nutrito di un uso metaforico ed
antinaturalistico del colore, ricade secondo l'accorto
“articolista” pienamente nella nuova κοινὴ simbolista.
La
“grande svolta”: lo
stile simbolico ed intensamente psicologico del decennio 1891-1901
Già
verso la fine del 1889, Munch sente che, le opere nate dall'intenso
lavoro di esplorazione della propria intimità, alla ricerca di
sentimenti interiori ed esperienze personali, sono decisamente
superate e si imbarca in una nuova ricerca creativa per reinventarsi
come artista. Quando l'Europa si sveglia in un mondo moderno pieno di
cambiamenti, tecnologie, mass
media,
trasporti ad alta velocità, industrializzazione ed urbanizzazione,
il maestro cerca forme espressive idonee a comunicare queste
trasformazioni. Secondo Robert Rosenblum (1927-2006), storico
dell'arte americano specializzato in arte europea dei secoli XIX e
XX, solo Munch avrebbe potuto giungere a rappresentazioni così
intensamente psicologiche: «fra
quei pittori che negli anni intorno al 1890 conducevano a maturità
un'arte che era visivamente ed emozionalmente così potente da
trasformare il mondo laico in immagini dotate di autorità sacra,
nessuno era più grande del norvegese (...). Per il decennio
successivo egli raggiunse tale meta da un'opera all'altra,
elevando le emozioni ad altezze psicologiche così sublimi, da
proporre incisivamente agli astanti le verità di vita, amore e
morte» .
Nell'estate
del 1890, Edvard è di passaggio in Norvegia, con una decina di
opere, decide di partecipare all'Høstutstillingen ,
tra queste presenta la prima versione di Malinconia ,
in cui l'autore affronta il tema della separazione, esposta con il
titolo provvisorio Sera
(1890, olio e pastelli su tela, 73×101 cm,
MunchMuseet,
Oslo) .
Il
rapporto con la madre patria, da sempre difficoltoso, permane tale:
la giuria di artisti del Salon, a dispetto della notorietà riconosciuta al pittore a
livello
internazionale, nei suoi confronti si dimostra ancora sostanzialmente
chiusa e il pubblico locale, troppo provinciale e culturalmente
arretrato, non lo comprende, d'altronde, non apprezza neanche quei
fenomeni ed atteggiamenti d'avanguardia che si stanno diffondendo
in tutta Europa. Le reazioni sono complessivamente negative: l'intera
stampa dalle colonne dei principali giornali cittadini sminuisce e
ridicolizza il suo lavoro ritenendolo stravagante .
Werenskiold seguita ad essere critico nei suoi riguardi e gli
rimprovera ancora “le cose ... lasciate a metà: i colori a olio e
i pastelli spalmati tra loro e spesso e volentieri grandi parti di
tela non sono dipinte» .
F. Thaulow, dalle pagine del “Dagbladet”, in riferimento alla
tela, la dice incompiuta ed offensiva “per la sua goffaggine»
(17 dicembre 1891) .
Aubert reputa l'invenzione “come suggerimento” bella e
percepisce che essa sia, per semplificazione formale e trattamento
della superficie, un “un cambio di direzione” che preannuncia una
visione più grande .
Solo Krohg, che, assieme alla moglie Oda, ha posato per la coppia
sullo sfondo del quadro, si esprime favorevolmente, lo dice “un
dipinto davvero commovente, è solenne e quasi religioso» .
La
tela segna emblematicamente il termine della fase di ricerca e
sperimentazione, iniziata anni prima con la Fanciulla
malata
(fig. 1) e continuata attraverso Notte
a Saint-Cloud (fig.
5) fino a Sera,
in tutte le sue versioni (fig. 6).
Fig. 6 - EDVARD MUNCH, Malinconia, 1894-1896
olio su tela, 81 X 105.5 cm., Bergen KunstMuseene, Bergen
Foto cortesia di Giorgia Duò
Da ultimo, gli sforzi profusi in anni di intense riflessioni
scritte e ricerche artistiche, dentro e fuori i soggetti e nei
materiali utilizzati, danno i risultati ricercati, Munch sente di
essere riuscito ad imprimere e trasporre pienamente i suoi pensieri, le
sue emozioni e le tensioni perseguite, di aver saputo rivolgersi
direttamente all'animo dell'osservatore “come non aveva ancora
fatto (...). Lui è il primo e il solo che si cimenta con l'idealismo
e che osa fare della natura, del modello (...) i portatori del suo
stato d'animo e così facendo osa di più» .
Soddisfatto dello stile, intenso e psicologico raggiunto, per il
decennio successivo, lo adotterà in tutti i suoi lavori .
L'opera
è ritenuta, a ragione, da Krohg il primo quadro simbolista prodotto
in Norvegia, è
analizzata con puntualità, vi
coglie la grandissima novità legata al senso di armonia musicale,
innestata dalle linee morbide e flessuose del litorale, nonchè la
sinestesia attivata dai colori impiegati. «La
lunga spiaggia si incurva nella pittura per concludersi in una linea
armoniosa. È musica. In un gentile intaglio si tende laggiù contro
l'acqua quieta, con piccole interruzioni discrete, il tetto di una
casa e un albero, di cui molto abilmente il pittore ha omesso di
suggerire pur un singolo ramo, perché ciò avrebbe guastato la
linea. Fuori sull'acqua quieta c'è una barca parallela all'orizzonte
- una magistrale ripetizione della linea di fondo. Dobbiamo
ringraziare Munch se la barca è gialla; se non fosse stata gialla,
egli non avrebbe mai dipinto questo quadro [...] C'è qualcuno che ha
mai sentito un simile suono nel colore come in questa pittura?» .
Tone
Skedsmo (1946-2002), direttore della NasjonalGalleriet dal 1995
al 2000, e Guido Magnaguano (1946-), storico dell'arte svizzero,
curatore, dal 1980 al 2000, della Kunsthaus
di Zurigo, sulla scorta delle parole del giornalista, che si domanda
se ci sia qualcuno che abbia mai sentito «(...)
un simile suono nel colore come in questa pittura (...)»,
portano significativamente l'attenzione sull'insita e manifesta
sinestesia del dipinto e, nel presentarlo alla mostra di Essen del
1987, pongono l'accento sulla qualità dei toni e sull'inedita
funzione evocatrice ad essi affidata .
Quando
Krohg, nel recensire Aften,
mette in evidenza che le tinte impiegate esprimono lo stato d'animo
del protagonista, rileva quel meccanismo simbolico-sinestetico per
cui Munch affida alla pittura il compito di evocare emozioni e
sentimenti. Introdurre colori contrastanti e stridenti diventa per
l'artista lo strumento per rendere in modo palpabile quel senso di
conflittualità che l'uomo, in primo piano, sta vivendo. Il
pubblico non immagina empaticamente, ma avverte fastidiosamente lo
stato emotivo del protagonista che aleggia nel quadro e si diffonde,
sotto forma di malessere ed angoscia. A questo particolare impiego
delle cromie, il maestro, dunque, si affida per una restituzione
precipua e soffocante della condizione psicologica che, fuoriuscendo
dall'interiorità del giovane, si espande a chiunque osservi la
composizione: il verde suscita invidia (Krohg riporta di “un paio
di macchie verdi velenose”), mentre il bianco esprime orrore e il
rosso vergogna .
Il
principio cromatico, sopra descritto, non rappresenta l'unica
novità individuabile nella pittura del Norvegese, che, a partire da
quest'olio, per suscitare sentimenti e disposizioni psicologiche,
affianca un'ulteriore e drastica riduzione dei dettagli e della
μίμησις: alberi, fiori, personaggi e quant'altro non sono
concepiti come oggetti specifici, ma come semplici presenze, tutto
ciò che include nei dipinti non ha alcuna finalità descrittiva,
piuttosto allusiva, per cui abdica ad ogni dettaglio in favore di
macchie di pittura evocatrici. Colori e forme, dunque, non ripetendo
la realtà, assolvono al nuovo compito di esprimere condizioni
interiori e relazioni tra figure .
Lo scarno ed aspro scenario - il sottile e brullo lembo di terra,
sospeso tra il bosco e il mare, attraversato dalla fascia costiera
soggetta alla marea e cosparsa di sabbia e sassi - fa da cornice e,
allo stesso tempo, contribuisce a rivelare lo stato d'animo del
ragazzo, qualificato da una tensione emotiva, su cui incombono i
conflitti interiori che minacciano di esplodere da un momento
all'altro. Indubbiamente, la situazione psicologica del
protagonista influenza l'aspetto e la fisionomia della natura
circostante, arida e spoglia come il suo status
emotivo, di cui è, evidentemente, diretta emanazione. A fronte di
impulsi felici e leggeri, il panorama avrebbe avuto connotazioni di
carattere sensibilmente diverso, certamente positive.
E
allora, nel gioco altalenante tra illusione e realtà, assistiamo
all'estendersi al paesaggio della sofferenza che angoscia
l'umanità: la riva serpeggiante che, snodandosi ad onde e
piroettando sinuosamente tra l'interno e l'esterno, si congiunge
all'orizzonte, agli alberi e alle nuvole, finisce sul pontile di
attracco e crea un'ansiogena profondità prospettica che rimarca la
lontananza fisica e mentale. E se nel 1894, Munch scrive che la
gelosia è «una
lunga riva deserta»
probabilmente ha in mente gli esiti felici ottenuti con il dipinto in
questione, dove, attraverso giochi intellettivi basati su colori,
dettagli e binomi grafico-stilistici, l'artista sa di aver
raggiunto risultati significativi: la tela è diventata il luogo del
ritorno-incontro degli affetti dove ogni singolo particolare
compositivo e/o cromatico è asservito e finalizzato alla ricerca e
rievocazione della giusta atmosfera.
Per
esempio, l'andamento orizzontale e zigzagante della costa,
interrotto ritmicamente da linee verticali (i tronchi e altri
elementi naturali), provoca, nell'osservatore un sottile senso di
disorientamento, non facilmente definibile o individuabile. Oppure,
la prevalenza di forme bidimensionali, ampie, dai contorni
semplificati, al limite della riconoscibilità, rese attraverso
pennellate dense e compatte come il petrolio, di tinte opache, invade
e turba la mente dello spettatore che si sente implicitamente
minacciato da un qualcosa di imprecisato. E ancora, la
tridimensionalità plastica delle sole mani e testa del protagonista,
associata alla profondità spaziale, suggerita dalla linea costiera,
è intimamente percepita in contrapposizione all'incombente e
generale bidimensionalità delle forme. Infine, l'impiego del
principio di complementarietà dei colori di matrice francese, come
l'arancione affiancato al blu, che, esaltando le qualità
cromatiche degli stessi, rivela una palette
cupa, spenta, spesso “insensata”, concorre a infondere le
ricercate sensazioni di tristezza, disperazione e turbamento
dell'animo umano.
In
letteratura esistono diversi interessanti approfondimenti concernenti
il particolare impiego di colori combinato con le novità
stilistiche, che, come abbiamo visto, non è sfuggito neanche al
contemporaneo Krohg.
Hans
Dieter Huber (1953 -), storico dell'arte tedesco, ha analizzato gli
effetti della sua pittura sul pubblico ed ha individuato nella
composizione diverse situazioni significative: il giallo-verde della
foschia è ancora ricondotto alla gelosia, mentre l'irrealistico ed
insensato “serpeggiante blu-viola” della riva, oltre a stabilire
un collegamento tra il malinconico personaggio e la scena del molo,
sembra voler “ammaliare e intrappolare” il protagonista. Nel suo
studio, inoltre, rileva che la palette
adottata, sebbene con toni più spenti e cupi, nelle forme e nella
densità cromatica, delimitate da contorni netti, riflette lo spirito
del Cloissonisme,
appreso a Parigi; infine, il volto del protagonista, ridotto a pochi
tratti, che si staglia su un paesaggio, riesce a rendere concretezza
visiva alla continuità desolata di un sentimento di vuoto, espresso
dalla linea sinuosa della spiaggia e dalle striature di un cielo
nuvoloso .
Anche
la storica dell'arte statunitense, Shelley Wood Cordulack (1948 -
), esperta del maestro, si è concentrata sulla funzione particolare
della tavolozza impiegata: l'insolita spiaggia nera è interpretata
come un elemento di collegamento emotivo e compositivo tra la figura,
anch'essa scura, in primo piano e le sagome torbide sullo sfondo,
un escamotage
per creare una movimento emotivo tra il quadro e lo spettatore che
risulta investito dalla tristezza affiorante dall'opera .
L'articolo
di Krohg è, anche, l'occasione per sottolineare l'ampio divario
tra la “stanca” tradizione pittorica locale, cui egli stesso
appartiene, e l'incedere rivoluzionario del maestro che, privo di
modelli di riferimento nel panorama artistico internazionale, fa da
apripista alle future esperienze delle Avanguardie
Storiche.
Non è un caso che, in
occasione della mostra genovese del 2013, curata da Marc Restellini,
direttore de La
Pinacothèque de Paris,
il critico, intervistato da “Repubblica”, del maestro asserisca: «(...)
un Munch artista che potremmo in qualche modo considerare il
contrario di tutto ciò che esisteva fino ad allora. Munch si oppone
deliberatamente a ciò che vede e conosce. In una logica quasi
anarchica, si mette in contrasto con l'impressionismo, il simbolismo,
il naturalismo per inventarsi una forma di espressione artistica in
rivolta contro tutto ciò che sin dalla sua infanzia gli è stato
presentato come regola sociale» .
La
tela fa parte del Fregio
della Vita
e si ispira alla storia amorosa, vissuta, nell'estate del 1889, tra
la moglie di Krohg, Oda, e il giovane poeta-giornalista Jappe Jacob
Nilssen, ambientata nella cornice paesaggistica della fascia
costiera, del versante occidentale del fiordo di Kristiania, presso
nota la cittadina di Åsgårdstrand, davanti alla tenuta estiva del
pittore, la cui abitazione compare anche sullo sfondo, e dove
successivamente, nel 1898, il Nostro acquista il cottage
che trasformerà in casa-studio, in cui poi lavorerà fino al
trasferimento ad Eklely .
L'ambientazione, il litorale sinuoso di pochi chilometri, che
unisce i boschi di Borre a nord al pittoresco paesino a sud e che
costituisce lo sfondo di questa ed altre opere tra le più celebri
dipinte negli anni Novanta dal maestro ,
rappresenta una sorta di costante nella produzione del periodo, «sulla
riva – scrive Matthias Arnold (1947 - ), storico dell'arte
tedesco e conferenziere - i personaggi sono raffigurati soli o in
coppia, seppur isolati l'uno rispetto all'altro e guardano il
mare, specchio delle loro anime» .
Tra il mare, le cui acque sono segnate da una cintura di marea più
scura, e la foresta, l'autore delinea, con un movimento della
pennellata che catalizza l'attenzione dell'osservatore verso
l'orizzonte, una spiaggia desolata e desolante di sabbia e sassi,
funzionale alla resa dei sentimenti reconditi del soggetto in primo
piano.
In
lontananza, su un piccolo attracco, è dipinto l'arrivo di una
coppia con una terza persona, appena scesi da una barca, o in
procinto di salire, mentre, in primo piano, seduta sulla spiaggia, è
la figura solitaria di uomo, afflitta e pensierosa, mentre si
sostiene il capo con la mano. Trattasi, probabilmente, di Jappe
stesso, l'amante tormentato, preda della gelosia all'idea che la
donna sia in compagnia del marito . La soluzione compositiva, per cui la figura del
protagonista è
spinta nell'angolo in basso, ritiene Øivind Storm Bjerke (1953 -),
storico dell'arte norvegese, docente all'Università di Oslo ed
esperto del maestro, ci permette di interpretare quanto avviene sullo
sfondo come proiezione dei timori dell'uomo, offuscati da
un'irrazionale possessività .
Il dramma sembra, infatti, concretizzarsi, come nei fumetti,
nell'emanazione del pensiero sconsolante del giovane che, nella
tradizionale posizione della Malinconia,
come
suggerito dall'Heller, ne ripete l'atteggiamento, e, non
riuscendo a liberarsi dall'assillo della materializzazione,
comunica un senso di grande ed appassionato dolore (Albrecht Dürer, Melencolia
I,
1514, incisione, 23,9×18,9 cm, Staatliche
Kunsthalle,
Karisruhe) .
Si
tratterebbe, quindi, non di una scena realmente accaduta, ma di un
costrutto mentale, frutto dell'immaginazione tormentata
dell'innamorato, accecato dalla gelosia che, in un impeto di
follia, evoca la visione soffocante dei due .
In questo senso l'olio diventa strumento di una “doppia
esposizione”, una fenomenologica, il paesaggio naturalistico
costiero, che ritorna insistentemente in molte tele del periodo, e
una mentale, testimone dello stato emotivo interiore. E, pur
trattandosi di una passione appresa per interposta persona, il
coinvolgimento sentimentale manifestato da Munch nella tela è
sensibilmente profondo ed intenso: nell'insopportabile e straziante
vicenda amorosa tra il ventunenne Jappe e Oda, più vecchia di lui di
10 anni, il maestro, plausibilmente, rivive anche la dolorosa
esperienza provata con Milly (anche lei più grande e sposata) .
E allora ecco che dal quadro emerge un complicato doppio triangolo
sentimentale dal quale riaffiora con insistenza quella sofferenza
patita, condivisa con Nilssen e solo momentaneamente sopita .
Dal
punto di vista compositivo, l'invenzione, che secondo lo storico
dell'arte tedesco Ulf Küster (1966 - ), si affida all'espediente
teatrale della teicoscopia
,
nel mostrare forme semplificate e asciutte, al limite della
stilizzazione, che contribuiscono ad esprimere la solitudine, il
vuoto e la malinconia del personaggio in primo piano, sommariamente
descritto, al punto da mancare di «naso,
orecchio e bocca» ,
che anela e si proietta mentalmente verso l'irraggiungibile coppia
sullo sfondo ,
si ispira, stilisticamente, al Sintetismo
di Gauguin.
Si
noti che per la prima volta, fa la sua comparsa quella linea ondulata
ed avvolgente, tipica dell'Urlo
(fig.
8) e della nuova tendenza Liberty,
che delinea ed allo stesso tempo unisce, in una fusione emotiva
incalzante, l'uomo al paesaggio.
Nel
tempo, si è detto, la Serie
si è sviluppata secondo due modelli compositivi distinti e
paralleli: nell'iniziale elaborazione a pastello la figura maschile
in primo piano, a mezzo busto, secondo la posa tradizionale della
malinconia, ha lo sguardo rivolto verso sinistra (Malinconia
o Sera, 1890,
olio e pastelli su tela, 73×101 cm,
MunchMuseet,
Oslo) .
Poi, forse già nel 1891, al più tardi entro il 1892, il maestro
elabora una seconda versione in cui il protagonista, ridotto ad una
testa solitaria, è voltato specularmente verso l'osservatore
(Malinconia, 1891-1892 (?), olio su tela, 64×96 cm,
NasjonalMuseet,
Oslo) .
Infine, tra nel 1893 e il 1896, lo schema originario viene ripreso e
riproposto, con tecniche pittoriche diverse, in altre tele (fig. 6).
Le
reazioni alle pitture sono, abbiamo visto, complessivamente negative,
ma il magnetismo esercitato dalla critica di Krohg non lascia
indifferente Adelsteen Normann (1848-1918), pittore norvegese,
appartenente alla fronda berlinese, che, in vacanza nella capitale,
si concede una visita al Salon,
creando, come vedremo, l'occasione per la definitiva affermazione
artistica di Munch in campo internazionale. Non compreso ed
amareggiato, torna a girovagare per l'Europa. L'anno successivo,
partecipa per l'ultima volta all'Høstutstillingen,
e la Galleria
Nazionale della Norvegia acquista
il dipinto Notte
a Nizza,
ma critica e pubblico continuano a riservagli un'accoglienza
piuttosto fredda ed ostile per cui prende la decisione di
allontanarsi definitivamente da Kristiania e di non esporre più in
patria, in situazioni di carattere nazionale; dal 1891 al 1927, anno
in cui, con una personale ospitata nelle sale della NasjonalGalleriet
di Oslo, torna, dopo anni di assenza dai luoghi istituzionali, a
partecipare ad una mostra di Stato, il maestro rientra solo per
esposizioni presso contesti privati .
Nel
1892, si divide tra Francia, Germania e Norvegia. Inizialmente
raggiunge Nizza, dove lavora alla prima versione del Bacio
con finestra (1892,
olio su tela, 73×92 cm, NasjonalMuseet,
Oslo). Del 1897 è la variante del MunchMuseet
(fig. 7).
Fig. 7 - EDVARD MUNCH, Bacio con finestra, 1897
olio su tela, 99 X 81 cm., MunchMuseet, Oslo
Foto cortesia di Giorgia Duò
Anche questo dipinto, facente parte del Fregio,
viene ripetutamente rielaborato in diversi esemplari fino agli inizi
del ‘900; si realizza nell'esasperata ed ingovernabile
tensione tra il desiderio e la paura di amare e
raffigura un bacio intenso, privo di connotazione positiva, tra un
uomo e una donna, senza identità, immersi in un'atmosfera
psicologica ricca di ambiguità. La tela comunica con grande
efficacia un generico senso di inquietudine ed angoscia, nonché
ribadisce il pensiero di misoginia maturato negli anni dall'artista
nei confronti dell'altro sesso. La presentazione critica del
dipinto, connotata da quel senso di ginecofobia, condiviso
genericamente da molti ambienti intellettuali, è scritta dall'amico
Strindberg, convinto e fervente antifemminista, con cui l'artista,
in questo periodo, ha proficui, profondi e significativi contatti: «La
fusione di due esseri umani, di cui quello più piccolo, nelle
sembianze di una carpa, sembra sul punto di divorare il più grande,
secondo l'abitudine dei parassiti, dei microbi, dei vampiri e delle
donne» .
