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Il valore sociale del mito di Apollo e Marsia in un dipinto allegorico di inizio Cinquecento
Francesco De Santis
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 18 Aprile 2025, n. 980
https://www.bta.it/txt/a0/09/bta00980.html
Articolo presentato il 03 Aprile 2025, Acettato il 16 Aprile 2025 e pubblicato il 18 Aprile 2025
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Abstract

La rappresentazione della gara musicale tra Apollo e Marsia come soggetto principale di una tavola dipinta a olio conservata a Houston, realizzata entro il primo decennio del Cinquecento da un artista veneto molto vicino al lessico figurativo di Giorgione e destinata, con ogni probabilità, a un esponente della classe mercantile veneziana, supera i limiti squisitamente letterari del mito e della dimensione privata, edonistica, legata al godimento puramente estetico dell'opera d'arte, privilegio esclusivo del solo proprietario, per assumere un ruolo dai contorni più ampi, di rilevanza sociale parzialmente pubblica, manifestando, similmente a quanto espresso dai contenuti caratterizzanti certe pitture coeve ascrivibili a pittori quali Lorenzo Lotto e i suoi imitatori, attivi nella stessa area geografica e all'interno di affini ambienti culturali, l'autocelebrazione del committente attraverso un preciso messaggio dai connotati moraleggianti e affidato a una complessa architettura di poli dialettici: la musica colta contrapposta a quella pastorale, l'antitesi tra il cittadino e il villano, l'opposizione tra l'homo faber di schietta impronta umanistica e la natura primordiale, l'eterna lotta tra virtù e vizio.

«[...] m'è stato afirmatto né l'una né l'altra non sono da vendere per pretio nesuno, però che li hanno fatte fare per volerle godere per loro [...]»: così Taddeo Albani, agente di Isabella d'Este a Venezia, concludeva la sua lettera di risposta, datata 8 novembre 1510, ossia diversi giorni dopo la morte di Giorgione, alla richiesta della nobile collezionista e mecenate di procurarle «una pictura de una notte» 1 realizzata dal maestro di Castelfranco, disilludendone il desiderio di entrare in possesso del non meglio specificato dipinto. Questo breve frammento epistolare dice in realtà molto più di quanto possa sembrare a una prima, immediata lettura: difatti, non solo è indicativo della notevole fama di cui godeva l'artista veneto, ma rivela soprattutto la destinazione nella quasi totalità dei casi esclusivamente privata delle sue opere, una circostanza, questa, che implicava come logica conseguenza l'elitaria intelligibilità dei temi raffigurati, privilegio dunque riservato a una cerchia ristretta di conoscitori, imbevuti di una cultura umanistica superiore a quella dell'uomo comune di inizio Cinquecento.

Risponde a queste caratteristiche anche un dipinto allegorico di scuola veneta, conservato presso il Museum of Fine Arts di Houston (Fig. 1)

Fig. 1 - Pittore giorgionesco, Allegoria, 1509-1510 ca.; olio su tavola, 70.8 cm x 43.2 cm.; Houston, The Museum of Fine Arts. Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis
Fig. 1 - Pittore giorgionesco, Allegoria, 1509-1510 ca.
olio su tavola, 70.8 cm x 43.2 cm., Houston, The Museum of Fine Arts
Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis

e riconducibile alla mano di un artista vicinissimo al linguaggio giorgionesco. La tavola, le cui dimensioni non eccessive e l'orizzontalità, sebbene non esasperata, farebbero pensare al pannello di una piccola cassapanca, presenta tre scene distinte sul piano compositivo, ma, come si vedrà più avanti, strettamente legate su quello contenutistico, ambientate in un paesaggio campestre attraversato da due corsi d'acqua, con sullo sfondo un caseggiato fortificato sul quale svetta una torre e, ancora più in lontananza, dei monti e una città con un campanile, resa in maniera estremamente compendiaria attraverso rapide pennellate dalla tonalità bluastra, secondo i princìpi cromatici della prospettiva aerea.

In primo piano, nella zona sinistra del dipinto, compaiono due figure maschili e una donna; il primo uomo, rappresentato di schiena, col capo cinto da una corona di alloro e intento a suonare una lira da braccio, è raffigurato seduto sul manto erboso secondo una posa che ricalca esattamente e specularmente quella della donna allattante protagonista della Tempesta di Giorgione (Fig. 2):

Fig. 2 - Giorgione, Tempesta, 1508 ca., particolare; tempera e olio su tela, 82 cm x 73 cm.; Venezia, Gallerie dell’Accademia. Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis
Fig. 2 - Giorgione, Tempesta, 1508 ca., particolare
tempera e olio su tela, 82 cm x 73 cm.; Venezia, Gallerie dell'Accademia
Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis

la celebre tela di Zorzi da Castelfranco può quindi essere adottata come termine post quem per la datazione della tavola di Houston 2; l'altro uomo, barbuto e dalle appuntite orecchie asinine, si esibisce in ginocchio suonando un flauto a canne multiple. Tra i due personaggi, in piedi, la donna vestita di un himation azzurro presenta un'elegante postura classicheggiante che ricorda il contrapposto codificato da Policleto nel V secolo a.C.

