A distanza di quasi tre secoli la
straordinaria Collezione Farnese, in
passato ritenuta una delle quattro meraviglie di Roma, frutto
della ricercata azione di raccolta antiquaria dell’omonima famiglia, dopo il
doloroso e forzato trasferimento a Napoli, voluto da Carlo Sebastiano di
Borbone, re delle due Sicilie, torna onorevolmente, anche se solo per qualche
mese, ad ornare alcuni ambienti di Palazzo
Farnese, cui era legata per testamento.
L’esposizione pensata nel 2007,
in occasione della visita al Museo
Archeologico della città partenopea, dell’ambasciatore
francese, Jean Marc de La Sabliére, è frutto di una eccellente collaborazione
tra istituzioni e figure culturali di tre paesi: Italia, Francia e
Stato del Vaticano.
L’evento, prodotto da Civita,
vanta un comitato scientifico di particolare livello: tra i molti Francesco
Buranelli, Roberto Checchi, Stefano Andreatta, Angelo Bottini, Christof L.
Frommel, Cristina Ginzburg, Louis Godart, Nicola Spinosa, Claudio Strinati e
Rossella Vodret.
La mostra, curata dal professor
Buranelli, segretario della Pontificia
Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, e dall’architetto Cecchi, segretario generale del Mibac, non vuole essere una replica pedissequa della condizione
originaria della collezione ai tempi dei Farnese, ma ha l’ambizione di essere
un momento di riflessione, aspira, cioè, a calare il visitatore in spazi che siano
capaci di evocare l’originaria aurea di quei luoghi. A tal fine sono stati prima individuati, quindi esposti solo i pezzi
più significativi e validi, circa 150 opere, per la riuscita della mostra, ma
che sono ben poca cosa rispetto al corpus
originario della raccolta.
Dipinti, statue, disegni,
sculture, monete, gemme, mobili, incunaboli, arazzi e ceramiche, provenienti da
diverse parti d’Italia e dall’estero, fanno
rivivere cinque secoli di storia del palazzo; un attento cammino, dai fasti
cinquecenteschi al periodo moderno.
L’esposizione parte dal pianterreno,
nel cortile di accesso sono state innalzate le sagome delle celebri statue-simbolo
dei Farnese. Durante il Rinascimento,
con il diffondersi della cultura antiquaria, il palazzo era animato e reso
ancor più grande da statue di origine
antica, il luogo, seppur ancora in costruzione, esibiva le importanti e
monumentali sculture, emerse nel 1545, durante gli scavi nella zona di
Caracalla: le due statue di Toro, le
due di Ercole, simbolo delle virtù
eroiche dei membri della famiglia, e le
due di Flora, allegorie della natura
che ritrova la pace.
Salendo al piano nobile,
attraverso il Grande Salone, la
magnifica Sala dei fasti farnesiani, il Camerino di Ercole, la celeberrima
Galleria dei Carracci e la Galleria nord-est, si dipana il percorso
espositivo vero e proprio. Grazie ai prestiti del Museo archeologico di
Napoli, soprattutto, ma non solo, è stato ricostituito il Museum Farnesianum
composto dalle storiche Sale degli
Imperatori e dei Filosofi, mentre lungo la Galleria nord-est è stata riallestita la
preziosa Quadreria Farnese.
Lavorare a questa mostra ha
significato ricontestualizzare opere come l’Atlante,
di origine ellenistica, la statua in porfido di Apollo, conosciuta come Roma
triumphans, eccellente esempio di
arte classica, o lo Studiolo
rinascimentale di Ecouen. Questa operazione di contestualizzazione, evidentemente,
non ha posto i normali e difficili problemi di allestimento e/o esposizione che
si incontrano solitamente in fase di preparazione di una rassegna, si è
trattato piuttosto, ha spiegato Buranelli in conferenza stampa, di: “ascoltare
e rispettare i luoghi dove le opere si trovavano”. È stata, dunque, un’attenta
e cauta azione di ripopolamento di un luogo che già era contenitore eccellente
della collezione per cui l’organizzazione non ha posto questioni di natura
“etico-artistica”.
