È da circa vent’anni, dalla
“monumentale ed irripetibile”
antologica dedicata a Sironi,
che Roma aspetta una mostra sull’artista, “notissimo
sconosciuto”,
che ha interpretato le ansie e le speranze del suo tempo con forza
drammatica, e ha tradotto in immagini tragiche, ma “positivamente
costruttive”, l’ambiente e il mondo che lo circonda. Sul maestro
ha fin troppo pesato l’adesione al fascismo e il non aver mai
rinnegato, per coerenza, la sua scelta; dopo la fine della guerra,
infatti, sull’uomo e sul pittore si è abbattuta un’ingiusta
damnatio
memoriae,
critici e storiografi lo hanno relegato ai margini della cultura
artistica della prima metà del ‘900. Evidentemente il clima
intransigente postbellico non può accettare che il passato regime,
seppure travolto e sepolto politicamente, il cui ricordo, però, è
ancora vivido e intenso nelle menti di molti, abbia potuto esprimere
un artista di qualità ai vertici della sua civiltà. E così il
pittore è esiliato e dimenticato in un limbo ideologico, pochi si
ricordano di lui e il già tormentato maestro passa anni in
solitudine tra la disperazione, per il suicidio della figlia Rosanna,
appena diciottenne, e il disorientamento per il tracollo di tutte le
sue convinzioni politiche.
“Avete un grande artista, forse
il più grande del momento, e non ve ne rendete conto”
scrive Pablo Picasso parlando di Mario Sironi, talento dimenticato ed
ignorato. L’oblio dura fino agli anni Ottanta del secolo scorso,
quando Jean Clair sceglie come immagine simbolo della mostra
parigina,“Les réalismes. 1919-1939”,
proprio una sua opera: l’Allieva
(1924).
Sironi ha conosciuto, poi, negli
anni Novanta una nuova fortuna critica che ha consentito di valutare
con obiettività la sua lunga attività sfociando nell’articolata
ed eccezionale, se non altro per il numero di opere esposte, ben
duecento, divise in sei sezioni, rassegna della Galleria
Nazionale d’arte moderna di
Roma.
Ma la strumentalizzazione ideologica, nascosta dietro l’angolo, ha
dichiarato Romana Sironi, nipote del maestro, ha spesso indotto
l’erede a rifiutare proposte di esposizioni dal taglio “troppo
politico”. Finalmente, dopo ben vent’anni, il Complesso
del Vittoriano, con
una proposta in controtendenza rispetto agli orientamenti percepiti
da Romana, celebra il vilipeso pittore con una retrospettiva, curata
da Elena Pontiggia ed organizzata da Comunicare
Organizzando, che ci
restituisce il grande e tormentato maestro italiano, testimone
indiscusso dei suoi tempi.
L’esposizione consente, con
circa 90 opere, cui si aggiunge un regesto di lettere, riviste e
bozzetti, provenienti dall’Archivio
Sironi,
di aprire una finestra sulla vicenda umana ed artistica di
quest’uomo, altamente rappresentativo dei primi sessant’anni di
cultura italiana ed europea del secolo breve, che ha interpretato con
originalità le contraddizioni di quell’epoca complessa. Il
carteggio inedito, esposto in mostra, testimonia l’apprezzamento
manifestato dal di lui contemporaneo mondo della cultura e delle
lettere, si trovano, infatti, epistole a firma, per esempio, del
Cardinal Montini, futuro papa, o del Presidente Sandro Pertini.
Il visitatore, in questo cammino,
è accompagnato dalla preziosa ed accurata assistenza di pannelli
esplicativo-didattici, che restituiscono il clima storico-culturale,
nonché le informazioni biografiche necessarie a comprendere questo
titanico e drammatico protagonista del XX secolo.
L’itinerario è appassionante,
rigoroso, completo e per certi versi inedito, ci restituisce un uomo,
un maestro che ha saputo continuamente rinnovarsi nel suo linguaggio
pittorico e nelle scelte operate, dando vita ad una drammatica e
forte visione del mondo, contraddistinta, in tutte le sue fasi
artistiche, da coerenza ed intensità inusuali.
Si parte dal poco noto esordio
simbolista, si espongono, per la prima volta, opere realizzate da un
giovanissimo e già provato Sironi (a soli 13 anni perde il padre e
la famiglia vive in ristrettezze economiche) che guarda all’imperante
moda liberty,
la stessa contro cui, in seguito, il pittore si scaglia tenacemente
perché non aderente alla verità.
