Successivamente,
nel primo volume del Real
Museo Borbonico,
ampio spazio è dedicato al cammeo, trattato da Finati nella tavola
LIII ,
dove, tra l'altro, nella riproduzione grafica del pezzo, è
ravvisabile una resa più aderente, rispetto all'originale, delle
teste da serpente dei Giganti anguipedi. Finati, nel testo, pone in
evidenza il cammeo, non soltanto nell'ambito della specifica
collezione museale che conta più di 1.600 gemme, costituita da
quelli che ritiene i capolavori dei migliori artefici dell'aurea
età della Grecia e di Roma ,
ma in generale in quel genere di produzione artistica, considerandolo
«fra quei del primo ordine, riconoscendosi gran sapere nella
invenzione, e nella contrapposizione delle figure, un non so che di
terribile nella espressione, e un prezioso finito in tutte le sue
parti.» .
È
considerabile esemplificativo dell'interesse per il pezzo, lo
spazio che vi dedica, di ben quattro pagine, nella relativa
descrizione e nell'analisi dettagliata, in cui segnala la presenza
di una clava nella mano di uno dei Giganti ,
identificati in Porfirione ed Alcione .
Spazio
è dedicato anche alle questioni relative all'artefice, non
menzionato dai più accreditati scrittori .
Finati, al riguardo, colloca il cammeo fra quelli di primo ordine e
annovera «l'artefice Atenione fra i sublimi ingegni
dell'antichità» .
Ramorino
cita il cammeo come esempio di rappresentazione di Gigantomachia,
insieme al bassorilievo di un sarcofago dei Musei Vaticani e
all'Altare di Pergamo, descrivendolo con le seguenti parole: «Un
celebre cammeo del Museo Nazionale di Napoli rappresenta Giove su un
carro tirato da quattro cavalli, in atto di scagliare un fulmine su
un Gigante a gambe serpentine, mentre un altro Gigante simile giace a
terra morto.» .
Middleton
riferisce il cammeo, in sardonica, a un artista di talento di età
augustea, identificato in AΘHNIΩN
(Athenion), nome riprodotto in rilievo sul cammeo, escludendo la
possibilità che si possa trattare del proprietario piuttosto che
dell'incisore, a causa delle dimensioni ridotte dell'iscrizione .
Facendo
riferimento a Brunn ,
Rossbach ,
Lippold
e Breglia ,
Amorelli lo inserisce tra le opere realizzate da Athenion (᾿Αθηνίων),
incisore greco di pietre collocato intorno al 300 a.C., insieme a
un'impronta di vetro conservata nel British Museum che reca una
quadriga guidata da Atena e un condottiero vittorioso, identificato
con Lisimaco o Eumene II .
Gasparri,
trattando la glittica della collezione Farnese, riferendosi alla
raccolta Orsini, cita il cammeo con Gigantomachia di Athenion, creato
nel II sec. a.C. alla corte di Pergamo, dopo aver affermato che il
livello qualitativo dei pezzi è spesso altissimo .
Zwierlein-Diehl,
trattando la questione delle firme sui cammei, lo cita come il più
famoso tra i piccoli ellenistici, lo avvicina, per il suo stile
espressivo, al grande fregio dell'altare di Pergamo rifacendosi a
German Hafner che, su base stilistica, ha identificato Athenion con
un artista attivo a Pergamo, ipotizzando che il sovrano raffigurato
sul cammeo sia Eumene II (197 a.C. - 159 a.C.) .
Massa-Pairault,
oltre a ribadire i riferimenti ai modelli pergameni, segnala una
pasta vitrea dell'Antiquarium di Berlino, anch'essa firmata da
Athenion che, integrata con un frammento del British, restituirebbe
l'immagine di un sovrano su biga guidata da Atena, ricostruendo il
significato dei due oggetti realizzati per ricordare l'istituzione
delle Nikephoria da parte di Eumene II nel 181 a.C. .
Massa-Pairault lega i due pezzi, regalati dal sovrano ai suoi amici
più fidati o circolanti tra i personaggi più in vista della classe
dirigente romana, all'attualità attraverso il richiamo, evocato
dall'immagine dei Giganti abbattuti, alla punizione degli empi che
complottano contro la libertà della Grecia, con riferimento non
tanto ai Galati vinti da Attalo I, quanto ai Macedoni e ai Seleucidi
sconfitti da Eumene II .
Prendendo
in considerazione la bibliografia pervenuta, è ravvisabile che gli
studiosi si sono concentrati più sullo studio del cammeo all'epoca
della sua realizzazione che sul significato attribuibile allo stesso
oggetto all'interno della collezione di Fulvio Orsini, considerando
l'impatto che il pezzo possa aver avuto in epoca moderna.
Gli
interessi culturali di Fulvio Orsini nell'orbita della famiglia
Farnese
Fulvio
Orsini ,
umanista, bibliotecario, antiquario e collezionista, considerato uno
dei massimi esponenti dell'Umanesimo romano, prima al servizio di
Ranuccio Farnese (1530-1565), cardinale dal 1545, poi di Alessandro
Farnese (1520-1589), cardinale dal 1539, si inserisce nell'orbita
della celebre famiglia romana
che possiede una importante collezione di cammei ed intagli, per
valore storico ed artistico, proveniente da alcune tra le più
insigni raccolte glittiche del Rinascimento. Questa collezione,
legata alla figura di papa Paolo III, al secolo Alessandro Farnese
(Canino, 1468 - 1549), e accresciuta nel corso del tempo dai suoi
congiunti, è caratterizzata da un ininterrotto rapporto con l'antico .
I
cardinali Ranuccio e Alessandro, per i quali, nel corso del tempo,
lavora Fulvio Orsini, sono entrambi nipoti del pontefice. Infatti,
loro padre è Pier Luigi (1503-1547), uno dei quattro figli di papa
Paolo III, al quale, salito al soglio pontificio, ha assegnato il
Ducato di Parma e Piacenza, scorporandolo dai territori dello Stato
Pontificio. Alessandro Farnese, cardinale dal 1539, è un efficace
collaboratore del nonno.
Il
pontefice, nella sua giovinezza allievo del fondatore della celebre
Accademia Romana degli Antiquari, Pomponio Leto (1428-1498) ,
è stato il creatore dell'ideologia farnesiana romana, espressa nel
Palazzo Farnese attraverso il primo allestimento, incompiuto, della
scultura antica, disposta al piano nobile completamente integrata,
costituente un programma autocelebrativo. In continuità simbolica
con tale allestimento, intorno al 1600, sotto il cardinal Odoardo,
per l'arredo del salone la funzione di autocelebrazione spetterà
di nuovo solamente alle sculture.
Il
primo nucleo del tesoro Farnese risale agli interessi antiquari dei
cardinali nipoti di Paolo III, con Ranuccio che forma, nella
residenza di Caprarola, un suo “Studio” di monete, intagli ed
altri preziosi, noto dall'inventario redatto l'anno dopo la morte
del collezionista, da Annibal Caro il 28 luglio 1566. Più
consistente è la collezione di gemme, monete e bronzetti che il
fratello di Ranuccio, Alessandro, forma a Roma, in cui confluiscono
anche una cinquantina di gemme possedute in precedenza da Ranuccio ,
ordinata, insieme ai manoscritti delle Antichità di
Ligorio, in un mobile appositamente progettato da Giacomo della Porta
(attualmente al Musée de la Renaissance a Ecouen), secondo Fulvio
Orsini uno “Studio” pensato dal cardinale per servire da “scuola
pubblica” agli studiosi e amanti d'arte, in relazione con i marmi
antichi distribuiti nelle sale del palazzo a Campo de' Fiori
insieme alle raccolte di dipinti, di bronzi, di arredi in marmi
preziosi, di libri.