È una mostra equilibrata dove
spazi, opere e prestiti convivono pacatamente in un allestimento contenuto a
cura di Renata Cristina Mazzantini. L’architetto è stata capace di coniugare la
necessità di raccontare al grande pubblico con il rispetto della storia e nulla
stride. Le sale sono intrise di un’atmosfera serena, forse, la stessa che un
tempo permeava le sale del palazzo, il visitatore passeggia in silenzio lungo
gli ampi luoghi e contempla le opere antiche e rinascimentali in una condizione
assolutamente unica, difficilmente riscontrabile altrove. La collezione, seppur
non completa, racchiude in sè una potenza estetica non comune e suscita
emozioni palpabili, le medesime, ci piace pensare, che gli antichi e
privilegiati ospiti provavano durante le frequentazioni del Dado.
Il percorso della mostra
Nell'atrio d’ingresso segnaliamo
il rientro dal Museo archeologico di
Napoli del porfido raffigurante Apollo citaredo seduto su una roccia (II
sec. d.C.), probabile traduzione di epoca adrianea di un modello classico (fig.
1).
Sempre dalla città partenopea
provengono i due Daci o Barbari prigionieri (II-III sec d. C.) in splendido marmo proconnesio,
provenienti presumibilmente dall’area del Foro
di Traiano. L’attuale e temporanea collocazione, ai lati della Sala Grande, è testimoniata dal primo
inventario dei beni conservati in Palazzo
Farnese (1566) e sembra che resti immutata fino al 1787, anno in cui le due
sculture passano nello studio romano di Carlo Albacini.
Si entra, quindi, nella Grande Sala o Sala di Ercole, dove,
attraverso incisioni e documenti scritti, è ricostruita la storia
architettonica del Palazzo. Commissionato, nel 1513, dal Cardinale Alessandro
Farnese (futuro Paolo III), ad Antonio da Sangallo il Giovane il progetto è in
seguito sviluppato da Michelangelo, poi dal Vignola e, infine, da Guglielmo
della Porta che lo completa nel 1589.
Al centro del salone troneggia il
gigantesco calco dell’Ercole Farnese,
uno dei capolavori assoluti della collezione, oggi conservato al Museo Archeologico di Napoli. Non si
conosce la storia del gesso, che è da considerarsi tra i calchi più antichi tra
quelli presenti a Palazzo, ma sappiamo che della scultura, a partire dal XVII
secolo, sono stati creati numerosi calchi, copie in marmo, in terracotta e in
bronzo.
Sulla destra, entro una teca di
vetro, è esposto una versione in gesso di Homme
qui marche (cfr. n.6, fig. 2).
Lungo la Galleria Sud-est comincia il percorso vero e proprio, una serie di
contenuti pannelli didattici accompagnano il visitatore lungo tutta la mostra,
sono indicazioni di massima al contempo esaustive che non tediano il lettore nè
lo inducono in distrazione.
Si comincia con una sequenza di dipinti
che presentano al pubblico la famiglia Farnese, in primo piano il superbo Ritratto di Paolo III di Tiziano (dal Museo Nazionale di Capodimonte, fig. 3),
il fondatore della stirpe romana. Secondo l’inventario del 1653, il quadro si
trovava nella terza sala della quadreria, ma, seguendo la logica espositiva, è presentato
a inizio mostra e non nel braccio dove è stata riallestita l’antica pinacoteca.
Il pontefice è raffigurato a capo scoperto, come se il pittore abbia voluto
ritrarre l'animo dell’uomo e non la solennità del pontefice, lo sguardo diretto
e penetrante del papa verso lo spettatore rende con immediatezza il carattere,
forte ed energico, del rappresentato.
Segnaliamo di Anonimo fiammingo
la tela Giglio con albero genealogico
della famiglia Farnese (1670 ca.) proveniente dai Musei Civici di Piacenza e, sempre di Anonimo, la serie di Dieci
ritratti di principi e principesse di Casa Farnese (1585-1591), della Galleria Nazionale di Parma, miniature fiamminghe
dipinte su pergamena ed incollate su tavola, che ricostruiscono la genealogia dei
Farnese.