Parlando di questi primi lavori, la curatrice afferma di poterli
ricondurre al nostro autore solo per via della firma: lo stile e la
tecnica sono, infatti, così lontani dal modus
operandi di Sironi che
se non fossero stati firmati e datati probabilmente sarebbero
dispersi nel mercato antiquario come anonimi. Suggeriamo di
soffermarsi qualche istante sul bellissimo olio Il
pascolo (1902-1903,
Collezione privata). Apparentemente potrebbe sembrare un tipico
paesaggio naturalistico, l’opera, invece, si rivela intrisa di
simbolismo: la pecora e l’agnello alludono, infatti, al tema
segantiano della maternità cosmica, mentre il fusto al centro evoca
l’albero della vita.
Qui il maestro guarda al paesaggio panico di Segantini e al
simbolismo europeo. Indichiamo anche il toccante foglio intitolato,
La sorella Cristina al
pianoforte (1905 ca,
Collezione privata) e realizzato a penna e inchiostro acquarellato.
L’intenso contrasto tra le parti bianche e quelle scure preannuncia
l’avvicinamento alla ricerca luministica avviata da Balla e diffusa
tra gli artisti gravitanti attorno alla sua cerchia.
Si noti, già in questi primi lavori, quell’inclinazione a
“costruire”, caratterizzante quasi tutta la sua opera, che
definisce Sironi come pittore-architetto. L’artista stesso nel
1931, rivolgendosi ai detrattori della corrente Novecento,
di cui fa parte, afferma: “costruire perché necessario”
.
L’antologica poi riferisce
dell’incontro con il Divisionismo:
il pittore riflette in maniera assolutamente autonoma sul movimento
artistico e ci consegna un’interpretazione originale e insolita;
pur cedendo al colore diviso, la sua visione positivamente
costruttiva della pittura non risulta minata. La sua innata vena
architettonica e la sua sensibilità plastica, infatti, impediscono
al giovane di dissolvere i volumi nella luce, come fanno gli artisti
divisionisti, con il sorprendente risultato di un linearismo di tipo
aggregativo.
A questo periodo appartiene la
piccola tela La madre
che cuce (1905-1906,
Collezione privata): il tema della donna che cuce in una stanza, tra
Ottocento e Novecento, è piuttosto diffuso, ma il pittore non si
allinea al clima confidenziale-intimista di fine secolo, piuttosto lo
interpreta alla luce della propria vocazione costruttiva e realizza
un piccolo teatro, con quinte architettoniche entro cui si
inseriscono le masse poderose dei mobili e della donna.
Il percorso continua con il
racconto della tarda adesione al Futurismo:
siamo tra il 1913 e il 1915, il movimento è nato già da qualche
anno, ma la volontà iconoclasta della corrente non lo convince; il
maestro si è formato sull’arte antica, ha visto e amato la Roma
imperiale, e probabilmente il suo modus
operandi gli deriva
anche dalla visione della monumentalità classica. Non condivide,
dunque, la litania futurista “distruggiamo i Musei, bombardiamo le
Accademie”. Quando, però, l’amico Boccioni, che vi ha aderito
sin dall’inizio, trasfigura il tipico dinamismo futurista in
espressione plastica di solidità, l’artista si sente attratto e si
avvicina alla corrente iniziando a concepire un futurismo di tipo
volumetrico. Di questo momento suggeriamo la visione ravvicinata
dell’olio Testa
(1913, Collezione privata), dove è palese la meditazione sulla
scultura di Boccioni. L’opera rivela un interesse per la rotazione
delle masse, che, unito alla personale inclinazione a costruire e
alla teoria del raddensamento dei volumi dell’amico Umberto, ha
fatto parlare di futurismo solidificato.
La mostra ci informa anche
dell’interesse dimostrato verso l’Espressionismo;
Sironi, attorno al 1916, comincia a riflettere sulle cromie accese e
violente dei Fauve
e sulle tendenze caricaturiste di alcuni movimenti tedeschi.
Espressione di questo momento è la tela intitolata Borghese
e tram rosso (1916,
Collezione privata), in cui il maestro ritrae la figura negativa,
antipatriottica ed egoista dell’uomo benestante, che continua a
vivere comodamente in contrapposizione al soldato che eroicamente si
sacrifica per la patria.
Un uso sapiente e strumentale del colore, appreso dalle correnti
espressioniste europee, consentono al pittore di manifestare al
meglio certi accenti di natura sarcastica ed ironica.