Gli
interessi di indagine di Fulvio Orsini che si inserisce nella
complessa rete di frequentazioni dotte dei Farnese, alimentata nei
cenacoli umanistici della famiglia a Roma e a Caprarola, si collocano
all'interno di quell'ambito che, dalla metà del XVI secolo, mira
a documentare sistematicamente l'immagine antica. Roma offre
l'opportunità allo studioso di entrare in contatto con Pirro
Ligorio (1513 circa-1583), pittore ed architetto erudito, protetto
della famiglia estense, interessato allo studio dell'antico, benché
abbia un diverso approccio agli oggetti e alle diverse fonti
documentarie .
Fulvio
Orsini che dedica particolare attenzione allo studio delle Imagines,
l'identificazione delle grandi personalità del passato, nel 1570
vede la pubblicazione dei risultati delle ricerche condotte in
diretto contatto con le collezioni di marmi, di monete, di gemme
ospitate a Palazzo Farnese, attraverso il suo volume Imagines
et elogia virorum illustrium et eruditot ex antiquis lapidibus et
nomismatib expressa cum annotationib .
La
biblioteca e la produzione scientifica di Fulvio Orsini che si
estende dall'edizione di lirici e storici greci e latini alla
collazione ed al commento di importanti testi epigrafici, alla
realizzazione di opere fondamentali di numismatica, rivela, come
segnala Cellini, una personalità versatile, permeata di una
raffinata ed enciclopedica cultura classica .
Nello
stesso Palazzo Farnese, Fulvio Orsini forma una importante raccolta
di gemme, parallelamente a quella posseduta da Alessandro Farnese.
Fulvio Orsini è l'animatore degli interessi antiquari del suo
grande patrono e l'esecutore dei suoi programmi collezionistici,
come risulta dalla corrispondenza con Alessandro, rivelatrice di un
fitto scambio di notizie, proposte di acquisti e disquisizioni, nel
segno di un comune interesse per la ricerca degli esemplari antichi.
Quindi, se una gemma o una moneta non ha incontrato il favore del
cardinale, può essere trovata più tardi nella collezione del suo
protetto .
Per
Fulvio Orsini le gemme rappresentano una parte dei materiali antichi,
strumento di lavoro oltre che oggetti di passione collezionistica,
funzionali allo sviluppo delle sue indagini storiche e antiquarie,
riflesso degli interessi scientifici del proprietario che raccoglie
sculture (soprattutto ritratti, spesso iscritti), epigrafi (solo
quelle relative a magistrature, sacerdozi e decreti), monete e gemme
(soprattutto quelle raffiguranti divinità, temi mitologici,
personaggi o eventi storici), molte delle quali con firme incise .
L'interesse
di Fulvio Orsini per le iconografie del passato si concretizza anche
nella formulazione di programmi decorativi complessi e accurati, di
tema mitologico, legati alla sua epoca. Basti pensare, in tal senso,
al ruolo assunto dallo studioso nella stesura del programma
iconografico del Camerino Farnese
e alle fasi preparatorie dei soggetti, come risulta da due lettere
del cardinale Odoardo Farnese nel ms. Vat. Lat. 9064, pubblicate da
Martin .
Al riguardo, nello specifico, la rappresentazione di Ercole al bivio
nel Camerino presenta Odoardo, nuovo Ercole, come degno erede del
padre, il duca Alessandro.
Alla
morte di Fulvio Orsini, nel 1600, il patrimonio d'arte raccolto
negli anni al servizio della famiglia Farnese (più di 100 tra quadri
e disegni, altrettanti marmi, più di 400 gemme, una imponente
collezione di monete) entrerà a far parte, per volontà
testamentaria, dei beni del duca Odoardo.
La
Gigantomachia: rappresentazione mitica e politica della lotta
Le
gigantomachie
sono miti lontani nel tempo, metafora del contrasto tra l'hybris,
personificata dai Giganti, e l'ordine rappresentato dagli dei
dell'Olimpo, che solo l'intervento dell'essere umano
impersonato da Eracle può risolvere.
Una
gigantomachia è una contestazione dell'ordine stabilito che,
prossima al successo, è disfatta per la sua incapacità di
affermarsi pienamente come nuovo ordine, oltre la violenza e il caos
che sembrano le sue uniche prerogative. Da un punto di vista
teologico essa, come ultimo atto nella creazione dell'Universo,
testimonia il trionfo dell'ordine sulla hybris:
gli dei, sottomettendo i figli della Terra, possono consolidare il
loro potere divino.
La
Gigantomachia narrata da Omero, Esiodo ed Apollodoro, nonché da
Ovidio nel primo libro delle Metamorfosi ,
comunemente ambientata nei Campi Flegrei (da Flegra che significa
“città del fuoco”), nella parte di Penisola Calcidica detta
Pallene, ma anche nel territorio di Cuma, è la lotta di Zeus (Giove)
contro i Giganti (nati da Gea in seguito all'evirazione di Urano)
per la conquista del potere, precedente l'instaurazione sull'Olimpo
di un clima tranquillo, in cui Zeus potesse ritenersi al riparo da
colpi di mano.
I
Giganti che assalirono Zeus (Giove) come fecero i Titani con Crono,
liberato da Zeus, erano appoggiati da Gea e dai Centimani benché
Zeus avesse ricorso all'aiuto di Briareo
(attivo nella guerra contro i Titani), dato che l'alleanza con gli
altri dei olimpici, almeno per quanto riguarda Posidone, Era e Atena,
non fu immediata. I Giganti, provenienti dal Tartaro, sovrapponendo
le montagne Ossa e Pelio, si procurarono una posizione di lancio
favorevole per gli enormi macigni che decisero di far piovere
sull'Olimpo. Zeus, affiancato dagli dei della nuova generazione,
tra i quali Dioniso ed Eracle (due suoi figli nati da una madre
mortale), dovette vietare a Eos (l'Aurora), Elio (il Sole) e Selene
(la Luna), figli dei due fratelli titani Tea e Iperione, di svolgere il
loro compito perché Gea, in assenza della luce, non potesse trovare
l'erba magica necessaria a sventare il pericolo costituito da
Dioniso ed Eracle. Quest'ultimo ebbe un ruolo fondamentale nella
Gigantomachia, dando il colpo di grazia a buona parte dei Giganti,
oltre a trascinare il gigante Alcioneo, ferito da una delle sue
frecce, fuori dal suolo patrio perché in nessun altro modo sarebbe
potuto morire. Fra gli sconfitti vi fu il gigante Pallante, con la
cui pelle Atena si forgiò scudo e corazza. Alla fine i Giganti
tornarono nelle viscere della Terra che li aveva generati, tentando
talvolta, producendo i terremoti, di liberarsi dal peso delle
montagne.