A seguire il ritorno del Museum Farnesianum, si ricompongono, cioè, le storiche Sale degli Imperatori e dei Filosofi, ma
prima di accedervi, entro una piccola teca si trova un documento importante, ai
fini della mostra e della comprensione del perché nel XIX secolo la collezione migra a Napoli, ossia la Nota responsiva
di Ennio Quirino Visconti alla richiesta della corte dei Borbone circa la
possibilità di spostare i marmi. Nonostante parere negativo è concesso, in
deroga alle leggi e al legato testamentario, “il libero trasporto dei marmi
richiesti degli Orti Farnesiani”.
Si entra, dunque, all’interno della I Sala, una serie di ritratti antichi di
imperatori di varie epoche si affiancano e fronteggiano ritratti degli stessi
commissionati a pittori dell’epoca dai membri della famiglia.
Più avanti, esattamente di fronte
l’antro che conduce alla Galleria dei
Carracci è stata posizionata l’imponente Statua di Atlante (II sec. d.C.), che per mancanza di repliche
precise successive rappresenta nel panorama archeologico un unicum. Alla scultura si sono ispirati i
fratelli Carracci nella realizzazione dell’Ercole
che porta il globo, nel III Camerino,
affresco chiaramente modellato sulle forme della statua antica.
Scaltramente i curatori hanno posto,
lungo l’itinerario della mostra, la celeberrima Galleria dei Carracci, e un suggestivo confronto tra i disegni
preparatori, conservati al Louvre, e
le immagini della volta, della Galleria
affrescata, è istituito nel piccolo corridoio di passaggio alla stessa.
Accediamo, quindi, alla Sala dei Filosofi, oltre ai busti
marmorei dei Filosofi provenienti da Napoli incontriamo una bellissima Afrodite Callipigia del II sec. d.C.
(fig. 4), vestita di un lungo chitone a
fitte pieghe, che mostra la parte sinistra del corpo scoperta dalla vita in
giù.
Di particolare pregio la così
designata Testa Lamberti o Busto maschile in bronzo cosiddetto
Servilius Ahala, di età repubblicana, proveniente dal Museo Archeologico partenopeo, una delle poche opere antiche in
bronzo sopravvissute all’uso indiscriminato di riutilizzare la lega per farne
opere cristiane. Profonde rughe caratterizzano il volto smagrito e la fronte dall’incipiente
calvizie è contratta, ciocche di capelli, rese con elegante maestria, invadono
lateralmente la faccia descritta da un naso affilato e due occhi seri ed
infossati, sormontati da naturalistiche sopracciglia. Una barba corta e folta
incornicia il volto.
Un busto marmoreo del 160 d.C. circa
raffigurante Omero, affianca la
precedente opera; in marmo pentelico, il poeta vate è raffigurato avanti con
l’età, il volto si mostra con zigomi alti e prospicienti, occhi semichiusi, per
la leggendaria cecità, e infossati sotto profonde arcate sopracciliari, bocca
semichiusa e fronte corrugata.
Si accede, quindi, al I Camerino, luogo in cui è esposto un
assoluto capolavoro dell’arte ebanista rinascimentale: lo Studiolo di Flaminio Boulanger (1578 ca., fig. 5), proveniente dal Musée National de la Renaissance di
Ecouen. Contemporaneamente alla costituzione della raccolta di statue classiche
i Farnese ricorrono ad altre forme di collezionismo di materiali antichi, in
particolare quelli minuti come piccoli bronzi, monete, cammei, gemme e
iscrizioni, e, ai fini della conservazione, sviluppano l’idea del cosiddetto studiolo,
come ambiente destinato ad ospitare quel
genere di manufatti.