Il momento della Metafisica
è documentato da una serie di quadri realizzati dal 1919: finita la
guerra, che uccide il suo amico Boccioni, Mario decide di tornare a
Roma dove frequenta l’ambiente metafisico gravitante attorno alla
rivista Valori
Plastici. I manichini
di de Chirico e Carrà lo affascinano e le tele esposte indicano una
meditazione assolutamente personale. La sua particolare indole,
nonché sensibilità estremamente esistenziale, lo guidano verso una
metafisica dai connotati umani: i suoi manichini non vanno oltre la
fisica, ma mantengono un contatto con la quotidianità. L’esempio
più rappresentativo della breve ed originale stagione metafisica è
la lampada
(fig. 2, 1919, Milano Pinacoteca
di Brera), quivi, in
un ambiente casalingo, compare una silouhette
umanizzata dall’indossare tacchi a spillo, mentre compie un gesto
domestico, quello dell’accensione della luce. Il mondo ortopedico e
antisentimentale dei colleghi è piuttosto lontano dalla concezione
ancora antropica e sentimentale riferita dal maestro.
Nel settembre del ‘19 si
trasferisce definitivamente a Milano, la città che trova non è più
la metropoli euforica dal clima interventista del 1915, ma è una
città prostata priva dei fermenti culturali che in passato lo hanno
attratto. Dal trauma di questa visione nasce una delle pagine più
alte della pittura italiana, l’artista concepisce i primi Paesaggi
urbani, opere
estremamente drammatiche in cui il maestro non vuole ritrarre il
grigiore delle periferie, che diventa piuttosto lo strumento
attraverso cui comunicare il senso di tragicità angosciosa. Sono
raffigurati squallidi sobborghi, ma potentemente vivi, delineati
attraverso volumi fermi e dirompenti. Ci troviamo, allora, ancora una
volta, di fronte ad una volontà positiva di costruire, di opporsi
all’inquietudine che lo attanaglia. Sironi è tragico, ma non
disperato, e comunica al pubblico un messaggio di fiducia: reagire
prima di tutto. Ecco perché i suoi Paesaggi
urbani
psicologicamente trasmettono un senso di solitudine, ma allo stesso
tempo, le forme solide consegnano quell’idea di eternità laica, in
cui il pittore crede fermamente, e invitano alla speranza (figg.
3-4).
A partire dalla metà degli anni
Venti l’artista si dedica ai cosiddetti Miti;
non opere mitologiche stricto
sensu, anche se a
volte ne è tentato,
ma visioni reali che si eternano. Nell’opera La
famiglia (fig. 5,
1927-1928, Galleria
d’Arte Moderna di Roma Capitale),
per esempio, Sironi non intende rappresentare la classica idea
patriarcale o matriarcale di stirpe, ma delinea piuttosto l’archetipo
di una famiglia primordiale che esprima senso di eternità nello
stare assieme. Così nei Lavoratori
(fig. 6, 1936, Collezione privata), l’artista, attraverso figure
titaniche e drammatiche, esprime quel concetto di nobilitazione che
il lavorare perpetua. Sironi, dunque, anche in questo caso non è
celebrativo, piuttosto con la sua arte cerca di eternare concetti
veri, così i suoi umili e stoici Lavoratori
rappresentano un invito a non cedere, ad andare avanti, nonostante
tutto.
Il maestro aderisce al fascismo
già nel settembre 1919, Marinetti, infatti, nei suoi diari annota di
averlo incontrato il 5 ottobre in occasione di una riunione del
comitato centrale dei Fasci di Combattimento,
il pittore però non ha una vera passione politica lo dimostra una
sua lettera inedita alla Sarfatti (conservata presso l’Archivio
Museo di arte moderna e
contemporanea di Trento e Rovereto),
pubblicata dalla curatrice, dove descrive i primi momenti di
collaborazione con il giornale di Mussolini: “Ripenso
malinconicamente alle fatiche incredibili che ho fatto per penetrare
un poco in una materia così indigesta per me come la politica, agli
sforzi che nessuno conosce, ai giorni e alle notti sacrificati...”
.
