«[...] m'è stato afirmatto né
l'una né l'altra non sono da vendere per pretio nesuno, però
che li hanno fatte fare per volerle godere per loro [...]»: così
Taddeo Albani, agente di Isabella d'Este a Venezia, concludeva la
sua lettera di risposta, datata 8 novembre 1510, ossia diversi giorni
dopo la morte di Giorgione, alla richiesta della nobile collezionista
e mecenate di procurarle «una pictura de una notte»
realizzata dal maestro di Castelfranco, disilludendone il desiderio
di entrare in possesso del non meglio specificato dipinto. Questo
breve frammento epistolare dice in realtà molto più di quanto possa
sembrare a una prima, immediata lettura: difatti, non solo è
indicativo della notevole fama di cui godeva l'artista veneto, ma
rivela soprattutto la destinazione nella quasi totalità dei casi
esclusivamente privata delle sue opere, una circostanza, questa, che
implicava come logica conseguenza l'elitaria intelligibilità dei
temi raffigurati, privilegio dunque riservato a una cerchia ristretta
di conoscitori, imbevuti di una cultura umanistica superiore a quella
dell'uomo comune di inizio Cinquecento.
Risponde
a queste caratteristiche anche un dipinto allegorico di scuola
veneta, conservato presso il Museum of Fine Arts di Houston (Fig. 1)
Fig. 1 - Pittore giorgionesco, Allegoria, 1509-1510 ca.
olio su tavola, 70.8 cm x 43.2 cm., Houston, The Museum of Fine Arts
Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis
e riconducibile alla mano di un artista vicinissimo al linguaggio
giorgionesco. La tavola, le cui dimensioni non eccessive e
l'orizzontalità, sebbene non esasperata, farebbero pensare al
pannello di una piccola cassapanca, presenta tre scene distinte sul
piano compositivo, ma, come si vedrà più avanti, strettamente
legate su quello contenutistico, ambientate in un paesaggio campestre
attraversato da due corsi d'acqua, con sullo sfondo un caseggiato
fortificato sul quale svetta una torre e, ancora più in lontananza,
dei monti e una città con un campanile, resa in maniera estremamente
compendiaria attraverso rapide pennellate dalla tonalità bluastra,
secondo i princìpi cromatici della prospettiva aerea.
In
primo piano, nella zona sinistra del dipinto, compaiono due figure
maschili e una donna; il primo uomo, rappresentato di schiena, col
capo cinto da una corona di alloro e intento a suonare una lira da
braccio, è raffigurato seduto sul manto erboso secondo una posa che
ricalca esattamente e specularmente quella della donna allattante
protagonista della Tempesta
di Giorgione (Fig. 2):
Fig. 2 - Giorgione, Tempesta, 1508 ca., particolare
tempera e olio su tela, 82 cm x 73 cm.; Venezia, Gallerie dell'Accademia
Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis
la celebre tela di Zorzi da Castelfranco può
quindi essere adottata come termine post
quem per la datazione
della tavola di Houston ;
l'altro uomo, barbuto e dalle appuntite orecchie asinine, si
esibisce in ginocchio suonando un flauto a canne multiple. Tra i due
personaggi, in piedi, la donna vestita di un himation
azzurro presenta un'elegante postura classicheggiante che ricorda
il contrapposto codificato da Policleto nel V secolo a.C.
Si
tratta, evidentemente, della rappresentazione del mito di Apollo e
Marsia: ascoltato il doloroso lamento delle Gorgoni, disperate in
seguito alla decapitazione della loro sorella Medusa a opera di
Perseo, Minerva, per imitarne il gemito, decise di inventare l'aulòs,
ossia un flauto a doppia canna. Orgogliosa della propria creazione, la
dea iniziò a suonare il suo nuovo strumento musicale durante un
banchetto al quale presenziavano gli dèi, suscitando però l'ilarità
di Era e Afrodite, divertite dall'aspetto buffo delle sue gote
gonfie. Imbarazzata per l'accaduto, e tuttavia non ancora
consapevole del motivo per cui era stata fatta oggetto di derisione,
Minerva fuggì dall'Olimpo e, giunta nei pressi di un ruscello,
vedendo riflesso nelle acque limpide il suo viso arrossito e
deformato mentre suonava il flauto, assalita dall'ira lo gettò via
violentemente, maledicendo chiunque lo avesse trovato in futuro .