Le passate e penose esperienze amorose plasmano evidentemente quella
visione negativa che, influenzata anche dalle confidenze di amici e
conoscenti, emerge potentemente dalla tela e lascia nel riguardante
lo straziante senso di ineluttabile abbandono e di infelicità. La
dichiarazione lapidaria di impossibilità di un lieto fine,
accompagnata dalla sensazione di solitudine, tocca e blocca il
pubblico, incapace di opporsi o reagire, perché ogni relazione
amorosa, sembra affermare l'opera, è destinata a finire sempre e a
lasciare i due amanti sfiniti e disperati.
L'opera
è costruita sui toni freddi del blu, una luce diffusa che rinvia
alle tipiche atmosfere nordiche, e si delinea, in un gioco di
contrasti, fra illuminazione esterna ed interna, in un significativo
dualismo fra il silenzioso mondo senza tempo della modesta e
disadorna stanza, nella quale i due amanti si fondono
nell'interminabile bacio, e l'animata e movimentata vita della
sottostante strada che rischiara un angolo della finestra.
La
superficie pittorica presenta un trattamento del colore vibrante e,
allo stesso tempo, sfaldato nella compattezza cromatica, così
facendo il Nostro riesce a comunicare, con una certa carica
espressiva, quel timore, quel freno e quell'incapacità di
abbandonarsi completamente al sentimento amoroso.
Non
trapela alcun riferimento alle identità dei due, la coppia,
decentrata, rispetto alla composizione, e relegata in uno spazio a
margine del quadro, circostanza che genera un certo alone di mistero
e clandestinità, non è riconoscibile né fisicamente (i volti sono
nascosti nell'ombra) né socialmente (potrebbero essere due sposi, ma
anche amanti furtivi). Uniti in un abbraccio appassionato,
ma infelice, tra loro non si avverte né tenerezza, né complicità,
sono diventati due corpi fusi in una massa informe ed esprimono solo
una struggente rassegnazione rispetto ad un destino ineludibile e ad
un doloroso senso di solitudine. Solo uno sguardo poco attento
vedrebbe nel dipinto un momento d'amore felice: la coppia si
stringe e si strugge in un tentativo di annullamento delle reciproche
individualità; il lungo abbraccio diventa, allora, l'estremo
sforzo volto a ritardare l'inevitabile addio, un anelito di fuga
dal dolore della realtà, rappresentata dalla grande e minacciosa
finestra che, incombente alle loro spalle, allude all'inevitabilità
della separazione. E mentre il più noto Bacio
di Klimt (1907-1908, olio su tela, 180×180 cm, Galleria
del Belvedere,
Vienna), racconta visivamente il contatto e il legame tra un uomo e
una donna, il soggetto del quadro di Munch è tutt'altro, ossia, la
potente tensione emotiva provata per l'imminente ed annunciato
distacco tra coloro predestinati, che, trattenendosi con forza
appassionata, in un impeto di unione, procrastinano inutilmente il
momento dell'incombente commiato, tentando di ritardare invano
l'irrinunciabile verità.
L'amore,
nella vita e nell'arte, è, dunque, in Munch, un sentimento
travagliato, destinato sempre a fallire, di cui non si può fare a
meno, ma che comporta solo una profonda pena .
Nella visione tragica del maestro, amare una donna significa
soffrire, pertanto, se rari sono i momenti felici vissuti in
coppia, altrettanto inconsueti sono i dipinti in cui il legame
amoroso è connotato da serenità o privo di dolor-panico.
Un
Urlo
senza fine che dalla mente del maestro si estende a tutta l'umanità
Nella
primavera del 1892, mentre l'artista si trova ancora a Nizza,
concepisce il suo capolavoro più celebre, che, ispirato a
un'esperienza realmente vissuta, in una fresca serata estiva,
durante una vacanza a Kristiania, e testimoniata in diversi passi del Diario,
viene alla luce solo nel tardo autunno del 1893:
l'Urlo (fig.
8) .
Fig. 8 - EDVARD MUNCH, Urlo, 1893-1910
tempera, pastello su cartone, 91 X 73,5 cm.
Galleria Nazionale, Oslo
Foto cortesia di Giorgia Duò
L'invenzione,
ritenuta a torto, sintesi di tutta la pittura e la personalità del
maestro, è diventata, per il suo potente e travolgente carico
emotivo-emozionale, metafora, del dramma di fine secolo, latrice di
quell'impossibilità a comunicare, della solitudine, dell'angoscia
interiore e del profondo disagio che esplodono ed atterriscono, come
un incubo senza fine ogni creatura vivente.
Il
critico e accademico Achille Bonito Oliva (1939 - ), associa
emblematicamente l'opera alla sentenza schopenhaueriana «il
mondo stesso è il giudizio Universale» ,
intendendo il dipinto come la manifestazione delle conseguenze e
degli effetti immediati delle proprie azioni in questa (o altre) vite .
Nessuno
è stato in grado di rendere, in una sola immagine, in modo così
energico, palpabile ed iconico, l'ansia e l'alienazione moderne, al
punto da diventare una delle più celebri tele della storia
dell'arte, che ispira fumetti, poster, parodie e pubblicità .
Nel
2021, i curatori del NasjonalMuseet
hanno commissionato una indagine tecnica sulla prima versione del Grido
(fig. 8),
su cui, nell'angolo in alto a sinistra, è presente la frase
manoscritta a penna inglese: «Can
only have been painted by a madman».
Per molti anni la frase è stata ritenuta vandalica, di mano di un
visitatore, una scrittura apposta da un detrattore del maestro. In
seguito alle attente indagini dei tecnici ed all'accurato confronto
con la grafia del Nostro, si è scoperto, invece, che è stato
l'artista stesso ad apporre la misteriosa frase, dopo che, nel
1895, secondo Mai Britt Guleng (senior
curator
del Museo),
il quadro, esposto, per la prima volta in patria, presso la Galleria
d'arte Blomqvist,
viene pubblicamente dileggiato .
Il pittore, probabilmente amareggiato dalle critiche molto caustiche,
tra cui quelle di Scharffenberg, lo studente di medicina, che avrebbe
ipotizzato una malattia mentale per l'autore, potrebbe aver voluto
esorcizzare i commenti sferzanti ascrivendo sul dipinto le parole
“epigrafiche”. Che si tratti di un modo per sminuire giudizi a
cui non crede, è sostenuto anche da alcune annotazioni diaristiche,
in cui il maestro, riconducendo la sua arte alle proprie vicende familiari,
conclude che essa non sia malata, piuttosto, al contrario,
espressione di sanità, in quanto far affiorare certe emozioni sulla
tela equivale a trasmettere insegnamenti di vita, su come affrontare
momenti di avversità. «Mio
nonno il prevosto – scrive, infatti, nel Diario
- è morto di stenosi spinale / (...) mio padre ha ereditato il suo
nervosismo morboso e la sua ferocia / Le stesse (sottinteso
patologie) che si sono sviluppate in noi bambini. / Non credo quindi
che la mia arte sia malata / come Scharffenberg e molte
altre persone pensano. Ci sono persone che non capiscono
l'essenza dell'arte e non conoscono nemmeno la storia dell'arte. /
Quando dipingo la malattia e il vizio, è l'opposto, una sana
liberazione. È una reazione sana da cui si può imparare e vivere
(...)» .
Il
quadro conclude la terza area del Fregio
- Paura
di vivere - ed
è espressione di un rinnovato linguaggio comunicativo, più maturo e
paradigmatico, in grado di manifestare con efficacia quell'intimo
timor panico divenuto universale.
Rispetto
alla produzione precedente, in cui gli impulsi risultano ancora
contenuti nella capacità di coinvolgere ed arrivare al pubblico,
l'opera si fa significativamente più vivida e palpitante e il
messaggio di terrore e sgomento diviene totalizzante. Con uno stile
nuovo, inedito, stilisticamente radicale e drastico, il
maestro riesce a catturare completamente l'attenzione e gli affetti
dello spettatore che, proiettato in uno spazio irreale (simulato da
onde di colore e da minacciose lingue di fuoco, evocanti un'atmosfera
di angoscia), per il tramite del contatto visivo, stabilito portando
efficacemente il protagonista in primissimo piano, si sente
attivamente coinvolto e risponde con un'immediata reazione emotiva,
voluta e ricercata dal pittore, che evita, ancora una volta,
l'ottocentesca contemplazione estatica. Così operando Edvard
trasferisce quel profondo senso di disagio, che conduce il pubblico a
sentire, reagire ed essere.
Il
dipinto è anche l'occasione per misurarsi con la diffusa e quasi
consumata tematica della rappresentazione dell'angoscia nei nuovi
contesti urbani della letteratura nordica. Secondo le teorie
sviluppate e divulgate nei circoli intellettuali frequentati, il
costante e progressivo sorgere di fenomeni di ansia ed inquietudine è
connesso con lo sviluppo della civiltà moderna e con la nascita dei
recenti luoghi metropolitani, legati ad una società cittadina sempre
più individualista,
indifferente ed alienata . In quest'ottica di denuncia sociale il Grido
è preannunciato da Serata
sul Corso Karl Johann
(fig. 3). In
esso ritroviamo, in anticipo di circa un anno, espressi in
nuce
l'angoscia di vivere, il senso di isolamento e di indifferenza,
manifestati superbamente dal protagonista della più famosa
composizione .
L'Urlo
raffigura un individuo non-individuo in piena costernazione, per uno
stridore diffuso, avvolgente ed insopportabile emesso dall'universo.
Al grido di attacco della natura l'uomo, cerca di difendersi
coprendosi le orecchie ed emettendo, a sua volta, un contro-urlo
disperato, sordo e soffocato che rivela la vulnerabilità del
soggetto-umanità, di fronte alle avversità della vita .
Nel
quadro il maestro sancisce la definitiva rottura dell'utopica
armonia primordiale tra la natura e l'uomo, condannato a vivere
nell'indifferente ed orrifica solitudine (l'esclusione del
protagonista), nel disinteresse insensibile della società (la coppia
di amici in lontananza, alla fine del ponte, ignara, inconsapevole o
volutamente noncurante del disagio del primo) e nell'incomunicabilità
tra pari (il grido muto, silenzioso ed inascoltato contro il disagio
causato dalla natura).
I
due personaggi, sullo sfondo, interpretano la falsità del
comportamento della società nel più ampio contesto dei rapporti
umani, che, a dispetto della condizione confusionale ed allucinata
del protagonista, consunto e bloccato dal dolore, sia metaforicamente
e che materialmente, continuano freddamente a camminare, nella
completa indifferenza per la sua condizione, per cui non lo aiutano
né lo aspettano .
E allora vediamo che l'Urlo
munchiano diventa il grido universale contro il silenzio codardo e
pavido dell'intera società contemporanea.
Le
soluzioni compositive anti-naturalistiche e la tecnica espressiva,
fatta di linee e colori particolarmente intensi, rendono, supportano
e rivelano il messaggio perseguito dal maestro. L'insidiosa e
viscida natura circostante si muove lentamente, ma inesorabilmente,
cerca di risucchiare la figura-umanità, la cui sagoma sta già per
sparire, inghiottita nelle linee espressive del colore del paesaggio
che consuma ogni cosa mutando tutto in un groviglio di densa pittura.
L'ostile scenario, originato nella parte inferiore della
composizione, è realizzato con pennellate nervose, lunghe e
filamentose, alternate a tocchi di colore distorti, sommari,
vigorosi, materici e dinamici, ossessivamente ripetuti, con pigmenti
diversi, secondo un andamento che traccia e sottolinea la traiettoria
del propagarsi delle simboliche onde sonore che devastano la psiche
del soggetto.
La
ridotta, accesa, violenta e stridente
palette
cromatica contribuisce a rivelare l'anima ed ad intensificare
l'emotività del contenuto: le tinte dense e spettrali e gli
accostamenti complementari esaltano le qualità coloristiche
dell'invenzione che, indifferente alla μίμησις, rivela
quello stato di malessere generale legato alla difficoltà di vivere
e al profondo dolore panico .
La
scena è dominata da un volto deformato
e sfigurato, ridotto a mero teschio, spogliato da qualsiasi elemento
fisiognomico-identitario, irriconoscibile per genere ed età, immerso
in un ambiente inconoscibile, riconducibile alle sole fibre di
pittura filamentosa, il cui andamento suggerisce il propagarsi dello
strillo della natura che atterrisce l'uomo e l'umanità. Ha gli
occhi sbarrati ed esterrefatti, la bocca deformata in un grido muto,
le mani sulle orecchie, in gesto di difesa, e il corpo, privo di
fisicità, che sta per diventare colore e fondersi con il paesaggio
cannibale .
Il
tutto evoca emozioni e sensazioni intime e recondite, restituisce
quel cogente senso del dramma in atto (la consapevolezza e presa di
coscienza della solitudine assoluta a cui tutti sono destinati) e
rivela l'animo agitato del protagonista, le cui forme, ancorché
semplificate, ridotte all'essenziale e deformate, pur disfacendosi
nell'angoscia profonda del sordo urlo, formalmente rimangono tali.
Non c'è astrazione, ma solo uno sfrontato anti-naturalismo,
suggerito probabilmente dalla visione di una mummia maya, dal volto
scarnificato (Chachapoya
mummy, Musee de l'Homme,
Parigi), che probabilmente ispira anche l'opera di Paul Gauguin Da
dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?
(1897, olio su tela, 139,1×374,6 cm, Museum of Fine Arts,
Boston) .
Il linguaggio, dunque, abdica al senso mimetico delle cose, ma rimane
ancora figurativo .
Dal Diario
apprendiamo che l'opera nasce da un'esperienza personale, una
vicenda di panico e malessere vissuta direttamente, durante
un'escursione naturalistica estiva, nei pressi di Kristiania; da
uno dei punti panoramici più belli della città, improvvisamente
l'artista avverte quel fragore lacerante che diventa il soggetto
della composizione: «Una
sera camminavo lungo un viottolo in collina nei pressi di Kristiania
- con due compagni. Era il periodo in cui la vita aveva ridotto a
brandelli la mia anima. Il sole calava - si era immerso fiammeggiando
sotto l'orizzonte. Sembrava una spada infuocata di sangue che
tagliasse la volta celeste. Il cielo era di sangue - sezionato in
strisce di fuoco - le pareti rocciose infondevano un blu profondo al
fiordo - scolorandolo in azzurro freddo, giallo e rosso - Esplodeva
il rosso sanguinante - lungo il sentiero e il corrimano - mentre i
miei amici assumevano un pallore luminescente - ho avvertito un
grande urlo ho udito, realmente, un grande urlo - i colori della
natura - mandavano in pezzi le sue linee - le linee e i colori
risuonavano vibrando - queste oscillazioni della vita non solo
costringevano i miei occhi a oscillare ma imprimevano altrettante
oscillazioni alle orecchie - perché io realmente ho udito quell'urlo
- e poi ho dipinto il quadro L'
Urlo» .
Successivamente, Munch rielabora e riduce il ricordo in un costrutto
sintetico, rintracciabile sulla cornice della versione, in Collezione
privata,
del 1895: «Camminavo
lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si
tinse all'improvviso di rosso sangue. E sentii un soffio di
tristezza. Mi fermai, rimasi in silenzio, mi appoggiai stanco morto
ad una palizzata. Sul fiordo blu-nero e sulla città c'erano sangue
e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io rimasi
indietro tremavo di paura ... Sentivo che un grande urlo infinito
pervadeva la natura. EM» .
Si
tratta, dunque, di una scena fortemente autobiografica, legata ad una
vicenda realmente occorsa, in cui l'artista, stretto tra una
profonda disperazione e una nera inquietudine, si rende
drammaticamente conto della totale mancanza di speranza e della
sofferenza cui è condannata l'intera collettività che non riesce
più a sentire la presenza di Dio.
Il
quadro, nelle sue diverse versioni, rappresenta ancora una volta un
laboratorio di ricerca, uno strumento di studio e perfezionamento in
continuum.
I vari esemplari si diversificano per tecnica e per combinazioni
cromatico-pittoriche, in particolare quella di Oslo del 1910 (fig.
8), dipinto su cartoncino, con una mistura di tempere all'uovo e a
pastello e altri materiali delicati e sperimentali
sta dando, da tempo, svariati problemi conservativi, che, aggravati
dalla consueta pratica della “cura da cavallo”, in cui il
maestro, abbiamo detto più volte, crede molto, non consentono,
almeno fino ad ora, una regolare esposizione da parte
dell'istituzione proprietaria .
Di
recente, però, un team
internazionale coordinato dal nostro CNR
di Perugia, in collaborazione con alcune Università straniere, il MunchMuseet
e alcuni enti di ricerca e diagnostica, ha pubblicato uno studio su Science
Advances in
cui si dichiara di aver individuato la soluzione ai noti problemi di
scolorimento del quadro: non sarebbe la luce, come si è sempre
creduto, il principale fattore di degrado dei pigmenti gialli di
cadmio (motivo per cui l'esposizione al pubblico è stata a lungo
fortemente contingentata), bensì l'umidità .
Grazie ad esami non invasivi effettuati sul quadro ,
la ricerca è stata in grado di fornire ai conservatori del Museo
indicazioni precise e di massima sicurezza per poter esibire in
maniera continuativa e in tutta tranquillità il dipinto .
Il
ponte su cui si svolge la scena del Grido
e che crea profondità prospettica, è lo stesso su cui l'autore
ambienta un altro importante quadro, ritenuto un fondamentale
precedente all'invenzione munchiana: Disperazione
(1892, olio su tela, 92×67 cm, ThielskaGalleriet,
Stoccolma) .
L'opera precede di circa un anno l'Urlo
ed è, per una parte della critica, una primordiale riflessione sulla
condizione d'angoscia umana, che attanaglia la società di fine
secolo e che accomuna tutte le classi sociali senza eccezioni,
espressa più compiutamente nella famosa composizione Skrik.
Per altri, invece, si tratterebbe di una tarda versione del soggetto
noto come Malinconia
(fig. 6), talvolta esposto con il titolo di Disperazione,
che rappresenterebbe la figura di Jappe sotto il cielo rosso
fiammeggiante dell'Urlo
e costituirebbe un tassello aggiuntivo alla storia della Serie,
a cui, però, secondo l'Heller, mancherebbero l'intensità
psicologica e l'efficacia delle composizioni precedenti .
La
scena è dominata da un individuo isolato, dal profilo
imprecisato e imprecisabile, privo di tratti fisionomici ed
espressivi, pura sagoma di colore, senza identità, mentre si
affaccia dalla ringhiera di un ponte su un paesaggio insidioso,
confuso, ostile, tutt'altro che piacevole .
L'uomo sembra dissolversi nei colori della tela, come per affermare
la prevalenza del contenuto intrinseco sull'apparenza;
rievoca la disperazione, come sentimento intimo dell'anima,
per la quale gli altri due soggetti del dipinto nutrono solo
indifferenza. Tra i tre c'è una distanza emotiva incolmabile ed
estrema, procedono simbolicamente verso direzioni opposte. Profondi
sono il dolore e l'isolamento espressi dal protagonista in primo
piano che non vede via di scampo in un mondo senza amore, privo di
opportunità di riscatto e di possibili relazioni sociali vere.
Anche
Disperazione
risulta da un processo osmotico tra immagine e scrittura, nasce dalla
medesima formulazione scritta che ha condotto il maestro
all'elaborazione del Grido .
Munch, dunque, sviluppa l'idea tragica ed assoluta, espressa nel
suo taccuino prima in Disperazione
,
attraverso lo schizzo datato 1892 (fig. 9)
Fig. 9 - EDVARD MUNCH, «Camminavo lungo la strada con due amici»
nota manoscritta con disegno, Munch Skissebok MM T2367
1892, MunchMuseet, Oslo, p. 1
Foto cortesia di Giorgia Duò
e poi nelle diverse versioni dell'Urlo
concepite tra il 1893 e il 1910 (fig. 8).
Il
soggiorno berlinese (1893–1903)
Dopo
la permanenza in Provenza, prima di eleggere Berlino a residenza
stabile, viaggia tra Amburgo, Francoforte, Basilea e Ginevra, torna,
quindi, in Norvegia dove, tra il 14 settembre e il 4 ottobre del
1892, presenta 50 opere al Tostrupgården
di Kristiania. L'evento è, immancabilmente, oggetto di aspre
critiche e scherni, l'11 novembre del 1892, il quotidiano
“Aftenposten”
definisce il maestro “il bizzarro della Norvegia” ,
ma l'esposizione è anche visitata dal connazionale, di stanza in
Germania e membro del Comitato
Espositivo del Verein
Berliner Künstler,
Normann, che, profondamente colpito dai suoi lavori così innovativi
e sperimentali, lo invita, con una lettera, datata 24 settembre, a
presentare i suoi quadri nella sede dell'Associazione
degli artisti berlinesi .
