Premessa
La sessione conclusiva del ciclo di incontri dedicati all’invito a guardare oltre confine ha gettato
sul tappeto coppie di opposizioni utili a vedere l’architettura sotto
prospettive diverse.
Per primo il punto di vista verso il carattere terrigno, ciclico e
direi ‘peristaltico’ dell’architettura.
L’arte di costruire occupa, rimuove e copre il terreno su cui posa e
dunque si nutre del territorio. Si nutre anche di se stessa per
contrastare la propria decadenza fisiologica oppure per aggiornarsi in
funzione e in forma. Nel nostro tempo l’architettura in prevalenza si
rinnova mediante distruzione-sostituzione delle preesistenze.
Un secondo punto di vista è la ciclica opposizione
classico-anticlassico, generata da un virus mutàgeno della forma, che
spinge ad inseguire novità assolute oppure a ripescare fasti
dimenticati: un fenomeno volatile che oggi chiamiamo ‘la moda’, capace
di produrre ciclicamente rivoluzioni ed effimeri rinnovamenti
dell’apparenza e del significato delle costruzioni.
Ultimo, il tema della ‘liquidità’ dell’architettura, un concetto che
rappresenta un modo attuale di comporre gli edifici il quale, per
occupare la scena mediatica, deve macinare una continua innovazione che
ci riporta ad un antico imperativo coniato da Baudelaire e Rimbaud e
caro anche ai dadaisti di cui quest’anno si celebra il centenario: épater le bourgeois.
Per procedere, architetto restauratore quale sono, devo premettere
alcune ‘avvertenze di un conservatore’, che intitolerei liquidità, spirito del tempo e patrimonio.
Il concetto (scivoloso) di ‘liquidità’ rappresenta da qualche tempo un passe-partout buono
per rappresentare la contemporaneità nelle sue molteplici
manifestazioni. Il concetto si attaglia alla dimensione dei rapporti
sociali e della comunicazione ma, per contagio, ha invaso anche il
terreno dell’espressione artistica di cui l’architettura fa parte
secondo il comune modo di sentire, se pure in una scomoda posizione.
Nel tempo presente lo spirito mondano e le menti umane appaiono come
abbacinate da una dimensione immateriale, effimera e, soprattutto,
veloce, che tende a tutto ibridare, mescolare, assorbire e consumare [1].
La presente stagione è viva e stimolante, ma va osservato che la sua
retroazione è la tendenza a neutralizzare (forse mortificare?) la
cultura del passato e, particolarmente, le sue manifestazioni locali.
Per letteratura, musica, arte figurativa e folklore, la dimensione
storica, di scarsa attualità, vive nelle nicchie frequentate dai
rispettivi cultori. Il patrimonio architettonico invece, per sua
natura, occupa lo spazio in modo fisico con l’istanza della propria
materia, pietra, legno, intonaco o altro ancora. Le costruzioni si
impongono, che piaccia o no, come uno dei pochi, concreti ed efficaci
contrappesi alla smaterializzazione della cultura.
Infatti: nell’architettura ci sbatti contro camminando. Se non la vedi,
ti puoi ferire, anche psichicamente: davanti a un Colosseo o una
Fontana di Trevi, come a un Raffaello, emblemi di un patrimonio
accudito, la sindrome di Stendhal può assalirti.
Se poi ti imbatti in ruderi lasciati a dissolversi nel tempo, puoi
sperimentare una sensazione oggi poco praticata: l’affaccio sul ‘pozzo
del tempo’ provando la vertigine dello specchiarsi nelle proprie
origini [2]. La fortezza
araba del XII secolo di Qala’at
ar-Rabba,
abbandonata nel XIV secolo, versa in uno stato di degrado non più
reversibile. Il paesaggio creato dai detriti distaccati dalla
costruzione e accumulati ai piedi delle murature e nel fossato offre lo
spettacolo sublime del manufatto antropico nell’atto della sua
regressione allo stato naturale. Merita di essere ‘conservato’
ruskinianamente (cioè lasciato a se stesso) così com’è. Qualsiasi
restauro o innovazione al suo sito ne perderebbe il valore (fig. 1).