Il primo a rinvenirlo fu Marsia, un satiro di origine frigia, che lo
raccolse e si esercitò con una dedizione tanto intensa da divenirne
un prodigioso suonatore, cosicché, talmente sicuro del proprio
imbattibile talento, giunse a sfidare addirittura Apollo in una gara
musicale, alla conclusione della quale la stessa Minerva e le muse
decretarono il dio, che aveva accompagnato le melodie della sua lira
con un canto celestiale, vincitore. Lo sconfitto Marsia venne così
condannato per la sua superbia a subire una punizione atroce: appeso
a un albero, fu scorticato vivo.
L'autore
della tavola conservata a Houston rappresenta il momento della sfida
musicale, rinunciando alla descrizione cruenta della tortura di
Marsia, qui ritratto in sembianze completamente antropomorfe,
eccezion fatta per il particolare delle orecchie asinine, unico ma
decisivo dettaglio fisico che permette di identificarlo come satiro;
il pittore giorgionesco riprende in questo frangente un'iconografia
tipica dell'antichità: la raffigurazione di Marsia in aspetto
interamente umano è infatti frequente nella pittura vascolare greca
del IV e V secolo a.C. e compare anche in alcuni sarcofagi romani
del II-III secolo d.C.; per quanto riguarda invece le testimonianze
artistiche coeve al dipinto in oggetto, è opportuno citare
l'esemplare affrescato da Baldassarre Peruzzi tra il 1509 e il 1511
presso la Sala del Fregio all'interno della Villa Farnesina, anche
se il Marsia romano condivide con quello della tavola di Houston
soltanto le fattezze umane, perché nella testimonianza capitolina il
satiro non è raffigurato durante la disputa musicale con Apollo, ma
nel momento successivo e finale del mito, mentre viene scuoiato,
secondo l'iconografia tradizionale del Marsia
suspensus .
La donna posizionata tra Apollo e il satiro può essere lecitamente
identificata con Minerva; il grande elmo crestato deposto ai piedi
della dea è il suo attributo distintivo: tuttavia, il fatto che ella
non lo indossi è un'anomalia iconografica
che a mio parere trova una ragionevole giustificazione nel contesto
di un'attività, come quella musicale cui è chiamata ad assistere
nell'Allegoria
di Houston, riconducibile alla pratica di quell'otium
che nel Rinascimento maturo era considerato un necessario
contrappunto all'impegno del negotium
politico e militare .
Circa invece l'assenza delle muse, che, come anticipato poco sopra,
presenziarono al duello musicale insieme a Minerva in qualità di
giudici, è possibile che l'artista abbia attinto a un filone
testuale alternativo e minoritario rispetto alla tradizione
letteraria dominante, secondo il quale soltanto la dea sarebbe stata
presente alla gara tra Apollo e Marsia, come riporta, ad esempio,
Cristoforo Landino, il cui Comento
alla Comedia dantesca
fu ristampato ben cinque volte, a Venezia, sul finire del XV secolo,
precisamente tra il 1484 e il 1497 .