Si tratta, evidentemente, della rappresentazione del mito di Apollo e Marsia: ascoltato il doloroso lamento delle Gorgoni, disperate in seguito alla decapitazione della loro sorella Medusa a opera di Perseo, Minerva, per imitarne il gemito, decise di inventare l'aulòs, ossia un flauto a doppia canna. Orgogliosa della propria creazione, la dea iniziò a suonare il suo nuovo strumento musicale durante un banchetto al quale presenziavano gli dèi, suscitando però l'ilarità di Era e Afrodite, divertite dall'aspetto buffo delle sue gote gonfie. Imbarazzata per l'accaduto, e tuttavia non ancora consapevole del motivo per cui era stata fatta oggetto di derisione, Minerva fuggì dall'Olimpo e, giunta nei pressi di un ruscello, vedendo riflesso nelle acque limpide il suo viso arrossito e deformato mentre suonava il flauto, assalita dall'ira lo gettò via violentemente, maledicendo chiunque lo avesse trovato in futuro 3. Il primo a rinvenirlo fu Marsia, un satiro di origine frigia, che lo raccolse e si esercitò con una dedizione tanto intensa da divenirne un prodigioso suonatore, cosicché, talmente sicuro del proprio imbattibile talento, giunse a sfidare addirittura Apollo in una gara musicale, alla conclusione della quale la stessa Minerva e le muse 4 decretarono il dio, che aveva accompagnato le melodie della sua lira con un canto celestiale, vincitore. Lo sconfitto Marsia venne così condannato per la sua superbia a subire una punizione atroce: appeso a un albero, fu scorticato vivo.

L'autore della tavola conservata a Houston rappresenta il momento della sfida musicale, rinunciando alla descrizione cruenta della tortura di Marsia, qui ritratto in sembianze completamente antropomorfe, eccezion fatta per il particolare delle orecchie asinine, unico ma decisivo dettaglio fisico che permette di identificarlo come satiro; il pittore giorgionesco riprende in questo frangente un'iconografia tipica dell'antichità: la raffigurazione di Marsia in aspetto interamente umano è infatti frequente nella pittura vascolare greca del IV e V secolo a.C. e compare anche in alcuni sarcofagi romani del II-III secolo d.C.; per quanto riguarda invece le testimonianze artistiche coeve al dipinto in oggetto, è opportuno citare l'esemplare affrescato da Baldassarre Peruzzi tra il 1509 e il 1511 presso la Sala del Fregio all'interno della Villa Farnesina, anche se il Marsia romano condivide con quello della tavola di Houston soltanto le fattezze umane, perché nella testimonianza capitolina il satiro non è raffigurato durante la disputa musicale con Apollo, ma nel momento successivo e finale del mito, mentre viene scuoiato, secondo l'iconografia tradizionale del Marsia suspensus 5. La donna posizionata tra Apollo e il satiro può essere lecitamente identificata con Minerva; il grande elmo crestato deposto ai piedi della dea è il suo attributo distintivo: tuttavia, il fatto che ella non lo indossi è un'anomalia iconografica 6 che a mio parere trova una ragionevole giustificazione nel contesto di un'attività, come quella musicale cui è chiamata ad assistere nell'Allegoria di Houston, riconducibile alla pratica di quell'otium che nel Rinascimento maturo era considerato un necessario contrappunto all'impegno del negotium politico e militare 7. Circa invece l'assenza delle muse, che, come anticipato poco sopra, presenziarono al duello musicale insieme a Minerva in qualità di giudici, è possibile che l'artista abbia attinto a un filone testuale alternativo e minoritario rispetto alla tradizione letteraria dominante, secondo il quale soltanto la dea sarebbe stata presente alla gara tra Apollo e Marsia, come riporta, ad esempio, Cristoforo Landino, il cui Comento alla Comedia dantesca fu ristampato ben cinque volte, a Venezia, sul finire del XV secolo, precisamente tra il 1484 e il 1497 8.

Nella zona destra del dipinto, in secondo piano rispetto all'episodio della gara musicale tra Apollo e Marsia, un guerriero seminudo, vestito soltanto di uno svolazzante panno bianco che ne copre le parti intime, aggredisce, armato di spada e scudo, un satiro dallo sguardo atterrito e incapace di rialzarsi, che, con una mano protesa per difendersi dall'imminente colpo esiziale, è ormai prossimo a soccombere. Dal punto di vista squisitamente stilistico, questa coppia di personaggi esprime un'evidente impronta anticheggiante, manifestando una certa somiglianza con un brano del fregio est del tempio di Apollo Epicurio a Bassai, in Arcadia, raffigurante Achille e Pentesilea, risalente al V secolo a.C. (Fig. 3),

Fig. 3 - Bassai (Arcadia), tempio di Apollo Epicurio, fregio est, Achille e Pentesilea, V secolo a.C.; marmo; Londra, British Museum. Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis
Fig. 3 - Bassai (Arcadia), tempio di Apollo Epicurio, fregio est
Achille e Pentesilea, V secolo a.C., marmo; Londra, British Museum
Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis

e con una scena di Amazzonomachia scolpita su una lastra proveniente dal Mausoleo di Alicarnasso, (IV secolo a.C.), attribuita, seppure non pacificamente, a Timoteo (Fig. 4),