La
mostra, inaugurata il 5 novembre, nella sede della Architektenhaus, in Wilhelmstraße 92,
esibisce 55 tele, summa
del percorso artistico del pittore dagli anni Ottanta agli anni
Novanta . Accanto all'immortale ed ancora discussa Bambina
malata
(fig. 1), l'artista propone opere “innocue”, ma stilisticamente
d'impatto, per tecnica adottata e per impostazione compositiva non
canonica, come Rue
La Fayette
(1891, olio su tela, 92×73 cm, NatjonalMuseet,
Oslo)
assieme a tele più provocatorie ed “immorali”, nel tema e nella
resa, come Il giorno
dopo
(fig. 10) .
Fig. 10 - EDVARD MUNCH, Il giorno dopo, 1894
olio su tela, 115 X 152 cm., NatjonalMuseet, Oslo
Foto cortesia di Giorgia Duò
Fin
dalle primissime ore di apertura, si sollevano voci ed opinioni che
rivelano clamore e scalpore, il pubblico non è evidentemente pronto
ad accogliere la sua arte e l'Associazione
ospitante si spaccata a metà, tra coloro che sostengono la necessità
di andare avanti, rendendosi immediatamente conto di quanta forza
scaturisca dai lavori esposti, e coloro, invece, che, pavidamente,
ritengono di dover fare un passo indietro .
La stampa dell'Impero tedesco battezza l'episodio come Der
Fall Munch
e prende posizione quasi unanime contro l'arte del maestro,
genericamente ascritta alle categorie estetiche del brutto e del
frammentario .
Quando,
il 12 novembre, con una ristretta maggioranza l'esposizione è
forzosamente serrata, alcuni giovani, che appoggiano pienamente il
Norvegese, come reazione alla palese censura, scendono in strada per
condannare l'ignobile atto e per manifestare il loro dissenso, fin
sotto le finestre di chi ne ha richiesto e preteso a gran voce la
chiusura.
Il
maestro, sebbene intimamente ferito nell'orgoglio, nei giorni
seguenti, si dice molto divertito da tutto quel bailamme,
«è
incredibile – annota nei suoi appunti – quanto una cosa innocente
come un dipinto possa creare un simile trambusto» .
I numerosi articoli che, con cadenza quotidiana, appaiono sui
giornali, non fanno altro che aumentare l'attenzione sul suo
lavoro, e, alla fine, lo scandalo e lo scompiglio derivanti hanno la
diretta conseguenza di far conoscere il suo nome nei settori che
contano. I mercanti d'arte lo contattano e gli propongono diverse
esposizioni, Munch diventa, improvvisamente, un artista famoso. Alla
zia Karen scrive che non avrebbe potuto «(...)
avere pubblicità migliore, il mercante d'arte Schultze mi ha
proposto 20 marchi in contanti o altrimenti un terzo delle entrate
quando esporrà i miei quadri a Colonia e Düssenldorf, ho deciso per
il terzo delle entrate (...) questo gran baccano mi diverte» .
Ancorché
chiusa dopo solo una settimana, la personale-scandalo e la
corrispondente campagna denigratoria nei confronti della sua arte
rappresentano una sorta di trampolino di lancio per il Norvegese che
si ritrova proiettato verso una carriera internazionale; nei
successivi due anni, la rassegna gira per l'intera Europa .
I quadri sono spediti, quasi immediatamente, a Düssendorf (presso la Galleria
Eduard Schulte),
quindi, a Colonia, Copenaghen, Dresda e Monaco per poi tornare,
nell'estate del 1893, nella capitale per essere esposti nuovamente
alla Freien
Berliner Kunstausstellung
(presso l'Equitable
Palast),
con un arricchimento di dodici disegni rispetto all'esposizione
originaria . Il
nome Munch diventa sinonimo di artista d'Avanguadia
e si afferma con forza negli ambienti artistici tedeschi più
interessanti, a dispetto di ciò, però, non riesce ancora ad
emanciparsi economicamente, le mostre si moltiplicano, ma vende poco,
a parte qualche acquirente occasionale (l'imprenditore Walther
Rathenau, il diplomatico Harry Graf Kessler, lo storico dell'arte e
avvocato Eberhard von Bodenhausen, i collezionisti Eugen e Arthur
von Franquet, e altri compratori facenti parte della ricca ed
istruita comunità ebraica della città, come lo
storico-letterario e dell'arte Julius Elias), non riesce a
“bucare il mercato” e il reddito derivante dalle alienazioni
rimane piuttosto basso. La maggior parte degli acquirenti e
galleristi, infatti, sebbene aperti a fenomeni d'avanguardia, non
intendono fare affari con un artista così difficile .
Prende,
tuttavia, la decisione di stabilirsi in via definitiva a Berlino,
viaggia ancora molto e spesso, ma mantiene in città la propria
dimora fissa di vita e di lavoro .
La
permanenza nella metropoli, sebbene, abbiamo visto, ancora
provinciale e dominata dal prevalere di posizioni conservatrici, che
non consentono a quelle spinte innovatrici e a quei movimenti
radicali incontrati a Parigi di far breccia, al punto da rendere la
città addirittura meno stimolante di Kristiania, è, comunque, un
momento di grande produttività, molti dei suoi capolavori più
celebri, infatti, vengono alla luce nel triennio 1893-1895.
Affittato
un piccolo studio, inizia a sondare nuove soluzioni stilistiche
attraverso la grafica; sono anni di grande sperimentazione creativa,
si avvicina ai procedimenti tecnici a stampa (acquaforte, xilografia
e litografia), che faranno di lui l'incisore più importante del XX
secolo e che gli consentono di lavorare a nuove versioni di alcuni
dei suoi soggetti più cari e noti .
Produce anche le prime litografie e xilografie a colori .
Al contempo, però, inizia un lungo periodo di crisi ed instabilità,
la sua vita si fa sempre più sregolata, nevrotica ed eccessiva, è
solito iniziare a bere sin dalle prime ore del mattino, per poi
cadere in uno stato di profonda malinconia; l'abuso di fumo,
alcolici ed etere gli provoca gravi scompensi che, uniti a tendenze
psichiche depressive e violente, lo espongono a litigi e risse da
bar, fino quando, agli inizi di ottobre del 1908, mentre si trova a
Copenhagen per l'allestimento dell'ennesima mostra, in preda ad
un tracollo psicotico, sceglie di farsi ricoverare volontariamente in
una clinica privata, dove rimane ben 8 mesi, e da cui uscirà una
persona rinata .
A
Berlino, a partire dal 1892, prende a frequentare un animato circolo
letterario di intellettuali, artisti, scrittori, anestesisti,
sedicenti medici, satanisti e scienziati d'avanguardia, alcuni dei
quali connazionali ,
che si vede abitualmente presso la taverna Türkes
Weinhandlung,
ribattezzata Zum
Schwarzen Ferkel
(Al
Maialino Nero),
all'angolo tra il Viale Unter den Linden e la Neue WilhelmStraße .
Di questo vitale, creativo, intellettualmente frizzante, nonché
distruttivo momento fatto di incontri disparati, discussioni
infuocate, copiose bevute e abuso di sostanze poco note (prende a
sperimentare fluidi al cloroformio su sé stesso e sui suoi quadri,
per spegnere la saturazione e la vivacità delle tinte) abbiamo
un'estemporanea testimonianza grafica: Al
Maialino Nero, August Strindberg, Edvard Munch e amici al café Zum
Schwarzen Ferkel a Berlino (1893
ca, disegno
a matita blu su carta velina (recto), Gunnar
Heiberg,
matita nera (verso), 20,8×30,9 cm, Collezione
privata) .
Al Schwarzen
Ferkel, trova,
tra i frequentatori del ritrovo bohémien,
considerata dall'Heller la prima Avanguardia
moderna berlinese ,
appassionati estimatori della sua arte, tra essi il drammaturgo
Strindberg, lo scrittore Ola Hansson (1860-1925), il
poeta tedesco Richard Dehmel (1863-1920), il
polacco Stanisław Przybyszewski, di cui rimangono diverse
raffigurazioni (1894, caseina e tempera su tela, 75×60
cm, MunchMuseet,
Oslo; 1895, olio e tempera su cartoncino non preparato, 62,5×55,5
cm, MunchMuseet,
Oslo) ,
la scrittrice norvegese Dagny Juel (1867-1901)
e lo storico dell'arte tedesco Julius Meier-Graefe (1967-1935) .
Stachu è un membro chiave, assieme a Stindberg, del set
bohémien,
forte bevitore, intrattiene i suoi compagni al pianoforte con
frenetiche ed appassionate interpretazioni delle musiche di Chopin,
pubblica un libro dirompente sui dipinti del maestro (PRZYBYSZEWSKI
1894), che egli interpreta alla luce di un individualismo radicale,
come il frutto di sottili processi mentali indipendenti da qualsiasi
attività cerebrale, come una sorta di anticipazione dell'idea di écriture
automatique
o psicografia, una modalità di scrittura in cui né
la coscienza né la volontà intervengono .
Il triangolo amoroso nato, dopo l'arrivo di Juel, tra Munch, Stachu
e la donna crea situazioni di tensione e di invidia che il Nostro
sublima in Gelosia
(1895,
olio su tela, 66,8×100 cm, Bergen
KunstMuseene,
Bergen)
e che, dopo il matrimonio dei due, indirizzano ed intensificano
ulteriormente l'idea di relazione infelice già in via di
maturazione. Edvard, tormentato dalla figura di lei, la ritrae in Madonna
(1894-95, olio su tela, 91×70,5 cm,
NasjonalMuseet,
Oslo) ,
e anche dopo, la sua tragica ed oscura morte, continuerà a
dipingerla per anni, lei è la probabile modella del Giorno
dopo
(fig. 10), opera facente parte del corpus
di dipinti della famigerata mostra scandalo del 1892.
All'irriverente
gruppo appartiene anche l'amico svedese Strindberg, alla cui
esperienza teatrale si ispirano profondamente le composizioni del
periodo. L'ambiente del teatro
intimo da camera,
introdotto già in patria ed esportato in continente, è alla base
della produzione personale del decennio. Concepito come un piccolo
auditorium ristretto, è caratterizzato dall'innovativo
avvicinamento del palco al pubblico, financo all'eliminazione
sperimentale del tradizionale confine tra spettatore e
rappresentazione, per un'immersione emotiva totale degli astanti
nella vicenda allestita. Quest'esperienza, fatta di confidenzialità
e sincera partecipazione, aiuta il maestro ad elaborare opere
caratterizzate da una costruzione geometrica attenta e ravvicinata,
come il claustrum
di una stanza, animata da figure dalle posture e gestualità
“teatrali” particolarmente efficaci nel rendere emozioni
soffocanti e difficili da gestire.
A
questi principi si richiama Morte
nella camera della malata
893,
olio su tela, 134,5×160 cm, MunchMuseet,
Oslo; 1893, tempera e matita grassa su tela, 152,5×169,5 cm, NasjonalMuseet,
Oslo), in cui, attraverso il dolore dei famigliari, si materializza
nuovamente lo spettro della scomparsa della sorella. La tragedia del
lutto, sappiamo, entra precocemente e brutalmente nella vita di
Edvard, e lascia in lui una ferita che non si cicatrizzerà mai del
tutto, al punto da diventare un'ossessione onnipresente che a
distanza di anni lo accompagna nella sua esistenza e carriera .
La tela è la messinscena riattualizzata del ricordo che si manifesta
all'interno di una scatola teatrale claustrofobica, in cui i
protagonisti non sono i giovani fratelli e sorelle che hanno pianto
la scomparsa di Sophie, piuttosto sono adulti logorati dalla serie di
eventi luttuosi che colpisce incessantemente e indifferentemente
l'essere umano. E allora quello spazio chiuso e soffocante diventa
il luogo in cui si rivelano le emozioni che separano ed allontanano i
vivi: incomunicabilità, sofferenza e silenzio .
I personaggi, variamente atteggiati, inscenano enfaticamente il
momento drammatico, bloccati in pose esagerate, da palcoscenico (chi
di fronte, chi di profilo, distanziati tra loro e non uniti nel
dolore) non entrano in reciproca relazione ed appaiono come svuotati
nei loro rispettivi cordogli. Anche qui il maestro non è
interessato alla narrazione dell'episodio della dipartita della
Quattordicenne (che si intravede a malapena), piuttosto a comunicare
quella pesante oppressione psicologica, colta nelle diverse
declinazioni espresse dai parenti come reazione al lutto, offerta
puntualmente ed efficacemente dal pennello del pittore.
Similmente
in Al
capezzale del defunto
(fig. 11),
Fig. 11 - EDVARD MUNCH, Al capezzale del defunto, 1895
olio su tela, 90 X 120,5 cm.
Rasmus Meyers Samlinger - Bergen KunstMuseene, Bergen
Foto cortesia di Giorgia Duò
il maestro narra una vicenda al limite dell'esprimibile: la
penosa perdita che si accompagna all'impossibilità di comunicare e
condividere la propria condizione con altri. L'artista raffigura i
presenti come monadi isolate, avvolti in una spettrale e necessaria
solitudine, estesa, con un ardito scorcio scenico, di memoria
mantegnesca, allo spettatore che si sente partecipe del lutto e
dell'angoscia aleggianti.
In
una sorta di performance
ante litteram,
il pubblico è chiamato a prendere posto alla veglia funebre, non
assiste, ma mestamente e silenziosamente partecipa. L'impressione
di chi osserva il dipinto è contemporaneamente quella di farne parte
e di esserne sopraffatto: il mondo dei vivi e quello dei morti si
fondono ed è quest'ultimo a prendere il sopravvento, con un dolore
acuto e soffocante, disperatamente tangibile e palpabilmente
silenzioso.
Dal
punto di vista compositivo queste due opere scaturiscono
innegabilmente dall'avvicinamento e dalla frequentazione del gruppo
del teatro
da camera
di Strindberg, cui affianchiamo un secondo fondamentale impulso
creativo derivante dall'attività di scenografo ed illustratore dei
drammi di Ibsen (Al
Café del Grand Hotel,
1902, litografia, 44×59,4 cm, MunchMuseet,
Oslo), che Munch considera come un fratello, a cui il Norvegese si
dedica con sentita passione, dopo il 1896 .
Queste due intense e piene di fermenti situazioni culturali guidano
certamente il maestro nel concepire invenzioni profondamente
partecipative e drammaticamente prossime allo spettatore, che è
chiamato non più ad assistere, ma a “sentire”.
Il
tema della dipartita, oramai una costante nella produzione del
Norvegese, viene ulteriormente sviluppato in La
madre morta e la bambina
(1899, olio su tela, 104×179,5 cm, MunchMuseet,
Oslo). L'ossessione per le tragedie familiari è talmente radicata
da spingere il pittore a rappresentare la dipartita del genitore,
avvenuta quando aveva solo cinque anni. Anche in quest'opera
l'intima teatralità diventa strumento prima d'ideazione, poi di
comunicazione: la piccola Sophie, è dipinta, davanti al letto di
morte, insieme ai familiari, in bianco e nero, come fantasmi,
assiepati sullo sfondo, e isolati nel cordoglio. A sinistra,
osserviamo i profili delle sorelle (Inger e Laura), affiancate dal
padre Christian, dal fratello Andreas, entrambi già morti, e da
Edvard stesso. Come nella tela precedente, assistiamo al venir meno
del confine sensibile tra il mondo dei defunti e quello dei vivi, il
primo entra prepotentemente nel secondo i cui interpreti, respinti in
fondo, ricordano all'umanità una fine a cui tutti, uniti in un
unico destino di sofferenza, sono destinati.
La
bambina è la vera protagonista della composizione, alla sua
immagine, bloccata nel tempo e nella memoria, il maestro affida la
corda emotiva del dipinto: la piccola, rivolta all'osservatore,
connotata da un trattamento pittorico significativamente diverso
dagli altri personaggi, domina il quadro, si porta le mani alle
orecchie, e, ripetendo il gesto del Grido
in segno di negazione e incredulità, tenta una difesa estrema contro
il dolore del mondo e contro la propria angoscia. È l'unica ad
essere raffigurata in carne ed ossa, capelli biondo dorato e volto
atterrito, indossa un vestito rosso acceso, ricavato con l'ormai
tipica pennellata ondulata che sembra estendersi ad alone, attraverso
il pavimento fino al letto della defunta, cui risulta assimilata dal
comune destino di morte precoce.
Il
brutale aspetto e il colore squillante dell'abito sembrano
trasfigurarsi in un suono stridulo che interrompe l'opprimente
silenzio della grande stanza spoglia, connotata dal vuoto della
morte, e che fa da cassa di risonanza all'assordante rumore.
La
donna distesa, sotto le coperte bianche, appena delineata nel volto e
nelle forme, con gli occhi chiusi e il viso spento, divide
visivamente e psicologicamente in due parti la composizione. Ancora
una volta, nel coinvolgere lo spettatore, sollecitato non ad
assistere, ma a partecipare, è evidente l'impostazione da teatro
strindberghiano
cui si affianca l'ulteriore debito sottile nei confronti del cinema
muto, molto in voga in quegli anni.
Finalmente
il Fregio
della vita
Si
tratta del monumentale ed inconcluso progetto espositivo che domina,
a più riprese, la vita artistica del maestro, per oltre un
ventennio, a partire almeno dalla mostra-scandalo di Berlino del 1892
fino all'incirca al 1920-22. Il Ciclo,
composto formalmente da tele e stampe, se letto anche con i relativi
schizzi e appunti diaristici, di fatto narra il percorso emotivo del
Norvegese, relativamente alla propria vita, mentre ancora la sta
vivendo e cercando di comprenderla, che diventa quello della società
del tempo. Ne fa un lavoro estremamente sperimentale e difficile da
apprezzare per un pubblico non ancora preparato ed avvezzo alla
paludata arte classica. E, sebbene nasca da momenti individuali e
privati, nelle intenzioni del maestro, vi si devono leggere
situazioni di carattere universale cui tutta l'umanità è
destinata. Inizialmente, si struttura sul solo tema dell'amore
e sui relativi riflessi, quindi, si estende al senso di inquietudine
che condiziona la vita, mentre la si vive, e al concetto di morte.
Una serie di dipinti, dunque, raggruppati per sezioni, racconta la
vita, l'amore e la morte, in un'ottica di irrequieta ansia.
Tradizionalmente
si ritiene che l'idea del Fregio
cominci
a prendere forma nei primi anni '90 del XIX secolo, anche se
riunire insieme dipinti in contesti ricorrenti è già espresso nella
nota del taccuino parigino, del 1889, più volte citata, e pubblicata
estesamente negli studi sul pittore, come momento epifanico e
fondamentale dell'arte del maestro che passa da un fare ancora
rappresentativo, legato alla raffigurazione fenomenologia, a modi
pienamente novecenteschi che, abdicando al descrittivismo, eleggono
il sentimento e le emozioni a vero soggetto del quadro.
L'annotazione, poi, confluisce nel libretto, di cui si è già
riferito, Livsfrisens
tilblivelse, del
1928, in cui si afferma: «Dovremmo
smettere di dipingere interni con gente che legge e con donne che
fanno la calza. Dovremmo creare persone vive, che respirano, e
sentono e soffrono e amano. Io dipingerò una serie di pitture del
genere. La gente comprenderà la santità del tema e si toglierà il
cappello come in chiesa» .
Il passaggio chiarisce definitivamente che il concetto alla base del
Ciclo si presenta al Nostro, già prima del 1890, e si realizza nella
volontà di dipingere una “serie di pitture” connotate da una
sacralità laica, che pervadendo e qualificando uniformemente
l'intero progetto, avrebbe consentito al pubblico di percepire la
stessa aurea di “santità” tipica dei fregi religiosi .
Il
primo allestimento stricto
sensu avviene,
però, solo nel corso
del 1893,
quando Munch espone Studio
per una serie evocativa chiamata Amore:
sei opere che rappresentano la tematica amorosa, declinata in chiave
decadente e mortificante (La
voce (1893),
Il
Bacio (fig.
7), Vampiro (1893,
olio su tela, 91×109 cm, MunchMuseet,
Oslo) , Madonna , Malinconia (fig.
6) e L'Urlo (fig.
8), che successivamente prenderà posto in chiusura della terza
sezione - Paura
di amare, non
ancora definita) .
Nel
dicembre dello stesso anno, a Berlino, si inaugura la personale Serie. Die
Liebe und Ein
Menschenleben,
in cui, per la prima volta, il maestro appresta, in un'ottica di
racconto, più di 50 quadri, secondo l'archetipo ciclico del fregio
antico .
L'esposizione, autofinanziata, come gran parte delle sue attività
del momento, già svolge e comunica quella visione “esistenziale”
dei temi della vita, della morte, dell'amore e dell'inquietudine
di esistere che successivamente connoterà in maniera più complessa
ed esemplare l'intero Ciclo
.
Questo
immaginario viaggio, attraverso l'esistenza, guidato simbolicamente
dai grandi temi della vita che, per definizione, sono in continua
evoluzione, negli anni, è stato variamente presentato con
appellativi e sistemazioni liquide,
l'allestimento, infatti, non è mai compiuto e rimane in
un'incessante stato di mutevolezza e sospensione, in quanto l'idea
stessa che è alla base della sequenza dei dipinti è in costante
svolgimento .