In definitiva: oggi più che mai, tra le diverse manifestazioni della
cultura tradizionale, sono il patrimonio architettonico e il paesaggio
antropico a costituire il legame profondo con la storia del mondo e con
l’identità locale delle regioni, dei paesi e delle etnie.
Cautela dunque con la liquidità, la cui onda si smorza sulla battigia
del patrimonio: Caution, slippery
when wet, càpita di leggere sulle autostrade e nei bagni degli
autogrill nei paesi anglofoni.
L’architettura distrugge
e crea
Ma rientriamo ora nel solco che questa giornata ha tracciato per me: quando l’architettura costruisce, quando
l’architettura distrugge;
qui non ‘dolci romori’ della spiaggia, ma il fracasso del cantiere:
rudi comandi, fragore di mura abbattute e stridore di macchine
operatrici. Infatti, le città giunte a noi, nessuna esclusa, sono state
generate da cicli di distruzione e ricostruzione. Architetture vecchie
e nuove vi coesistono con gradi diversi di integrazione.
Il prospetto del palazzo Lanfranchi di Pisa in lungarno Galilei,
restaurato e stonacato nel 1979 da Massimo Carmassi, espone, con
didascalica evidenza, come la costruzione cinquecentesca abbia
conglobato e sopraelevato in un nuovo edificio unitario un gruppo di
costruzioni di epoca medievale, tra cui spiccano tre edifici mercantili
la cui struttura a pilastri in pietra e laterizio è coronata da
arcature ogivali. La nuova costruzione rinascimentale, caratterizzata
da belle finestre disposte a pari distanza (facciata ritmica),
è stata composta avendo cura di spezzare gli archi ogivali: una misura
necessaria a neutralizzare le ‘tensioni parassite’ derivanti dalla
spinta degli archi, dannosa per il nuovo assetto strutturale del muro
continuo.
L’intera struttura preesistente, inclusa quella della casa d’abitazione
a tre livelli che si osserva sulla destra, è stata incorporata nel muro
di prospetto e sussunta dal nuovo edificio.
Roma
Tutte le città fondate nell’epoca premoderna sono il risultato di una
stratificazione di fasi ma alcune lo sono più di altre. Se potessimo
scansionare il sottosuolo di Roma a qualche metro di profondità,
avremmo la planimetria della città antica, le cui fondazioni e, spesso
anche i muri in elevato, hanno costituito la base per l’edificazione
della città medioevale, di quella rinascimentale e di quella barocca.
Oltre agli arcinoti esempi di edifici dell’antichità classica che ci
sono pervenuti attraverso varie trasformazioni, Roma, città
‘stratificata’ per eccellenza, è il paradiso di chi vuole osservare il
fenomeno dell’architettura che si nutre delle costruzioni che l’hanno
preceduta.
Di un esempio tanto eccellente quanto meno noto è testimonianza un
disegno di grande formato conservato nella Biblioteca Nazionale di
Napoli [3] che coglie in
flagranza il prospetto di palazzo Farnese in corso di costruzione
all’inizio degli anni 1540 (fig. 2). Il cantiere sta completando il
secondo livello, il piano nobile. Vi si vedono macchine edili e
maestranze all’opera ma, per quello che qui ci interessa, vi si osserva
come la fabbrica di Antonio da Sangallo il Giovane proceda incorporando
via via la cupa mole di un precedente palazzo che occupa la parte
destra del lotto edificatorio per ben otto dei tredici assi di finestre
della nuova fabbrica. Si tratta del palazzo Ferriz, un edificio
nobiliare tipico del tardo Medioevo costituito da tre vasti ambienti in
sequenza, uno dei quali prominente in altezza, a esibire la vera o
presunta nobiltà di una torre.