Nella
zona destra del dipinto, in secondo piano rispetto all'episodio
della gara musicale tra Apollo e Marsia, un guerriero seminudo,
vestito soltanto di uno svolazzante panno bianco che ne copre le
parti intime, aggredisce, armato di spada e scudo, un satiro dallo
sguardo atterrito e incapace di rialzarsi, che, con una mano protesa
per difendersi dall'imminente colpo esiziale, è ormai prossimo a
soccombere. Dal punto di vista squisitamente stilistico, questa
coppia di personaggi esprime un'evidente impronta anticheggiante,
manifestando una certa somiglianza con un brano del fregio est del
tempio di Apollo Epicurio a Bassai, in Arcadia, raffigurante Achille
e Pentesilea, risalente al V secolo a.C. (Fig. 3),
Fig. 3 - Bassai (Arcadia), tempio di Apollo Epicurio, fregio est
Achille e Pentesilea, V secolo a.C., marmo; Londra, British Museum
Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis
e con una scena di
Amazzonomachia scolpita
su una lastra proveniente dal Mausoleo di Alicarnasso, (IV secolo
a.C.), attribuita, seppure non pacificamente, a Timoteo (Fig. 4),
Fig. 4 - Alicarnasso, Mausoleo, lastra attribuita a Timoteo
Scena di combattimento tra Greci e Amazzoni
IV secolo a.C., particolare; marmo; Londra, British Museum Foto cortesia del British Museum di Londra. Cortesia di Francesco De Santis
entrambi conservati al British Museum di Londra: queste affinità
sono sintomatiche della cultura antiquaria di cui è provvisto
l'anonimo artista giorgionesco. Ma, se la conoscenza diretta delle
testimonianze appena nominate sarebbe stata comunque un'eventualità
pressoché impossibile per l'artefice della tavola di Houston, per
sin troppo chiare ragioni cronologiche e geografiche, egli avrebbe
potuto tuttavia attingere a un vasto repertorio figurativo
dell'antichità attraverso diversi e prosperosi canali di
mediazione. Uno di questi può essere individuato nella bottega
padovana di Francesco Squarcione, i cui temi e motivi pittorici erano
ispirati principalmente dalla «vivissima curiosità che egli aveva
per le anticaglie» :
sebbene lo Squarcione morì nel 1468, dunque diversi decenni prima
del dipinto analizzato in questa sede, è più che legittimo
immaginare che i reperti della sua collezione antica fossero ancora
facilmente fruibili in area veneta, o direttamente oppure grazie a
riproduzioni grafiche, anche agli inizi del XVI secolo. Il brano del
guerriero in lotta con il satiro palesa però una somiglianza ancora
più stringente con una scena di combattimento effigiata sul verso
di una medaglia realizzata intorno al 1501-1502 (Fig. 5)
Fig. 5 - Pier Iacopo Alari Bonacolsi detto l'Antico
Medaglia con iscrizione «DVBIA FORTV[N]A»
verso, 1501-1502 ca.; bronzo, diametro: 3.7 cm.
Cleveland, The Cleveland Museum of Art
Foto cortesia di Internet Archive. Cortesia di Francesco De Santis
dal
bronzista Pier Iacopo Alari Bonacolsi, meglio noto come l'Antico ,
attivo in quegli anni presso la corte mantovana dei Gonzaga e
caposcuola di una cerchia di artisti tra i quali emergeva per
particolare abilità il veronese Galeazzo Mondella detto il Moderno:
non è difficile immaginare che proprio quest'ultimo abbia potuto
divulgare nel territorio della Repubblica di Venezia il lessico
stilistico del maestro e, di conseguenza, influenzare gli artisti
locali, tra i quali, appunto, anche il pittore giorgionesco autore
dell'Allegoria
di Houston. Inoltre, l'iscrizione «DVBIA FORTV[N]A» che campeggia
lungo il bordo superiore del manufatto conobbe, proprio agli albori
del XVI secolo, una discreta diffusione altresì nel territorio
veneto, perciò non va esclusa l'ipotesi che anche altri artisti,
oltre al Moderno, copiarono e trasmisero il modello realizzato a
Mantova dall'Antico.
Per
quanto riguarda il riferimento alla contesa musicale tra Apollo e
Marsia, è opportuno evidenziare che la narrazione di tale mito si
propagò assurgendo a notevole popolarità specialmente nei primi
anni del Cinquecento: in merito alla divulgazione del testo
letterario, un fattore propulsore determinante può essere
riconosciuto nella tipografia di Aldo Manuzio, dove, a partire dal
biennio 1502-1503, veniva intrapresa la stampa delle Metamorfosi
di Ovidio, che rappresentavano una tra le principali fonti di
trasmissione di questo racconto mitologico. Inoltre, non va
dimenticato che nel 1503 l'umanista Demetrio Moschos redigeva, su
commissione di Isabella d'Este, la traduzione italiana del testo
originale: questa circostanza rimarca l'evidenza di quanto
estesamente la conoscenza del mito di Apollo e Marsia si fosse
imposta agli inizi del XVI secolo, attestandosi dunque come
un'espressione letteraria godibile non solo da personalità di ceto
e cultura molto elevati come la marchesa di Mantova, ma anche dagli
esponenti della classe medio-borghese, entro la quale è a mio avviso
classificabile il committente della tavola di Houston.