La caratteristica principale del Fregio,
dunque, è quella di essere un'opera aperta, in perenne
elaborazione, pertanto una definizione univoca dal punto di vista
compositivo non solo non è possibile, ma rappresenterebbe un vano e
superficiale esercizio accademico-speculativo volto a ricercare
un'immaginaria chimera .
Continue
e ricorrenti sono le riflessioni personali riguardanti l'opera,
affidate dal maestro alla scrittura, esse testimoniano
dell'entusiasmo e della passione per il progetto e di come questo
si sia lentamente delineato, e se «la
concezione del Fregio consiste in una sequenza di immagini
decorative che nella loro totalità dovrebbero raffigurare il corso
della vita» ,
l'autore ci fa sapere che articolando variamente i dipinti tra loro
si è reso conto di scambievoli risonanze, che rendono le tele più
intellegibili al pubblico, di cui i quadri singoli sono sprovvisti: «(...)
li sistemavo uno a fianco all'altro, notando che il contenuto di un
singolo quadro rimandava a quello di tutti gli altri. Una volta
appesi uno dopo l'altro, immediatamente divenivo consapevole di una
risonanza tra di loro, e assumevano un significato diverso da quello
che avevano singolarmente» .
Il maestro, quindi, maneggiando e appendendo le tele si accorge, come
in un'epifania,
di reciproche connessioni a livello di contenuto, non intenzionali,
né ricercate, che nascono dalla prossimità tra composizioni che,
dunque, dall'accostamento beneficiano di nuovi e non voluti
significati, che modificano in parte o del tutto il messaggio
originario del singolo quadro .
Al termine di questo lento, ma progressivo processo, avvenuto per step
incrementali, l'artista dichiara: «Poi
mi è venuto in mente di dipingere fregi» .
E
allora, sebbene, molte delle opere abbiano una valenza espositiva del
tutto autonoma, essa, viene sacrificata all'idea del Fregio
che, nella mente dell'artista, lega reciprocamente le composizioni
in nome di un disegno generale più ampio e significativo, una
struttura di base che funge da contesto affinché il pubblico possa
meglio comprendere il concetto stesso di Ciclo ed
il senso delle opere. «Il
Fregio, per come lo concepisco, dovrebbe essere disposto – scrive
Munch - in una sala la cui architettura sia strutturata come una
cornice adatta, così da valorizzare ogni singola parte, per far sì
che non venga meno l'efficacia di una totalità coerente» .
E
se, inizialmente, il maestro riferisce di vaghe connessioni,
divenute, poi, vicendevoli risonanze, alla fine scorge
nell'articolazione del progetto un'intensa ed intima relazione
tra i dipinti che all'unisono, nell'allestimento, creano “una
sinfonia”. Ed è proprio, nell'armonia di una sinfonia musicale
che l'opera magna si rivela sinesteticamente al pubblico.
Sinestetico
è, infatti, il suo modo di procedere artistico: in ogni atto
creativo, sia esso pittura, scrittura o grafica, si percepisce una
eco sensoriale ed emotiva, fluida ed allo stesso tempo densa, come il
risultato di una più complessa e magmatica contemplazione tra arte,
musica, poesia e letteratura. E allora, dall'abbinamento di parole,
figure, segni e immagini, il Nostro fa della tela e/o del foglio il
luogo d'incontro tra le diverse discipline (“LA TERRA AMAVA
L' ARIA ...”, nota manoscritta con disegno
(No-MM_T2547-017-A27), Munch
Skissebok MM T 2547,
1930-1935, MunchMuseet,
Oslo, fol. 17). L'esercizio dell'arte non si limita, cioè, alla
sola pratica del disegno e del colore, così la scrittura non è mera
registrazione di fatti e sentimenti, ma, in quanto, avamposto di
sperimentazione tra grafica e linguaggio letterario riesce a dare
vita ad un sinfonico cocktail
di emozioni vivide e palpabili (“UN UCCELLINO HA PRESO DIMORA
DENTRO DI ME ...”, nota manoscritta con disegno
(No-MM_T2547-004-A21), Munch
Skissebok MM T 2547,
1930-1935, MunchMuseet,
Oslo, fol. 4).
Un'analisi
dei suoi taccuini, ma anche una scorsa rapida, frettolosa e
superficiale, ci restituisce subitamente quel doppio binario lungo il
quale Edvard si muove: da una parte concepisce la parola come segno
grafico, dall'altra struttura discorsivamente i suoi appunti con un
incedere narrativo accorto e nutrito di schizzi (“NOTE DI UN PAZZO
- L'ESSERE UMANO E I SUOI CERCHI
...” nota manoscritta con disegno (No-MM_T2547-004-A25), Munch
Skissebok MM T 2547,
1930-1935, MunchMuseet,
Oslo, fol. 4). Il lemma è trattato come elemento figurativo:
talvolta ne muta il formato, il carattere e il colore (spesso i
termini o le frasi sono resi con lettere maiuscole/minuscole e con
matite colorate, che cambiano da un vocabolo all'altro o da una
locuzione all'altra), altre volte, invece, la parola è posta in
risonanza con l'immagine, in modo da creare nessi e rimandi visivi
(“NIENTE È PICCOLO NIENTE È GRANDE ...”, nota manoscritta con
disegno (No-MM_T2547-025-A31), Munch
Skissebok MM T 2547,
1930-1935, MunchMuseet,
Oslo, fol. 25). Così agendo l'artista ci consegna appunti e
annotazioni che sono creazioni artistiche lato sensu,
fogli in cui l'articolazione del pensiero risulta dalla
combinazione di scrittura e grafica, composizioni in cui termini e
frasi sono connessi strettamente alle raffigurazioni e variamente
posizionati, talora con attenzione, talaltra in modo casuale, in
forma sparsa, financo a sovrapporsi alle immagini, ma sempre
funzionalmente al conseguimento di un preciso effetto (“PAM / CG.
L{ ... }R Em /Avanti avanti – Guerrieri Crociati – Uomini
della Luce - ...”, nota manoscritta con disegno a penna
(No-MM_T2759-92v), Munch
Skissebok MM T 2759,
s.d., MunchMuseet,
Oslo, fol. 92v). Alla luce di queste considerazioni ed osservazioni,
sebbene il Diario
non lo confermi apertamente, la sinestesia e la contaminazione tra le
arti diventano pratiche che entrano intrinsecamente nel modus
operandi
del maestro e nel suo patrimonio genetico-operativo cui attinge
sistematicamente, forsanche solo a livello puramente inconscio.
Alla
fine, per il Fregio,
immagina 4 sezioni definitive che nelle sue intenzioni ambiscono a
coprire ogni aspetto della vicenda umana:
-
La
nascita dell'amore: ovvero,
dell'incontro imprescindibile e necessario tra uomo e donna; al cui
interno ritroviamo quadri fondamentali come il Bacio (fig.
7) e Occhi
negli occhi
(1894).
-
Sviluppo
e dissoluzione dell'amore: ovvero, dell'amore entusiasmante che, raggiunto l'apice
dell'ardore, sfiorisce e passa, perché destinato inevitabilmente a
fallire e a far soffrire. Tra i dipinti della sezione, la più nutrita,
troviamo tele iconiche come Ceneri (1895, olio su tela, 120,5×141 cm, NasjonalMuseet, Oslo) , Vampiro, Gelosia, Malinconia (fig. 6), La
danza della vita
(1899-1890, olio su tela, 125×191 cm, NasjonalMuseet, Oslo) e, nell'allestimento del 1902, la versione considerata la
più articolata e completa, tra Gelosia e Malinconia viene
inserita La
donna in tre fasi o Sfinge (fig.
12) .
Fig. 12 - EDVARD MUNCH, La donna in tre fasi o Sfinge, 1894
164 × 250 cm., olio su tela
Rasmus Meyer Collection - Bergen KunstMuseene, Bergen
Foto cortesia di Giorgia Duò
-
Paura
di vivere: in un'escalation di
sensazioni che conducono all'Urlo
(fig.
8), opera conclusiva della macro-area, attraverso una serie di tele che
riporta al sentimento panico dell'umanità, si testimonia il disagio,
l'ansia e l'inquietudine di vivere in opere fondamentali come Pubertà (fig.
4), Serata
sul Corso di Karl Johann (fig.
3) e Ansia (1894, olio su tela, 94×74 cm, MunchMuseet,
Oslo).
-
Morte: ovvero, dell'inevitabile senso di perdita che aleggia in
un'atmosfera di accettazione e rassegnazione, in cui tutto diviene
cenere e lutto. Si tratta di dipinti che contemplano, talvolta in
maniera morbosa, la malattia, la consunzione e la fine della vita, come
Bambina
malata (fig.
1), al Capezzale (fig. 11) e la Madre
morta e la bambina.
E
se non c'è accordo, da parte degli esperti, in merito a quanta
biografia si possa scorgere nei singoli lavori della
Serie, intesa
unanime c'è, invece, nel ritenere deformante l'idea che essa
esprima vicende di natura squisitamente personale. In risposta a
coloro che sostengono che con il Fregio
Munch sia ancora alla ricerca di risposte, per quanto di brutto e
luttuoso gli è accaduto, obiettiamo che le profonde restituzioni
emotive tipiche dei suoi dipinti, non appartengono solo al patrimonio
biografico del maestro, ma rappresentano astrazioni di motivi
universali che poco si accordano con una lettura così riduttiva. Si
consideri, per esempio, una tela come Pubertà (fig.
4), trasposizione di una vicenda emotiva legata all'universo
femminile, che non può certamente essere stata vissuta in prima
persona dal pittore, o ricondotta a vicende personali. Altresì,
esistono lavori che cristallizzano ricordi ed esperienze nodali della
sua esistenza, ma che non sono mai stati inseriti nel Ciclo: ricordiamo,
per esempio, la
Morte di Marat
(1907, olio su tela, 150×199 cm,
MunchMuseet, Oslo)
e Amore
e Psiche
(fig. 13) ,
in cui il maestro ripropone il finito rapporto con la Larsen.
Fig. 13 - EDVARD MUNCH, Amore e Psiche, 1907
olio su tela, 119,5 X 99 cm., MunchMuseet, Oslo
Foto cortesia di Giorgia Duò
A
cavallo tra l'ultimo decennio del XIX secolo e il primo del XX
secolo, l'artista, dunque, lavora indefessamente a questo gruppo di
motivi pittorici (espressi artisticamente in amatoriali scritti
letterari, nei quadri, nei disegni e in ogni mezzo grafico
praticato), che, riuniti in un percorso unitario ed organico tra arte
e vita ed esibiti in combinazione sempre diverse, concorrono a creare
una grandiosa narrazione ciclica, disposta sulle quattro pareti,
uniformate da pannellature di colore bianco, che sottolineano
l'unitarietà del racconto e che accolgono i quadri adagiati sulla
semplice tela come vere icone sacre .
Il
concetto espositivo della candida trama, come aggregatrice di
dipinti, privati di una propria cornice e di una propria identità, nonché
designante un percorso narrativo determinato, è, per i canoni
dell'epoca, un'azione estremamente moderna ed innovativa, che,
ancora una volta, lascia il pubblico esitante e confuso per troppo
minimalismo!
Da
febbraio a marzo del 1895 ha luogo, presso la modaiola Galleria Ugo
Barroccio
sul Viale
Unter den Linden 16 (Berlino),
Edvard
Munch und AxelGallén-Kalella Sonderausstellung,
un secondo allestimento del Fregio
arricchito di 8 tele, limitato ancora al solo tema dell'amore e
agli stati d'animo che ne conseguono .
Ai quadri si affiancano numerose stampe, più economiche e più
facili da vendere, che ripetono i temi pittorici più assillanti per
il pittore. L'ambiente artistico berlinese continua a rimanere
chiuso e poco ospitale, e, nonostante qualche fermento positivo,
agevolato dalla favorevole congiuntura economica, che lascia spazio
anche al mercato artistico dell'Avanguardia,
la situazione nei suoi confronti permane abbastanza ostile.
Con
la chiusura della rassegna, Edvard, Strindberg e Meier-Graefe, delusi
dal contesto ancora troppo chiuso e provinciale, si allontanano dalla
capitale, lasciando l'ambiente bohèmien
in balia di sé
stesso.
Il maestro si reca inizialmente a Nordstrand, poco fuori Kristiania,
poi ad Asgårdstrand, dove, a fine ottobre apre l'esposizione
presso la Galleria
d'arte Blomqvist,
che poi continua a Bergen e Stavanger. La mostra, molto ammirata da
Ibsen, non convince ancora il pubblico tradizionalista norvegese che
non riesce ad apprezzare un'arte così “imperfetta”, le
critiche sono particolarmente aspre, e, nonostante da una parte si
riconosca l'indiscusso talento del pittore, le sferzate dei
giornalisti conservatori sono piuttosto feroci e caustiche, arrivando
ad esortare i visitatori a boicottare la mostra !
Aubert, che, a fine anni '80, a fronte di un atteggiamento critico
unanime e particolarmente negativo da parte di tutta la stampa,
aveva, invece, ammirato l'inedito colorismo del maestro, in
quest'occasione si allinea ai colleghi e, nel rilevare che il
soggiorno berlinese non ha avuto effetti positivi sulla crescita
artistica del Nostro, definisce la sua pittura nevrastenica e
decadente .
La personale, visitata anche dal principe Eugen di Svezia (1865-1947) ,
duca di Norvegia, mecenate, collezionista e artista, che l'anno
precedente aveva contribuito all'allestimento della prima
esposizione di Edvard a Stoccolma, è descritta in termini
contraddittori, che denotano una non volontà o incapacità di
prendere una posizione chiara e definitiva: «la
mostra di Munch più che allietare l'animo artistico ha scosso gli
animi. Alcune cose sono ottime, altre interessanti, ma in ogni caso
estreme, a volte spudorate certo, non sensate» .
Nuova
parentesi parigina (1895-1897)
Incompreso
da critica e pubblico, ancora una volta, amareggiato e rassegnato,
alla ricerca di una posizione vera come artista di Avanguardia,
decide di riprendere a vagabondare per l'Europa, raggiunge, con gli
amici Strindberg e Meier-Graefe, per la terza volta, Parigi, che «(...)
ha un'arte superiore a quella tedesca (...)» .
Tra alterne vicende e frequentazioni di salotti mondani, vi rimane
fino alla fine di maggio del 1897.
Appena
giunge nella capitale, partecipa con dieci quadri, tra cui l'Urlo
(fig. 8), che non suscita alcun scalpore, al Salon
des Indipendants del 1896,
il pubblico parigino, evidentemente abituato alle provocazioni delle Avanguardie
francesi, dotato di una mentalità aperta, lontana dai provincialismi
incontrati in Norvegia e in Germania, accoglie le sue composizione
senza troppo entusiasmo, ma anche senza clamore.
Nello
stesso anno, espone presso l'appena inaugurata Galleria L'Art
Nouveau
di Sigfried Bing (1838-1905) ,
un punto di riferimento ed incontro importante per gli artisti
contemporanei come come Rodin, Toulouse-Lautrec,
Seurat e molti altri. Il maestro esibisce dipinti e grafiche che
ha portato con sé da Berlino, nutre grandi speranze, ma l'unica
recensione di una qualche importanza è quella dello scrittore
Strindberg che, in difesa del compagno bohèmien
vilipeso dalla noncuranza della mentalità conservatrice moderna, sulla
“La Revue Blance”, scrive: “Edvard Munch, trentadue anni,
il pittore esoterico dell'amore, della gelosia, della morte e della
tristezza, è stato spesso oggetto degli equivoci premeditati del
critico-boia, che fa il suo mestiere in modo impersonale a un tanto a
testa come il boia” .
Si
stabilisce nel quartiere latino della capitale dove, in Rue
de la Santé,
al civico 32, apre il suo atelier;
durante il soggiorno approfondisce ulteriormente e perfeziona,
secondo una pratica personale, l'esercizio delle tecniche grafiche
(xilografia e litografia), anche a colori, avvicinate durante la
permanenza berlinese.
Dopo
aver perso tutti i suoi soldi al gioco ,
incontra fortunatamente l'industriale collezionista Olaf Schou, suo
conterraneo, che gli commissiona una replica di Bambina
malata
(1896, olio su tela, 121,5×118,5 cm,
Göteborg Museum,
Göteborg (Svezia)) e che nel tempo avrebbe rappresentato un “porto
sicuro” per il Nostro .
Assieme a Strindberg, nel pieno della sua fase occultista, la cui
pratica lo condurrà nel giro di pochi mesi a sviluppare una paranoia
acuta che allontanerà i due amici ,
inizia a frequentare il salotto internazionale Monard ,
dove, nel 1897, conosce, tra i molti, Delius, e si trova spesso,
piacevolmente coinvolto, in animate discussioni non solo di cultura, lato
sensu,
ma anche di psicologia e psichiatria. Conosce e frequenta anche il
pittore Paul Herrmann (1864-1946), amico del medico psichiatra Paul
Contard, con cui convive in un appartamento vicino alla clinica
psichiatrica de La
Salpetriere. I
due sono effigiati dal maestro in un doppio ritratto (1897, olio su
tela, 73×54 cm, Galleria
del Belvedere,
Vienna), e, dai loro incontri, probabilmente, matura l'idea per una
serie avente come soggetto donne malate di mente.
Questo
nuovo soggiorno, è per Munch l'occasione per stabilire contatti
con la vivace vita artistica internazionale. A differenza delle due
visite precedenti, connotate da intenti ancora di tipo formativo,
adesso l'artista ambisce a crearsi un proprio spazio, a trovare una
posizione e a farsi conoscere come artista d'avanguardia.
Nell'estate
del 1897, il maestro in vacanza a Kristiania, tiene, in settembre,
nei locali della Galleria
Diorama,
una retrospettiva di 85 quadri. L'esposizione è un momento di
svolta nel processo di accettazione della sua arte da parte della
Norvegia, permane l'atteggiamento negativo nei confronti delle sue
composizioni simboliste, ancore oscure e poco apprezzate, mentre i
suoi lavori iniziali, più realisti, cominciano ad ottenere
apprezzamenti e consensi; la NasjonalGallieret
acquista il Ritratto
di Hans Jæger,
che entra a far parte, assieme a Notte
a Nizza
della collezione pubblica .
A
proposito di relazioni amorose
Quando,
nel 1895, il fratello appena trentenne, da poco sposato, muore
prematuramente per complicazioni inerenti una polmonite, Munch,
commentando ironicamente la tragica notizia, indica la vita coniugale
come causa principale dell'evento luttuoso; sembrerebbe che abbia,
infatti, sostenuto che Andreas non fosse abbastanza forte per reggere
le tensioni ed i dispiaceri che il matrimonio gli avrebbe procurato.
La graffiante dichiarazione rivela e ribadisce l'indole apertamente
misogina del pittore, rassegnato all'idea che ogni relazione
amorosa sia destinata a finire repentinamente e dolorosamente in modo
infelice, nonché conferma la teoria secondo cui uomo e donna vivono
in un costante stato di conflittualità, in cui il primo interpreta
sempre il ruolo del sottomesso alla seconda, che, da manipolatrice
astuta, soggioga e porta alla disperazione la debole anima maschile.
Nel
1897, torna momentaneamente in Norvegia e nel luglio acquista la
tenuta di Åsgårdstrand, che, in occasione del rientro definitivo in
patria, prima di isolarsi ad Ekly, diventerà la sua dimora
principale. La cittadina, abbiamo visto, è stata spesso utilizzata
dal maestro come cornice ambientale nei suoi quadri degli anni
Novanta: la riconosciamo in Malinconia
(fig. 6), in Chiaro
di luna sulla spiaggia (1892), in Spiaggia (1898), e
in Rosso
e Bianco
(1899-1900,
olio
su tela, 41,6×30,1 cm,
MunchMuseet, Oslo).
Quest'ultima composizione, tra i dipinti cardine dell'allestimento
berlinese, del 1897, allude al risveglio della sessualità e mostra
due figure femminili contrapposte, sulla riva alberata del borgo: a
sinistra una donna bionda, di schiena, in abito bianco, allude
all'innocenza, mentre, a destra, in abito rosso, una seconda silhouette
incarna la passionalità e la sensualità che contrasta
simbolicamente, ma anche fisicamente, volgendo le spalle, la purezza
della prima. La tela elabora, porta a maturazione e restituisce
l'idea ginecofoba, conflittuale e poco edificante, di cui si è
accennato in precedenza, di un rapporto tra i sessi destinato sempre
a fallire, che diventa, nel disegno generale, condizione universale e
destino di tutta l'umanità.
L'atteggiamento
profondamente maschilista, largamente documentato nel corpus
delle sue opere e nei suoi scritti, si sposa ineluttabilmente con
l'ideale di femme
fatale
decadente, molto diffuso nella cultura del Simbolismo
europeo (Gustave Moreau,
Salomè o l'Apparizione, 1875,
acquarello, 106×72,2 cm,
Museo d'Orsay, Parigi)
che confligge con l'altra tradizione pittorico-letteraria che,
invece, riconsegna una visione idealizzata, anche se poco veritiera,
di donna-angelo, portatrice di qualità spirituali e divine. Un idolo
freddo, dal comportamento enigmatico, la cui origine e provenienza
risultano ignote, misteriose ed insondabili; una creatura funesta,
sanguinaria, implacabile, crudele, insofferente alla moderazione
e alle regole, la donna fatale non ha nulla di virginale, puro o
virtuoso, ma, al contrario, è latrice di inquietudini e di sventure.