Le finestre della parte realizzata mostrano che alcuni ambienti sono
già abitati, come testimoniano le ‘impannate’, gli infissi sulla parte
destra in opera e già in uso.
La struttura muraria del vecchio palazzo viene divorata e rielaborata
quanto necessario, ma sopravvive metabolizzata nella nuova costruzione
rinascimentale, tanto permeabile e articolata di ornamenti quanto
l’altra appariva sorda e compatta.
Il prezioso disegno offre un’illustre esemplificazione del modo di
costruire premoderno che può riassumersi nella formula del riutilizzare e aggiungere materia,
un’attitudine energy saving
che si contrappone radicalmente alla cifra del modo di costruire
contemporaneo, che rimuove la preesistenza, ricostruisce con nuova
materia mentre recapita la vecchia alla discarica.
Parallelamente, nella costruzione dei nuovi spazi urbani ‘scavati’ nel
costruito medievale, tipica della stagione rinascimentale, si osserva
un fenomeno di senso inverso ma complementare.
Un disegno commissionato a Felice della Greca da Alessandro VII Chigi
ci mostra lo stato incompiuto di piazza Colonna nel 1656. Sono
al loro posto, in angolo con il Corso, i palazzi Del Bufalo, a
sinistra, e il palazzo degli Aldobrandini che il papa ha in animo di
acquistare, a destra. È anche presente la terrina
cinquecentesca di Giacomo della Porta, ma la forma quadrangolare della
piazza non è ancora delineata a causa dell’ingombro degli edifici di
abitazione che ancora vi sorgono. L’assetto della piazza si realizzerà
per sottrazione: l’architettura distrugge.
In generale, allo scorcio del Settecento, la città di Roma raggiunge
l’apice della sua perfezione ben rappresentata dalla pianta della città
di Giovanni Battista Nolli (1748) e dalla tassonomia delle vedute della
città prodotte da Giuseppe Vasi tra il 1743 e il 1761.
Ma l’Ottocento è in agguato con una nuova stagione di trasformazioni
che culminerà, un secolo più tardi, nello stravolgimento determinato
dall’insediamento della Capitale del Regno d’Italia.
L’assegnazione del nuovo prospetto della basilica di San Giovanni in
Laterano ad Alessandro Galilei, nel 1732, mostra come sia iniziato il
lungo declino della stagione del Barocco che, oltre la metà del secolo,
diviene bersaglio di una dannazione, resa esplicita dai ‘trattati’ che
ne condannano gli errori architettonici, quali quello del senese
Teofilo Gallaccini, del 1767, e quello del veneziano Antonio Visentini,
del 1771 (fig. 3).
Accanto al rigorismo concettuale dell’abate Lodoli e dei suoi epigoni
Andrea Memmo e Francesco Milizia («niuna cosa […] metter si dee in
rappresentazione, che non sia anche veramente in funzione» [4]),
si forma un’ondata riformista che predica l’abbandono dei ‘ghirigori’
del Barocco in favore delle forme del Rinascimento di Bramante e
Antonio da Sangallo.
Un rigore del ritorno al ‘classico’ che non risparmia i monumenti
antichi e che nel 1756 ha portato, sotto Benedetto XIV, alla sciagurata
rimozione da parte dell’architetto senese Paolo Posi delle membrature
antiche dall’attico interno del Pantheon, ritenute difformi dai
precetti vitruviani [5].
Allo scorcio del secolo, i palazzi del Rinascimento romano vengono
rilevati, corretti quando necessario, disegnati e pubblicati per
rispondere alla domanda europea di modelli architettonici da replicare
nelle città che si rinnovano. Iniziano, nel 1794, Giandomenico Navone e
Giovanni Battista Cipriani, con il loro Nuovo metodo per apprendere insieme le
teorie, e le pratiche della scelta architettura civile, seguiti
da Charles Percier e Pierre-François-Léonard Fontaine, nel 1798, con il
loro Palais et Maisons de Rome.