L'elemento
dirimente per il suo riconoscimento sarebbe – il condizionale è in
questo caso d'obbligo, come illustrerò tra poco – la precisa
identificazione della famiglia cui apparteneva lo stemma araldico che
campeggia sullo scudo imbracciato dal guerriero in lotta con il
satiro: un ovale con due gigli rossi affiancati che si stagliano su
un campo bipartito, bianco nella metà superiore e blu in quella
inferiore. Confesso la lacuna di non essere riuscito – durante pur
meticolose ricerche – a individuare il casato rappresentato da
questo blasone ,
tuttavia, questo vuoto non può a mio avviso rappresentare una facile
giustificazione per esimersi dall'approfondimento del dipinto, il
cui significato allegorico prescinde comunque dall'esatta
individuazione della dinastia del committente, che può essere stato
un appartenente al ceto mercantile veneziano, provvisto di una
discreta cultura classica
e desideroso di donare lustro alla propria dimora con un'opera di
un seguace di Giorgione, ma economicamente più accessibile rispetto
ai dipinti del maestro di Castelfranco.
Approdando ora all'analisi del
contenuto dell'Allegoria,
il principale dei temi che ne determinano il significato è la
musica, come chiaramente dimostra appunto la rappresentazione in
primo piano del mito di Apollo e Marsia. Nell'ambito dell'Umanesimo
cinquecentesco, in particolare veneto, era frequente e di centrale
importanza la concezione della musica formulata da Platone, basata
innanzitutto sulla gerarchizzazione degli strumenti musicali, in
ragione della quale quelli cordofoni erano considerati espressione di
un livello più alto di civiltà rispetto a quelli a fiato, come si
deduce chiaramente dalla lettura di certi passi della
Repubblica: « – Ti
restano – affermai – la lira e la cetra come strumenti utili per
chi sta in città, mentre in campagna i pastori potranno far uso di
una specie di siringa» .
E ancora, in termini più specifici sul mito di Apollo e Marsia, così
sentenzia il filosofo ateniese: « – del resto – affermai – non
facciamo nulla di originale, amico mio, preferendo Apollo e gli
strumenti di Apollo a Marsia ed ai suoi strumenti» .
Fondamentali punti di riferimento erano poi gli scritti di teoria
musicale che vedevano la luce propriamente agli inizi del
Cinquecento, come quelli di Franchino Gaffurio, attivo a Mantova,
Milano e Venezia e convinto sostenitore della superiore dignità
degli strumenti cordofoni su quelli a fiato. L'adozione nel
contesto umanistico di questo ordine di valori, che oggi potrebbe
essere definito classista, si traduce nel dipinto allegorico di
Houston in un preciso messaggio sociale: Apollo incarna l'immagine
idealizzata e mitizzata del cittadino, esponente di una civiltà
urbana assurta a uno sviluppo antropologico più elevato in confronto
ai subalterni abitanti di selve e campagne, pastori e contadini, che
si identificano nella figura di Marsia .
Non casualmente, per ribadire questo preciso concetto, l'artista
giorgionesco colloca in terzo piano un pastore che suona la siringa
vicino a un gregge di pecore, con una donna che assiste in piedi alla
scena: a ulteriore riprova di quanto stretta e inequivocabile fosse
nel primo Cinquecento l'associazione tra il pastore e gli strumenti
a fiato, cito due ritratti raffiguranti un Pastore
con il flauto,
attribuibili a Sebastiano del Piombo
e Lorenzo Luzzo ,
nonché un'incisione di Giulio Campagnola
di analogo soggetto, ma differente per composizione rispetto ai due
dipinti appena menzionati poiché il vecchio pastore è rappresentato
a figura intera, sdraiato, con un borgo campestre sullo sfondo. È
però di un certo interesse constatare che, nonostante secondo la
tradizione letteraria e figurativa egemone fosse abituale il legame
tra Apollo e gli strumenti cordofoni, non mancavano sorprendenti
eccezioni, come dimostra un'affermazione di Marcantonio Michiel,
che riporta di aver visto presso la dimora veneziana di «Zuanne» –
cioè Giovanni – Ram, un dipinto a olio di Vincenzo Catena
raffigurante una «testa dell'Apolline giovine che suona una
zampogna» .