Si transita, quindi, attraverso
il II Camerino, ove è esposta la
cospicua collezione numismatica: le monete sono messe in relazione con il testo
del bibliotecario Fulvio Orsini (1577) che traccia memoria delle monete
recuperate durante gli scavi archeologici. In un angolo dello stesso sono esposti le
opere di glittica richiamate per la rassegna, sono cammei bellissimi che
rifulgono una luce particolare. Segue la sala delle ceramiche dove sono esposti
manufatti delle Officine Castelli
d’Abruzzo (1580/89), maioliche di un
blu molto intenso e lumeggiato d’oro.
Si entra, poi, nel Camerino di Ercole, realizzato dai Carracci,
una copia non all’altezza dell’originale riproduce il famoso Ercole al bivio (fig. 6), il messaggio
che si voleva dare è ancor oggi chiaro si fa appello alle virtù che indicano la
retta via da percorrere nella vita. Anche la volta ripete il medesimo soggetto e
nei riquadri che la affiancano sono le rappresentazioni di Ercole a riposo e Ercole che
solleva il globo. L’ideatore del messaggio è stato probabilmente Fulvio
Orsini, bibliotecario di famiglia e mentore di Alessandro, nipote di Paolo III,
colui che effettivamente abitò il Palazzo e che aveva in quest’ambiente la camera
da letto privata.
Si noti che la dicotomia tra vizi e virtù è presente a livello iconologico in tutta la raccolta Farnese, dai marmi alle pitture, dalle decorazioni alle opere bibliotecarie; la famiglia, infatti, è interessata a diffondere un messaggio ben preciso, ossia che il comportamento virtuoso dei suoi membri vince sempre sulle tentazioni che la vita riserva.
Si accede, poi, al IV Camerino decorato al tempo dei
Borboni, durante l’esilio a Roma di Francesco II. In quell’occasione oltre alla
decorazione di questo ambiente si procede ad un intervento di restauro globale
del palazzo, e vi si portano le innovazioni del tempo come l’illuminazione a gas o l’acqua corrente con
pompa idraulica. Le pareti mostrano
vedute dei feudi famigliari di Parma e Piacenza, nonché i possedimenti storici
dell’alto Lazio (Marta, Caprarola), sul soffitto
troneggia lo stemma dei Farnese, cimato dalla corona di Napoli.
Lungo la Galleria nord-est sono prima
esposti una coppia di Arazzi (manifattura
di Joost van Herzeele), provenienti dal Palazzo
del Quirinale di Roma, i soli elementi noti di una serie che comprendeva
sedici grandi pannelli narrativi, quattro portiere e quattro sopraporta.
Si passa, infine, alla
riallestita Quadreria, dove segnaliamo due
dipinti dell’artista Domenico Theotokopoulos, detto El Greco: Guarigione del cieco (1570, Parma, Galleria Nazionale) e Giulio Clovio (1572, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte). Artista
straordinario ed eccentrico concepisce l’arte e i suoi soggetti in maniera
assolutamente nuova e rivoluzionaria per l’epoca, il suo linguaggio scioccante,
però, non è compreso dalla corte Farnese che lo allontana dopo qualche anno dal
suo arrivo.
Invitiamo il pubblico ad
apprezzare l’illuminazione della grande tela di Annibale Carracci, Cristo e la Cananea (1595, Collezioni Civiche di Parma e Piacenza,
fig. 7), reduce di un brutto restauro che ha lasciato delle vistose macchie.
Evidentemente non deve essere stato facile studiare l’efficace posizione che
metta in luce il dipinto e allo stesso tempo nasconda le brutture di detto
intervento.
Indichiamo degna di attenzione la
Testa di Clemente VII (1531 Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte) di
Sebastiano del Piombo, pittura a olio su lavagna, che ha l’aspetto affascinante
del non finito di uno studio.
Interessante, per il pubblico che
conosce la Cappella Sistina, è il Giudizio Universale (da Michelangelo),
ripreso, nel 1549, da Marcello Venusti.
Di particolare pregio il Ritratto di Settimia Jacovacci (1545/6,
Budapest, Szépmüvészeti Múzeum)
splendido dipinto del Tiziano che lascia
in chi guarda emozioni palpabili.