Fig. 4 - Alicarnasso, Mausoleo, lastra attribuita a Timoteo, Scena di combattimento tra Greci e Amazzoni, IV secolo a.C., particolare; marmo; Londra, British Museum. Foto cortesia del British Museum di Londra. Cortesia di Francesco De Santis
Fig. 4 - Alicarnasso, Mausoleo, lastra attribuita a Timoteo
Scena di combattimento tra Greci e Amazzoni
IV secolo a.C., particolare; marmo; Londra, British Museum
Foto cortesia del British Museum di Londra. Cortesia di Francesco De Santis

entrambi conservati al British Museum di Londra: queste affinità sono sintomatiche della cultura antiquaria di cui è provvisto l'anonimo artista giorgionesco. Ma, se la conoscenza diretta delle testimonianze appena nominate sarebbe stata comunque un'eventualità pressoché impossibile per l'artefice della tavola di Houston, per sin troppo chiare ragioni cronologiche e geografiche, egli avrebbe potuto tuttavia attingere a un vasto repertorio figurativo dell'antichità attraverso diversi e prosperosi canali di mediazione. Uno di questi può essere individuato nella bottega padovana di Francesco Squarcione, i cui temi e motivi pittorici erano ispirati principalmente dalla «vivissima curiosità che egli aveva per le anticaglie» 9: sebbene lo Squarcione morì nel 1468, dunque diversi decenni prima del dipinto analizzato in questa sede, è più che legittimo immaginare che i reperti della sua collezione antica fossero ancora facilmente fruibili in area veneta, o direttamente oppure grazie a riproduzioni grafiche, anche agli inizi del XVI secolo. Il brano del guerriero in lotta con il satiro palesa però una somiglianza ancora più stringente con una scena di combattimento effigiata sul verso di una medaglia realizzata intorno al 1501-1502 (Fig. 5)

Fig. 5 - Pier Iacopo Alari Bonacolsi detto l'Antico, Medaglia con iscrizione «DVBIA FORTV[N]A», verso, 1501-1502 ca.; bronzo, diametro: 3.7 cm; Cleveland, The Cleveland Museum of Art. Foto cortesia di Internet Archive. Cortesia di Francesco De Santis
Fig. 5 - Pier Iacopo Alari Bonacolsi detto l'Antico
Medaglia con iscrizione «DVBIA FORTV[N]A»
verso, 1501-1502 ca.; bronzo, diametro: 3.7 cm.
Cleveland, The Cleveland Museum of Art
Foto cortesia di Internet Archive. Cortesia di Francesco De Santis

dal bronzista Pier Iacopo Alari Bonacolsi, meglio noto come l'Antico 10, attivo in quegli anni presso la corte mantovana dei Gonzaga e caposcuola di una cerchia di artisti tra i quali emergeva per particolare abilità il veronese Galeazzo Mondella detto il Moderno: non è difficile immaginare che proprio quest'ultimo abbia potuto divulgare nel territorio della Repubblica di Venezia il lessico stilistico del maestro e, di conseguenza, influenzare gli artisti locali, tra i quali, appunto, anche il pittore giorgionesco autore dell'Allegoria di Houston. Inoltre, l'iscrizione «DVBIA FORTV[N]A» che campeggia lungo il bordo superiore del manufatto conobbe, proprio agli albori del XVI secolo, una discreta diffusione altresì nel territorio veneto, perciò non va esclusa l'ipotesi che anche altri artisti, oltre al Moderno, copiarono e trasmisero il modello realizzato a Mantova dall'Antico.

Per quanto riguarda il riferimento alla contesa musicale tra Apollo e Marsia, è opportuno evidenziare che la narrazione di tale mito si propagò assurgendo a notevole popolarità specialmente nei primi anni del Cinquecento: in merito alla divulgazione del testo letterario, un fattore propulsore determinante può essere riconosciuto nella tipografia di Aldo Manuzio, dove, a partire dal biennio 1502-1503, veniva intrapresa la stampa delle Metamorfosi di Ovidio, che rappresentavano una tra le principali fonti di trasmissione di questo racconto mitologico. Inoltre, non va dimenticato che nel 1503 l'umanista Demetrio Moschos redigeva, su commissione di Isabella d'Este, la traduzione italiana del testo originale: questa circostanza rimarca l'evidenza di quanto estesamente la conoscenza del mito di Apollo e Marsia si fosse imposta agli inizi del XVI secolo, attestandosi dunque come un'espressione letteraria godibile non solo da personalità di ceto e cultura molto elevati come la marchesa di Mantova, ma anche dagli esponenti della classe medio-borghese, entro la quale è a mio avviso classificabile il committente della tavola di Houston.

L'elemento dirimente per il suo riconoscimento sarebbe – il condizionale è in questo caso d'obbligo, come illustrerò tra poco – la precisa identificazione della famiglia cui apparteneva lo stemma araldico che campeggia sullo scudo imbracciato dal guerriero in lotta con il satiro: un ovale con due gigli rossi affiancati che si stagliano su un campo bipartito, bianco nella metà superiore e blu in quella inferiore. Confesso la lacuna di non essere riuscito – durante pur meticolose ricerche – a individuare il casato rappresentato da questo blasone 11, tuttavia, questo vuoto non può a mio avviso rappresentare una facile giustificazione per esimersi dall'approfondimento del dipinto, il cui significato allegorico prescinde comunque dall'esatta individuazione della dinastia del committente, che può essere stato un appartenente al ceto mercantile veneziano, provvisto di una discreta cultura classica 12 e desideroso di donare lustro alla propria dimora con un'opera di un seguace di Giorgione, ma economicamente più accessibile rispetto ai dipinti del maestro di Castelfranco.

