I favolosi anni ’60 sono il tema
della mostra, che si è aperta lo scorso 10 maggio al Museo del Corso-Palazzo Cipolla, per celebrare l’aspetto artistico
di un’epoca leggendaria che tanti hanno vissuto, molti hanno sfiorato e
numerosi, speriamo, conosceranno attraverso questa “immaginaria” esposizione
fortemente voluta dal Presidente della Fondazione
Roma, Emmanuele F. M. Emanuele, primo tra coloro che hanno respirato, amato
e vissuto l’aurea magnifica di quell’epoca eccezionale. Gillo Dorfles, protagonista del tempo, li definisce
irripetibili: la carica aggregativa del periodo, infatti, ha avuto una tale
capacità esortativa che, a suo parere, in seguito, al confronto, non ci sono stati momenti capaci
di stimolare in maniera altrettanto intensa. Certamente ci sono state esperienze importanti che hanno lasciato il segno, si pensi per esempio allo spazialismo, ma nulla di così totale, coinvolgente, e vitale come la sorprendente koinè culturale raccontata in questa rassegna.
Siamo alla fine degli anni '50, nella mente degli italiani sono ancora impressi i ricordi legati alle vicende belliche, l'economia del paese sta subendo un'impennata e la cultura artistica vive un momento di svolta e di forte creatività.
Il momento è magico, gli artisti sperimentano
nuove tecniche si supera l’informale, legato alla storia passata, per una nuova
arte monocroma e concettuale. Milano e le sue gallerie (la Galleria Studio di Giorgio Marconi, la Galleria del Naviglio di Carlo Cardazzo, la Galleria dell’Ariete di
Beatrice Monti, e la poco nota Galleria Blu di Peppino Palazzoli, la Galleria Apollinaire di Guido Le Noci) sono particolarmente vitali, quasi tutti i maestri del tempo
hanno avuto contatti con almeno uno dei sopracitati luoghi, e anche gli artisti stranieri arrivano in città per esporre i propri lavori. Ma Roma non è da meno, Mario Schifano, Jannis Kounellis, Tano Festa, Franco Angeli
ed altri si ritrovano attorno alle storiche Gallerie d’arte romane come l’Attico, L’Obelisco, la Tartaruga e la Salita.
Si racconta una stagione
particolarmente felice ed unica, in cui la sperimentazione artistica, nelle due
città laboratorio, era un fatto diffuso e di vasta portata, gli artisti si
incontravano e si scambiavano esperienze e posizioni, ovunque si respirava una
ventata di libertà creativa. L’illuminante euforia artistica e la conseguente esplosione
culturale generale è raccontata, anche in modo efficace, nell’esposizione
curata da Luca Massimo Barbero.
Oltre 170 opere, divise in 4
sezioni, ognuna delle quali, con le debite accortezze, potrebbe diventare una
mostra a se stante, ricostruiscono gli indirizzi assunti dalla ricerca
artistica nel corso del decennio. In scena le personalità che hanno animato le
due città laboratorio, in bilico tra l’eredità più dissacrante delle
avanguardie e l’anticipazione delle ricerche concettuali, passando dalla
provocazione della “tabula rasa” del monocromo al virtuosismo optical e cinetico, fino alla pop art.
L’itinerario comincia con la
sezione Monocromia e Astrazione: è di scena l’operazione cosiddetta di
“azzeramento espressivo” nel monocromo; le opere esposte ci guidano verso la
comprensione del perché ad un certo punto si sia sentita la necessità di superare
il caos cromatico dell’informale a favore di una monocromia, ancora astratta,
ma portavoce di calma e armonia. Il processo di riduzione espressiva, avviato
alla fine degli anni Cinquanta, riflette, evidentemente, il momento storico, si
va oltre l’esperienza delle avanguardie e dell’informale, legata alla vicenda
tragica della guerra, per un nuovo inizio caratterizzato da una libera e
gioiosa creatività. La superficie monocroma, spesso chiara, è un campo nuovo,
attraverso il quale si avvia il recupero del concetto di arte. Dal soffitto, grava, come una costellazione, il Concetto Spaziale di Lucio Fontana che
dialoga con l’armonia tonale della splendida tela grinzata di Piero Manzoni (Achromes, 1958/59, fig. 1).
Franz Kline (Sabro, 1956, fig. 2) stravolge l’atmosfera pacata con una violenza
nuova, in linea con il gesto sotteso di una plastica di Alberto Burri (Combustione, 1964). Alexander Calder con
un semplice filo di ferro è capace di restituirci i tratti di Giovanni Carandente (Ritratto, 1967, fig. 3), una struttura
sospesa che si lega all’ambiente in una fusione di espansione immaginifica e
rigore strutturante. E Osvaldo Licini con la sua grande amica n. 2 (1948/50) ci propone il suo mondo fiabesco, un
ponte tra l’astrazione e la figurazione.
L’esposizione prosegue con Oggetti
e immagini Pop: è proposta una serie di sculture piccole, tipologie espressive
poco note, che testimoniano le indagini condotte dagli artisti sugli oggetti, in
taluni casi, secondo un moderno concetto di riciclo: il piccolo Horse di carta di Calder (1967), o la Spugna blu di Kline. Tra
i manufatti esposti ci piace segnalare il confronto approntato tra i due Specchi di Enrico Baj (1959) e di Marcel Duchamp (1964, fig. 4).