Così la precisa Munch e così la vuole la κοινὴ
dell'epoca .
Dalla
fine dell'800 al primo ‘900, mentre sta ancora vivendo la
turbolenta storia con Tulla, l'amore e le sue conseguenze diventano
il centro catalizzatore della attività del pittore, che sviluppa
ulteriormente le proprie convinzioni riguardanti il genere femminile
e l'impossibilità di perseguire un rapporto di coppia felice e
duraturo.
Il
pensiero del maestro è condizionato dalle molte relazioni avute, che
a loro volta sono inevitabilmente orientate, come in un circolo
vizioso, dall'idea negativa di relazione tra sessi. Munch ha
incontrato compagne tutt'altro che angeliche, dal carattere forte e
determinato che incarnano le caratteristiche delle protagoniste dei
suoi dipinti. Si tratta di donne-sirene che attraggono, spaventano ed
atterriscono.
Lentamente
e profondamente, dunque, si fa strada nella mente del pittore quel
pensiero paradigmatico per cui ogni rapporto amoroso, quand'anche
nato da forti passioni, è destinato a consumarsi rapidamente per poi
concludersi con l'inevitabile, necessario ed disperato
allontanamento. E se certamente le esperienze personali risultano
assolutamente fondanti, nel processo di maturazione dell'idea che
si rivela costantemente nella produzione artistico-letteraria, non
meno importanti sono le vicende, ugualmente infelici, vissute da
conoscenti e compagni, che concorrono largamente ed inesorabilmente
al delinearsi della visione. Ricordiamo, per esempio, che l'impulso
creativo di Malinconia
(fig. 6) è la storia vissuta dall'amico Jappe. Inoltre, il maestro
nei suoi scritti “fa tesoro” delle dolorose vicende amorose
patite dai compagni bohémiens
tedeschi e di Kristiania. Non ultima, ovviamente, l'influenza
esercitata dalla coeva filosofia di Schopenhauer, che vede nella
sensualità femminile il “supremo inganno”, quello di colei che
porta alla vita, ma anche alla morte.
Non
stupisce, allora, che l'artista, memore dei conflitti patiti e
delle relazioni dolorose, si sia persuaso di non essere destinato al
successo amoroso, e, a pochi mesi dall'inizio della storia con la
Larsen, quando ancora tra i due non sono sorti i noti problemi, il
pittore auto ritrae significativamente la coppia in Metabolismo
(1898-1899, olio su tela, 175×43 cm,
MunchMuseet, Oslo):
due figure nude, frontali, divise fisicamente e metaforicamente da un
grosso albero della vita, che affonda le sue radici in un emblematico
scheletro, evitano di guardarsi negli occhi e sono emotivamente e
profondamente lontane, consce dell'impossibilità di conseguire la
vera felicità e di essere fatalmente destinati a soffrire .
Non c'è alcun elemento positivo, ma solo risvolti di disperazione
eppure la relazione è solo all'inizio!
Quando,
successivamente, dopo il drammatico epilogo del 1902, il pittore
rielabora ossessivamente la perdita dell'amata attraverso scritti e
tele, alcune delle quali inserite nel Fregio,
cristallizza la fallita relazione in immagini astratte e mnemoniche,
che palesano, ancora una volta, quel forte senso di dominazione da
parte della donna la cui presenza-assenza continua a torturarlo e
continuerà ad ossessionarlo fino alla crisi del 1908, quando chiede
di disintossicarsi da una vita di vizi, ma anche dal ricordo
assillante della relazione con Tulla. Opere emblematiche in tal senso
sono: Testa
contro testa
(1905), Desiderio
(1907),
Morte di Marat e
Amore e Psiche
(fig. 13),
La Morte
di Marat,
del 1907, al di là dell'allusione storica contenuta nel titolo ,
fa riferimento proprio alla fine del rapporto con la Larsen, avvenuta
definitivamente ben cinque anni prima, dopo l'accesa lite, ricordata
nel quadro, con il sangue sul lenzuolo, nel corso della quale
l'artista si ferisce alla mano sinistra (Lastra
radiografica della mano sinistra di Munch
(con i danni al terzo e al quarto dito), 1902, Archivio fotografico, NatjonalMuseet,
Oslo). L'olio, dagli accenti matissiani, si caratterizza con una
pittura estremamente sintetica e una tavolozza particolarmente
squillante e variata nel colore e nei dettagli .
La figura dell'amante-carnefice, fredda ed indifferente al dolore,
completamente nuda, inespressiva ed implacabile, si staglia
verticalmente sulla scena, e si impone all'osservatore spingendosi
in avanti. Si tratta di colei che compie l'omicidio psicologico
perpetrato ai danni del maestro che rimane ferito e privo di una
prospettiva di vita felice per il resto della sua vita. La Larsen, al
pari di Charlotte Corday, colei che pugnala a morte il rivoluzionario
francese, colpisce metaforicamente e materialmente il maestro
procurandogli una doppia lesione all'anima e alle dita; entrambe le
offese non guarisco, a distanza di tempo, sono ancora lì a
perseguitarlo e a ricordargli delle ferite nel corpo e nello spirito
perpetrate da colei che avrebbe dovuto amarlo.
Con Amore
e Psiche
(fig. 13), l'artista apre un nuovo e tormentato capitolo d'indagine
relativamente alle passioni amorose: la coppia di amanti, ancora una
volta, simbolo mitologico di conflittualità perenne tra i sessi, si
fronteggia in perfetta nudità, a capo chino, senza toccarsi. I
corpi, in atteggiamento contrastante, sono realizzati attraverso
grosse e marcate pennellate verticali, allusivamente più scure
nell'uomo, di spalle e in ombra, più chiare nella donna in piena
luce. Percepiamo una distanza sia fisica che emotiva: tra i due c'è
incomunicabilità nonché impossibilità a stabilire un vero rapporto
affettivo. La lontananza è, inoltre, sottolineata dalla resa
rarefatta delle forme, che sembrano dissolversi lentamente e
scomparire in un processo di assimilazione allo sfondo. Ma,
nell'eterna battaglia tra i sessi, il dipinto allude
sorprendentemente al raggiungimento di un diverso equilibrio: l'uomo,
infatti, non è più sottomesso al giogo femminile della potente Vampiro,
ma fronteggia mestamente la donna. E sebbene sia ancora una
dichiarazione di impossibilità di riscatto per il genere umano dalla
solitudine e dal dolore, cui l'umanità intera è condannata, apre
la strada ad una rinnovata possibilità di relazione di coppia.
Il
nuovo secolo, la Berliner
Secession
del 1902 e la nuova fase estetica
Durante
la relazione con la Tulla, Munch viaggia ininterrottamente tra
Copenhagen, Firenze, Roma, Como, Nizza e Berlino. In Italia, studia
l'opera di Raffaello che lo affascina molto e diventa fonte di
ispirazione per le decorazioni murarie in cui comincia a cimentarsi,
nel nuovo secolo, e che diventeranno un leitmotiv
nella produzione artistica successiva. Nel 1899, è anche invitato e
partecipa alla Biennale
di
Venezia.
Dopo
aver girato molto, tra l'Europa e il Bel Paese, rientra in Norvegia
dove, tra l'inverno del 1899 e la primavera del 1900, è ricoverato
presso il sanatorio
di Kornhaug,
nei dintorni di Lillehammer (nel Gudbrandsdalen), a causa di una
crisi acuta di tisi, dovuta ad una recrudescenza della malattia
polmonare che lo accompagna sin da bambino. All'epoca l'unica
cura esistente, per il miglioramento dell'affezione respiratoria,
richiede la totale inattività dei pazienti in un luogo fresco,
all'aria aperta, normalmente di montagna, seduti su sedie di vimini
e avvolti in coperte di lana .
In
questi anni, Munch espone con un certo successo in tutto il
continente, e, nel 1900, partecipa con un proprio dipinto
all'Esposizione
Universale di
Parigi.
Nel
1901, riporta l'amico Thiis, il pittore realizza Ragazze
sul ponte
o Pikene
på broen (1901,
olio su tela, 136×125 cm, NasjonalMuseet, Oslo),
prima di una serie di dodici versioni diverse e numerose stampe.
L'opera nasce in un momento emotivamente complicato, i rapporti con
Tulla sono sempre più tesi e presto precipiteranno drasticamente,
l'uso innaturale del colore e la prospettiva distorta alludono
funzionalmente agli stati d'animo e alle palpitazioni che
crogiolano l'interiorità del Nostro .
Si tratta di uno dei soggetti più noti del maestro, come
l'esecuzione su richiesta delle molte repliche testimonia, che ha
nell'immediato un certo successo di pubblico: Antonia
Hoerschelmann, storica dell'arte e curatrice dell'Albertina
di Vienna, in occasione della mostra dedicata all'artista, dal
museo austriaco, nel 2003, nel catalogo scrive che il dipinto, è
stato fin da subito accolto con grande entusiasmo dai colleghi
artisti berlinesi, ed è stato elogiato con slancio anche dalla
critica contemporanea, come il dipinto più maturo e compiuto del
maestro. Inoltre, riporta che Max Liebermann lo ha valutato come “il
suo miglior dipinto” .
Ispirato
alle luminose notti estive nordiche, inizialmente, infatti, la tela
ha il titolo provvisorio di Notte
d'estate, raffigura tre
bambine, di spalle, mentre si affacciano sul pontile ligneo della
piccola cittadina di Åsgårdstrand, verso la sponda occidentale
del fiordo .
Sullo sfondo un gruppo di edifici si riflette nel mare, mentre, sulla
sinistra, oltre la folta chioma arborea di un grande albero, che in
parte copre il maestoso
maniero di Kiøsterudgården, che appare in molti dei suoi dipinti,
si distingue chiaramente, sopra i tetti delle case, un astro celeste,
forse una luna piena e bassa, che curiosamente, diversamente dal
resto del paesaggio, non si rispecchia nell'acqua.
Dopo
la definitiva rottura dell'armonia primordiale tra la natura e
l'uomo sancita e gridata nell'Urlo
(fig. 8), la cui ringhiera torna simbolicamente in questa
composizione, con Ragazze
sul ponte
il maestro sembra voler annunciare un recuperato rapporto tra
paesaggio e umanità che assieme paiono costituire un'entità non
più in conflitto. La prospettiva del ponte, come nell'iconico Grido,
rompe e contrasta la piattezza dell'invenzione ed è costituita
dalla balaustra che sfuma e continua nella strada tortuosa, attirando
l'attenzione dello spettatore che si trova proiettato dentro la
scena. Per l'artista prendere singoli brani pittorici dalle sue
composizioni e ricollocarli in nuove creazioni, citando sé stesso,
non è una novità, anzi sembra essere un tema ricorrente nella sua
pratica artistica: la fuga del notissimo Scream (fig.
8), che in qualche modo viene replicata in Ragazze
sul ponte,
infatti, sembra essere mutuata direttamente dall'espediente
compositivo del balcone
di Rue Lafayette.
La sottile semplificazione, con cui sono resi i diversi elementi del
dipinto (figure, paesaggio ed edifici), è riconducibile, abbiamo
visto, ad una duplice motivazione: da una parte la necessità di
esprimere un disagio interiore che altrimenti non sarebbe possibile
comunicare, dall'altra si lega all'interesse che, in quel
momento, l'artista sviluppa per visioni squisitamente infantili.
Questa maniera semplificata conferisce, inoltre, all'opera un
effetto decorativo esaltato dalle cromie vivaci degli abiti delle
giovani che contrastano con il rosa cipria, l'azzurro e il verde
scuro del paesaggio. La sobria tendenza alla resa formale, unita
all'uso particolare del colore e alla scelta di un formato
monumentale, ho indotto parte della critica ad accostare il quadro
alla Danza
della vita.
Riteniamo, invece, che le due pitture mostrino differenze
sostanziali: dal punto di vista tematico il primo comunica un
simbolismo legato all'idea d'amore maturata negli anni
dall'artista, mentre le Tre
bambine
esprimono uno stato di quieta serenità mancante al precedente,
inoltre, sotto il profilo compositivo il dinamismo della Danza,
orientata all'azione, contrasta con la statica visione
contemplativa del secondo.
Il
soggetto, abbiamo visto, fin da subito diventa centrale nell'attività
del maestro che, a partire dal 1901, concepisce ben dodici versioni
diverse, dieci delle quali sono conservate in importanti musei e
gallerie pubblici del mondo: oltre alla versione del NasjonalMuseet for
kunst, arkitektur og design di
Oslo (1901),
ricordiamo la composizione molto simile del Pushkin
Museum di
Mosca (1902), quella del KunstMuseene
di Bergen (1902), quella molto diversa della Thiel
Gallery
del ThielskaGalleriet
di Stoccolma (1903) e quella del Wallraf-Richartz-Museum
di Colonia (1905) .
Il
1902, è anche l'anno in cui si apre la V
Mostra Secessionista di Berlino,
a cui Munch è invitato grazie all'appoggio di Paul Cassirer
(1871-1926), segretario dell'organizzazione, che sostiene
fortemente la sua partecipazione. Per la prima volta, si
riallestisce, integralmente, il Fregio:
una mostra, dal titolo Aus
dem modernen Seelenleben,
di 22 dipinti, quasi tutti realizzati prima del 1895, montati
sull'ormai canonico sfondo bianco, secondo l'impostazione del
1897 (con 4 sezioni tematiche
legate vicendevolmente e intitolate: I
semi dell'amore,
Sbocciare
e appassire dell'amore, Angoscia e
Morte).
Questa terza edizione del Ciclo,
sebbene, segua l'allestimento delle due precedenti, mostra un
significativo cambiamento nella presentazione dell'ultima sezione,
la Morte,
in cui, per la prima volta, l'evento viene proposto come
conclusione drammatica ed inevitabile, e non più come un momento
d'inquietudine oscuro ed impenetrabile. La rassegna rappresenta un
punto di svolta sia per il maestro, la cui immagine assurge a icona
dei tempi moderni, che per il locale mercato dell'arte, che
finalmente si trova proiettato nel XX secolo. Per protesta, contro la
presenza del Norvegese, 16 membri della giuria di ammissione
all'esposizione, danno le dimissioni, la circostanza mette la Secession
nella comoda posizione di poter allontanare dai propri ranghi, senza
polemiche di ritorno, coloro che, ancorati ad idee conservatrici, non
vogliono accogliere la necessaria e improcrastinabile azione di
svecchiamento del mondo artistico.
Finalmente
anche il pubblico accoglie positivamente e senza riserve il lavoro
del maestro, riconosciuto all'unanimità come pittore moderno e
d'avanguardia del momento; conquista definitivamente una fetta di
mercato che gli consente di accantonare le costanti preoccupazioni
economiche che lo attanagliano da sempre, nonché di mettere un
certo ordine nella sua esistenza. Albert Kollmann (1837-1915), un
vecchio conoscente e collezionista, si propone come suo manager in
Germania.
Nello
stesso periodo inizia a frequentare l'imprenditore tessile Herbert
Esche
e l'oftalmologo di Lubecca Max Linde (1862-1940), tra il medico ed
il Norvegese nasce una profonda amicizia che porta il primo ad
assistere il secondo sia dal punto di vista psicologico che dal punto
di vista artistico, come mecenate e promotore. A Linde si deve la
pubblicazione, nello stesso anno, della prima biografia del maestro
(LINDE 1902), poi
ripubblicata, con il titolo Edvard
Munch,
nel 1905 (LINDE 1905).
Sono
anni di serenità e distensione, il successo gli consente di
esplorare nuove tematiche, di abbandonare le angosciose ambientazioni
tipiche della produzione matura, per eleggere soggetti più leggeri,
non propriamente felici, ma privi di quell'ansia ed inquietudine
palpitanti delle opere più note, che lo hanno reso famoso. Dal 1903,
Munch entra nella cosiddetta fase estetica, fatta di dipinti
gradevoli e piacevoli, e, anche se permane una certa cupezza, questa
non prevarica né soggioga l'emotività del pubblico. Il rapporto
con la Norvegia rimane complicato: all'inizio del XX secolo i
giornali locali, in
primis,
l' “Apfelposten”, attaccano ancora ferocemente il maestro, il
suo stile pittorico continua a non piacere e molta parte della
critica, soprattutto quella conservatrice, è convinta che sia un
artista poco capace. Si ripete da più parti ed indefessamente il
vecchio adagio secondo il quale il pittore non padroneggi ancora le
tecniche artistiche, con conseguenti giudizi professionali ancora
fortemente negativi.
Tra
il 1903 e il 1908, Edvard ha una relazione con la musicista Eva
Muddock (1872-1953), che diventa la sua nuova musa ispiratrice. Una
donna vera, gentile, piacevole, diversa dalle frequentazioni tossiche
precedenti .
Nel dicembre del 1908, mentre Munch è ricoverato nel nosocomio di
Copenaghen, Eva partorisce, in una clinica privata di Nykøbing
Falster (Danimarca), i gemelli Isobel and Kai (Isabella e Edvard). È
stato ipotizzato che il pittore, possa essere il padre, ma quando
muore, nel 1944, i due sono adulti trentaduenni, e non hanno mai
conosciuto il maestro che lascia, significativamente, tutte le sue
proprietà alla comunità di Oslo, in quanto senza eredi.
Isabella
diventa, come Eva, una musicista e madre di tre figli (tra cui Janet,
alle cui dichiarazioni rinviamo per la questione); mentre Kai,
Edvard, intraprende la strada della pittura, e, curiosamente, da
adulto, comincia a manifestare una malattia di tipo mentale.
Rinchiuso, come paziente a lunga degenza, in un ospedale psichiatrico
danese, è avvicinato, nel 1960, dalla nipote, Janet, che, cresciuta
negli Stati Uniti, vuole conoscere lo zio, la cui vita assomiglia in
maniera inquietante a quella del millantato genitore, di cui porta
anche il nome di battesimo. Da quell'incontro la ragazza viene a
conoscenza della possibile parentela con il famosissimo artista
norvegese .
Eva,
che, al momento dell'incontro, ha una relazione saffica con la
pianista Bella Edwards (1866-1954), viene ritratta con l'amica in Concerto
per violino (1903,
litografia, 55,4×76,4 cm, Kupferstichkabinett, Berlin
State Museums,
Berlino) .
E quale musa ispiratrice, il suo volto compare in diverse litografie
del periodo:
Salomè (1903,
litografia, 39,5×30,8 cm, NasjonalMuseet,
Oslo)
e
la Spilla
(1903, litografia, 61,3×47,1
cm, NasjonalMuseet, Oslo) .
In una lettera inviatale dal maestro, mentre i due si trovano
lontani, è paragonata alla “pietra caduta dal mio cuore” ,
mentre nei suoi diari
di lei afferma che ha “gli occhi come di un migliaio d'anni”.
Sull'onda
del successo professionale, l'artista viene invitato ad esporre in
tutta Europa, le mostre del Fregio continuano
e si moltiplicano: il Ciclo
è riallestito a Lipsia, nel 1903, a Kristiania, nel 1904, e a Praga,
nel 1905. Munch, a dispetto di quanto avrebbe voluto, comprende che
la Serie
non può essere venduta in un'unica soluzione e si convince ad
alienare singolarmente le tele, smembrando, però, il concetto
d'insieme. Nondimeno, alla fine, la circostanza non sembra
disturbalo molto, anche perché continua a produrre nuovi dipinti in
sostituzione di quelli ceduti, e, sebbene, l'aspetto complessivo ne
risulti evidentemente modificato, l'attività creativa
dell'artista, orientata al rispetto dei temi e dei soggetti,
precedentemente individuati, fa si che il senso generale, quello
originario, rimanga intatto ed immutato .
Nel
1904, ormai famoso ed affermato professionalmente, firma un contratto
con il mercante berlinese Bruno Cassirer (1872-1941) ;
partecipa alla Wiener
Secession
e diventa un punto di riferimento per i pittori della nuova
generazione, i cd espressionisti tedeschi, che vedono
nell'espressività personale e meditativa del Norvegese una
necessità profonda e una via ancora poco praticata che il mondo
artistico non deve farsi sfuggire. Il forte legame è rilevato e
testimoniato da Giulio Carlo Argan (1909-1992), eminente storico
dell'arte italiano del secolo scorso, che nella sua
Storia dell'Arte spiega
come l'Espressionismo
sia è nato “sotto il segno della pittura” del maestro: “La
rappresentazione deve in un certo senso autodistruggersi: la parola
deve diventare, o tornare ad essere, urlo. Il colore deve bruciarsi
nella sua stessa violenza: non deve significare ma esprimere. Perciò
da Gauguin Munch prende la tendenza a servirsi dell'incisione:
intesa però come una pittura a cui è stato sottratto, con il
colore, il senso della vita. E se talvolta il colore viene ricuperato
nell'incisione stessa, non è più un colore legato alla sensazione
e all'emozione visiva, ma un colore dato dopo, che null'altro
vuol definire se non lo stato d'animo, il clima o l'atmosfera
dell'immagine. La poetica di Munch è direttamente o indirettamente
collegata con il pensiero di Kierkegaard, che soltanto nei primi
decenni del Novecento comincerà ad essere conosciuto in Germania: si
deve dunque a Munch, che soggiornò più volte in Germania, la spinta
«esistenzialista» che farà nascere l'Espressionismo, che è nato
infatti nel nome e sotto il segno della sua pittura» .