I
Giganti che incarnano le forze terrestri brutali, anomalie della
natura, al pari dei Titani per ciò che concerne le forze celesti
metereologiche ,
sono stati rappresentati dagli antichi con armatura e con la
conformazione degli altri dei ed eroi e, successivamente (dall'età
di Alessandro Magno, segnala Ramorino ),
con «isquamose
code di drago invece dei piedi, con lunghe barbe e capigliere, in
atto di scagliare al cielo rupi e tronchi infuocati»
oppure «come
aventi in luogo di gambe due serpenti che terminano dalla parte della
testa»
.
I
due Giganti rappresentati nel cammeo di Athenion con Zeus in lotta
con i Giganti, proveniente dalla collezione di Fulvio Orsini, sono
riconducibili, per le code con squame, a quest'ultima tipologia.
Tuttavia, le terminazioni con muso di animale (lupo?) sono
correlabili, piuttosto, ad altri personaggi mitologici, come i
Centimani ,
detti anche Ecatonchiri,
Ἑκατόγχειρες,
“di cento mani”, la triade di giganti (Cotto, Egeone o Briareo,
Gige), dotati di cinquanta teste e cento braccia, nati da Urano e da
Ge (Cielo e Terra), giustapposti ai Ciclopi. Relegati dal padre
nell'Inferno, i Centimani vi furono tirati fuori da Zeus, su
consiglio di Ge, per essere opposti ai Titani. Questi ultimi, cacciati nel
Tartaro, furono chiusi in prigioni bronzee, sorvegliate dai Centimani per
volere di Zeus.
Nella
figura di Zeus, rappresentata in lotta con i Giganti nel cammeo di
Athenion di Fulvio Orsini, è individuabile, dal punto di vista
iconografico, il richiamo alle rappresentazioni dello stesso soggetto
nella numismatica romana antica. Infatti, nel quadrigato romano ,
emesso nel III secolo a.C., rappresentante un esempio di trasmissione
di modelli iconografici greci (attici) mediato da Taranto e dall'area
apula nella monetazione romana, al didramma caratterizzato dalla
presenza al D/ di una testa maschile giovanile e gianiforme,
incoronata da un serto di alloro ,
corrisponde al R/ la raffigurazione di una quadriga che avanza al
galoppo verso destra, procedendo dal fondo alla superficie della
moneta. Il carro è guidato da Victoria,
drappeggiata, che regge con entrambe le mani le redini e si protende
in avanti nello sforzo di condurre i cavalli. Accanto alla dea,
Giove, barbato e drappeggiato attorno ai fianchi, stringe nella mano
sinistra lo scettro, che termina con una sorta di fiore trilobato, e,
con la destra, scaglia il fulmine contro un nemico che non è
raffigurato sulla moneta. I cavalli procedono con le teste
affiancate, le zampe anteriori sollevate, pronte a toccare il terreno
per imprimere nuova spinta alla corsa del carro, mentre le posteriori
sono stese, alla fine della loro azione. La raffigurazione con Zeus
sul carro, nella penisola trovò diffusione, inoltre, anche nella
ceramografia, riscuotendo particolare successo, tanto che il dio non
combatte mai a piedi sui vasi apuli a figure rosse .
La
Gigantomachia è una rappresentazione che tradizionalmente si presta
a una interpretazione politica, oltre che etica e religiosa. Infatti,
già ai tempi di Pisistrato (circa 600 a.C. - 527 a.C.) ,
a causa dell'ambientazione del racconto mitologico in Pallene, nome
anche del demo attico in cui il tiranno organizzò la propria
riscossa, in seguito si moltiplicarono le raffigurazioni su ceramica
della Gigantomachia con uno schema con Eracle e Atena antagonisti dei
Giganti, politicizzando il tema della lotta con Pisistrato nuovo
Eracle che, grazie all'aiuto di Atena, proprio a Pallene
sconfiggeva i suoi avversari politici .
Riassunto definitivamente il potere (539 a.C. - 538 a.C.), Pisistrato
fu lodato dai principali autori dell'antichità per moderazione,
giustizia, qualità elevate e grandezza.
Anche
Alessandro Magno (356 a.C. - 323 a.C.)
è stato considerato nuovo Eracle, in quanto mediatore tra i popoli
conquistati .
I Giganti non erano più solo opliti, non solo umani dai tratti
ferini, ma la loro mostruosità anguipede accompagnava i conflitti di
un mondo colpito da battaglie epocali tra imperi o da nuove
migrazioni di popoli.
Un'altra
celebre rappresentazione della Gigantomachia con significato politico
si trova nel fregio dell'Altare di Pergamo ,
scoperto con gli scavi effettuati nella città nel XIX secolo ,
sotto la direzione dell'ingegnere tedesco Carl Humann (1839-1896),
dove la lotta dei Pergameni contro i Galati (sconfitti nel 184-183
a.C. e nel 168-166 a.C.) è equiparata alla battaglia degli dei
contro i Giganti.
Anche
nel secolo XVI, a cui appartiene Fulvio Orsini, le rappresentazioni
della Gigantomachia hanno un significato politico. Infatti, l'antico
mito della sconfitta della rivolta dei Giganti da parte di Zeus e
degli dei dell'Olimpo, scomparso dal repertorio delle arti visive
con la fine del mondo antico, è riapparso bruscamente nei primi anni
'30 del XVI secolo, trovando la sua prima espressione indipendente
nell'arte moderna, come sottolinea Vetter studiandone
l'iconografia .
Vetter, in particolare, si riferisce a tre opere realizzate quasi
contemporaneamente a Mantova, Genova e Udine, in cui gli eventi
mitici sono stati strumentalizzati per legittimare le rivendicazioni
di potere e i rapporti di forza all'epoca esistenti e interpretati
in quel contesto politico .
Al
riguardo, è considerabile significativo che proprio all'epoca
della nascita di Fulvio Orsini, avvenuta nel 1529, le
rappresentazioni della Gigantomachia abbiano un significato politico,
dato che godono di una certa diffusione e trovano utilizzo come
simbolo di supremazia e trionfo sui nemici della Cristianità, nelle
rappresentazioni del mito a Genova, nel Palazzo Doria a Fassolo, e a
Mantova, presso Palazzo Te. Tali ambienti sono entrambi legati ai
Farnese, attraverso le figure di Carlo V (nonno, per via materna, di
un altro Alessandro Farnese, il figlio di Margherita d'Austria,
vissuto tra il 1545 e il 1592 )
e di Paolo Giovio (amico di Andrea Doria ).
Dunque, è ravvisabile che le rappresentazioni moderne della
Gigantomachia, con significati politici, erano state utilizzate negli
ambienti in cui si colloca Fulvio Orsini.
Il
grande affresco che occupa gran parte della volta del Salone detto
“della Caduta dei Giganti” ,
sito al piano nobile del
Palazzo Doria di Fassolo, decorato da Perin del Vaga e collaboratori
dal 1528 al 1533, è stato infatti interpretato come il riferimento a
un nuovo Giove, identificato in Carlo V
o in Andrea Doria ,
oppure
letto come un richiamo all'Eneide,
riconoscendo in Andrea Doria a Genova un nuovo Enea a Roma, posto
sotto la protezione di Giove .