Ultime opere esposte, ma non meno
considerevoli, i disegni del Parmigianino Ritratto
di donna e Studio per la pentecoste
lavori di forte potenza comunicativa e di rara eleganza estetica.
Il catalogo
A cura di Francesco Buranelli ed
edito da Giunti il catalogo è un’opera completa sul Palazzo e sulle sue
collezioni. Una corposa parte iniziale si compone di interessanti e pregevoli
saggi di personalità importanti del panorama storico-artistico contemporaneo,
nazionale e internazionale. Circa 300 pagine e ben 31 scritti ricostruiscono
con abbondanza di particolari la storia del Palazzo e l’evolversi della proprietà. Le successive 150
pagine costituiscono il catalogo propriamente detto delle opere che in
occasione della mostra sono tornate a popolare gli spazi del piano nobile del Dado.
Infine, alcuni apparati di studio
completano l’opera: una genealogia minuziosa dei Farnese, un elenco degli
ambasciatori francesi ed una pregevole bibliografia per chi volesse
approfondire determinate tematiche.
INFORMAZIONI
Dove: Palazzo Farnese, Roma
Quando: 17 dicembre 2010- 27
aprile 2011
Solo su prenotazione al tel.: 06 32810
All’inizio del XX secolo, appositamente per il cortile
del Palazzo, Auguste Rodin progetta e fonde in bronzo la scultura Homme qui marche (1910). L’opera
simboleggia il passaggio tra XIX e XX secolo. Purtroppo quella collocazione
suscita grossi malcontenti, si grida allo scandalo e per evitare ulteriori
disordini, con grande dispiacere dell’artista, è spostata prima a Villa
Medici, poi al Museo di Belle
arti di Lione quindi al Museo d’Orsay di Parigi. Oggi
in mostra, nel Grande Salone, che
ospita la sezione dedicata all’architettura del monumento, è esposta una
versione in gesso.
Grazie ai Farnese la città di Roma recupera la pace,
come gli antichi romani avevano sconfitto i barbari e restituito la pace alla
città, così la nobil famiglia sconfigge i ribelli (Colonna) e riporta l’urbe ad
uno stato di quiete.
La celebre collezione, conosciuta grazie a precisi
inventari redatti nel XVII secolo, si costituisce a partire dal XVI secolo e
celebra la famiglia stessa come continuatrice della grandiosa opera degli
antichi imperatori romani. A differenza delle collezioni di antichità coeve,
quella dei Farnese ha il precipuo scopo di creare un parallelismo, quand’anche
un fil rouge, che leghi la famiglia
alla storia antica. Il parallelismo tra antico e moderno è perseguito dai
Farnese al fine di stabilire una discendenza imperiale e nobilitare, dunque, la
famiglia di origine gentry (i Farnese
facevano parte della piccola nobiltà dell’alto Lazio).
Gli imperatori e i filosofi, evocavano le antiche
dimore imperiali che ospitavano gallerie di ritratti di uomini illustri. Sul
pavimento del museum, per un certo
periodo, sull’onda del continuo richiamo
all’antico perseguito dai Farnese, hanno troneggiato i resti della formae urbis.
Anche
le tele moderne commissionate dai membri della famiglia volontariamente si
rifacevano all’antico: mi riferisco, per esempio, alle 12 tele dei Cesari di Tiziano,
che nel XVII e XVIII secolo diedero inizio ad una vera e propria moda, o ai
quadri di Bernardino Campi, esposti in mostra, raffiguranti gli imperatori
Galba e Vespasiano (1561).
Le stanze dei quadri sono descritte minuziosamente
negli inventari di Alessandro e Ranuccio Farnese. Nelle intenzioni originarie
la quadreria, accanto alla biblioteca, era da considerarsi lo strumento di
conoscenza che favorisse lo sviluppo della “scuola pubblica del mondo”,
concetto ideato da Fulvio Orsini sapiente bibliotecario e consigliere fidato di
casa.
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