Tra
coloro che si rifanno al pittore ci sono Egon Schiele (1890-1918) e
Oskar Kokoschka (1886-1980), quest'ultimo, nel 1952, scrive anche
un articolo-elogio dedicato al maestro in cui esprime tutta la
gratitudine e l'ammirazione per il suo pioneristico lavoro
d'Avanguardia
.
La
presenza dell'artista è sempre più richiesta, espone un po'
ovunque, sia dipinti che opere grafiche. Ma la tranquillità e la
serenità del momento sono destinate a non durare, già dal 1906, il
maestro sente un tumulto interiore che lo porterà, nel 1908, a
scegliere il ricovero volontario in clinica. Nell'estate del 1907,
è in vacanza in Germania e trascorre le serate frequentando
abitualmente case di tolleranza, fumando e bevendo alcolici senza
sosta. Le opere del periodo evidenziano il complicarsi ulteriore del
già problematico rapporto con l'altro sesso. In Brothel
scene. Zum Sussen Madel
(fig. 14),
Fig. 14 - EDVARD MUNCH, Brothel scene. Zum Sussen Madel, 1907
olio su tela, 85 X 131 cm., MunchMuseet, Oslo
Foto cortesia di Giorgia Duò
il maestro inscena un momento di vita quotidiano all'interno del
tipico bordello: la sordida interazione tra una prostituta e un
cliente. Una scena forte, cinica, espressiva ed emotivamente
claustrofobica.
La
pace del periodo estetico sembra finita. Munch si sente bloccato in
una fase emotiva di infelicità ed instabilità, che, nei suoi
appunti, definisce “l'inferno” .
Gli effetti della fosca e violenta relazione con Tulla, in cui è
rimasto intrappolato, cinque anni prima, sono ancora vividi e
presenti, sente che la salute mentale è gravemente minata dal suo
stile di vita, sempre in bilico e al limite, non c'è nulla attorno
a lui che gli faccia presagire una risoluzione positiva e benché
famoso e stimato, riprende a soffrire di una forma di depressione che
erompe in profondi attacchi nervosi, esasperati dall'abuso di
alcolici e dal continuo vagabondare da una città all'altra .
Tra
il 1907 e il 1908, Munch
lavora al dipinto
Due persone sole (1898-1900, 80×110
cm, Collezione
privata):
l'opera rielabora il tema di una precedente stampa (I
solitari, 1894,
acquaforte, 15,5×21,4 cm, ThielskaGalleriet,
Stoccolma), e ne fa l'ennesima dichiarazione di lontananza e fatale
solitudine cui l'intera umanità è destinata. La scena è
ambientata in un clima di apparente serenità e calma, i due amanti,
però, sono distanti e lo saranno per sempre. La donna, come di
consueto fredda e distaccata, sembra già aver dimenticato il
compagno; non vediamo il volto, ma il linguaggio del corpo, la
gestualità e la prossemica indicano un atteggiamento sicuro ed
assertivo di chi ha ormai deciso; l'uomo, invece, anche lui di
spalle e curvo sotto il peso della disperazione, cerca ancora la
compagna, attaccato alla flebile speranza che possa cambiare idea.
Con la postura di chi, prostrato all'inafferrabile amante, la
insegue inutilmente, rivela la sua condizione d'animo, la sofferenza
e la difficoltà patite, perché lei, che rappresenta il suo unico
grande amore, è andata oltre e lo ha già dimenticato.
Prima
di crollare sotto l'inevitabile crisi psicotica, che lo coglie nel
1908, il maestro si dedica con un certo interesse alla tecnica
fotografica .
Con un piccolo apparecchio Kodak
Cam,
che, grazie all'autoscatto gli consente di guardarsi e
auto-ritrarsi dal di fuori, compie
un esercizio di drammatica introspezione, definita negli
appunti “fotografia fatale”, comunicante ancora una volta lo
sfaldamento e la solitudine cui è condannato l'uomo moderno .
Una serie di autoscatti, privati ed intimi, documenta dall'esterno
lo stato di escluso universale e fa luce sull'ossessione mentale,
che logora il maestro, raccolta attorno alla visione maniacale
dell'individuo solo, e, non a caso, si rappresenta morbosamente
concentrato sulla condizione di emarginato. Non si tratta, però, del
τόπος letterario dell'isolamento dell'artista che si sente
perseguitato dalla vita, piuttosto consiste nell'indagine sulla
solitudine che affligge chiunque si adegui o non si adegui ai tempi.
La
crisi psicotica e la rinascita degli ultimi anni
Agli
inizi di ottobre del 1908, Munch è ospite presso l'Hotel
Wied di
Copenaghen, i giorni passano tra intense e faticose mattinate di
lavoro e fumose nottate all'insegna di vizi e pesanti bevute. Le
già precarie condizioni di salute psico-fisica sono aggravate da
un'esistenza da nomade cui lo costringono le continue inaugurazioni
di mostre che, in giro per l'Europa, si susseguono a ritmi serrati.
Sfinito nel fisico e nella mente, deve convivere con i soliti
problemi mentali e con nuove situazioni di tensione, fino a quando,
all'alba del 3 ottobre, scoppia in una crisi psicotica acuta: è
preda di deliranti allucinazioni, dice di sentire delle voci. Sceglie
autonomamente di ricoverarsi nella clinica privata dell'amico
dottor Daniel Jacobsen (1861-1939) e vi rimane fino al 30 aprile 1909 .
Durante
la degenza, il maestro, sottoposto a diverse terapie (massaggi, bagni
di varie sostanze e ripetuti trattamenti di elettroterapia, che
rappresentano l'ultima novità in campo terapeutico), documenta il
ricovero attraverso disegni, dipinti e scritti .
In Autoritratto
in Clinica (1908/1909,
schizzo su carta 13,7×21,2 cm, MunchMuseet
Oslo) si vede il medico, assistito da un'infermiera, occuparsi del
pittore attraverso l'azione elettrica. Nella parte superiore del
foglio il pittore appone una frase manoscritta piuttosto eloquente
del suo pensiero: «Il
professor Jacobsen elettrifica il celebre pittore Munch e porta al
suo fragile cervello una forza positiva maschile e una forza negativa
femminile» .
La cura dell'elettroshock viene proposta al paziente al fine di una
“disintossicazione” mentale dalla figura di Tulla, che, a
distanza di 6 anni, ancora lo ossessiona. Nei mesi passati in
riabilitazione, Jacobsen diventa uno dei soggetti preferiti di Munch,
a lui dedica molte annotazioni, ritratti e persino un olio (Professor
Daniel Jacobsen,
1908-09, olio su tela, 204×111,5 cm, MunchMuseet,
Oslo). Dal Diario
apprendiamo di un rapporto non proprio paritetico tra i due, il
pittore sente rispetto e avverte tutto il fascino legato
all'autorevolezza del ruolo del luminare, “(...) è un bravo medico
– scrive – (...) cammina come un papa tra infermiere vestite di
bianco e pallidi pazienti. (...) tutto era bianco eccetto Jacobsen
(...)» ,
le parole rivelano l'ossequio e il timor-reverenziale nutriti nei
confronti del medico e, seppur intimidito e vacillante al suo
cospetto, la grande ammirazione provata lo convince a domandargli “di
posare” per un suo quadro. A parti invertite, il maestro intuisce
di aver, in un certo senso, ripreso il controllo «sentivo
di dominare lui – scrive nel taccuino - proprio lui che mi aveva
dominato»
e mentre lo ritrae «in
piedi, tra le fiamme dell'Inferno, mentre guarda verso il basso
come un papa guarda dall'alto, e sotto le infermiere in abito
bianco e noi, i pallidi e ammalati pazienti (...)»
implora «
(...) misericordia e divenne cosi gentile come una colomba (...).
Quando ho dipinto Jacobsen ero io il padrone» .
Il
dottore ha, evidentemente, il polso di ferro, l'artista mal sopporta
la sua autorità e cerca di prendersi la rivincita nei momenti in cui
l'uomo posa per lui, ma alla fine viene dimesso dall'ospedale
convinto a seguire tutte le sue prescrizioni: niente tabacco, niente
sigarette, niente alcol, niente veleni e niente donne.
I
mesi di degenza e terapia sono per il Norvegese anche l'occasione per
riflettere sulla sua condizione malato psichico e di genio, nel Diario
annota di non voler rinunciare al suo «(...)
malessere, perché gran parte della mia arte gli è debitrice. (...)
le mie sofferenze sono parte di me stesso e della mia arte. Esse sono
inestricabili da me e il loro annientamento significherebbe la
distruzione della mia arte» ,
sebbene questo comporti cambiare la sua stessa natura, mutare forse
in un altro individuo e perdere la propria identità, prende la
consapevole decisione di voler lavorare alla guarigione attenendosi
alle predette indicazioni: “donne senza veleni, sigarette senza
tabacco e bevande senza alcol” .
Una
volta uscito, nel 1909, convinto dall'amico Jappe, fa finalmente
ritorno in Norvegia, inizia un nuovo capitolo della sua vita, molto
diverso da quello precedente, è un uomo che ha deciso di
riconciliarsi con sé stesso, con le proprie radici e con la propria
condizione nervosa: adotta uno stile di vita salutare,
particolarmente attento alla dieta, al punto da diventare
vegetariano, rinuncia definitivamente al bere ed è più controllato
nel fumo e negli altri vizi; ricusa il disordine e il caos; viaggia
anche meno, limitandosi a brevi trasferte d'affari; evita
situazioni amorose potenzialmente tossiche; infine, frappone tra sé
e il mondo un metaforico recinto, le mura del proprio atelier,
in cui la solitudine da condanna diventa scelta di vita.
Dapprima,
si stabilisce sulla costa, nella sua casa di Åsgårdstrand, da dove
può dipingere guardando il mare e il paesaggio, quindi, nel 1916,
acquista la tenuta nel quartiere di Skøyen della capitale; quivi si
ritira, per i successivi 28 anni, in quasi totale isolamento, non
frequenta che pochi amici intimi e qualche acquirente facoltoso, così
si guadagna l'epiteto “il solitario di Ekely” .
Venuto
meno il fantasma persecutorio della malattia, l'animo,
rasserenato, si riflette nella sua arte, che, diventando
più estroversa, ma non meno convincente, esprime un
inedito senso di quiete ed armonia: abbandonato l'immaginario
angosciante legato alla sua famiglia, reso universale nelle sue
composizioni, cambia il carattere dei soggetti che, meno pessimisti,
si
tingono di colori
vivaci. La tormentata qualità della sua arte, la carica emotiva e la
potenza evocativa, tipiche della produzione matura, si perdono, senza
rinunciare a quella capacità introspettiva che seguita a persuadere
il pubblico, emotivamente coinvolto in situazioni non più negative.
Il
cambio di rotta è annunciato dal suo primo grande progetto pubblico:
la decorazione muraria per l'Aula Magna dell'Università di
Kristiania. Si tratta di un Fregio,
di nove pannelli murari, che lo impegna per 7 anni, dal 1909 al 1916,
in cui si affronta il tema dell'uomo in balia degli elementi
universali del mondo, le cd “potenti forze eterne”, con un Sole,
come figura centrale, a cui lavora dal 1909 al 1911, che sorprende,
riscalda e riscatta, circondato da una serie di narrazioni legate
alle scienze naturali, alla religione e alla nascita dell'universo
(Il
sole, 1908-1911,
olio su tela, 780×455 cm, Aula
Magna Università di Oslo,
Oslo; La
montagna umana: verso la luce, 1927-1929,
olio su tela grezza, MunchMuseet,
Oslo) .
La composizione rappresenta un nuovo punto di partenza per la
carriera del maestro, essa simboleggia il potere e l'ingegnosità
della vita, «Un
sole abbagliante di luce, simbolo dell'onnipotenza e dell'energia
della natura, la ruota del sole si alza sopra il mare e l'orizzonte,
che divide esattamente a metà l'immagine e irradiando si frange come
un gigantesco caleidoscopio. È l'immagine della creazione della luce
che aveva ossessionato gli artisti romantici del Nord-Europa, laddove
il lungo inverno la estingue e tanto più drammatica è la
resurrezione del sole che durante l'estate regna sulla notte» .
La
sua ideazione si radica profondamente nel processo di rinascita dalla
crisi che lo ha visto ricoverato per diversi mesi nella clinica
psichiatrica danese. Si tratta, infatti, di una assertiva
dichiarazione di energia positiva contro la depressione lunare della
malinconia, tipica del vecchio Munch, il modo, cioè, del nuovo Munch
di “uccidere il chiaro di luna” come urlato a gran voce dai
futuristi in quegli stessi anni!
E allora, in quel lancio di scaglie di colore del disco solare,
avvertiamo un impeto vitalistico che mette in fuga gli antichi
fantasmi .
Il Ciclo
dell'Ateneo rappresenta il prosieguo naturale del Fregio della
vita, «il
fregio – scrive il maestro - mostra dolori e piaceri dell'esistenza
individuale vista senza rendere la distanza, i pannelli
dell'università mostrano le eterne forze universali» .
Le scene monumentali, caratterizzate da colori freschi e decisi e da
quello spirito insolitamente ottimista, sono elaborate come vere e
proprie finestre spalancate su un mondo dall'aurea rinnovata .
Questa inedita attitudine positiva trova riscontro nell'ennesimo
mutamento della pratica artistica: con le tele dell'Aula Magna, assistiamo,
infatti, ad una nuova e crescente necessità di frantumare la
superficie e la linea.
L'artista
procede a colpi di pennello, senza rispettare i contorni che, dal
tratto largo e nervoso, come segni di frusta, corrono attraverso la
pittura in verticale, in orizzontale e in diagonale, sfilacciando
l'immagine e allo stesso tempo bloccandola in una matrice di
confluenze cromatiche. Una precoce prova di questa svolta stilistica
la si intravedere nella resa pittorica di La
morte di Marat,
dove, nella continuità dei contorni e nel delimitare le zone di
colore, già si presenta l'allontanamento dal Sintetismo,
praticato in precedenza.
I
maestosi pannelli (La
Storia, Alma Mater e Il Sole),
estranei alla tipica produzione munchiana, si inseriscono nel solco
della grande pittura murale norvegese dei protagonisti (Erik
Werenskiold (1855-1938) e Gerhard Munthe (1949-1929)), pur
discostandosene per motivi, stile e tecnica. Essi mostrano, invece,
un debito verso il Fregio
di Beethoven
di Klimt, ideato, nel 1902, per il Palazzo
della Secessione
viennese. Oltre che indicare una ultima via nella produzione del
pittore, segnano anche un nuovo corso per l'arte monumentale
nordica, proclamando il maestro iniziatore della moderna decorazione
murale scandinava, rinnovata nel repertorio dei temi indagati e nelle
forme, non più retorico-classicheggianti . Ne il Sole,
fonte primaria di luce, Munch rende omaggio alle sue infinite
energie, con un dipinto che è un inno alla vita. Nonostante le
notevoli dimensioni, il pittore abdica alla tradizionale tecnica su
muro ad affresco, preferendo, invece, la tela, più consona a
ricevere la sua vigorosa pennellata, che imprime e sprigiona la
potenza del colore di questa fase. Il soggetto occupa e domina
centralmente la scena; si erge all'orizzonte e si impone con tutta
la sua forza vitale, invadendo con la luce dei raggi, che si espande
all'intorno coprendo tutto lo spettro dei colori (giallo, arancio,
rosso, viola, blu e verde), l'intero creato, il mare, il cielo e la
terra. Ne risulta un paesaggio ampio e scenografico che si apre tra
due zone rocciose, un'insenatura a semicerchio che fa da eco
all'astro che tutto abbraccia, che dona la vita, il calore, la
luminosità e che annienta le tenebre della complicata esistenza
moderna.
Subito
dopo aver vinto la gara per la Hall
dell'Università, nel 1910, partecipa, per l'ultima volta, con 4
litografie, al Salon
des Indépendants
di Parigi.
L'anno
successivo espone in Germania i disegni progettuali per il Fregio
dell'Università ed altri dipinti di nuova ideazione.
Saldamente
affermato come uno dei più importanti artisti modernisti europei,
viene invitato in tutta Europa; nel 1912, alla mostra Sonderbund
di Colonia, assieme a Picasso, viene accolto come uno dei pittori
viventi tra i più significativi della modernità e capostipite
dell'arte contemporanea, gli viene, addirittura, riservata una sala
che lo celebra, assieme ad artisti di fama ormai indiscussa, ma
defunti, come Cézanne, Van Gogh e Gauguin. A dispetto di tanta
risonanza in tutti gli ambienti, i Musei e le istituzioni ufficiali
di Stato tardano, però, ad arrivare ad esporre le sue opere nelle
proprie collezioni.
Nel
1913, la sua arte sbarca oltreoceano e partecipa con una cartella
grafica, di otto incisione, all'Armony show
di New York, evento che segna l'inizio dell'Arte
Moderna negli
Stati Uniti.
Dal
1916, anno in cui acquista la proprietà di Ekly, sceglie di isolarsi
ulteriormente e sempre più progressivamente dalla vita sociale,
il rapporto con la capitale norvegese rimane quello di sempre, teso
ed ostile nonostante la riconosciuta fama internazionale. Il ritiro
dalla scena pubblica non gli impedisce, però, di rimanere
costantemente aggiornato sui movimenti della pittura europea, che
riversa nella sua arte. Continua ad essere molto produttivo ed
attento fin quasi alla fine della sua esistenza.
Nel
1917, lo storico dell'arte tedesco, Curt Glaser (1879-1943),
pubblica a Berlino una nuova monografia del maestro (ristampata
successivamente nel 1918 e nel 1922).
L'anno
successivo, il Fregio
della vita,
modificato ed arricchito di nuove aggiunte, è esposto alla Galleria
Blomquist di
Oslo: l'opuscolo di presentazione della mostra è redatto, per la
prima volta, dal maestro che, con le sue parole e secondo la propria
visione, riferisce sul suo significato. Il Ciclo
è poi allestito, per l'ultima volta, nel 1927,
con una mostra-evento dislocata su due sedi in contemporanea (Oslo (289
quadri) e Berlino (244 dipinti)). La Serie è
cresciuta esponenzialmente rispetto al primo allestimento, che
contava solamente 6 tele, arrivando a diventare una poderosa
narrazione di vita. Anche nel suo ultimo decennio di attività, Munch
non smette mai di lavorarci.
Nel
1918, la Bremer
Kunsthalle
riceve, in forma di dono da parte della Galerie-Vereins,
una replica de Madre
morta,
l'acquisizione da parte dell'istituzione pubblica dà inizio al
nuovo processo di affermazione presso i luoghi dello Stato, e, nel
1921, la Frankfurts
Städtische Galerie
acquista due opere del pittore. Negli anni '30, a dispetto della nota
riluttanza del maestro a separarsi dalle proprie composizioni, quasi
tutti i musei tedeschi importanti possiedono quadri del Norvegese.
Molto richieste sono ora le discusse prime prove, e, nel 1931, la NasjonalGalleriet
di Oslo acquista la prima versione di Bambina
malata
(fig. 1).
Quando,
la sorella Laura muore, nel 1926, Edvard si ritira ulteriormente
nell'isolamento della propria casa, interrotto solo dalla presenza
di Inger la minore, che non ha il permesso di salire al secondo piano .
Qualche
anno dopo, nel 1930, l'artista subisce una lesione ai vasi
capillari dell'occhio destro, rischia la cecità. Il ricovero e le
cure gli permettono un graduale recupero. La tragica esperienza,
però, particolarmente gravida per un artista, lo induce a studiare,
con pazienza e con la curiosità di uno scienziato, i disturbi visivi
e le conseguenze della malattia. Li racconta in una serie di disegni
ed acquarelli
a carattere quasi astratto
che si realizza in composizioni di cerchi concentrici intorno alla
parte colpita. Da essi
emerge significativamente il ricordo della malattia e come questa
abbia influito su quella parte di esistenza. Non
si tratta, propriamente, di opere d'arte, ma rappresentano una
testimonianza del dolore personale estendibile, ancora una volta, a
tutta l'umanità.
L'anno
seguente muore la zia Karen, Munch non ha la forza di presenziare ai
funerali assieme alla famiglia, che già frequenta poco, ma che
sostiene economicamente con generosità, per cui vi assiste dalla
vettura a distanza .
Al
1933, risale il suo ultimo viaggio fuori dalla Norvegia, si reca a
Göteborg; il suo settantesimo compleanno è festeggiato in patria
come festa nazionale e gli viene conferita la Grande
Croce di St. Olav.
L'anno successivo, riceve l'onorificenza di Commandeur
de la Légion d'Honneur
dalla Francia, che spera in una sua visita che, però, non avviene.
Membro
dell'Accademia
Tedesca delle Arti e
socio onorario dell'Accademia
Bavarese di Arti Figurative,
in tutta Europa, è acclamato come artista di primo piano. La sua
produzione prodigiosa non si ferma, i soggetti, abbiamo visto, mutano
carattere, ma non perdono di convinzione, anche se la carica emotiva
tipica degli stati psicologici estremi delle opere della maturità
non c'è più. Si limita a realizzare ritratti, per lo più su
commissione (Harry
Kessler,
1906, olio su tela, 200×84 cm, Neue
Nationalgalerie,
Berlino)
e, talvolta, operai al lavoro o mentre arrancano nella neve
(Spalaneve, 1931-1933,
olio
su tela, 192,5 × 130 cm, MunchMuseet,
Oslo; Lavoratori
nella neve, 1913-1915,
olio su tela, 800×642, MunchMuseet,
Oslo); i nuovi temi, non più mutuati da esperienze intime, ma frutto
di osservazioni ed introspezioni su soggetti esterni, sono
caratterizzati da quella rinnovata forza vitalistica, introdotta con
il Sole
dell'Università, e da un inedito dinamismo, di matrice forse
futurista .