Andrea
Doria ,
capitano, corsaro cristiano, nelle imprese per mare ha riportato
tante vittorie contro pirati e Turchi, ottenendo una gloria politica
coronata dalla riforma del 1528 che ha implicato la ristrutturazione
del corpo politico genovese, nell'ambito delle rivalità personali
per il dominio di Genova con la famiglia Fieschi (Gianluigi Fieschi,
conte di Lavagna, era stato appoggiato dal re di Francia, dal duca di
Piacenza e da papa Paolo III Farnese). Nelle lotte tra i principi
cristiani, Andrea Doria ha sostenuto prima i re aragonesi di Napoli e
poi i re di Francia, infliggendo nel 1524, sulle coste della
Provenza, una serie di sconfitte alla flotta dell'imperatore e dei
suoi alleati. In seguito, dato che il re di Francia tardava a
rispettare le promesse fatte, Andrea Doria nel 1528 ha raggiunto
l'accampamento dell'imperatore Carlo V ed ha aiutato gli
Imperiali a cacciare i Francesi dalla sua città, dimostrando la sua
posizione di allineamento alla tradizione cristiana per la lotta
contro gli infedeli e i loro alleati e quella ghibellina per il
sostegno del partito imperiale.
Nel
1533 Carlo V è stato ospitato nel decorato Palazzo Doria. Durante i
suoi ripetuti soggiorni nel palazzo, nel Salone della Caduta dei
Giganti (il luogo di massima valenza cerimoniale della residenza) è
stato collocato il suo trono. Carlo V, in una lettera scrittagli da
Pietro Aretino il 20 maggio 1537, è stato descritto come un essere
sovraumano, onnipotente, richiamando la figura di Giove e paragonando
i Giganti ai nemici dell'imperatore:
«…
Poniamo da canto l'aver voi preso il Re, fatto prigione il Papa,
cacciati gl'infedeli d'Ungheria, e nel vincer l'Affrica
liberati 18 mila Cristiani dalle catene, con l'essere entrato nel
cuore alla Francia con l'arme… è l'universo che si move quasi
tutto per farvi impotente, e favvi onnipotente: perchè nei terribili
suoi apparati appare il tremendo vostro potere. Ecco i milioni d'oro
tratti dalle viscere alla Gallia; ecco le turbe dei Grisoni; ecco la
moltitudine degli Svizzeri; ecco le schiere dei Taliani; ecco i
cavalli infiniti; ecco le navi innumerabili, ed ecco il Turco. […]
Mentre che essi minacciano contra dell'Imperadore, il qual non si
move, e tiengli indietro, paiono giganti stolti che posero i monti
sopra i monti; e Nembrotte, che fece la torre, presumendosi di levare
Iddio dal seggio; il potere dal quale, tacito in sè stesso,
riguadato che ebbe alla temerità della lor superbia, gli disperse
con quei folgori che tiene ascosi fra gli artigli l'aquila che
diede Giove ad Augusto. Ma i monstri, che presero a far guerra a Dio
fur meno insolenti che non son le chimere che vogliono combattere con
Cesare, perchè essi ciò facendo, repugnarono solo alla natura, e
costoro ciò operando repugnarono alla natura ed a Dio: alla natura
con isforzarla a far quello che non si puote; a Dio con il credersi
nel fargli ingiuria…» .
In
proposito, Parma Armani sottolinea specifici riferimenti
iconografici, dato che l'aquila che tiene i fulmini nascosti tra
gli artigli, è attributo di Zeus ma anche simbolo araldico
dell'imperatore .
A
distanza di anni dalla realizzazione della decorazione del Salone
della Caduta dei Giganti, in Palazzo Doria a Genova, sono ravvisabili
nuovi significati politici che legano il mito della Gigantomachia al
cardinale Alessandro Farnese, presso cui Fulvio Orsini è al
servizio.
Infatti,
Paolo Giovio, nel Dialogo
dell'imprese militari et amorose,
a proposito del cardinale Alessandro Farnese, afferma:
«Vltimamente
quando da Papa Paolo III. fu mandato Legato in Alemagna, col fiore
de' Soldati d'Italia, in aiuto di Carlo Quinto Imperatore, per
domare la perverfità de Tedeschi, fatti in gran parte Lutherani, &
rebelli alla M. Cesarea, gli feci per impresa il fulmine Trifulico,
che è la vera arma di Giove, quando vuol gastigare l'arroganza, &
poca religione de gli huomini, come fece al tempo de' Giganti, col
motto che diceva, HOC VNO IVPPITEK VLTOK, Aβimigliando le
scommuniche al fulmine, il Papa a Gioue. Et così come si vede in
buona parte, per questi aiuti che nel principio della guerra furono
molto opportuni, Carlo Quinto con somma gloria riuscì vittorioso &
inuittiβimo.» .
Giovio,
dunque, inventa l'impresa del cardinale Alessandro Farnese in
diretta derivazione dalla simbologia di Paolo III, dal quale, oltre
al nome, ha avuto il ruolo di nuovo Zeus che punisce i ribelli. Nelle
parole di Giovio, inoltre, è rilevabile un collegamento diretto
simbolico tra il papa (che prima di salire al soglio pontificio era
stato cardinale Alessandro Farnese) in uno scambio di rimandi
all'iconografia della Gigantomachia.
Paolo
III che ha dato inizio al Concilio di Trento nel 1545, è stato un
papa di stile prettamente rinascimentale per la sua educazione
umanistica. Fin dall'inizio del suo pontificato, ha affermato la
continuità tra la Roma classica e la cristiana, tra la supremazia
dell'Impero Romano e del papato, attraverso una serie di cantieri
(riqualificazione del Colle Capitolino, cantiere di Castel
Sant'Angelo, decorazione di Palazzo Farnese) e con i programmi
iconografici dei grandi apparati decorativi .
Con questi, ha stabilito paralleli tra il papa Farnese e uomini
illustri dell'antichità e il mito dell'età dell'oro, con le
esaltazioni in chiave mitologica (attraverso l'identificazione del
pontefice con Giano, Apollo, Giove, Ercole…) o attraverso la storia
(con l'accostamento di Paolo III ad Alessandro Magno e Cesare) .
Anche
per quanto riguarda l'iconografia celebrativa del cardinale
Alessandro Farnese è dunque ravvisabile il richiamo all'antico, in
linea con l'omonimo nonno pontefice Paolo III nonché con l'omonimo
nipote condottiero duca (+ 1592)
che ha riconquistato, per il trono spagnolo, le province meridionali
dei Paesi Bassi, per il quale sarà elaborato un programma della sua
glorificazione, attraverso la raccolta di un insieme di sculture
formato da statue antiche, copie dall'antico e sculture moderne.
Inoltre,
a Mantova, la Caduta
dei Giganti
affrescata da Giulio Romano a Palazzo Te è stata interpretata da
Hartt come allusiva a Carlo V, in rapporto con il clima storico di
“punizione” creatosi in Italia dopo il Sacco di Roma del 1527 ,
interpretazione, però, molto ridimensionata da Verheyen .
Comunque, Zeus che fulmina i Giganti è un tema che, come sottolinea
Boccardo, doveva godere di molta fortuna nel XVI secolo .
Era, ad esempio, presente anche sulla facciata di Palazzo Tinghi a
Udine, ad opera del Pordenone, secondo quanto affermato da Pietro
Aretino, in riferimento alla vittoria di Carlo V sugli eserciti dei
Riformati a Mühlberg (1547) .