Approdando ora all'analisi del contenuto dell'Allegoria, il principale dei temi che ne determinano il significato è la musica, come chiaramente dimostra appunto la rappresentazione in primo piano del mito di Apollo e Marsia. Nell'ambito dell'Umanesimo cinquecentesco, in particolare veneto, era frequente e di centrale importanza la concezione della musica formulata da Platone, basata innanzitutto sulla gerarchizzazione degli strumenti musicali, in ragione della quale quelli cordofoni erano considerati espressione di un livello più alto di civiltà rispetto a quelli a fiato, come si deduce chiaramente dalla lettura di certi passi della Repubblica: « – Ti restano – affermai – la lira e la cetra come strumenti utili per chi sta in città, mentre in campagna i pastori potranno far uso di una specie di siringa» 13. E ancora, in termini più specifici sul mito di Apollo e Marsia, così sentenzia il filosofo ateniese: « – del resto – affermai – non facciamo nulla di originale, amico mio, preferendo Apollo e gli strumenti di Apollo a Marsia ed ai suoi strumenti» 14. Fondamentali punti di riferimento erano poi gli scritti di teoria musicale che vedevano la luce propriamente agli inizi del Cinquecento, come quelli di Franchino Gaffurio, attivo a Mantova, Milano e Venezia e convinto sostenitore della superiore dignità degli strumenti cordofoni su quelli a fiato. L'adozione nel contesto umanistico di questo ordine di valori, che oggi potrebbe essere definito classista, si traduce nel dipinto allegorico di Houston in un preciso messaggio sociale: Apollo incarna l'immagine idealizzata e mitizzata del cittadino, esponente di una civiltà urbana assurta a uno sviluppo antropologico più elevato in confronto ai subalterni abitanti di selve e campagne, pastori e contadini, che si identificano nella figura di Marsia 15. Non casualmente, per ribadire questo preciso concetto, l'artista giorgionesco colloca in terzo piano un pastore che suona la siringa vicino a un gregge di pecore, con una donna che assiste in piedi alla scena: a ulteriore riprova di quanto stretta e inequivocabile fosse nel primo Cinquecento l'associazione tra il pastore e gli strumenti a fiato, cito due ritratti raffiguranti un Pastore con il flauto, attribuibili a Sebastiano del Piombo 16 e Lorenzo Luzzo 17, nonché un'incisione di Giulio Campagnola 18 di analogo soggetto, ma differente per composizione rispetto ai due dipinti appena menzionati poiché il vecchio pastore è rappresentato a figura intera, sdraiato, con un borgo campestre sullo sfondo. È però di un certo interesse constatare che, nonostante secondo la tradizione letteraria e figurativa egemone fosse abituale il legame tra Apollo e gli strumenti cordofoni, non mancavano sorprendenti eccezioni, come dimostra un'affermazione di Marcantonio Michiel, che riporta di aver visto presso la dimora veneziana di «Zuanne» – cioè Giovanni – Ram, un dipinto a olio di Vincenzo Catena raffigurante una «testa dell'Apolline giovine che suona una zampogna» 19.

Nell'Allegoria di Houston, l'opposizione tra mondo cittadino e contesto bucolico diventa ancora più esplicita nella raffigurazione del combattimento tra il guerriero e il satiro, suggellato dal trionfo, inevitabile, del primo ai danni del secondo; eloquente è in questa scena la netta differenza qualitativa delle armi utilizzate, ovvero una spada ben modellata, impugnata dal guerriero nella mano destra e un nodoso, rozzo e alquanto innocuo rametto di legno per il satiro: in sintesi, la civiltà che sconfigge la natura primordiale. Focalizzando ancora l'attenzione sulla scena di questo ìmpari combattimento, altri elementi simbolici sono le anfore adagiate orizzontalmente, perciò svuotate del loro contenuto, sull'erba: si tratta di figure che rappresentano l'ebbrezza, l'eccitazione emotiva e psicofisica che permea i rituali dionisiaci e la condotta, improntata alla lascivia, dei satiri.

Il dipinto di Houston è dunque incardinato su un'articolata architettura di poli dialettici: Apollo e Marsia, la musica colta e quella pastorale, la civiltà urbana e la natura selvaggia. Accanto a queste coppie di opposti va aggiunto l'esile tronco mozzo di un arbusto che presenta un ramo spoglio a sinistra e un altro provvisto di foglie a destra. Si tratta di un simbolismo piuttosto diffuso sia nella tradizione cristiana che in quella pagana. In merito alla prima, il ramo secco allude chiaramente al concetto di morte, mentre quello verdeggiante rimanda alla resurrezione, o comunque, in termini più estensivi, rispettivamente al male e al bene; rimanendo nello scenario veneziano al principio del XVI secolo, si pensi, solo per citare un esempio tra i numerosi proponibili, al telero raffigurante San Giorgio e il drago dipinto da Vittore Carpaccio per la Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, dove l'albero dal duplice aspetto, collocato esattamente al centro della scena, è lo spartiacque tra le forze demoniache, incarnate dalla mostruosa creatura disposta in corrispondenza dei rami spogli e secchi, e il santo guerriero, verso cui si protendono invece quelli rigogliosi.