La potenza emotiva delle composizioni precedenti lascia il posto ad
un mood
struggente e nostalgico. Dal punto di vista stilistico assistiamo
all'approfondimento dell'orientamento, preannunciato con La
morte di Marat,
verso il linguaggio fauve
e il colorismo di Matisse: la libertà delle pennellate, il ricorso a
colori accesi, usati in modo complementare e la resa sintetica e
semplificata delle forme denotano, infatti, un debito, seppur
episodico, verso i francesi. A questa fase matissiana appartiene Modella
con sedia di vimini (1919-1921
ca, olio su tela, 122,5×100 cm, MunchMuseet,
Oslo), le cui suggestioni espressioniste sono evidenti nell'uso di
tinte divise e stridenti: la scena è occupata, quasi per intero,
dalla modella nuda, in piedi, con lunghi capelli spettinati, il corpo
ruotato di tre quarti, le braccia distese lungo i fianchi e la testa
inclinata verso il basso. Sulla sinistra intravediamo la sedia in
vimini, che dà il titolo al dipinto, coperta da un tappeto decorato
a vivaci motivi geometrici. I colori appaiono insolitamente saturi,
vividi e sgargianti, sia nel fisico della donna, contraddistinto da
toni che vanno dal giallo all'azzurro, con tocchi di rosso e di
verde, che nei capelli scuri dai riflessi blu elettrico. Un'analoga
luminosità, di stessa matrice, suggerita dall'accostamento dei
complementari blu e arancione, con ombre verdi e viola, si ritrova
sullo sfondo, aperto prospetticamente verso la fuga della stanza. Il
rapporto con Matisse, abbiamo detto, è puramente episodico, presto,
infatti, il Francese muta il suo colorismo in una decoratività che
rimane estranea a Munch orientato, invece, verso un'espressività
ancora più forte e violenta.
Altra
tela emblematica della produzione tarda è Autoritratto
tra l'orologio e il letto (fig. 15)
Fig. 15 - EDVARD MUNCH, Autoritratto tra l'orologio e il letto, 1940-1943
olio su tela, 149,5 X 120,5 cm., MunchMuseet, Oslo
Foto cortesia di Giorgia Duò
in cui il maestro si ritrae in piedi, in posa statica, e si descrive
impietosamente nella propria decadenza fisica tra un emblematico
orologio e un altrettanto significativo letto, due oggetti mutuati
dalla quotidianità che si caricano di una valenza allusiva centrale:
l'artista sembra, infatti, dichiarare di trovarsi nella condizione
di attesa dell'ora fatale, tra l'inesorabile scorrere del tempo e
il sonno eterno, che giungerà a breve. Una serie di elementi
simbolici rimarca il significato metaforico della composizione: la
luce, allegoricamente dietro le spalle del protagonista, suggerisce
di una vita vissuta, di cui rimane ancora ben poco; l'orizzontalità
del letto incrocia la verticalità dell'orologio a formare due assi
che definiscono lo spazio fisico del quadro, nonché a delimitare
figuratamente quello dell'esistenza; il riflesso a terra, della
porta a vetri, disegna una simbolica croce ai piedi del soggetto e
deflette l'idea di pavimento da sostegno vitale a pietra tombale;
infine, il nudo
di donna,
presente in altro a destra del dipinto, è lì a significare, come un memento
mori,
che si tratta di passioni oramai dimenticate .
Gli
stessi ultimi drammatici autoritratti realizzati dal Norvegese
mostrano, con una nuova e diversa concretezza, una consapevolezza
fisica di sé che raggiunge toni deflagranti (Vagabondo
nella notte, 1923-1924,
olio su tela, 90×68 cm, MunchMuseet,
Oslo; Autoritratto
con cappello e cappotto,
1923-1924, olio su tela, 80×135 cm, MunchMuseet, Oslo; Autoritratto
con mani in tasca,
1926, olio su tela, 104×65 cm, MunchMuseet, Oslo).
Anche
quando riprende temi passati, questi sono resi con un colore che si
sfalda o muta in evocazioni ,
di queste nuove versioni, l'artista scrive nel Diario che «(...)
sono ombre e movimenti (...) ombre come le vede il prigioniero in
cella, quelle curiose, grigie strisce d'ombra che fuggono e poi
tornano, che scivolano via e si riuniscono come ventagli» .
Ancorché
elogiato da Goebbels, nel giorno del suo settantesimo compleanno,
come erede della natura nordica, colui che ha saputo liberare l'arte
da ogni Naturalismo
artificiale per riportarla alle origini della vera ed eterna
creatività artistica della razza ariana, con l'avvento del
nazismo, le sue opere sono incluse nella famigerata lista dell'azione
nazionalsocialista Entartete
Kunst,
quindi, 82 dei suoi quadri sono rimossi dai musei, assieme a quelle
di Picasso, Matisse e Gauguin, e, nel 1937, il regime
indica 71 dei suoi dipinti tra le opere da distruggere. Quando, però,
si diffonde la voce che le epurazioni si stanno scagliando contro
l'arte del maestro, interviene il gerarca che, nutrendo ammirazione
per l'artista, fa in modo che i suoi lavori non vengano portati
all'Esposizione di Monaco sull'Arte
Degenerata.
Il
27 aprile del 1940, nove giorni dopo l'occupazione tedesca, Munch,
che rifiuta sistematicamente ogni forma di avvicinamento ai tedeschi,
respinge tutti i tentativi del governo di Vidkun Quisling,
collaborazionista norvegese, di convincerlo ad appoggiare il regime a
garanzia del suo interesse, e, per evitare trafugamenti e dispersioni
dei suoi quadri, stipula un accordo con il sindaco del Comune di Oslo
per il trasferimento delle opere presso un “luogo sicuro”.
Il
19 dicembre 1943, una settimana dopo l'80° compleanno di Munch, una
gigantesca esplosione scuote la capitale, l'artista si sveglia di
soprassalto per il rumore, si alza ed inciampa nell'oscurità
invernale. Il giorno dopo si desta raffreddato e febbricitante,
dall'influenza non si riprende più completamente e all'inizio
del 1944 si ammala seriamente di bronchite che degenera in polmonite;
il 23 gennaio, appena un mese dopo il suo ottantesimo compleanno,
muore pacificamente nel suo letto.
L'affare
“Munch e il nazismo”, iniziato come un dramma con ostacoli e
rifiuti da parte del pittore, si conclude con un atto tragicomico, in
cui il governatore del Reich Josef Antonius Heinrich Terboven e
Quisling fanno deporre ghirlande celebrative sulla bara del pittore,
che non ha mai accettato alcuna forma di collaborazione con il
regime.
Alla
sua morte, i familiari riescono finalmente ad accedere al secondo
piano della casa, da anni interdetto a loro e agli ospiti, quivi,
stipati in diversi armadi e stanze, alcune delle quali chiuse e
dimenticate da tempo, sono rinvenuti 1008 dipinti, 4443 disegni,
15.391 stampe, 378 litografie, nonché sculture, manoscritti (diari,
lettere, annotazioni ...) e diverse fotografie. Il tutto viene donato
per volontà del maestro alla città come legato testamentario.
Il
lascito ha dato vita al MunchMuseet,
che è inaugurato il 29 maggio del 1963, dopo che, nel 1949, il
consiglio comunale approva la costituzione di un museo per la
conservazione del patrimonio ereditato dal maestro e, nel frattempo,
accresciuto dalla donazione della sorella Inger, morta nel 1952.
La
residenza, ereditata anch'essa dalla comunità locale, viene,
purtroppo, demolita nel 1960. Del complesso sopravvive nella forma
originaria solo l'atelier
invernale del
pittore, progettato, nel 1919-20, dall'architetto del municipio
Arnstein Arneberg (1882-1961) all'interno dell'ampia tenuta, e
ingrandito, dieci anni più tardi sui disegni dell'amico Henrik
Bull (1864-1953). Ekely è oggi una fondazione e lo studio
di Munch, ancora funzionante, viene utilizzato da aspiranti giovani
artisti norvegesi e stranieri pronti a raccogliere il lascito del
maestro. La proprietà viene aperta a visitatori solo in alcune e
sporadiche occasioni.
Dopo
la sua scomparsa, la fama del pittore continua a crescere e le sue
opere hanno sempre più fortuna. Per aver percorso ed aperto strade
ai suoi tempi inconcepibili ed impensabili è ammirato e rispettato
dai grandi pittori del Novecento, in particolare dagli
espressionisti, di cui è l'indiscusso precursore, ma ai quali non
si unisce mai, nonostante le reiterate richieste di partecipazione. È
diventato, anche se ancora non c'è unanime riconoscimento, colui
senza il quale la vera Arte
Moderna
e le molteplici tendenze che ne sono scaturite probabilmente
avrebbero avuto esiti diversissimi.
Ma
per tutta la vita l'artista afferma con ostinazione di essere nel
suo profondo simbolista e di aver mantenuto sempre un linguaggio
figurativo formale .
Di lui Argan asserisce che «non
crede al superamento, ma al ribaltamento dell'Impressionismo: dalla
realtà esterna all'interna. La sua tendenza spiritualistica lo
porta verso il Simbolismo, ma anche il Simbolismo va rovesciato: non
dev'essere un processo di trascendenza, dal basso all'alto, ma un
processo dall'alto al basso, dal trascendente all'immanente. Il
simbolo non è oltre, ma dentro la realtà; attacca le radici stesse
dell'essere, l'esistenza e l'amore, l'amore diventa
ossessione sessuale, la vita morte» .
E se in Munch, e, a partire da lui, non conta più la sola
rappresentazione, un nuovo ruolo viene riservato alla materialità
della pittura, dei suoi strumenti e alla capacità di evocare
sensazioni. Ciò non significa che la forma venga meno o che i nuovi
mezzi espressivi prevarichino la composizione, anzi, grazie
all'inedita alleanza tra medium
e resa formale si crea una nuova sintonia tra figura, ambientazione e
significato.
L'armonia,
nata da quell'agire, che si innesta tra l'artista, la tela, la
pittura, le idee e le energie della natura, e che, dall'intimo del
gesto e dal profondo del colore, sovrasta e tormenta, ma, alla fine,
purifica ed aiuta a far emergere la visione dell'artista, proietta
il pittore e la sua opera nel nuovo secolo tenendolo, però, ancorato
saldamente all'evocazione del Simbolismo
di fine ‘800.
Appendice
1
Contesto
e κοινὴ
culturale nordica
Se
l'infanzia dell'artista è, indubbiamente, condizionata da
situazioni che minano l'emotività del giovane Munch e
contribuiscono a generare quello stato di profonda angoscia ed
inquietudine che ritroviamo nella sua produzione, che, evidentemente,
prima di riversarsi nella sua arte, è già presente nell'animo del
maestro, non condividiamo l'idea che limita il delinearsi della sua
introversa e fosca personalità ai condizionamenti biografici o alla
mera fascinazione provata nei confronti di sentimenti negativi, come
ansia, inquietudine, sofferenza e morte tipica delle popolazioni
nordiche.
La
sua pittura, intrisa di introspezione e di acute analisi dei moti
interiori dei soggetti, è un qualcosa che travalica
l'autobiografismo e si inserisce nel più ampio e vivace contesto
socio-culturale fatto di querelle,
battaglie ed affermazioni personali ed universali che la letteratura
e la filosofia del tempo restituiscono. Quanto perseguito dal Nostro
lo ritroviamo, infatti, negli esiti delle ricerche portate avanti dai
drammaturghi connazionali e dai filosofi del tempo.
Henrik
Johan Ibsen (1828-1906)
e August Strindberg (1849-1912)
sono stati i due maggiori drammaturghi della letteratura della
Scandinavia; nemici e amici, vicini e lontani, seppur con molte
diversità, scrutano con un fare inclemente la società moderna e le
sue contraddizioni. Strindberg si considera più leggero del collega
norvegese, il cui duro spirito vichingo impregna il suo lavoro con
restituzioni crude e profonde, e reputa l'anima svedese, la sua,
più affine a quella francese, e dunque, più leggera, raffinata ed
elegante. La loro opera risulta fondamentale per comprendere il
cosiddetto Secolo
Breve
e la sempre più fitta opacità del presente. Ribattezzati in Francia
“les révoltés scandinaves”, sono tra i più acuti interpreti
della crisi contemporanea, allo stesso modo Munch in pittura assurge
allo stesso palco. Non è un caso, pertanto, che nella Berlino di
fine ‘800 si proclami che “dal Nord arrivi la luce”, come ad
intendere che la cultura eversiva delle latitudini più fredde giunge
per rischiarare e rinnovare le convenzioni bigotte dell'Impero
guglielmino alle
soglie del XX secolo. L'intero teatro del Novecento, dalle Avanguardie
in poi, sarebbe semplicemente impensabile senza i contributi, le
suggestioni e gli stimoli contenuti nelle loro pièce.
In
rari momenti di sincerità, Strinberg riconosce a Ibsen il ruolo di
maestro: si deve, infatti, a lui quell'azione dirompente che porta
il teatro nordico ad una maggiore libertà nel concepire l'idea di
scena, nonché l'introduzione di quello sguardo impietoso nei
confronti della vita da cui lo Svedese parte per attuare la sua
rivolta. E se prima di Ibsen la funzione del teatro è ancora legata
alla catarsi consolatoria, a partire da lui viene meno ogni forma di
edulcorazione delle apparenze e si comincia a lanciare delle sonde
emotive che scavano e vanno in profondità estrema, per cui i
personaggi e la stessa messinscena diventano profondamente
psicologici. Lo stesso processo investe la pittura di Munch, che
rivela una certa conoscenza e sintonia con il lavoro dell'anziano
drammaturgo, considerato, non a caso come un fratello. A partire,
poi, dalle novità ibseniane, Strindberg attua quel processo di
eversione del teatro borghese attraverso una sperimentazione ed una
ricerca di forme teatrali più moderne e novecentesche. I legami tra
il Nostro e i due scrittori sono forti e diretti nonché provati
dalle reciproche suggestioni .
Il
fatto che Munch condivida il suo pensiero con quello dei due
Scandinavi, ed insieme restituiscano uno spaccato di una società
smarrita e spaurita, alla costante ricerca di un perché
inafferrabile ed indecifrabile, corrobora la teoria secondo cui le
sue restituzioni pittoriche siano il risultato di suggestioni non
esclusive o biografiche, ma frutto di istanze di natura
socio-culturale influenzate, anche, dalla coeva corrente filosofica
esistenzialista di matrice nordica (in
primis,
Søren Aabye Kirkegaard, filosofo danese (1813-1855) padre
dell'Esistenzialismo, ma anche Arthur Schopenhauer (1788-1860) e Friedrich
Wilhelm
Nietzsche (1844-1900) di cui l'artista realizza un ritratto postumo
(1906, olio su tela, 201×160 cm, ThielskaGalleriet,
Stoccolma)), nonché dalla neonata scienza psicanalitica di Sigmund
Freud (1856-1939), a cui l'artista guarda con ossessione, trovando
interessante l'idea, propugnata dall'Austriaco, secondo cui la
società borghese, bloccata ed inibita da convenzioni bigotte, è
governata da impulsi sessuali repressi.
La
teoria esistenzialista di Kirkegaard, con cui il Nostro entra in
contatto a metà degli anni '80, asserisce che l'arte debba
rappresentare l'inquieta ed intima esperienza del suo creatore, non
deve, cioè, raffigurare “ciò che appare, ma ciò che sente”. Il
pensiero è chiaramente condiviso da Munch che nel suo Diario
scrive di non dipingere “ (...) ciò che vedo, ma ciò che ho
visto» ;
concetto ribadito nella diffusa e nota affermazione secondo cui “
(...) non si dovranno più dipingere interni con gente che legge o
donne che lavorano a maglia. Si dipingeranno uomini che vivono, che
respirano, che sentono che soffrono, che amano» .
Più in particolare, ritroviamo interpolazioni tra il pensiero del
pittore e alcune considerazioni di Kirkegaard, “oppresso dal
sentimento dell'angoscia”
e in preda “fin dall'infanzia (...) della forza di
un'orribile malinconia” ,
in cui il Norvegese si ritrova. E la visione della vita umana
elaborata dal Danese secondo un procedere per step
(fase estetica, fase etica, fase religiosa) ispira chiaramente la
struttura del Fregio
della vita,
strutturato secondo l'alternanza di quattro momenti progressivi e
fondamentali del vivere dell'uomo.
La
novità del suo linguaggio, dunque, ha dei riscontri analoghi nella
cultura nordeuropea lato
sensu.
Dall'avvicinamento alle riflessioni e posizioni dei protagonisti
del tempo, Munch matura un linguaggio permeato dal senso d'incombente
angoscia e di morte che aleggia nei suoi quadri e che riverbera nei
pensieri dei filosofi e negli scritti dei poeti e drammaturghi.
Appendice
2
La
scrittura-laboratorio nel Diario
di Munch
Appena
ventiseienne, il maestro inizia ad appuntare, quasi maniacalmente, le
sue esperienze su fogli e taccuini; la sua scrittura si rivela su
migliaia di carte, spesso embricate da immagini, simboli e colori
(figg. 2 e 9). Il MunchMuseet
di Oslo, dal 2014, ha avviato un progetto di
digitalizzazione di
tutte le lettere, i diari e i manoscritti conosciuti; è stata creata
una piattaforma dove poter fare ricerche d'archivio in ordine
cronologico, per personalità e per parole chiave .
La
scrittura del maestro, ortofonetica, priva di punteggiatura e
maiuscole, si realizza in annotazioni caotiche e tentativi letterari,
in prima e terza persona, che passano da soggetti reali a personaggi
immaginari. Questa ricca letteratura di carattere intimistico, stesa
nell'arco della sua intera esistenza è oggi significativamente
detta Diario
Illustrato
(uno zibaldone personale, che accompagna gran parte della vita del
pittore a partire dal 1889, fino almeno al 1935) . Definiti dal maestro “diari dell'anima”, egli li considera
una
sorta di finestra sulla propria intimità, «ho
intenzione – scrive, nel 1929, all'amico storico dell'arte
svedese Ragnar Hoppe (1885-1967) - di raccogliere in un insieme gli
appunti (...) che io chiamo diari dell'anima (...), provo a
organizzarli, ma non so che cosa ne verrà fuori» .
Dal
Diario emerge, come necessità indeclinabile, l'ossessione di
annotare qualsivoglia vicenda occorsagli, affiora altresì la cupa e
fosca personalità, che ritroviamo anche nella produzione artistica,
di uomo, incapace di comprendere la ragione ultima dell'esistenza.
Dalla lettura combinata di scrittura e quadri scaturiscono
interpretazioni e spiegazioni più o meno convincenti dei suoi
lavori, uno spaccato piuttosto preciso del pensiero dell'autore la
cui arte, afferma in un'annotazione, “(...) si nutre del sangue
dell'artista” .
Oltre a testimoniare della diretta relazione tra vita e pittura, ci
informa di vicende private, di innamoramenti, di amori, di sentimenti
feriti, di stati depressivi e di angoscia, ma anche dei ripetuti
incontri con la morte .
Questo Diario,
insomma, sebbene sia un insieme convulso e caotico di note
manoscritte, ancora parzialmente inedito, di cui Marco Alessandrini,
medico psichiatra, direttore scientifico della Scuola
di Specializzazione in Psicoterapia
di Chieti, interessato alla figura di Munch e a quanta parte di
autobiografia entri nella sua opera, nel 2007, realizza una raccolta
abbastanza sistematica, è lo strumento che meglio ci rivela i
tormenti e gli stati d'animo del pittore, nonché un medium
operativo attraverso cui l'autore si interfaccia ed si interroga,
prima che i quadri prendano forma. Ed è significativo che, nelle
intenzioni testamentarie del maestro, stilate nel 1940, alla sua
morte, tutti gli scritti (diari, lettere, note e romanzi con immagini
inframmezzate ...) debbano passare alla Municipalità
di Oslo,
con la precisazione che il “(...) giudizio di esperti deciderà se
e in quale misura debbano essere pubblicati» .
Il Diario,
dunque, ci consegna una sintesi della vita, delle opere e
dell'attività creativa del maestro inserite in uno spaccato della
società smarrita e spaurita, alla costante ricerca di un perché
inafferrabile ed indecifrabile, in cui si muove il Norvegese.
L'attività diaristica diventa il testimone privilegiato della
ricerca sperimentale messa in atto dal maestro e viene utilizzata
come strumento di pianificazione e ispirazione. Attraverso i fogli
Munch realizza, cioè, collage
di immagini e parole, variamente colorati e delineati, volti a
focalizzare il perché delle sue azioni e facendo del Diario
il luogo della progettazione, in cui emozioni, sentimenti ed
evocazioni che inizialmente si affastellano nella mente e nelle
pagine scritte, emergono più chiaramente e lucidamente per essere
delineati e trasposti sulla tela (figg. 2 e 9). Per ulteriori
approfondimenti sul Diario
si veda: Munch
et la France
1991, appendice.