Iconografia
della Gigantomachia nel XVI secolo
Dal
punto di vista strettamente iconografico, sono rilevabili dei
significativi elementi che caratterizzano le iconografie delle
Gigantomachie realizzate nel XVI secolo, legate all'ambiente di
Fulvio Orsini, che si differenziano dal modello proposto nel cammeo
di Athenion raffigurante Zeus (Giove) in lotta con i Giganti,
proveniente dalla collezione dello stesso studioso. È considerabile
significativo, inoltre, notare che tali elementi risultino ricorrenti
nelle stampe di traduzione che permettono la circolazione delle
iconografie, nonostante talvolta presentino delle varianti rispetto
alle opere originali. Inoltre è rilevabile che le stampe di
traduzione si prestano, dal punto di vista tecnico, alla resa più
incisiva di determinati dettagli che assumono, di conseguenza,
maggior risalto rispetto alle opere pittoriche e, al contempo, sono
ottenute attraverso l'incisione, tecnica più vicina alla
decorazione della glittica.
Nell'affresco
che occupa gran parte della volta del Salone detto “della Caduta
dei Giganti”, sito al piano nobile del Palazzo Doria di Fassolo,
decorato da Perin del Vaga e collaboratori dal 1528 al 1533, Zeus è
raffigurato al centro, in alto, con fasci di fulmini tra le mani,
pronto a scagliarli. Zeus, circondato dai segni zodiacali e dotato
dell'aquila, suo attributo, è rappresentato su delle nubi che
demarcano in modo netto la sfera celeste, superiore, con le divinità,
e quella terrestre, inferiore, con i Giganti ribelli.
Tali
elementi sono individuabili, con maggiore incisività, per il
contrasto cromatico dovuto alla tecnica utilizzata, nella stampa di
traduzione, attribuita a Giulio Bonasone, conservata presso il
Rijksmuseum, realizzata entro il 1580 ,
in cui sono ravvisabili delle varianti e delle semplificazioni
principalmente soltanto nelle figure dei Giganti sullo sfondo (Fig.
4).
Fig. 4 - La lotta fra dei e giganti, secondo quarto del XVI secolo
stampa dall'affresco di Perin del Vaga a Palazzo Doria
(alias Villa del Principe) a Genova, incisione stampata su carta, 340 x 569 mm
objectnummer RP-P-2001-153, Rijksmuseum, Amsterdam
(Foto © Rijksmuseum, Amsterdam, cortesia di Michela Ramadori)
Dunque,
nella Caduta
dei Giganti
di Palazzo Doria a Genova è ravvisabile che la figura di Zeus
esprime la sua grandezza e la sua potenza attraverso la posizione
occupata, la posa e il gesto, senza ricorrere all'attributo del
carro.
Il
gesto di Zeus, nell'atto di scagliare i fulmini, senza carro, è
individuabile anche a Palazzo Te, a Mantova, nella Caduta
dei Giganti
dipinta da Giulio Romano a partire dal 1532 ed entro il 1536 ,
dove il dio pagano imprime il movimento alla scena.
Inoltre,
è considerabile interessante notare la migrazione di iconografie e
pose divine, dalle rappresentazioni pagane e cristiane, nonché la
persistente circolazione di alcuni modelli che, tuttavia, nel tempo,
subiscono una evoluzione, come il ribaltamento a causa della
realizzazione di matrici di stampa senza tenere conto che le immagini
impresse verranno ribaltate. Si pensi, ad esempio, all'acquaforte
di Pietro Santi Bartoli, raffigurante un dettaglio con Zeus, ripreso
dalla Caduta
dei Giganti
di Giulio Romano, di Palazzo Te a Mantova, riprodotto ribaltato, nel
secolo successivo, conservata all'Herzog August Bibliothek di
Wolfenbüttel, in Germania
(Fig. 5)
.
Fig. 5 - Pietro Santi Bartoli, Caduta dei Giganti, 1680
acquaforte, 210 x 280 mm - 280 x 375 mm, Herzog August Bibliothek
Museumsnr / Signatur Xd FM 23.2 (48)
dall'affresco di Giulio Romano, Palazzo Te, Mantova
(Foto Herzog August Bibliothek
http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/)
cortesia di Michela Ramadori)
Per
quanto riguarda il passaggio di modelli iconografici dall'ambito
sacro cristiano a quello pagano e viceversa, sono considerabili
esemplari le figure di Cristo e della Madonna nel Giudizio
Universale
di Michelangelo nella Cappella Sistina (progettato dal 1533 e
realizzato tra il 1536 e il 1541) ,
nelle quali sono ravvisabili significative affinità di pose e
rapporti con Zeus e figura femminile che tocca i fulmini nella Caduta
dei Giganti
di Giulio Romano a Palazzo Te a Mantova, ribaltati nell'acquaforte
dell'Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel (Fig. 5).
Al
tempo di Fulvio Orsini è dunque rilevabile una notevole importanza
attribuita al gesto divino, dal punto di vista iconografico, sia
nell'ambito cristiano che pagano, con particolare riferimento a
Zeus (Giove) «Padre degli huomini & degli Dei» ,
più che all'equipaggiamento da guerra, come il carro, rifuggendo
un parallelismo immediato tra potenza del dio e armamentario di
guerra terrena.
Per
quanto riguarda i testi di argomento sacro, invece, nelle Prediche
del canonico regolare lateranense Hippolito Caracciolo, edite a
Venezia nel 1599, «Christo vittorioso»
viene descritto come un condottiero trionfante:
«Finalmente
andò nel più basso inferno, incatenò Satan, attaccato al carro de'
suoi trionfi, stracinādolo dietro, prese là giù il possesso; cava
fuori della tana il capo vittorioso il Leone, & vien di sopra,
&
ripiglia il carro del corpo suo dal sepolcro, armato di quattro
ruote, a guisa del santo Elia.» .
Nel
testo, inoltre, viene fornito un richiamo al profeta Elia, rapito in
Cielo, presentato anch'egli in trionfo, come una prefigurazione di
Cristo.
La
rappresentazione di Elia sul carro di fuoco, quale attributo di
comando
Nel
periodo storico in cui vive Fulvio Orsini sono individuabili esempi,
anche iconografici, ispirati al racconto biblico veterotestamentario
del profeta Elia, in cui il carro è riconoscibile quale suo
attributo di potenza.
In
particolare, per quanto riguarda Elia e l'immagine del carro
infuocato che lo rapisce o di qualsiasi ascensione o paradisiaco
trionfo del profeta, sono considerabili significativi le iconografie
e i testi di argomento sacro, in cui sono individuabili degli
spostamenti di significati nonché di richiami al trionfo ben
esemplificato, nell'ambito mitologico, dal cammeo di Athenion
raffigurante Zeus (Giove) in lotta con i Giganti, proveniente dalla
collezione di Fulvio Orsini (Fig. 1).
L'iconografia
del trionfo, ispirata ai trionfi antichi delle divinità pagane, è
considerabile particolarmente adatta per la figura
veterotestamentaria del profeta Elia perché si collega a un
personaggio antico, precedente la nascita di Gesù, quindi
correlabile a una immagine del passato inteso anche in senso
antiquario, nonché legato a un culto già ben radicato.
Infatti,
il culto di Elia ,
venerato dai Cristiani, soprattutto dai pellegrini in Terra Santa, è
vivo in Oriente fin dai secoli XI-XII ma nell'epoca della
Controriforma la sua festa appare per la prima volta nel Messale
Carmelitano del
1551 .