Ritornando ora al tema musicale, mi sembra esatto contestualizzare l'Allegoria di Houston all'interno del clima letterario in cui nacquero gli Asolani del Bembo, che potrebbero aver esercitato un'influenza più o meno diretta. In particolare, Apollo, che, come abbiamo osservato, suona la lira secondo la tradizione iconografica che gli è associata, non esprime in questo dipinto soltanto il suo valore mitologico, ma il dio è investito anche da un processo di attualizzazione, poiché diventa l'emblema della concezione bembesca dell'armonia musicale che, attraverso il suono degli strumenti cordofoni, governa e glorifica l'amore celeste riconducibile alla corrente neoplatonica 20, le cui idee erano allora discretamente diffuse in certi ambienti umanistici.
Ma il soggetto musicale, imperniato sul contrasto tra la lira di Apollo e l'
aulòs di Marsia, non è il solo evocato da questo enigmatico dipinto. Infatti, la disorganicità compositiva, che si manifesta nella coesistenza di tre gruppi distinti di personaggi, quasi sfociando pericolosamente nella confusione iconografica, pone più di un interrogativo, soprattutto per quanto riguarda la relazione semantica che intercorre tra la scena di Apollo, Marsia e Minerva e quella dello scontro tra il guerriero e il satiro. Si tratta di due vicende che si svolgono nello stesso momento oppure la seconda è consequenziale alla prima sul piano temporale? Nel primo caso, avremmo due episodi indipendenti tra loro, seppure contraddistinti da un'affine opposizione ideologica: Apollo, lira e civiltà urbana in contrasto con Marsia, aulòs e vita pastorale.
Nella seconda ipotesi, in ragione della quale saremmo davanti a due momenti distinti, legati però da una successione cronologica basata sul nesso causa-effetto, Marsia, che durante la gara musicale è ritratto in sembianze antropomorfe, riapparirebbe nella scena del combattimento, disumanizzato e ricondotto all'aspetto caprino proprio a causa della sconfitta inflittagli da Apollo, che ne decreta l'ineluttabile ritorno alla sua immanente natura semibestiale: se fosse stata questa la reale intenzione dell'artista, in luogo del Marsia legato a un albero e scorticato, avremmo lo stesso satiro frigio che invece sta per essere trafitto dal colpo di spada, ma ciò rappresenterebbe a mio parere non solo un
unicum, ma soprattutto una deviazione dall'iconografia tradizionale troppo drastica, specialmente se posta a confronto con le altre raffigurazioni del mito che venivano realizzate in quegli stessi anni; in particolare, valutando il dipinto di Houston come una filiazione diretta delle fonti letterarie del mito di Apollo e Marsia, sarebbe stata quantomeno assurda l'idea di sostituire la scena dello scuoiamento del satiro con quella di un combattimento tra quest'ultimo e il guerriero.
Inoltre, accettando come corretta questa seconda lettura interpretativa, bisognerebbe identificare il torrente che scorre vicino al guerriero in lotta con il satiro nel fiume che secondo il racconto mitico sarebbe stato generato dal sangue di Marsia dopo essere stato spellato vivo, nonostante l'assenza dell'episodio dello scorticamento
21. E non solo, come conseguenza logica dell'idea che nel satiro in procinto di essere ucciso dal guerriero possa essere riconosciuto Marsia sconfitto dopo la gara musicale con Apollo, è assolutamente incoerente l'assenza di un otre appeso a un albero – difatti i due contenitori vicini al ruscello in primo piano sono anfore di terracotta – il quale, secondo alcune versioni del mito, sarebbe stato realizzato con la pelle di Marsia 22 e che, nel contesto di una narrazione per successione temporale di eventi si sarebbe attestato, a causa della sostituzione della scena dello scuoiamento con quella del duello, l'unico, indispensabile elemento in grado di qualificare come Marsia il satiro aggredito dal guerriero, presupponendo che la sua spellatura, omessa nell'Allegoria di Houston, sarebbe stata sottintesa come un momento successivo alla sua uccisione per il colpo di spada infertogli: è inevitabile constatare che un'interpretazione di questo genere, sebbene sotto certi aspetti plausibile con il contesto privato e improntato a una predilezione per l'ermetismo figurativo, sia inaccettabile alla luce delle diverse incongruenze appena esaminate.
La lettura più ammissibile è dunque la prima, in ragione della quale la seconda scena non è consequenziale a quella della gara musicale, ma si configura piuttosto come una sua iterazione concettuale e ideologica, seppure trasfigurata in un episodio narrativo differente.

Cosa vuole evocare dunque la scena del combattimento? Per cercare di sciogliere l'interrogativo, è indispensabile confrontare l'Allegoria di Houston con altri dipinti coevi che presentano una tematica affine. Tra questi, l'Allegoria della Virtù e del Vizio di Lorenzo Lotto (Fig. 6),


Fig. 6 - Lorenzo Lotto, Allegoria della Virtù e del Vizio, 1505; olio su tavola, 56.5 cm x 42.2 cm.; Washington, National Gallery of Art. Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis
Fig. 6 - Lorenzo Lotto, Allegoria della Virtù e del Vizio, 1505
olio su tavola, 56.5 cm. x 42.2 cm.; Washington, National Gallery of Art
Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis

conservata alla National Gallery of Art di Washington e realizzata nel 1505 come fronte della custodia del ritratto del vescovo trevigiano Bernardo de' Rossi 23. Il dipinto è in effetti caratterizzato dalla presenza di alcuni elementi in comune con la tavola oggetto del presente studio: un albero reciso sul lato destro e prospero e verdeggiante su quello sinistro; uno scudo araldico con il blasone del de' Rossi, ovvero un leone bianco su campo azzurro, poggiato alla base del tronco; un satiro che guarda vogliosamente all'interno di un otre e, lì vicino, due anfore adagiate sul terreno erboso, bagnato dai liquidi che ne fuoriescono. Il satiro rappresenta evidentemente il vizio, la voluptas, la natura libidinosa, la passione orgiastica che sfugge al controllo della ragione. Rispetto all'Allegoria di Houston, tuttavia, nel dipinto lottesco il significato della scena appare decisamente più chiaro e perentorio poiché l'albero domina letteralmente il campo visivo e divide nettamente lo spazio deputato alla raffigurazione dei simboli del Vizio da quello in cui sono presentati gli attributi della Virtù, maneggiati da un puttino: dei libri, un compasso, uno spartito musicale 24. Un altro elemento che connette l'Allegoria di Washington a quella di Houston è la presenza di Minerva, che nel dipinto del Lotto è però evocata in absentia attraverso la sola raffigurazione del suo scudo, singolarmente trasparente come se fosse di vetro, che reca in rilievo la testa di Medusa ed è appeso sull'albero in direzione dello spazio riservato alle virtù. L'Allegoria di Houston appartiene a un filone di dipinti all'interno del quale può essere collocata altresì una tavola ottagonale, anch'essa conservata a Washington, che si presenta come un'imitazione da parte di un non identificato artista, dell'opera di Lorenzo Lotto (Fig. 7).

Fig. 7 - Pittore veneto, Virtus e Voluptas (Allegoria Venier), 1505-1506 ca.; olio su tavola; Washington, National Gallery of Art. Foto tratta da GENTILI 1980. Cortesia di Francesco De Santis
Fig. 7 - Pittore veneto, Virtus e Voluptas (Allegoria Venier)
1505-1506 ca.; olio su tavola; Washington, National Gallery of Art
Foto tratta da GENTILI 1980. Cortesia di Francesco De Santis

Anche in questo caso viene sottolineata l'opposizione tra virtus e voluptas: la seconda è addirittura enfatizzata dalla presenza di due satiri, uno dei quali, in preda al desiderio sessuale, insidia una ninfa dormiente. Un altro comun denominatore che l'Allegoria ottagonale di Washington condivide con quelle di Houston e di Lorenzo Lotto, è l'esplicita celebrazione del committente, nel caso specifico un membro della famiglia Venier, il cui emblema, un ovale con fasce orizzontali bianche e rosse, incorniciato entro un bordo frastagliato, è adagiato alla base dell'albero e “guarda”, ovviamente, verso lo spazio dedicato alla rappresentazione delle virtù, che sono le stesse dell'Allegoria de' Rossi: un compasso maneggiato da un puttino, un libro, uno spartito musicale e il nobile strumento cordofono, in questo caso una viola. Un secondo dipinto di Lorenzo Lotto è inoltre classificabile nel novero delle opere di matrice ermetico-moraleggiante: un'altra tavola custodita a Washington (Fig. 8),

Fig. 8 - Lorenzo Lotto, Allegoria della Castità, 1505 ca.; olio su tavola, 56,5 x 42,2 cm.; Washington, National Gallery of Art. Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis
Fig. 8 - Lorenzo Lotto, Allegoria della Castità, 1505 ca.
olio su tavola, 56,5 x 42,2 cm.; Washington, National Gallery of Art
Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis

che, variamente interpretata dalla critica, esprime in termini generali la contrapposizione tra la voluttà terrena, simboleggiata dal satiro e dalla satiressa, e l'amore divino, personificato dalla donna vestita di bianco, la quale, placidamente seduta al centro della scena e appoggiata con un braccio al tronco mozzo di un albero, riceve una pioggia di fiori versata da un puttino 25.

Alla luce di quanto esaminato, l'Allegoria di Houston, pur nella sua singolarità iconografica, espressa dalla coesistenza di più episodi narrativi, non rappresenta un caso isolato, ma è ascrivibile a un determinata corrente di dipinti dai connotati moraleggianti e insieme celebrativi, piuttosto apprezzati all'interno di determinati ambienti sociali e culturali nel primo decennio del Cinquecento. In questo senso, l'Allegoria di Houston esplica il suo ruolo in una duplice direzione: privata, attestandosi come una pittura destinata al puro godimento estetico del suo possessore, in ragione di quelle caratteristiche formali che sono le stesse citate da Taddeo Albani in merito al dipinto notturno di Giorgione richiesto da Isabella d'Este, come riportato nel brano della lettera ricordato in apertura di questo saggio; semipubblica, poiché la celebrazione del committente non doveva limitarsi a una forma di autoreferenzialità delle sue virtutes, ma, attraverso l'immagine tangibile del proprio blasone contrapposto alle frivole voluptates, veicolava anche un preciso messaggio sociale ed etico rivolto all'esclusivo cenacolo delle sue conoscenze, animate dai medesimi ideali.