Nell'Allegoria
di Houston, l'opposizione tra mondo cittadino e contesto bucolico
diventa ancora più esplicita nella raffigurazione del combattimento
tra il guerriero e il satiro, suggellato dal trionfo, inevitabile,
del primo ai danni del secondo; eloquente è in questa scena la netta
differenza qualitativa delle armi utilizzate, ovvero una spada ben
modellata, impugnata dal guerriero nella mano destra e un nodoso,
rozzo e alquanto innocuo rametto di legno per il satiro: in sintesi,
la civiltà che sconfigge la natura primordiale. Focalizzando ancora
l'attenzione sulla scena di questo ìmpari combattimento, altri
elementi simbolici sono le anfore adagiate orizzontalmente, perciò
svuotate del loro contenuto, sull'erba: si tratta di figure che
rappresentano l'ebbrezza, l'eccitazione emotiva e psicofisica che
permea i rituali dionisiaci e la condotta, improntata alla lascivia,
dei satiri.
Il
dipinto di Houston è dunque incardinato su un'articolata
architettura di poli dialettici: Apollo e Marsia, la musica colta e
quella pastorale, la civiltà urbana e la natura selvaggia. Accanto a
queste coppie di opposti va aggiunto l'esile tronco mozzo di un
arbusto che presenta un ramo spoglio a sinistra e un altro provvisto
di foglie a destra. Si tratta di un simbolismo piuttosto diffuso sia
nella tradizione cristiana che in quella pagana. In merito alla
prima, il ramo secco allude chiaramente al concetto di morte, mentre
quello verdeggiante rimanda alla resurrezione, o comunque, in termini
più estensivi, rispettivamente al male e al bene; rimanendo nello
scenario veneziano al principio del XVI secolo, si pensi, solo per
citare un esempio tra i numerosi proponibili, al telero raffigurante
San Giorgio e il drago
dipinto da Vittore Carpaccio per la Scuola di San Giorgio degli
Schiavoni, dove l'albero dal duplice aspetto, collocato esattamente
al centro della scena, è lo spartiacque tra le forze demoniache,
incarnate dalla mostruosa creatura disposta in corrispondenza dei
rami spogli e secchi, e il santo guerriero, verso cui si protendono
invece quelli rigogliosi.
Ritornando
ora al tema musicale, mi sembra esatto contestualizzare l'Allegoria
di Houston all'interno del clima letterario in cui nacquero gli
Asolani
del Bembo, che potrebbero aver esercitato un'influenza più o meno
diretta. In particolare, Apollo, che, come abbiamo osservato, suona
la lira secondo la tradizione iconografica che gli è associata, non
esprime in questo dipinto soltanto il suo valore mitologico, ma il
dio è investito anche da un processo di attualizzazione, poiché
diventa l'emblema della concezione bembesca dell'armonia musicale
che, attraverso il suono degli strumenti cordofoni, governa e
glorifica l'amore celeste riconducibile alla corrente neoplatonica
,
le cui idee erano allora discretamente diffuse in certi ambienti
umanistici.
Ma il soggetto musicale, imperniato sul contrasto tra la
lira di Apollo e l'aulòs
di Marsia, non è il
solo evocato da questo enigmatico dipinto. Infatti, la disorganicità
compositiva, che si manifesta nella coesistenza di tre gruppi
distinti di personaggi, quasi sfociando pericolosamente nella
confusione iconografica, pone più di un interrogativo, soprattutto
per quanto riguarda la relazione semantica che intercorre tra la
scena di Apollo, Marsia e Minerva e quella dello scontro tra il
guerriero e il satiro. Si tratta di due vicende che si svolgono nello
stesso momento oppure la seconda è consequenziale alla prima sul
piano temporale? Nel primo caso, avremmo due episodi indipendenti tra
loro, seppure contraddistinti da un'affine opposizione ideologica:
Apollo, lira e civiltà urbana in contrasto con Marsia, aulòs
e vita pastorale.
Nella seconda ipotesi, in ragione della quale
saremmo davanti a due momenti distinti, legati però da una
successione cronologica basata sul nesso causa-effetto, Marsia, che
durante la gara musicale è ritratto in sembianze antropomorfe,
riapparirebbe nella scena del combattimento, disumanizzato e
ricondotto all'aspetto caprino proprio a causa della sconfitta
inflittagli da Apollo, che ne decreta l'ineluttabile ritorno alla
sua immanente natura semibestiale: se fosse stata questa la reale
intenzione dell'artista, in luogo del Marsia legato a un albero e
scorticato, avremmo lo stesso satiro frigio che invece sta per essere
trafitto dal colpo di spada, ma ciò rappresenterebbe a mio parere
non solo un unicum,
ma soprattutto una deviazione dall'iconografia tradizionale troppo
drastica, specialmente se posta a confronto con le altre
raffigurazioni del mito che venivano realizzate in quegli stessi
anni; in particolare, valutando il dipinto di Houston come una
filiazione diretta delle fonti letterarie del mito di Apollo e
Marsia, sarebbe stata quantomeno assurda l'idea di sostituire la
scena dello scuoiamento del satiro con quella di un combattimento tra
quest'ultimo e il guerriero.