È una nuova industria culturale romana che avrà il suo apice nel 1840
con gli splendidi rilievi raccolti nei 20 anni precedenti da Paul-Marie
Letaurouilly, pubblicati in edizione francese e inglese. Non sempre si
tratta di rilievi fedeli agli edifici reali, ma di modelli corretti per
ottenere una maggiore regolarità, talvolta anche con l’interpolazione
tra edifici diversi, allo scopo di fornire modelli ideali da imitare [6].
Si mette in scena in quegli anni una tipica opposizione tra
anticlassico e classico che porterà alla duratura stagione
neocinquecentesca degli architetti romani (tra i tanti: Pasquale Belli,
Giuseppe Valadier, Luigi Poletti, Pietro Camporese, Virginio e
Francesco Vespignani, Gaetano Koch) che si addentrerà nel primo
Novecento.
L’architettura ‘neocinquecentesca’, impropriamente assimilata a un
generico ‘eclettismo’ dalla critica del Novecento militante per conto
del Modernismo, ha accompagnato Roma alle soglie della trasformazione
in capitale del Regno al ritmo di uno sviluppo lento della città
rispetto ai secoli precedenti.
Una stagione che, cosa non da poco, ha potuto evitare i disastri
urbanistici della rivoluzione industriale. Dell’ultimo periodo dello
Stato Pontificio si contano, infatti, poche notevoli innovazioni (due
vuoti e due pieni) riconoscibili nel raffronto tra la carta dl
Giambattista Nolli (1748) e la Carta generale del Censo (1866): la
nuova piazza del Popolo e il giardino del Pincio di Giuseppe Valadier
(1812-48), che danno vita alla prima piazza moderna collegata ad un
parco cittadino; lo scavo ‘di liberazione’ della Colonna Traiana
(1814), che inaugura la stagione degli scavi dell’area archeologica
centrale; la linea ferroviaria ‘Sud Pio Centrale’ (1862) attestata
prima a Porta Maggiore e poi nella zona di Termini, evento che rovescia
le modalità di accesso alla città specie da parte dei visitatori dagli
altri stati; la realizzazione della manifattura dei tabacchi di Antonio
Sarti (1862) in piazza Mastai a Trastevere.
Meno percepibile su scala urbana è la diffusa opera di rinnovo degli
edifici privati che pervade tutti i rioni della città: le case
d’abitazione, spesso di due o tre livelli, vengono accorpate (rifuse) e
sopraelevate con alacrità. Dal 1826 la Camera Apostolica concede
l’esenzione dalla ‘dativa reale’, la tassa sui fabbricati, a quanti
rinnoveranno i propri edifici sottoponendone il progetto della facciata
all’approvazione concorde di tre architetti membri dell’Accademia di
San Luca. Lo stile è quello del Neocinquecento.
Un esempio per tutti è la casa in via di Sediari, poi demolita negli
anni 1930 per il tracciamento di corso Rinascimento, un caso che
illumina questa trasformazione strisciante: nel 1867 l’architetto
Raffaele Francisi concepisce l’unione di due distinti edifici che
mostrano ancora il primitivo verzino,
uno dei ‘colori dell’aria’, tipici della stagione barocca (fig. 4).
L’architettura che risulta dal progetto è chiaramente ispirata al
celebre palazzo rinascimentale Gaddi-Niccolini in Banchi attribuito a
Jacopo Sansovino (tuttora esistente, se pure alterato, in via del Banco
di Santo Spirito). Il nuovo edificio, rialzato di un piano, ingigantito
nelle proporzioni e nobilitato dalle membrature rinascimentali, adotta
anche la nuova coloritura in voga: la dicromìa color travertino per le
membrature e color mattone per i fondi.
L’applicazione in tutta la città di queste trasformazioni individuali
sortisce effetti di rilievo anche su scala urbana. La via del Corso,
eletta al ruolo di main street
della parte antica della città, subisce importanti manipolazioni.