Pur credendo fin da subito nel movimento e soprattutto nel duce, non
ha mai assunto il ruolo di vate al suo interno; la vena drammatica
che ha caratterizzato da sempre il suo lavoro, infatti, non lo
consente, le sue opere portano il peso dello stare mestamente al
mondo e non comunicano il procedere verso “le magnifiche sorti e
progressive”, come vuole il regime. Non c’è celebrazione dove
insiste la tragedia. Parafrasando Vittorini, afferma la Pontiggia,
Sironi “non ha mai suonato il piffero della rivoluzione fascista
perché la sua arte, intrisa di dramma, era più funzionale alla
verità che alla propaganda”,
anche nelle opere più magniloquenti, infatti, si scorge
un’incrinatura, una fragilità, appena nascosta dall’enorme
impatto materico e dall’equilibrio delle forme, che fanno
dell’artista un personaggio poco consono agli obiettivi
propagandistici di una dittatura.
Mussolini, dunque, non lo sceglie
e non lo celebra proprio perché la sua non è un’arte strumentale
ai suoi intendimenti, i suoi lavori, tutt’altro che commemorativi,
espressione piuttosto della tragedia che attanaglia l’umanità, non
parlano all’intelletto, ma sussurrano al cuore. Sironi, sebbene in
alcune circostanze abbia espresso contenuti fascisti, non può e non
potrà mai essere il cantore del movimento del duce. La sua forza
drammatica stride fortemente con le aspirazioni celebrative ricercate
dal regime.
Gli anni Trenta danno inizio alla
stagione della pittura murale, non una nuova tecnica artistica, ma un
diverso modo di concepire l’arte, per comunicare con l’umanità
intera. Il maestro, infatti, non vuole più limitare la sua
comunicazione ai ricchi salotti dove si espongono piccole opere, per
lui la pittura deve convertirsi ad una funzione di carattere sociale
e questo modo monumentale di lavorare lo soddisfa. Il salone centrale
del Vittoriano
ospita i potenti ed imponenti cartoni e disegni preparatori delle
grandi decorazioni murali attese dal pittore nella città eterna. Un
invito ad andare oltre la mostra, alla ricerca della bellissima ed
appena restaurata Vetrata
del Palazzo delle Corporazioni
(oggi Ministero delle
Attività Produttive),
dell’abside affrescata dell’Aula Magna della Città
Universitaria e
dell’affresco Rex
Imperator per il
sacrario della Casa
Madre dei Mutilati di
Guerra.
Quando cade Mussolini, Sironi non
cerca un modo per rimanere a galla, come fanno altri suoi colleghi,
ma con coerenza e convinzione rimane legato alla sua visione della
vita: un’Italia nuovamente grande come lo è stata la Roma
imperiale.
Quando, poi, il 25 aprile una
pattuglia di partigiani lo cattura e cerca di giustiziarlo Gianni
Rodari, appartenente anche lui alla ronda, impedisce la fucilazione
rilasciandogli un lasciapassare che gli salva la vita. Più tardi lo
scrittore afferma “Per me la sua pittura è una lezione di
tragedia…”
evidentemente la sua sensibilità di scrittore gli consente di
cogliere il cuore dell’opera del maestro, la sua arte è una
lezione di tragedia, è vera come l’esistenza. Con la fine della
guerra e il suo accantonamento dalla scena istituzionale-ufficiale
Sironi deve rinunciare alla pittura murale e dedicarsi, pur con gli
stessi intendimenti, all’affresco di piccolo formato. In questi
anni produce tele e quadri che mantengono l’idea formale e la
spazialità della pittura murale. La sua è un’arte che va oltre lo
spazio del quadro,
per comunicare potentemente e prepotentemente. Si osservi la piccola
tela La penitente
(Fig. 7, 1945, Rovereto MART),
un’ingombrante figura sopraffatta dal senso di colpa, piegata in
una dolorosa mortificazione, giudicata impietosamente da un giudice
non compassionevole, forse malevolo. I tragici, ma dignitosi, eroi di
un tempo lasciano lo spazio a individui prostrati e umiliati. Questi
sono anni terribili e, dopo la caduta del regime e l’esperienza
della figlia suicida, crolla in lui anche la fede nel costruire, le
ultime opere, infatti, testimoniano un senso di impotenza: i
Lavoratori
non sono più le titaniche e drammatiche figure degli anni
precedenti, ma dei miseri esseri, che non possono fare ciò a cui
aspirano perchè osteggiati da forze esterne. Le ultime sue tele, che
concludono in modo struggente anche la mostra, testimoniano lo stato
emotivo dell’artista. Intitolate Apocalisse,
non hanno nulla di mistico, ma documentano il crollo universale che
seppellisce “l’uomo faber”. Questi ultimi lavori riportano la
perdita di quell’idea dello stare al mondo non per soccombere, ma
per costruire, attraverso l’uso di terra e pietra. La visione
plastico-architettonica, fatta di tragedia e di alte aspirazioni, di
solitudine e malinconia, ma innervata dal senso etico dell’esistere,
del lavorare e dell’educare attraverso l’arte e le radici della
propria cultura, lascia il posto alla rassegnazione; il carattere del
maestro perisce sotto le forze che lo hanno travolto, ma, seppur
piegato, ci lascia un ultima lezione positiva: l’uomo non può più
costruire, né opporsi, ma la natura, anche se devastata, sopravvive
comunque.