Invero, benché i Carmelitani a volte facessero risalire il loro
ordine ad Elia ,
gli hanno reso culto tardivamente. Nonostante i santi dell'Antico
Testamento siano iniziati ad apparire nei martirologi sotto
l'influsso dei menologi bizantini, Elia attende fino alla
pubblicazione delle editio
princeps del Martirologio
Romano (1583) .
Tuttavia,
il suo culto è radicato da tempo. Infatti, secondo una tradizione di
Bisanzio, al profeta Elia era stato dedicato un santuario fondato
dalle legioni dell'imperatore Zenone (474-491)
dopo la campagna di Persia, in riconoscenza per un'apparizione del
profeta all'esercito.
In
questa apparizione è rilevabile in sé già il riferimento al
trionfo militare che lo lega alla rappresentazione iconografica del
carro.
La
festa del profeta Elia era celebrata al Petrion
di Costantinopoli il 20 luglio. Credenze molto antiche, già vive
nelle zone periferiche dell'impero bizantino, assegnavano ad Elia
la vittoria sul male. Festeggiato il 20 luglio anche dalla Chiesa
orientale ortodossa, in Russia è onorato come grande eremita,
profeta e severo accusatore, il giusto che nel deserto aveva
ascoltato la voce del Signore e colui al quale era stato concesso il
privilegio di entrare vivo nei Cieli. Nel corso dei secoli, nella
tradizione popolare, era stato associato al dio Perun, tra le
divinità della Russia pagana, per il potere miracoloso sulla
tempesta, sulle nubi, sul fulmine e sul tuono.
Dal
punto di vista iconografico, dunque, è riscontrabile un legame
diretto con gli attributi di Zeus (Giove).
Attraverso
il racconto biblico dell'Antico
Testamento (1 Re 17-19; 2 Re 1-2), al profeta Elia è riconosciuta la
facoltà di disporre delle forze dell'acqua e del fuoco.
La
Scrittura dà un decisivo tratto alla storia di Elia, non essendo
morto ma assunto in Cielo, su un carro di fuoco con cavalli di fuoco,
rapito in cielo in un turbine di vento, mentre Eliseo, il discepolo,
lo invocava a nome di tutto il popolo di Israele (2 Re 2,11-13).
Come
sottolinea Sicari, il fatto che Elia non sia morto, significa che
egli ha mantenuto nella storia del popolo eletto una funzione
permanente, in quanto deve continuamente tornare, come spiegherà il
Siracide, perché è «designato a rimproverare i tempi futuri / per
placare l'ira prima che divampi / per ricondurre il cuore dei padri
verso i figli…» (Sir 48,10) .
In modo analogo si chiude il libro del profeta Malachia, esattamente
le ultime righe dell'ultima pagina dell'Antico Testamento, in cui
Elia sarà inviato «prima che giunga il giorno grande e terribile
del Signore, perché converta il cuore dei padri verso i figli e il
cuore dei figli verso i padri» (Mal 3,23-24).
Dunque,
la presenza di Elia sul carro è leggibile come un'assunzione non
legata direttamente alla morte ma al conferimento di una posizione di
guida per gli uomini, come se avesse un ruolo al di sopra degli altri
esseri umani.
Con
l'ascensione di Elia, il racconto si sposta principalmente su
Eliseo (1 Re 19; 2 Re 2-9, 13), in cui è riconoscibile un ruolo
chiave anche dal punto di vista iconografico, dato che raccoglie il
mantello di Elia, lasciato nel deserto, e inizia il suo viaggio di
ritorno verso il proprio paese. Quasi subito arriva al fiume Giordano
e non riesce ad attraversarlo. Ricordando che ora porta il mantello
di Elia, presume di possedere anche il potere di Elia. Prendendo il
mantello, percuote con esso le acque del fiume Giordano e ancora una
volta queste acque si dividono ed egli attraversa l'alveo del fiume
all'asciutto (2 Re 2,13-14).
Elia
è invocato per la fecondità della terra e dell'uomo. Sulla base
del sacrificio dei vitelli sul monte Carmelo e dei cavalli di fuoco
che lo portarono in cielo, è considerato protettore del bestiame.
Secondo la tradizione popolare, nei fulmini si vedono le frecce
infuocate del profeta e nei tuoni il rumore del suo carro.
Oltre
al carro di fuoco che lo designa più spesso, gli sono associati
anche i seguenti attributi: i corvi che lo nutrono sulle rive del
torrente del Kerit (1 Re 17, 4-6); un bambino, quello che egli
risuscitò a Sarepta (1 Re 17, 17-24); l'angelo che lo confortò a
Beer Cheba (1 Re 19,5); il pane e una brocca d'acqua che egli
scoprì sotto una ginestra in quell'occasione (1 Re 19,6).
Talvolta è rappresentato con l'abito dei Carmelitani e, infine, nella scena
della Trasfigurazione.
L'antichità
cristiana ha rappresentato più volte Elia nel momento della sua
ascensione al Cielo, simboleggiante l'ascensione dell'anima verso
la vita eterna. La teologia cristiana ha visto nella storia di Apollo
una prefigurazione della Resurrezione, e nell'ascensione di Elia
una prefigurazione della resurrezione del corpo. Urech segnala che il
profeta somiglia ad Apollo che guida la quadriga del sole ma che non
è necessario fare un raffronto tra «helios» ed
«Elia» per spiegare questa somiglianza, inquadrata come un ricordo
pagano .
Pelizzari,
invece, segnala il legame tra la rappresentazione del carro del
Sole-Cristo e quella veterotestamentaria, allusiva alla morte e alla
vita eterna, dell'episodio di Elia sul carro .
Dal
punto di vista iconografico, al tempo di Fulvio Orsini sono
ravvisabili delle significative differenze tra le rappresentazioni di
Elia e Apollo ma anche di Elia e Cristo, l'uno (Elia) raffigurato
anziano e gli altri (Apollo e Cristo) giovani. Sono invece rilevabili
maggiori affinità iconografiche tra le rappresentazioni di Elia e di
Dio Padre, entrambi anziani. In modo analogo, sono riscontrabili
affinità anche tra Elia e Zeus (Giove), riguardo al quale è
ravvisabile anche il comune attributo dei fulmini.
In
particolare, dal punto di vista iconografico, è considerabile il
caso esemplare di Sant'Elia rappresentato sul carro trainato da
quattro cavalli nell'incisione raffigurante l'Ascensione
di Elia
realizzata da Johannes Wierix, da Maerten de Vos, tra il 1582 e il
1583, al
Rijksmuseum (Fig.
6).
Fig. 6 - Johannes Wierix, da Maerten de Vos, 1582-1583
Ascensione di Elia, incisione stampata su carta
250 x 204 mm, objectnummer RP-P-1919-1922, Rijksmuseum Amsterdam
(Foto © Rijksmuseum, Amsterdam, cortesia di Michela Ramadori)
In
questo caso è ravvisabile che, nella stampa, la posizione dei
quattro cavalli è speculare a quella del carro di Zeus (Giove) nel
cammeo di Athenion raffigurante Zeus (Giove) in lotta con i Giganti
(Fig. 1), proveniente dalla collezione di Fulvio Orsini, benché
siano individuabili delle differenze tra le due rappresentazioni.