Segue la “sala rossa” dove sfilano
i gesti clamorosi, le sperimentazioni oggettuali del gruppo del Nouveau Réalisme, che,
nel 1970, è anche protagonista di interventi nel contesto urbano della città
lombarda. Un bellissimo smalto su tela, allestito ad arte sopra un’immagine che
vede Villeglé e Rotella mentre, per le strade parigine, strappano manifesti per
farne opere d’arte, ritrae I
Vip (1962). È interessante notare come i due maestri, vestiti in giacca e
cravatta con scarpe lucide, non hanno nulla a che vedere con la figura
dell’artista bohémien che i più immaginano. Si notino anche i decollage
di Villeglé Rue Saint Yves (1964,
fig. 5) e Il punto e mezzo di Rotella,
le accumulazioni di Arman e le compressioni di rottami di César.
Gli artisti romani sono, invece, impegnati nella rivisitazione, o meglio demistificazione, di materiali e icone della società: immagini decontestualizzate e riprodotte come dettaglio e frammento, presentano al pubblico la dissacrazione concettuale, perpetrata da taluni maestri, della
società dei consumi che all’inizio degli anni Sessanta si avviava ad essere
protagonista e universo.
In un ambiente giallo è in scena
lo scintillante ciclo di Mario Schifano
Tuttestelle (1967, fig. 6): cieli stellati, paesaggio desertico, oasi
artificiale e palme dai colori squillanti,sono
la sofisticata risposta, altrettanto
innaturale,dell’artista
all’urbanizzazione progressiva, tipica del periodo.
La terza sezione punta
l’attenzione su “l’internazionalità e la nuova scultura”: i grandi maestri
dadaisti vivono e respirano il clima culturale milanese, Duchamp e Man Ray
espongono nelle gallerie della città lombarda e, necessariamente,
contribuiscono alla ricerca artistica. Una nuova tipologia di scultura diventa
protagonista oggettiva: l’installazione di barili colorati di Christo, 28 barrels structure (1968, fig. 7),
sullo sfondo grigio riproducente il Duomo
milanese, ne è un esempio emblematico. Affianco,
in vetrina, la Venus restaurée di Man
Ray (1936/71, fig. 8) di gesso e corda. Sulla parete alcune foto ritraggono
Mirò con un filo, è la sua firma, e forse ispireranno Fontana quando sperimenterà
l’uso del neon.
Lo sviluppo scientifico e
tecnologico cammina di pari passo con la ricerca artistica, e i maestri si
fanno promotori di proposte oggettuali interattive, capaci di coinvolgere lo
spettatore: è il caso della Macchina
inutile di Bruno Munari (1951), il teorizzatore del “vietato non toccare”,
o il quadro di Giovanni Anceschi, Tavola
di possibilità liquide.
La quarta e ultima parte della
mostra si concentra sulle potenzialità dei “Materiali, segni e figure”; esiste
un filone di sperimentazioni e ricerche che si è concentrato sulle relazioni
tra parole, segni ed immagini, un cenacolo di artisti, cioè, ha voluto mettere
in discussione alcune basi della comunicazione visiva, introducendo materiali
ed elementi eterodossi. È il caso, per esempio, dei collage, Generale (1961, fig. 9) e Dame, su stoffa di Baj, o dell’Italia in pelliccia di Luciano Fabbro
(1969, fig. 10), ma seguendo un altro indirizzo citiamo l’immagine verbo-visuale
della Volkswagen di Emilio Isgrò (1964, fig. 11), e come non segnalare la modernissima, che è anche l’emblema della
mostra, figurazione de La camera afona
di Emilio Tadini 81969, fig. 112) ?
L’esposizione si conclude con un
“salottino cinematografico”, dove su un triplice schermo scorrono filmati
optical-cinetici che inducono lo spettatore ad assaporare il clima
effervescente del periodo.
Il catalogo
A cura di Luca Massimo Barbero ed
edito da Skira, il catalogo si presenta con una divertente veste editoriale,
riproduce, cioè, particolari de La camera
afona di Tadini. In brossura con alette e tipograficamente pregevole,
esibisce un’attenzione apprezzabile. Il volume più che un
catalogo è una storia sulla recente koiné
culturale che ha visto protagoniste le due città italiane di Milano e Roma. Un
ricco e vario apparato fotografico, fatto di foto in bianco e nero e a colori,
di piccole dimensioni e a tutta pagina, completano l’opera arricchendola.
Consta di ben 8 saggi
storico-artistico-culturali, sbilanciati verso la città lombarda, che danno un
quadro assolutamente completo di ciò che accadeva nei favolosi anni Sessanta nelle
due città laboratorio. Autori eccellenti degli scritti sono, in ordine di
apparizione: Vanni Codelupi, Luca M. Barbero, Walter Guadagnini, Giorgina
Bertolino, Francesca Pola e Natalia Aspesi.
Un’antologia critica, o meglio
scritti di artisti, critici e intellettuali del tempo, mutuati da giornali,
riviste e cataloghi di mostre, approfondiscono l’argomento e calano il lettore
nella frizzante temperie culturale di quegli anni.
A chiusura, due testimonianze
inedite di due protagonisti dell’epoca: Gillo Dorfles per Milano e Emanuele
Stolfi per Roma.
DOVE
Museo Fondazione Roma –
Palazzo Cipolla
QUANDO
Quando: 10 maggio – 31 luglio 2011
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