Il
catalogo
A cura di Elena Pontiggia e
pubblicato da Skira, il catalogo in brossura esibisce una cura
editoriale significativa.
Le prime venti pagine sono
dedicate ai tradizionali ringraziamenti di coloro che hanno reso
possibile la mostra: istituzioni e privati. Ricca e notevolmente
sostanziosa la parte saggistica che si svolge nelle successive 70
pagine. Sei testi scientifici di studi aggiornati sul maestro a firma
di studiosi ed esperti (Luigi Cavallo, critico d’arte e specialista
del Novecento italiano; Elena Pontiggia, storica dell’arte tra i
massimi esperti del pittore; Virginia Baradel, storica e critica
d’arte; Mariastella Margozzi, in forze alla Galleria d’Arte
moderna di Roma ed esperta del maestro; Roberto Dulio, ricercatore in
storia dell’architettura e dell’arte contemporanea del
Politecnico di Milano; Lea Mattarella, docente di storia dell’arte
all’Accademia di Belle Arti di Napoli). Il primo saggio di Cavallo
ci racconta piacevolmente del dialogo culturale attivo negli anni
Venti, del fermento attorno alla definizione del ruolo dell’artista
e della vicenda storica relativa alla pubblicazione del Manifesto
sulla pittura murale. Indugia, quindi, in notazioni di carattere
biografiche sul maestro alla luce degli eventi vissuti dopo il 1948,
anno della morte della figlia. Segue lo scritto, ricco di
particolari, di natura biografica della curatrice. Il saggio della
Baradel ci riferisce del rapporto di amicizia che ha legato Sironi a
Boccioni. Segue il testo della Mengozzi che ci parla della vocazione
dell’artista alla pittura murale. Dulio si concentra sulla
partnership
tra l’architetto Piacentini e il decoratore Sironi. Infine,
l’ultimo testo, racconta il rapporto particolare che lega il
pittore alla città di Roma.
Segue, per le successive 180
pagine, secondo il criterio espositivo, il catalogo delle opere
esposte: bellissime fotografie a tutta pagina ritraggono i quadri
nella loro interezza, e, in alcuni casi, con particolari ingranditi.
Le schede delle stampe, tutte a cura della Pontiggia, sono impostate
secondo la tipica struttura: titolo, datazione, supporto/tecnica,
dimensioni, provenienza, analisi storico-critica e bibliografia.
Le ultime 20 pagine del volume
recano i cosiddetti apparati, utili strumenti per studiosi e studenti
di arte: le schede tecniche delle opere; un elenco delle
abbreviazioni per le esposizioni cui ha partecipato il pittore; un
elenco delle abbreviazioni relative alle citazioni bibliografiche a
cura di Irene Cafarelli; una biografia organizzata cronologicamente a
cura di Lorella Giudici.
I crediti fotografici, come ormai
di consueto, si trovano nelle prime pagine del catalogo.
NOTE
LA MOSTRA
Dove:
Complesso del Vittoriano, Roma
Quando:
04 ottobre 2014- 08 febbraio 2015
BIBLIOGRAFIA
-
Mario Sironi,
(a cura di) Elena Pontiggia, catalogo della mostra (4 ottobre 2014 –
8 febbraio 2015), Ginevra-Milano, 2014.
-
E. Pontiggia (a cura di)
M. Sironi, Scritti e pensieri,
Milano 2000.
-
Mario Sironi,
(a cura di) Augusta Monferini e Fabio Benzi, catalogo della mostra
(Roma, Galleria Nazionale d’arte moderna, 10 dicembre 1993– 8
febbraio 1994), Roma 1993.
-
M. Argilli, Gianni
Rodari: Una
biografia, Torino
1990.
-
F.T. Marinetti, Taccuini
1915-1921, a cura di A. Bertoni, Bologna 1987.
-
G. Cerronetti,
Un viaggio in Italia, Torino,
1983.
|