Oltre al soggetto raffigurato, di natura umana (Elia) e divina (Zeus
– Giove), è rilevabile che in entrambi i casi i cavalli sono resi
in prospettiva, in differenti pose, come se rendessero delle fasi
diverse del movimento dei singoli animali, colti nel loro momento di
impeto. Il profeta Elia, con il braccio destro sollevato, nonostante
non impugni le redini, è rappresentato in posa correlabile a una
posizione di comando, apparendo come il fulcro dell'intera
composizione. Il mantello di Elia scivola al suo fianco, al di sotto
del carro, dove viene afferrato da Eliseo che si sporge,
genuflettendosi, ai piedi del carro, in una scena in cui è
rilevabile una intensa dinamicità. Al di sotto del carro del profeta
Elia, in prospettiva, sullo sfondo, sono raffigurati i Profeti ed
Eliseo che colpisce l'acqua con il mantello di Elia. Invece, nel
caso del cammeo, al di sotto del carro sono posti direttamente i
Giganti, schiacciati e sopraffatti da Zeus (Giove).
In
altre stampe, invece, è riscontrabile che il carro è ridotto a mera
cifra simbolica, perdendo l'impeto del movimento e slegandosi dai
suoi rapporti immediati con il contesto paesaggistico in cui si
inserisce, nonché attraverso la riduzione dei cavalli da quattro a
due e perdendo quella posa che richiama una posizione di comando
assunta dal profeta Elia.
Basti
pensare, ad esempio, alla stampa raffigurante Elia realizzata da
Johann Sadeler, da Chrispijn van den Broeck, nel 1575, al Rijksmuseum (Fig.
7), dove anche le figure dello stesso profeta Elia, anziano canuto con
lunga barba, e dei due cavalli sono appena abbozzate sommariamente e
occupano uno spazio limitato della composizione, per lasciare spazio
al paesaggio sullo sfondo e soprattutto alla figura maschile canuta
in primo piano che osserva stupita la scena, identificabile con lo
stesso Eliseo. Nel gesto della mano sinistra di Elia, stesa in
avanti, è comunque individuabile l'indicazione di una direzione.
Fig. 7 - Johann Sadeler (I), da Chrispijn van den Broeck
Elias, 1575, incisione stampata su carta
118 x 77 mm, objectnummer RP-P-OB-5463, Rijksmuseum Amsterdam
(Foto © Rijksmuseum, Amsterdam, cortesia di Michela Ramadori)
Fig. 8 - Nicolaes Ryckmans, da Pieter de Jode (I)
Elisa ziet de hemelvaart van Elia, 1643
incisione stampata su carta, 214 x 280 mm, objectnummer RP-P-OB-73.928
serietitel Geschiedenis van Elisa, in Theatrum Biblicum
Amsterdam, Claes Jansz. Visscher (II), 1643, p. 116-121, Rijksmuseum Amsterdam
(Foto © Rijksmuseum, Amsterdam, cortesia di Michela Ramadori)
Anche
nella stampa di Nicolaes Ryckmans, da Pieter de Jode, raffigurante Eliseo
che assiste all'ascensione di Elia,
realizzata nel 1643, al Rijksmuseum (Fig.
8), Elia e il carro, tirato da due cavalli, assumono spazio limitato
nella scena. Tuttavia la figura di Eliseo è ridimensionata rispetto
alla stampa di Johann Sadeler, da Chrispijn van den Broeck, sopra
citata (Fig. 7). Nell'opera di Nicolaes Ryckmans, da Pieter de Jode
(Fig. 8), maggior spazio è lasciato all'ampio paesaggio con la
scena contenente un'altra rappresentazione di Eliseo che colpisce
l'acqua con il mantello di Elia, e, su un piano più arretrato,
Profeti ed edifici, tra i quali un luogo di culto a pianta centrale.
Anche in questa stampa Elia ed Eliseo hanno capelli e barba bianchi.
Nonostante l'impeto del movimento dei cavalli, ridotti a due, e la
posa di Elia con il proprio braccio destro sollevato, è
riscontrabile che la sua posizione di comando è mitigata dalla
relazione con Eliseo, verso il quale si volge, gettando il mantello,
pur avendo il proprio braccio destro sollevato in direzione del
percorso seguito dal carro.
Invece,
nella stampa da acquaforte in cui è rappresentato Elia
sul carro di fuoco,
realizzata da Pieter Nolpe, da Pieter Symonsz (Potter, 1623-1702),
sempre al Rijksmuseum (Fig.
9), il carro di Elia, sempre anziano canuto con lunga barba, trainato da
soli due cavalli, è addirittura condotto da un angelo che impugna le
briglie. Il carro, in questo caso, è guidato da due cavalli al
galoppo. Elia si volta alla sua destra verso Eliseo e solleva la
propria mano sinistra con un gesto che lo pone in dialogo con l'altro
profeta, slegandosi completamente da una posa di comando e restando
distante da qualsiasi rapporto relativo alla conduzione del carro.
Fig. 9 - Pieter Nolpe, da Pieter Symonsz (Potter, 1623-1702)
Elia sul carro di fuoco, acquaforte stampata su carta
393 x 490 mm, objectnummer RP-P-1887-A-11914
Bibbia reale, Rijksmuseum, Amsterdam
(Foto © Rijksmuseum, Amsterdam, cortesia di Michela Ramadori)
Al
riguardo è considerabile significativo che nel libro Manna
mistica e dolcissimo pasto d'eruditione, e d'affetto verso
l'Eucaristia
del 1669, di Gio: Francesco Priuli, riguardo il trionfo di Elia, per
cui vengono richiamate anche le parole di Sant'Ambrogio, si faccia
riferimento a un trionfo ma, al tempo stesso, a un rapimento, con il
richiamo alle figure degli angeli: «Quivi appartiene il trionfo di
Elia con Celeste carro rapito (S. Ambrogio) […] Si consideri il
trionfo di Elia condotto al Cielo da gl'Angeli.» .
In
sintonia con la stampa raffigurante Elia
sul carro di fuoco,
realizzata da Pieter Nolpe (Fig. 9), Priuli afferma:
«Elia
trionfa con la guida de gl'Angioli, perche le sue glorie non furono
per le vittorie de gl'inimici visibili, nè per havere scacciata la
morte, serrato il Cielo inaridita la terra, distrutto l'Idolo di
Baal, ma perche era stato vittorioso delle passioni, de' piaceri
del mondo, perche li cattivi costumi sono più da temersi, che tutti
gl'inimici del mondo.» .
Nella
stampa raffigurante Elia
sul carro di fuoco,
realizzata da Pieter Nolpe (Fig. 9), la presenza angelica è
condensata nella figura di un unico angelo che osserva, come Elia,
Eliseo inginocchiato in primo piano a sinistra, in una fascia di
terra antistante delle acque increspate.
In
tal modo è rilevabile che il riferimento ad Elia trionfante sul
carro è ridimensionato nel suo richiamo militare, a favore di una
immagine mitigata in chiave metaforica, come avviene, ad esempio, in
quegli anni, nel 1662, nei Panegirici
di Vincenzo Balestri: «In quel carro di fuoco trionfò Elia, perche
fu vincitore de secolari piaceri» .