Tralasceremo la vicenda quarantennale della ristrutturazione di piazza
Colonna [7] per concentrarci
su di un aspetto meno noto: l’effetto della trasformazioni molecolari
sull’insieme del paesaggio urbano.
La via del Corso dell’epoca pontificia esibiva lo stridente contrasto
tra le ‘fabbriche maggiori’, come chiese, palazzi nobiliari, e
l’edilizia minore, modesta in altezza e spoglia di ornamenti. Questo
tipico contrasto viene rapidamente annullato dalle sopraelevazioni
delle case d’affitto spinte dalla nuova dinamica dei valori
immobiliari. Nel nuovo assetto le sopraelevazioni speculative,
affollate da ornamenti in stucco, distruggono la precedente gerarchia
dei valori sociali: nella nuova via del Corso democratica le nuove case
borghesi, con le nuove squillanti coloriture, mettono la sordina ai
vecchi edifici monumentali, che si rinchiudono nell’ombra determinata
anche dall’autosegregazione del mondo della chiesa e della nobiltà
papalina.
Tutto si accelera dopo il 1870: Roma si mette in moto per la grande
trasformazione che la porterà a quintuplicare il numero degli abitanti
nei 50 anni successivi.
Con l’insediamento della Capitale Roma, non sarà più la splendida città
barocca che molti rimpiangono ancora, ma la sua edificazione, nel
complesso, è stata realizzata con sapienza, anche se con qualche
smagliatura.
Un grande esempio di sapienza urbanistica, tanto apprezzabile se messo
a confronto con la brutale trasformazione di altre capitali europee, a
cominciare da Parigi, è il tracciamento del Corso Vittorio Emanuele II
da piazza Venezia al Tevere, la nuova via
papalis, che prende inizio negli anni 1880 e terminerà negli
anni 1920 [8].
La nuova arteria, tracciata nel denso fabbricato dei rioni dell’ansa
del Tevere, incontra nel suo percorso palazzi e chiese di grande valore
monumentale. Perciò la nuova strada non adotta una linea rettifila, ma
segue un andamento sinuoso, studiato in modo da porre in evidenza le
costruzioni di maggiore pregio. E se accade che alcuni di questi
monumenti mostrino le terga al nuovo percorso, i pianificatori non
esitano ad applicare le correzioni
ritenute necessarie.
In questo modo, il prospetto del raffaellesco palazzo
Vidoni-Caffarelli, stretto nell’angusto vicolo del Sudario, viene
replicato sulla nuova via, più maestoso, dall’architetto Francesco
Settimi. La cosiddetta Farnesina ai Baullari, il palazzetto Leroy
addossato a case private da demolirsi, viene completata sul lato cieco
dall’architetto Enrico Guy. Similmente, al palazzo della Cancelleria,
il cui lato settentrionale confina con case private da demolirsi per la
nuova via, viene applicato un nuovo prospetto in stile.
Una consapevole e accorta manipolazione dell’edilizia, dunque, per
utilizzare la nuova arteria come occasione per porre in valore singoli
edifici monumentali nel nuovo assetto urbano. Un intento certamente
riuscito, che dimostra la precoce sensibilità per il paesaggio urbano
che negli anni successivi caratterizzerà l’urbanistica romana e avrà il
suo apice nell’opera di Gustavo Giovannoni e di Vincenzo Fasolo.
Rimanendo nella dialettica costruzione-distruzione in ambito romano, è
impossibile tacere della realizzazione dei Muraglioni del Tevere che
hanno comportato la cancellazione delle ripe digradanti verso l’alveo
del fiume e della folla composita di costruzioni che vi sorgevano.
Tenuta spesso in sordina come opera di ingegneria utilitaria, va invece
riconosciuta come la più importante trasformazione cittadina: per
l'eccezionale dimensione; per la durata (dal 1876 al 1925); per la
mutazione che ne è derivata al significato della città nel suo insieme.