Inoltre, accettando come corretta
questa seconda lettura interpretativa, bisognerebbe identificare il
torrente che scorre vicino al guerriero in lotta con il satiro nel
fiume che secondo il racconto mitico sarebbe stato generato dal
sangue di Marsia dopo essere stato spellato vivo, nonostante
l'assenza dell'episodio dello scorticamento .
E non solo, come conseguenza logica dell'idea che nel satiro in
procinto di essere ucciso dal guerriero possa essere riconosciuto
Marsia sconfitto dopo la gara musicale con Apollo, è assolutamente
incoerente l'assenza di un otre appeso a un albero – difatti i
due contenitori vicini al ruscello in primo piano sono anfore di
terracotta – il quale, secondo alcune versioni del mito, sarebbe
stato realizzato con la pelle di Marsia
e che, nel contesto di una narrazione per successione temporale di
eventi si sarebbe attestato, a causa della sostituzione della scena
dello scuoiamento con quella del duello, l'unico, indispensabile
elemento in grado di qualificare come Marsia il satiro aggredito dal
guerriero, presupponendo che la sua spellatura, omessa
nell'Allegoria
di Houston, sarebbe stata sottintesa come un momento successivo alla
sua uccisione per il colpo di spada infertogli: è inevitabile
constatare che un'interpretazione di questo genere, sebbene sotto
certi aspetti plausibile con il contesto privato e improntato a una
predilezione per l'ermetismo figurativo, sia inaccettabile alla
luce delle diverse incongruenze appena esaminate.
La lettura più
ammissibile è dunque la prima, in ragione della quale la seconda
scena non è consequenziale a quella della gara musicale, ma si
configura piuttosto come una sua iterazione concettuale e ideologica,
seppure trasfigurata in un episodio narrativo differente.
Cosa
vuole evocare dunque la scena del combattimento? Per cercare di
sciogliere l'interrogativo, è indispensabile confrontare
l'Allegoria di
Houston con altri dipinti coevi che presentano una tematica affine.
Tra questi, l'Allegoria
della Virtù e del Vizio
di Lorenzo Lotto (Fig. 6),
Fig. 6 - Lorenzo Lotto, Allegoria della Virtù e del Vizio, 1505
olio su tavola, 56.5 cm. x 42.2 cm.; Washington, National Gallery of Art
Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis
conservata alla National Gallery of Art di
Washington e realizzata nel 1505 come fronte della custodia del
ritratto del vescovo trevigiano Bernardo de' Rossi .
Il dipinto è in effetti caratterizzato dalla presenza di alcuni
elementi in comune con la tavola oggetto del presente studio: un
albero reciso sul lato destro e prospero e verdeggiante su quello
sinistro; uno scudo araldico con il blasone del de' Rossi, ovvero
un leone bianco su campo azzurro, poggiato alla base del tronco; un
satiro che guarda vogliosamente all'interno di un otre e, lì
vicino, due anfore adagiate sul terreno erboso, bagnato dai liquidi
che ne fuoriescono. Il satiro rappresenta evidentemente il vizio, la
voluptas,
la natura libidinosa, la passione orgiastica che sfugge al controllo
della ragione. Rispetto all'Allegoria
di Houston, tuttavia, nel dipinto lottesco il significato della scena
appare decisamente più chiaro e perentorio poiché l'albero domina
letteralmente il campo visivo e divide nettamente lo spazio deputato
alla raffigurazione dei simboli del Vizio da quello in cui sono
presentati gli attributi della Virtù, maneggiati da un puttino: dei
libri, un compasso, uno spartito musicale .
Un altro elemento che connette l'Allegoria
di Washington a quella di Houston è la presenza di Minerva, che nel
dipinto del Lotto è però evocata in
absentia attraverso la
sola raffigurazione del suo scudo, singolarmente trasparente come se
fosse di vetro, che reca in rilievo la testa di Medusa ed è appeso
sull'albero in direzione dello spazio riservato alle virtù.