Il
fulcro della composizione della stampa raffigurante Elia
sul carro di fuoco,
realizzata da Pieter Nolpe (Fig. 9), è individuabile nel mantello
sospeso, in caduta libera, tra Elia ed Eliseo, ponendo in continuità
le storie dei due profeti. Nel paesaggio che si apre in prospettiva
al di sotto del carro, si disperdono in lontananza delle figure
umane, su un lembo di terra asciutta, circondata dalle acque,
riconducibili all'episodio in cui Eliseo, prendendo il mantello di
Elia, percuote con esso le acque del fiume Giordano e le acque si
dividono, permettendogli di attraversare l'alveo del fiume
all'asciutto.
L'incisione
raffigurante l'Ascensione
di Elia,
realizzata da Johannes Wierix, da Maerten (o Maarten oppure Marten)
de Vos, tra il 1582 e il 1583 (Fig. 6) è dunque considerabile
esemplificativa di una iconografia del profeta Elia strettamente
correlata ai modelli del comando desunti dall'antico e riletti in
chiave cristiana. Al riguardo è considerabile significativo rilevare
che Maerten de Vos è entrato in contatto con l'arte sviluppatasi
nella penisola italiana e, in particolare, con l'ambiente
farnesiano, in cui lo studio dell'antico, riletto anche con
committenze artistiche dell'epoca, ha assunto esiti significativi
anche grazie a Fulvio Orsini.
Il
pittore e disegnatore fiammingo di successo Maerten (conosciuto anche
come Maarten e
Marten) de Vos (Anversa, 1532 – ivi, 4 dicembre 1603) ,
attivo nella pittura di soggetti religiosi, mitologici, allegorici e
nei ritratti, istruito presso il padre Pieter e poi da Frans Floris,
viaggia in Italia, soggiornando a Roma, a Firenze e a Venezia, dove è
allievo di Tintoretto. Tornato in patria, è iscritto maestro ad
Anversa, nella compagnia dei pittori, di cui ne è decano nel 1571.
Sceglie
di rimanere ad Anversa, dove si configura come uno dei più
importanti pittori di pale d'altare, rinunciando all'amnistia
generale concessa da Alessandro Farnese, duca di Parma, che gli
permetterebbe di lasciare la città, senza ostacoli, entro quattro
anni dall'agosto 1585. Ad Anversa soddisfa la rinnovata richiesta
di pale d'altare, realizzate, in parte, in seguito alla
Controriforma, per rimpiazzare quelle perse durante le rivolte
iconoclaste del 1566 o il movimento riformista del 1581. Ad eccezione
di un breve soggiorno a Gand nell'estate del 1589, svolge il resto
della sua carriera ad Anversa.
Nonostante
la sua lunga permanenza nella città natale, Maerten de Vos fa tesoro
della sua esperienza italiana e, attraverso la sua attività di
disegnatore, fornisce idee ai suoi collaboratori incisori. L'artista,
in Italia, soggiorna in città cruciali dal punto di vista storico
artistico, nonché ambienti in cui orbitano membri della famiglia
Farnese. Basti pensare, ad esempio, che a Venezia è allievo di
Tintoretto, legato, tra l'altro, alla realizzazione del Ritratto
di Alessandro Farnese
nonché al Sogno
di Alessandro Farnese .
Il primo enigmatico dipinto rappresenta il volto giovanile, non
ancora segnato dal tempo, del principe di stirpe reale duca di Parma.
Mentre il secondo, sarebbe stato realizzato dall'artista intorno al
1566-1568, come sostengono Pallucchini e Rossi che lo collocano al
tempo del Ritratto
di giovane uomo
del Museum of Fine Arts di Boston e ritengono che entrambe le opere
raffigurino il giovane Alessandro Farnese, duca di Parma .
Dunque,
Johannes Wierix, come altri incisori fiamminghi, risente della
produzione artistica italiana, conosciuta anche attraverso Maerten de
Vos. Degli incisori fiamminghi assimilano in vario modo temi e forme
della tradizione figurativa italiana, anche grazie a Maerten de Vos,
e mediante la loro attività ne danno diffusione, nell'ambito di un
clima di passaggio e di osmosi che, sin dalle origini dell'Europa
moderna, vede comunicare la cultura nederlandese e quella italiana .
Lo
stesso Johann Sadeler
è attivo anche in Italia, precisamente a Venezia, dove muore nel
1600, e realizza incisioni da Maerten de Vos.
Inoltre,
pure Nicolaes Ryckmans ha rapporti con l'arte italiana. Basti
pensare, in tal senso, al suo impegno nell'illustrazione del libro Palazzi
di Genova
di Pieter Paul Rubens, pubblicato ad Anversa nel 1622 .
Conclusioni
Dalla
bibliografia pervenuta, relativa al cammeo di Athenion raffigurante
Zeus (Giove) in lotta con i Giganti (Fig. 1), proveniente dalla
collezione di Fulvio Orsini, è dunque ravvisabile che gli studiosi
si sono concentrati sullo studio del pezzo all'epoca della sua
realizzazione, mentre poco spazio è stato riservato al significato
attribuibile allo stesso oggetto all'interno della collezione di
provenienza.
Considerando
l'impatto che questo cammeo possa aver avuto in epoca moderna, è
riscontrabile che lo studio dell'iconografia antica del potere, di
cui questo oggetto è considerabile un caso esemplare per importanza
attribuita all'epoca e successivamente, influenza l'elaborazione
di iconografie moderne. Questa influenza è ravvisabile, non solo
nell'ambito strettamente connesso al soggetto rappresentato.
Infatti, ne sono riconoscibili elementi che transitano dalle
rappresentazioni del mito fino a quelle del soggetto sacro, passando
per l'emblema moderno. Si pensi, al riguardo, a Carlo V nella
citata lettera di Pietro Aretino del 20 maggio 1537
o al cardinale Alessandro Farnese nel mensionato Dialogo
dell'imprese militari et amorose
di Paolo Giovio .
In
tal senso è rilevabile una continuità tra l'antico strettamente
biblico (veterotestamentario) e il mitologico nonché un ricorso
all'antico per legittimare il presente.
È
dunque riscontrabile che, grazie ai contatti della famiglia Farnese e
agli spostamenti degli artisti, nonché attraverso la circolazione
delle stampe (che permettono la movimentazione di motivi e
iconografie) e dei libri a stampa, l'antico, studiato da Fulvio
Orsini, viene indagato e attualizzato come chiave di lettura del
presente, nella sua dimensione storica e devozionale dell'epoca, al
tempo della Controriforma e negli anni seguenti.
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DECLAUSTRE
1820
Andre
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mitologico ovvero della favola storico, poetico, simbolico ec. In cui
esattamente si spiega l'origine degli Dei, de' Semidei, e degli
Eroi dell'antico Gentilesimo, i misterj, i dogmi, il culto, i
sagrifizj, i giuochi, le feste, e tutto ciò che appartiene alla
religione de' Gentili, utilissimo a' professori Della poesia,
pittura, scultura, agli antiquarj ec. sì per la spiegazione in esso
contenuta della storia favolosa, de' monumenti storici, delle
medaglie e statue, de' quadri e bassirilievi; sì ancora per
accurata descrizione delle varie rappresentazioni, degli emblemi, e
della maniera di vestire delle antiche Divinità. Opera del Sig.
Abate Declaustre tradotta dal francese Ed in questa nuova edizione
arricchita di figure tratte da veri fonti, e con diligenza incise di
render vieppiù fruttuoso e dilettevole l'uso del presente
Dizionario,
Tomo primo, Venezia, pel negozio di libri all'Apollo dalla
Tipografia di Giuseppe Molinari, 1820.
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