Intendiamoci, il Tevere non era il Canal Grande che esibiva sulla main street veneziana i suoi
edifici più significativi. Roma, al contrario, esibiva al proprio fiume
il proprio backyard,
se pure non privo di notevoli complessi architettonici e paesistici in
tutto o parzialmente perduti e che rimpiangiamo al pari di Villa
Ludovisi e di tante altre demolizioni (Porto di Ripetta, Castel
Sant'Angelo, Palazzo Altoviti, Porto Leonino, convento e abside di San
Giovanni dei Fiorentini, prospetto postico di Palazzo Sacchetti,
Palazzo Falconieri, Ospizio dei Cento Preti, giardini di San Giacomo
alla Lungara e della Farnesina Chigi, Cloaca
Maxima, Porto di Ripa Grande).
L’effetto principale sull’immagine della città è stato la soppressione
del ‘pittoresco’, che il fiume esibiva alla massima potenza lungo il
suo corso, con il disordine dei molini galleggianti, delle casette
digradanti verso le ripe, in un paesaggio composito disseminato di
ruderi dell’antichità.
La nuova imponente opera di contenimento idraulico rende il fiume
visibile, se pure sterilizzato del suo carattere storico, attraverso le
due parallele arterie lungofiume. Alcune immagini del 1900
mostrano con evidenza la violenza della trasformazione, in seguito
mitigata dallo sviluppo delle alberate di platani in doppia fila, oggi
fortemente compromessa dalla prepotente viabilità veicolare.
A seguito di queste trasformazioni, la città perde la compiutezza
grandiosa e insieme pittoresca, interrotta dal traumatico insediamento
della capitale. Ci sentiamo di affermare che lo smontaggio della città
papale ha comunque dato vita a una città viva, operante e, in
definitiva, bella, anche se al prezzo della distruzione di paesaggi
urbani irrimediabilmente perduti.
Berlino
Per non deludere gli inventori di questa giornata fondata sui
contrasti, vogliamo ora mettere a confronto l’evoluzione di Roma con
quella di un’altra capitale europea che ben più fortemente è stata
traumatizzata nei pochi anni della seconda guerra mondiale e che, dopo
il lungo letargo tra il 1945 e il 1989, ha avviato una rinascita che,
superato il quarto di secolo, risulta ancora in pieno rigoglio.
Concepita in pieno ‘evo moderno’, Berlino, città non grande di origine
medievale, è stata una grande metropoli europea dalla seconda metà
dell’Ottocento fino al 1943. L’evoluzione della città è stata spinta da
un potente sviluppo industriale e dalla volontà governativa di
trasformare la piccola capitale prussiana nella capitale imperiale
della Germania unita nel 1870 e poi nella Großstadt del Novecento.
Il denso e omogeneo fabbricato dentro e fuori le mura, i quartieri
istituzionali, la quantità di fabbriche di magnifica architettura e gli
sterminati quartieri operai ne hanno fatto una città magnifica
urbanisticamente e culturalmente viva. Nella prima metà del Novecento,
divenuta nel 1920 Groß-Berlin
con l’annessione degli eleganti comuni della cintura, sarà la scena del
più esteso laboratorio europeo per lo sviluppo delle nuove
architetture: Jugendstil, Espressionismo e Razionalismo.
Il dramma dei bombardamenti alleati e le conseguenti lacune nella sua
trama urbanistica, sterminate o puntuali, che restano sostanzialmente
congelate nei 45 anni della cortina di ferro, hanno offerto alla nuova
capitale riunificata l’occasione per una poderosa ondata di
edificazione.
Oggi, e da 25 anni, Berlino è l’unica metropoli del mondo occidentale
che si trasforma con la velocità di una Riyadh.
La città nuova in corso di sviluppo è radicalmente diversa dalla
Berlino di pietra [9], la
sterminata, densissima e alquanto monotona città delle Mietskasernen
esistita fino al 1943.