NOTE

1 In particolare, Taddeo Albani si riferisce a due dipinti di analogo soggetto, precisando che essi risultavano allora tra le proprietà rispettivamente di «messer Thadeo Contarini» e di «Victorio Becharo». Molteplici sono stati i tentativi di individuare le notti in questione, la cui identificazione è, soprattutto in ragione dell'estrema genericità della loro descrizione all'interno della lettera rivolta a Isabella d'Este, allo stato attuale degli studi, ancora avvolta nel dubbio. Tra le proposte più convincenti, segnalo quella di Piermario Vescovo, che riconosce nelle due opere l'Adorazione dei pastori (“Natività Allendale”) della National Gallery of Art di Washington (Samuel H. Kress Collection) e l'Adorazione dei pastori del Kunsthistorisches Museum di Vienna, specificando che la presunta incongruenza data dal fatto che entrambi i dipinti di Giorgione siano ambientati in uno scenario diurno, è in realtà un problema inconsistente poiché l'adorazione dei pastori è un evento notturno nella sua realtà scritturale: a conferma di ciò, lo studioso evidenzia che l'opera viennese figurava con il titolo di Nachtstück nel catalogo della collezione dell'arciduca Leopoldo Guglielmo del 1659. Per un approfondimento, rimando a VESCOVO 2011, pp. 33-36.

2 In rapporto alla Tempesta (Venezia, Gallerie dell'Accademia), databile al 1508 circa, la realizzazione della tavola di Houston può essere collocata intorno al 1509. Ritengo che, in riferimento a quest'ultima, la paternità di Giorgione sia da escludere per la particolare organizzazione compositiva del dipinto, il quale, frazionato in tre scene indipendenti, anche se improntate alla trasmissione di un messaggio univoco, non trova convincenti riscontri nella produzione dell'artista di Castelfranco: difatti, specialmente nell'ideazione delle piccole tavole di carattere mitologico, come la Leda e il cigno (Padova, Musei Civici, Museo d'Arte Medioevale e Moderna) e la Venere e Cupido (Washington, National Gallery of Art - Samuel H. Kress Collection), Giorgione non aggiunge scenette accessorie a corollario della vicenda principale, ma indirizza l'occhio dell'osservatore sul singolo episodio raffigurato, determinando così una composizione fortemente unitaria e non articolata sull'addizione di più eventi, come appunto si può apprezzare nell'Allegoria di Houston.

3 Così narra icasticamente Ovidio (Ars Amatoria, III, 503-508): «Per la rabbia il viso si gonfia, le vene diventano nere per l'afflusso di sangue, gli occhi lampeggiano più crudelmente dello sguardo pieno di fuoco della Gorgone. “Vai lontano di qui, o flauto, non sei più importante per me”, disse Pallade quando vide nel fiume il suo volto [...]».

4 Apuleio (Florida, 3) ci informa che «le muse con Minerva assistettero alla gara a titolo di giudici [...]».

5 In merito alla tradizione figurativa di Marsia, si possono distinguere le seguenti principali tipologie iconografiche: Marsia effigiato nel corso della disfida musicale con Apollo, che può essere rappresentato con i connotati umani o caratterizzato dalle tipiche zampe caprine; Marsia suspensus durante il supplizio, con le braccia legate a un albero e rappresentato in sembianze antropomorfe, come nel caso delle due sculture a tuttotondo databili al I e al I-II secolo d.C., e custodite rispettivamente ai Musei Capitolini e al Louvre, oppure per metà umano e per metà animale, e infine, Marsia appeso per le zampe e scorticato: l'esempio più celebre di quest'ultima iconografia è il dipinto della Punizione di Marsia, inerente alla fase tarda dell'attività di Tiziano (1570-1576 ca.) e conservato presso il Castello arcivescovile di Kroměříž, in Repubblica Ceca. Per un approfondimento sull'iconografia del Marsia suspensus, si veda FATTICCIONI 2007.

6 Si confronti a tale proposito la Minerva contemplante della tavola di Houston con quella dall'aspetto bellicoso e con in testa il suo inconfondibile elmo nella tela raffigurante la scena di Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù (Parigi, Louvre), ultimata nel 1502 da Andrea Mantegna per lo Studiolo mantovano di Isabella d'Este.

7 Sulla ricerca dell'equilibrio tra l'otium e il negotium, segnatamente in riferimento agli umanisti veneziani vicini a Giorgione e afferenti alla cosiddetta “Compagnia degli amici”, rimando al dettagliato studio di BALLARIN 1983.

8 «[...] vinxe Appolline secondo el vero iudicio di Minerva [...]», Cristoforo Landino, Comento sopra la Comedia di Dante Alighieri poeta Fiorentino, Paradiso, I, 19-21. Un'altra logica spiegazione all'assenza delle muse può essere invece di carattere puramente pratico, poiché, date le dimensioni piuttosto contenute della tavola, l'aggiunta di ulteriori personaggi avrebbe comportato una certa dissonanza compositiva.

9 Cfr. Paccagnini 1961, p. 79.

10 La scena raffigurata dall'Alari Bonacolsi sulla medaglia, conservata a Cleveland, è con una buona dose di sicurezza, il frutto dello studio diretto dell'antichità, perfezionato dal bronzista in occasione di due soggiorni a Roma: nel 1495, quando fu chiamato per eseguire lavori in Castel Sant'Angelo, e nel 1497, inviato da Isabella d'Este con il preciso incarico di reperire rarità e pezzi antichi per la collezione privata della nobildonna.