L'Allegoria di
Houston appartiene a un filone di dipinti all'interno del quale può
essere collocata altresì una tavola ottagonale, anch'essa
conservata a Washington, che si presenta come un'imitazione da
parte di un non identificato artista, dell'opera di Lorenzo Lotto
(Fig. 7).
Fig. 7 - Pittore veneto, Virtus e Voluptas (Allegoria Venier)
1505-1506 ca.; olio su tavola; Washington, National Gallery of Art
Foto tratta da GENTILI 1980. Cortesia di Francesco De Santis
Anche in questo caso viene sottolineata l'opposizione tra
virtus
e voluptas:
la seconda è addirittura enfatizzata dalla presenza di due satiri,
uno dei quali, in preda al desiderio sessuale, insidia una ninfa
dormiente. Un altro comun denominatore che l'Allegoria
ottagonale di Washington condivide con quelle di Houston e di Lorenzo
Lotto, è l'esplicita celebrazione del committente, nel caso
specifico un membro della famiglia Venier, il cui emblema, un ovale
con fasce orizzontali bianche e rosse, incorniciato entro un bordo
frastagliato, è adagiato alla base dell'albero e “guarda”,
ovviamente, verso lo spazio dedicato alla rappresentazione delle
virtù, che sono le stesse dell'Allegoria
de' Rossi: un
compasso maneggiato da un puttino, un libro, uno spartito musicale e
il nobile strumento cordofono, in questo caso una viola. Un secondo
dipinto di Lorenzo Lotto è inoltre classificabile nel novero delle
opere di matrice ermetico-moraleggiante: un'altra tavola custodita
a Washington (Fig. 8),
Fig. 8 - Lorenzo Lotto, Allegoria della Castità, 1505 ca.
olio su tavola, 56,5 x 42,2 cm.; Washington, National Gallery of Art
Foto cortesia di Wikimedia Commons. Cortesia di Francesco De Santis
che, variamente interpretata dalla critica,
esprime in termini generali la contrapposizione tra la voluttà
terrena, simboleggiata dal satiro e dalla satiressa, e l'amore
divino, personificato dalla donna vestita di bianco, la quale,
placidamente seduta al centro della scena e appoggiata con un braccio
al tronco mozzo di un albero, riceve una pioggia di fiori versata da
un puttino .
Alla
luce di quanto esaminato, l'Allegoria
di Houston, pur nella sua singolarità iconografica, espressa dalla
coesistenza di più episodi narrativi, non rappresenta un caso
isolato, ma è ascrivibile a un determinata corrente di dipinti dai
connotati moraleggianti e insieme celebrativi, piuttosto apprezzati
all'interno di determinati ambienti sociali e culturali nel primo
decennio del Cinquecento. In questo senso, l'Allegoria
di Houston esplica il suo ruolo in una duplice direzione: privata,
attestandosi come una pittura destinata al puro godimento estetico
del suo possessore, in ragione di quelle caratteristiche formali che
sono le stesse citate da Taddeo Albani in merito al dipinto notturno
di Giorgione richiesto da Isabella d'Este, come riportato nel brano
della lettera ricordato in apertura di questo saggio; semipubblica,
poiché la celebrazione del committente non doveva limitarsi a una
forma di autoreferenzialità delle sue virtutes,
ma, attraverso l'immagine tangibile del proprio blasone
contrapposto alle frivole voluptates,
veicolava anche un preciso messaggio sociale ed etico rivolto
all'esclusivo cenacolo delle sue conoscenze, animate dai medesimi
ideali.
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Giacomo
BESCAPÈ, Marcello DEL PIAZZO, con la cooperazione di Luigi Borgia,
Insegne e simboli.
Araldica pubblica e privata medievale e moderna,
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centrale per i beni archivistici, Istituto Poligrafico e Zecca dello
Stato - Libreria dello Stato, 1999.
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pittura di Giorgione,
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2011
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EWALD 2008
Paul
ZANKER, Björn Christian EWALD, Vivere
con i miti. L'iconografia dei sarcofagi romani
(Titolo originale: Mit
Mythen leben. Die Bilderwelt der römischen Sarkophage,
München, Hirmer Verlag GmbH, 2004), Torino, Bollati Boringhieri.
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