Oggi Berlino offre un paesaggio urbano dove le nuove architetture
disseminate disordinatamente (ce ne sono di riuscite e di infelici
dentro e fuori la zona centrale), si sono intercalate ai frammenti di
tessuto sopravvissuti, dando vita ad un insieme caratterizzato da un
effetto di continua sorpresa, appena temperato dai nuclei storici
sopravvissuti nella cintura metropolitana.
Oggi a Berlino è dominante il senso del non finito, particolarmente
percepibile nelle zone già DDR, dove la viabilità è squassata
dall’aggiornamento delle reti infrastrutturali sotterranee la cui
funzionalità, in attesa del rifacimento, è stata surrogata da tubazioni
colorate poste in superficie (fig. 5), che si impennano
vertiginosamente a scavalcare gli incroci stradali, suggerendo
frammenti di raffinerie petrolifere, un po’ Léger un po’ Koons.
Anche in una città relativamente giovane come Berlino si possono vedere
edifici stratificati.
Uno dei più interessanti e pregevoli è l’ampliamento della sede
dell’editore Mosse realizzata dall’architetto Erich Mendelsohn nel
1924, che trasfigura l’angolo di un isolato di Kreuzberg esaltandolo in
una magnifica superfetazione sporgente ‘a campana’ che prende possesso
con un linguaggio espressionista della vecchia sede sottostante (fig.
6).
Merita menzione anche il caso del complesso denominato Pallasseum,
unità di abitazione sociale per 2000 abitanti sulla Pallasstrasse,
quartiere Schöneberg, realizzata nel 1977 da Jürgen Sawade che ha
inglobato, solo sfiorandola, la sorda mole cementizia di un Hochbunker,
uno dei rifugi realizzati durante la guerra a difesa degli attacchi
aerei alleati, oggi residuato bellico in attesa di una nuova
utilizzazione (fig. 7).
Più recentemente, nell’ambito dell’interessante recupero del complesso
industriale occupato dalla fabbrica OSRAM (NARVA nel periodo sovietico)
dismesso nel 1992 e oggi denominato Oberbaumcity, la compagnia chimica
BASF ha realizzato nel 2006 la propria sede europea nel Narva Würfel, un capannone
novecentesco della OSRAM cui è sovrapposto, senza mediazioni, un cubo
vetrato luminoso (fig. 8).
Durante la divisione delle due Germanie, si possono esaminare progetti
di ricostruzione notevoli per le opposte concezioni.
Negli anni 1980, zona DDR, si interviene in pieno centro nel
Nikolaiviertel, quartiere simbolo della Berlino premoderna, con una
coraggiosa interpretazione contemporanea del tipo della casa gotica,
tinteggiata con le coloriture settecentesche.
Di contro la cultura dei magnifici quartieri popolari realizzati da
Bruno Taut negli anni 1930 viene tradita negli anni 1960, in zona Est,
dall’esteso complesso della Gropiusstadt, dove risiedeva la Christiane
F. nella pellicola Noi ragazzi dello
Zoo di Berlino,
triste esempio della fornicazione tra il razionalismo cerebrale e
l’idolatria della funzionalità e della razionalità economica: una
bestia che ha squassato gran parte delle città europee nel periodo
1960-90 devastandone le periferie con paesaggi da incubo.
Al tempo della guerra fredda era d’obbligo sostare sulle torri di legno
che permettevano di osservare con i cannocchiale ‘l’altra parte’,
talvolta incrociando lo sguardo con i VoPos che da analoghi punti di
controllo ricambiavano la curiosità puntando i loro fucili.
Oggi, dai punti panoramici delle stazioni della S-Bahn, lo sport è
quello di contare il numero delle gru di cantiere che si scorgono fin
dove lo sguardo arriva all’orizzonte.
La ricostruzione, liberata dalle ideologie, è irrefrenabile.
All’indomani della riunificazione è stato restaurato, a seguito di un
concorso del 1992, il fosco rudere del Reichstag, oggi Bundestag, dove
l’immagine monitoria delle centine metalliche della cupola due volte
data alle fiamme nel tragico Novecento berlinese viene perpetuata dalla
nuova cupola trasparente di Norman Foster.