11 Il blasone più somigliante a quello raffigurato nell'Allegoria di Houston è riferibile alla famiglia veneziana Diesnovi o Dixenuovi, originaria della Schiavonia. Esso presenta su un campo bipartito, bianco nella metà superiore e blu in quella inferiore, due gigli rossi, ma, anziché affiancati, disposti in verticale. Considerato che nel corso dei secoli gli stemmi araldici potevano subire minime variazioni rispetto alla loro espressione originaria, non è da escludere che l'emblema sullo scudo del combattente ritratto nella tavola di Houston appartenesse proprio alla famiglia Diesnovi. In questa ottica, è necessario puntualizzare che i blasoni delle famiglie erano di carattere esclusivamente privato e perciò, in quanto tali, privi di valore giuridico, a differenza degli stemmi araldici identificativi delle istituzioni pubbliche: in ragione di ciò, potevano essere soggetti più frequentemente a riformulazioni, più o meno radicali, per volontà anche di un singolo appartenente alla dinastia. Tuttavia, in assenza di informazioni più circostanziate, l'idea che il committente della tavola di Houston fosse un esponente della famiglia veneziana sopraccitata, deve essere necessariamente contemplata con estrema cautela.

12 A proposito dei bordi accartocciati che caratterizzano lo scudo, è interessante notare che questa particolare forma era, in epoca rinascimentale, frequentemente associata ai blasoni degli uomini di lettere – il che si sposerebbe perfettamente con l'idea che il committente dell'Allegoria di Houston fosse un personaggio provvisto di una solida cultura umanistica, e quindi a conoscenza della mitologia classica – o di legge, poiché i bordi evocavano l'aspetto dei rotoli dei manoscritti. Però, è bene ricordare che secondo Guelfi Camajani questa corrispondenza non è sufficientemente provata, dunque si tratta di un'ipotesi da considerare con una certa prudenza. Per un approfondimento, vedi GUELFI CAMAJANI 1940, p. 6.

13 Platone, Repubblica, 399, d. Afferma similmente Aristotele (Politica, VIII, 6, 1341 a, 15-40): «Inoltre l'aulo non serve a esprimere le qualità morali dell'uomo ma è piuttosto orgiastico sicché bisogna usarlo in quelle determinate occasioni in cui lo spettacolo mira più alla catarsi che all'istruzione».

14 Platone, op. cit., 399, e.

15 In merito all'identificazione di Marsia con l'abitante delle campagne, è significativa la testimonianza di Giovanni de' Bonsignori, che lo qualifica esplicitamente come «villano» (Ovidio Metamorphoseos Volgare, XXX).

16 Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

17 Padova, Musei Civici, Museo d'Arte Medioevale e Moderna.

18 Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, Gabinetto Disegni e Stampe.

19 MICHIEL 1800, p. 78.

20 «Benche non è terrena l'armonia, Donne [...]», Bembo, Gli Asolani, II, 25; «O Amore, qua' liuti o qua' lire più concordemente si rispondono; che due anime che s'amino delle tue? Le quali non pur quando vicine sono, alcuno accidente l'una muove; amendue rendono un medesimo concento: ma ancor lontane, non più mosse l'una che l'altra, fanno dolcissima conformisima armonia», Bembo, op. cit., II, 33.

21 Riporta Igino (Fabulae, 165): «E così Apollo legò il vinto Marsia a un albero e lo consegnò a uno Scita, che lo scorticò membro dopo membro; poi consegnò ciò che restava del corpo del satiro al suo discepolo Olimpo, perché lo seppellisse. Il fiume Marsia prende nome dal suo sangue».

Descrive inoltre Strabone (Geografia, XII, 15): «Quivi [si riferisce a Celene, antica città della Frigia] è fama che avvenisse quanto si favoleggia d'Olimpo e di Marsia, la gara di quest'ultimo con Apollo. Al di sopra di questo luogo trovasi un lago che produce una canna dalla quale si fanno buone linguelle di flauti: e dicono che da quel luogo hanno principio amendue questi fiumi, il Marsio e il Meandro».

Narra invece Ovidio (Metamorfosi, 6, 40) che il corso d'acqua che prese il nome da Marsia avrebbe avuto origine non dal sangue del satiro scorticato vivo, ma dalle lacrime che versarono sul terreno i fauni delle campagne e gli altri satiri alla vista del loro compagno torturato.

22 Nelle Dionisiache (XIX, 316-329), Nonno di Panopoli scrive che «un altro Sileno, preso un aulo superbo, sollevò il collo tracotante e venne a contesa con Febo, ma questi lo spogliò della pelle villosa, lo attaccò a un alberello e ne fece un otre animato, e spesso in cima all'albero il vento si insinua a gonfiare la forma che aveva il suo aspetto, come se ancora cantasse quel pastore che mai stava zitto».

23 Napoli, Museo di Capodimonte.

24 Tra gli oggetti che simboleggiano le virtù, anche una siringa: la presunta ambiguità di questo strumento musicale a fiato è solo apparente, perché nel contesto specifico dell'Allegoria di Lorenzo Lotto la siringa non assume la funzione di attributo distintivo del satiro – come nel caso del dipinto di Houston – nell'evidenza del suo posizionamento in corrispondenza al lato opposto a quello dove è seduta la creatura semibestiale, ma è a mio parere un generico riferimento all'arte della musica, considerata virtuosa.

25 La tavola è generalmente riferita come un'Allegoria della Castità, ma tra le letture alternative segnalo quella, di una certa rilevanza, di Enrico Maria Dal Pozzolo (1992), che individua nella donna un ritratto idealizzato della Laura amata dal Petrarca, precisando che la tavola lottesca può essere interpretata come la rappresentazione di una climax riconducibile agli ideali neoplatonici, mediante la quale il sentimento amoroso progredisce da una condizione bestiale a un apice divino, attraversando lo stato intermedio della natura umana.



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