Appendice
3
Hestekur
Nel
linguaggio popolare la locuzione la Hestekur
allude alla condizione tipica degli equini che presentano temperature
febbrili oltre i 40 gradi, e che, talvolta, si manifestano anche
negli uomini, per le quali si rende indispensabile una dose di
medicinale sovrabbondante affinché abbia un effetto risolutivo. Più
precisamente, la cura
da cavallo
indica la drastica ed energica terapia rivolta a chi corre il rischio
di morire per iperpiressia (la cd “febbre da cavallo”). Nell'arte
di Munch la Hestekur
è la pratica radicale, perseguita dal Norvegese, di lasciare
asciugare i quadri all'aria aperta, appesi alla vegetazione o
distesi al suolo, in tutte le stagioni dell'anno, in balia dei vari
fenomeni atmosferici, degli escrementi animali (di uccelli e topi che
l'artista non rimuove in quanto ritenuti parti integrante della
creazione artistica), della polvere e della muffa di qualche angolo
buio della casa, in cui le tele sono state dimenticate, dopo essere
state graffiate, scalfite o ferite da qualche chiodo sporgente,
arrugginito o da legni appuntiti, o esposte al fumo delle candele.
Cosi operando, l'eccessiva brillantezza dei colori ad olio risulta
sensibilmente attenuata; l'apparente finitezza iniziale della
composizione si presenta, cioè, minata profondamente da imperfezioni
fisiche, perché, nella mente del maestro, solo in presenza di
difetti un'opera può dirsi un buon lavoro; infine, cosa più
importante, il radicale trattamento porta a maturazione e
completamento il dipinto che, solo così, ritiene il maestro, può
assumere un aspetto “accettabile”. L'artista è, infatti,
convinto che, essendo i propri lavori uno strumento di comunicazione
di sentimenti di decadenza, distruzione e dissolvimento, esporli
all'aria, alle intemperie della natura (pioggia, vento, neve, sole
...) e al contatto con il mondo (polvere, ruggine, escrementi, muffe,
cera, fumo di candele ...) sia un modo per temprarli e renderli
protagonisti di quella 'cura' che è parte della genesi artistica.
Non a caso nel Diario
troviamo annotazioni in cui si afferma che la natura è diventata il
suo atelier
(“(...)
il cielo è diventato tetto e la terra pavimento» )
e di voler sottoporre le sue opere «al
sole d'autunno come immensi gioielli» ).
A questa prassi il Norvegese assoggetta, quasi sistematicamente,
tutte le sue pitture che oggi risultano minate ab
origine
nelle condizioni conservative. Quando, ritiratosi dalla vita mondana,
Munch, che non smette di dedicarsi all'arte, dall'interno della
propria villa, matura l'abitudine di dipingere all'esterno,
continua altresì la prassi di terminare le opere con la Hestekur,
e, ricevendo pochi e selezionati visitatori-compratori-mecenati
nell'intimità della sua tenuta, nel suo atelier
en plain air,
essi si mostrano molto sorpresi davanti ai dipinti che, in primavera,
sono appesi agli alberi del giardino e che, in inverno, stanno
sepolti nella neve che l'artista spazza via con la scopa! .
Di fronte alle espressioni di stupore e di contrarietà dei
convenuti, il maestro spiega loro che i colori per maturare hanno
bisogno di sole, di sporco, di pioggia e che i quadri vivono nella «precarietà
di ogni organismo vivente, nelle macchie e nelle rughe affiora la
loro anima e affida alla collaborazione della natura lo smorzare dei
contrasti dei contorni, la calcinatura di pigmenti che assumono la
qualità asciutta degli affreschi come un reciproco appartenersi e
completarsi tra arte e natura. L'una trapassa nell'altra e viceversa» .
Quando, poi, nel 1944, il Nostro muore e lascia in eredità, alla
città di Oslo, un patrimonio di quadri, stampe, fotografie e appunti
diaristici, sono pochi i pezzi che possono essere subito esposti alle
pareti di un museo, senza un necessario intervento di consolidamento
delle superficie pittoriche, e ancora oggi, molte delle sue tele
necessitano di azioni continue di mantenimento e conservazione,
nonché di prolungati periodi di semi-oscurità volti a prevenire e
contingentare i processi di degrado innestati dalla Hestekur.
In particolare, l'elemento più critico è individuato
nell'instabilità delle pellicole cromatiche.
Appendice
4
Il
Manifesto
di St. Cloud
«Si
dipingeranno uomini che vivono, che respirano, che sentono che
soffrono, che amano. Sento che lo farò , che sarà facile. Bisogna
che la carne prenda forma e che i colori vivano (...). Molti
ritengono che un dipinto sia finito quando il maggior numero
possibile di dettagli è stato completato, ma anche una singola linea
può essere un'opera d'arte (...), un'opera d'arte proviene
direttamene dall'interiorità dell'uomo. L'arte proviene dalla
gioia e dal dolore. Maggiormente dal dolore (...)» .
Questa annotazione con altre riflessioni scritte, con il tempo, hanno
assunto valore di enunciato teorico sull'arte; in particolare, la
nota è stata ripresa ed inserita nella letteratura sul Simbolismo, quindi,
definita dalla storiografia Manifesto
di St Cloud .
Il Decalogo
è da considerarsi il nuovo programma artistico di Munch che, come
abbiamo visto, condivide la riflessione-ricerca con l'amico
Goldstein, le cui determinazioni sfociano nel testo di estetica della
letteratura Kammeratkunst,
l'equivalente in letteratura del Manifesto
di Munch, che il Danese programma di pubblicare senza riuscirvi .
Dopo che l'artista, nel tentativo di sfuggire ad un'epidemia
divampata nella capitale e prostrato dalla notizia della morte del
padre, si allontana dal frenetico ambiente intellettuale ed
internazionale di centro città, per rifugiarsi nell'intimità del
sobborgo parigino, inizia a frequentare quotidianamente l'amico,
incontrato in un bar, nasce tra i due una rara e profonda intesa, sia
personale che artistica, che conduce all'elaborazione dell'emblema
della letteratura simbolista noto come Manifesto
di Saint Cloud.
I due, giunti a considerazioni comuni, formulano una nuova visione
artistica, ispirata alle conversazioni, intercorse nel buio delle
umide stanzette dell'albergo di periferico, sull'aspetto doloroso
e vivido delle esperienze amorose vissute da entrambi .
Ovviamente, non disponiamo di trascrizioni delle loro chiacchierate,
pertanto ci affidiamo a quanto si apprende dalle lettere della lunga
relazione epistolare intercorsa tra i due e dai testi sull'argomento .
Le
parole rivelano una rinnovata consapevolezza artistica, nata da una
condizione di crisi personale ed intensa, non sappiamo se dovuta alla
scomparsa del genitore o al clima empatico di condivisione delle
dolorose vicende con l'amico Danese o ancora dalla combinazione
degli eventi, ciò che è certo è che da questo momento il lavoro
del maestro sarà un qualcosa di profondamente intimo, emotivo,
travagliato, nonché spogliato da qualsivoglia situazione di tipo
fenomenologico-descrittivo.
Inizialmente,
il Manifesto
è uno schizzo letterario del diario parigino ,
il testo a stampa del 1928, Livsfrisen
tilbilbilse ,
costituito da un quadro narrativo di ampio respiro, racchiude un
contenuto centrale più piccolo, in forma di poema in prosa.
Nell'incipit
della storia viene presentato un “io narrante” (spesso
identificato con lo stesso Munch) che acquista un biglietto
d'ingresso per un luna park di Parigi (al tempo, la città pullula di
questi luoghi moderni tipo parco divertimenti-locale notturno, una
combinazione di caffè, musical e intrattenimento), che ha espone il
titolo “Danseuse espagnole” ,
tratto dalla locandina pubblicitaria, eseguita da Jules Chéret
(1889), per il locale di cabaret Montagnes
Russes,
aperto nel 1888-1889 ,
che in seguito cambia il nome in Olympia .
L'io narrante, vagando in quel luogo, gremito di gente,
disorientato dai caleidoscopici effetti della modernità, ne descrive
la tipica atmosfera da sogno. Entra in contatto con una variegata
folla di estrazione sociali varia: una circense, in calzamaglia
viola, cammina su una corda tesa, in un ambiente grigio-azzurro per
il fumo del tabacco; un gruppo di cantanti rumeni, in abiti
sgargianti, attira la sua attenzione , subitamente distratta dalla
presenza di una prostituta con cui non riesce a stabilire un contatto
e da una coppia colta in un momento intimo e privato, mentre l'uomo
sussurra alla donna, tra i lunghi ed arruffati capelli, parole
inafferrabili. Quest'ultima visione, nella mente del Nostro, assume
carattere di sacro, e quando scrive, in riferimento al suo Fregio,
che “il pubblico dovrebbe sentire il sacro in questo - e dovrebbe
togliersi il cappello come in una chiesa”, allude probabilmente a
come si sia sentito lui di fronte alla scena. Quindi, stordito
dall'atmosfera multiforme, rumorosa e colorata, il protagonista
entra in una situazione di trance.
Il testo si conclude con il sé che si ritrova sul marciapiede del Boulevard
des Italiens,
circondato da mille stranieri i cui volti, illuminati dalla bianca
luce elettrica e da giallognoli becchi a gas, risultano spettrali,
mentre vaga come un “io” tra “gli altri” (un'evidente
anticipazione del quadro Sera
su Karl Johan
del 1892 (fig. 3)).
Nel
1928, l'artista raccoglie alcuni testi significativi, scritti in
vari momenti, a partire dai primi anni Novanta, ispirati alle
riflessioni avute con l'amico danese, li riunisce e li riassume in
questo piccolo libretto a stampa, sotto forma di programma artistico,
in cui si spiega anche il concetto di Fregio come
narrazione, e si chiarisce che l'idea di collegare i vari dipinti
in un'ottica ciclica risale proprio al soggiorno parigino! Ma, non
essendo stato pubblicato, l'opera non è inclusa, per esempio,
nella monografia di Thiis ,
in quanto non è nella sua disponibilità. Successivamente autori
come Ingrid Langaard
e Reinhold Heller ,
vi fanno riferimento per spiegare il credo artistico del maestro che
abbandona il mondo fenomenologico della ripresa reale per
santificarsi ad una realtà interiore. Sissel Biørnstad e Arne Eggum
definiscono il Manifesto
di Saint-Cloud
un “bozzetto letterario”
la cui struttura narrativa è riferibile agli anni 1889-1890, ma la
definizione programmatica sembra essere più tarda .
Appendice
5
Der
Fall Munch
Nel
1892, quando il Verein
Berliner Kunstler
invita il giovane Munch di Kristiania ad esprorre in Germania, non ha
dubbi sulla qualità delle sue opere, poiché la raccomandazione
arriva da Eilert Adelsteen Normann, un membro dell'associazione
piuttosto rispettato che, con i suoi paesaggi di fiordi molto
realistici, ha un grande successo in Germania. Munch, però, ha
già sviluppato quello stile sperimentale e moderno che sciocca il
pubblico conservatore nonchè l'ala più tradizionalista
del'istituzione. Lo scultore Max Kruse (1854-1942) sugli
eventi del 5 novembre riferisce: «abbiamo
invitato Edvard Munch a una mostra. Senza avere idea che le sue opere
avrebbero suscitato tanta indignazione, persino rabbia, tra gli
anziani membri, più conservatori, dell'Associazione» .
Appena aperta l'esposizione, il comitato, scioccato dalla visione
delle tele, torna di corsa nella sala riunioni e Anton von Werner
(1843-1915), presidente dell'Istituzione, ne dichiara, senza averne
l'autorità, la chiusura in quanto esibisce una meschina ed oscena
presa in giro dell'arte. Sulla stampa tedesca compare e si
diffonde una vivace ed animata discussione nota come: Caso
Munch (in
tedesco Der
Fall Munch, Munch-Affäre
o Munch-Skandal, in
norvegese Affæren
Munch)
Per
porre rimedio all'attacco morale in atto e affrontare la questione
con tempismo, al Verein
si convoca una seduta d'urgenza e, nonostante la resistenza interna
dei membri più giovani, che chiedono addirittura una nuova
commissione, si vota, in gran fretta, per la chiusura e lo
smantellamento . A
qualche ora dal voto un'ottantina di artisti pro Munch, capitanati
da Max Liebermann (1847–1935), pittore tedesco di origini ebraiche,
lascia la sala e il Kunstverein,
colpevole di rappresentare e rimanere ancorato al passato, di
annoverare tra le proprie file solo accademici provinciali, non in
grado di apprezzare la sorprendente tecnica, apparentemente sommaria
e brutale, del maestro, autore di soggetti angosciosi e criptici, e,
soprattutto, di non vedere che il futuro dell'arte è nella pratica
d'avanguardia indicata dal Norvegese. La sera stessa fondano la Vereinigung
Berliner Künstler
(Libera Associazione degli Artisti di Berlino) che, nel 1898,
convoglierà nella Berliner
Secession .
Senza volere Munch porta lo scompiglio sulla scena artistica tedesca
e conduce alle estreme conseguenze una situazione di tensione già
presente, anche se solo in forma latente, nella comunità artistica
della capitale. L'evento si inserisce, infatti, nell'acceso e più
ampio dibattito culturale europeo, innescando un'accelerazione alla
volontà di staccarsi dalla paludata arte tradizionale che si
esercita ancora nelle istituzioni accademiche e nei centri espositivi
ufficiali. Questi venti di liberazione conducono a quello scossone
artistico noto come Secessioni, scaturito, evidentemente, dalla
vicenda censoria: prima Monaco (1892), poi Vienna (1897) e, infine,
Berlino (dichiarata ufficialmente solo nel 1898, ma in essere,
evidentemente, già dal 1892).
La
stampa dell'Impero tedesco che ha battezzato l'episodio Der
Fall Munch,
prende posizione quasi unanime contro l'arte del maestro,
genericamente ascritta alle categorie estetiche del brutto e del
frammentario, e contro le correnti avanguardistiche dell'era
guglielmina: il critico del “Frankfürter Zeitung” condanna
l'artista come “l'avvelenatore dell'arte e l'imbratta tele
del Nord” (“Nordic dauber and poisoner of art”) ,
parimenti Adolf Rosenberg (1850-1906), giornalista del quotidiano
conservatore “Die Post”, disgustato dalla mostra, scrive
della “crudezza e meschinità del sentimento” (“Roheit und
Gemeinheit der Empfindung”) nonchè della “mancanza di
forma e brutalità della pittura” (“Formlosigkeit und Brutalität
der Malerei“ ausließ”) .
Poche, ma significative, le voci fuori dal coro: il critico Theodor
Wolff (1868-1943) dalle colonne del liberale “Berliner
Tageblatt” difende lo “stato d'animo malinconico nei lavori del
maestro” (“melancholische Stimmung in Munchs Arbeiten”) e
rimprovera con forza le azioni repressive della Kunstverein,
soprattutto perché compiute paradossalmente in nome della libertà
artistica ;
dal quotidiano liberale-democratico “Vossische Zeitung” e,
sorprendentemente, dal giornale monarchico-conservatore “Die
Kreuzzeitung” si palesano, seppur, cauti, intendimenti non
dissimili .
Per
l'Heller e il Legenfeld il Caso
Munch
si pone, nello sviluppo della storia delle avanguardie, come l'evento
chiave per la nascita dell'arte moderna in Germania ,
nessun'altra vicenda artistica ha suscitato tanta agitazione e
fermento sui feuilletons locali ,
al punto da essere considerato il più grande scandalo che il mondo
dell'arte tedesco abbia vissuto in epoca imperiale (1871-1918).
Nel
1997, la ricercatrice-pubblicista Monika Krisch, a proposito del
“Affæren Munch”, ha operato un'interessante analisi dei
criteri di valutazione estetici e politico-culturali messi in campo
dalla stampa guglielmina sulla mostra berlinese. Dopo aver
individuato ed analizzato i 17 quotidiani editi all'epoca della
vicenda, rileva che le posizioni politiche dei giornali non hanno
condizionato il giudizio culturale espresso dal recensore della
rassegna, per cui l'orientamento ideologico non corrisponde a
modelli culturali prestabiliti o indicati dalla linea editoriale.
Riporta, pertanto, che chi recensisce l'esposizione, sebbene
giornalisticamente e politicamente schierato, dal punto di vista
culturale non sembra subire l'influenza dell'editore. Da fronti
opposti giungono, infatti, visioni non dissimili, quasi unanimi,
riguardo la mostra, quasi sempre culturalmente connotata come
scandalosa; più sorprende è, invece, la circostanza per cui i pochi
articoli a favore della rassegna arrivino da critici che militano su
fogli ideologicamente avversi: liberal-democratico, i primi, e
monarchico conservatore, il terzo .
Appendice
6
Fregio
della vita
e sinestesia
Quando
Munch scrive che le sue opere, riunite nel Fregio,
sono diventate una “sinfonia” allude plausibilmente, alla ricerca
di musicalità perseguita dal Nostro nella sua arte e si collega
idealmente al pensiero wagneriano di Gesamtkunstwerk
o di opera
d'arte totale. Richard
Wagner (1813 -1883), uno dei più importanti e celebri musicisti
di ogni epoca, conosciuto, principalmente, per le sue composizioni e
per i suoi drammi musicali innovativi; è figura romantica,
controversa, per il suo rapporto di amicizia con Nietzsche ,
e ha esercitato una certa influenza sulle nuove generazioni. È
stato il promotore dei concetti di Arte
totale
(parole, musica e scena), di Continuum
musicale
(melodia infinita) e di Leit
motiv (motivo
conduttore che identifica personaggi e situazioni) nell' ambito
musicale.
Il
termine Gesamtkunstwerk,
usato per la prima volta, nel 1827, dallo scrittore e filosofo
tedesco K. F. E. Trahndorff (1782-1863), viene fatto proprio da
Wagner, che lo inserisce nel suo saggio Die
Kunst und die Revolution
(1849), ed indica l'ideale opera teatrale in cui convergono, in
un'ottica di completezza e perfetta sintesi, diverse discipline
(dalla musica alla drammaturgia, alla coreutica, alla poesia,
alle arti figurative). Per il Tedesco la massima e più completa
espressione della Gesamtkunstwerk è
l'arte teatrale dell'antica Grecia. scena
Nell'affermare
«Io
sostengo che un fregio possa presentare le stesse qualità di una
sinfonia, e che abbia la capacità di librarsi nella luce e di
inabissarsi nelle profondità. (...)»
o che «musica
e spettacolo si fondono in un'unica esperienza» , il Norvegese implicitamente dichiara che il Fregio
possa derivare da quell'idea di “opera d'arte totale”, in cui
musica, teatro e arti visive si fondono, come nell'antica tragedia
greca, in un'espressione unica ed universale. A corroborare questa
visione sinergica tra più discipline, la lettera, del 1899, inviata
all'amico Frederick Delius (1862-1934), compositore inglese,
incontrato a Parigi, nel 1896, in cui il maestro propone un progetto,
non meglio specificato, tra arte e melodia («Perché
non mettiamo mano alle progettazioni per quell'idea con incisioni
grafiche e musica e con J.P. Jacobsen?» ).
Ma Delius, che si è già cimentato in un'avventura simile, ponendo
in musica alcuni poemi del danese J. P. Jacobsen (1847-1885),
scienziato darwiniano, botanico, poeta, scrittore e autore di romanzi
(Fru
Marie Grubbe (1876), Niels Lynhe (1880),
conoscendo l'entità di un simile impegno, declina rispettosamente
l'invito lasciando il progetto irrealizzato .
Non avendo ulteriori notizie circa la proposta mai accolta, né
approfondita, non sappiamo se essa si riferisse a un'attività a
stampa o piuttosto a una performance
teatrale o ad altro. E, per quanto suggestiva sia l'idea che Munch
si muova all'interno del concetto di Gesamtkunstwerk
e pensi ad un'opera in cui arti visive, teatro e musica si fondono
in un unico lavoro che abbia il carattere di globalità, questa
rimane una mera ipotesi, avvalorata solo dalla profonda fascinazione
provata per il musicista, che, in relazione alla sua arte, è citato
diffusamente dal pittore nel suo Diario,
e del quale dimostra di conoscerne molto bene l'estetica. Conferme
scritte alle reali intenzioni, dunque, non ce ne sono. Rimane il
fatto che Munch possiede un'incredibile capacità di affondare il
suo operare artistico-estetico nella materialità sinestetica e che
questo approccio, benché forse inconsapevole, avrà un largo seguito
nell'arte delle Avanguardie
novecentesche.
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Musei
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Sulle
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Altro:
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https://www.faz.net/aktuell/feuilleton/buecher/rezension-sachbuch-ueberpruefung-einer-legende-11319151.html
https://www.nb.no/nbsok/search?searchString=creator:Aubert,Andreas
https://culture.pl/en/article/sex-art-vampires-the-friendship-of-stanislaw-przybyszewski-edvard-munch
FILMOGRAFIA
Munch:
amori, fantasmi e donne vampiro, per
la regia Michele Mally, Docu-Film, Nexo-Digital, 2022, 90'
Munch
– L'inferno oltre L'urlo, per
la regia Stig Andersen, Docu-Film, 2018, 74'
Edvard
Munch, per
la regia Peter
Watkins, 1974, 165'
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