L’opera più importante è forse la ricostruzione della Potsdamer Platz,
l’antica piazza esterna alle mura della città demolite nel 1867 dove il
muro della Guerra
Fredda, sdoppiato, conteneva una vasta terra di nessuno disseminata di cavalli di Frisia
e popolata da conigli. A seguito del concorso bandito nel 1991 e con la
partecipazione di numerosi architetti internazionali, è stato edificato
il vasto complesso commerciale-direzionale. Notevoli i grattacieli che
fiancheggiano la Potsdamer Strasse: la torre Kollhoff che mima i
grattacieli ‘a gradoni’ della Manhattan tra le due guerre e quello
delle Deutsche Bahn che allude al progetto del 1922 di Mies van der
Rohe per un grattacielo in vetro.
Oltre la piazza, appena entro Mitte, è stato anche ricostruito l’invaso
ottagonale della Leipziger Platz (2014) con edifici contemporanei.
Si è rinnovata e modernizzata la Friedrichstrasse con restauri e
numerose importanti ricostruzioni, per farne il più importante asse
commerciale del vecchio Est.
È realizzata al rustico (2015) sull’Isola dei Musei la replica dello
storico Berliner Stadtschloss (fig. 9), demolito nel 1950 e poi
occupato dal
Palast des Republik, simbolo del regime comunista, costruito nel 1976 e
demolito nel 2007.
Per quest’opera grandiosa di ricostruzione, costosa e altamente
simbolica è stato necessario superare molte opposizioni. L’ultimazione
è prevista per il 2019 e il castello imperiale ospiterà un grande museo
dedicato alla cultura delle civiltà non europee.
Lungo la Spree, il restauro del neogotico Oberbaumbrücke ha riunificato i
quartieri di Kreuzberg (Ovest) e Friedrichshain (Est).
Nella zona DDR, è in pieno corso la nuova urbanizzazione di Osthafen,
il porto fluviale lungo la Spree, da parte del consorzio Mediaspree.
Alcuni dei magazzini portuali novecenteschi sono stati
pionieristicamente trasformati per farne la propria sede dalle
compagnie Universal (2002) e MTV
(2004) e oggi una nuovissima architettura sta rapidamente saturando i
lotti vuotati dai bombardamenti con edifici direzionali, alberghi e
residenze di lusso.
Sulle due rive il paesaggio fluviale e, particolarmente dove è stato
conservato, si è arricchito di ristoranti alla moda, case e piscine
galleggianti di grande attrazione.
Accanto a questa attività edilizia accompagnata da grandi investimenti,
di cui abbiamo dato una parzialissima panoramica, esistono complessi
industriali che, pur dismessi e abbandonati, non sono sottratti alla
città, segregati e lasciati in letargo in attesa di futuri
investimenti, ma vengono introdotti all’uso cittadino con interventi a
basso costo.
Il dismesso aeroporto urbano di Tempelhof, capolavoro di Ernst Sagebiel
realizzato tra il 1936 e il 1941) è stato dismesso nel 2008 e riaperto
nel 2010 come parco pubblico. I lavori sono stati minimi. Le piste sono
state conservate, come anche alcune attrezzature aeroportuali e
carcasse di velivoli. Il parco è attualmente utilizzato e vi si tengono
periodiche manifestazioni.
La grande area con accesso da Revalerstrasse (Friedrichshain) e
delimitata a Sud dal ring ferroviario è un complesso di Deutsche Bahn
composto da vari edifici e capannoni. È stato colonizzato da un insieme
composito di attività che comprendono locali alla moda, bar, cineclub,
circoli culturali alternativi, musica, biblioteca, scuola di
skateboard, palestra di roccia incentrata su di una torre dell’acqua e
altre varie attrazioni. Un luogo tempestato di murales e dal carattere
alternativo ma disciplinato, anche se attrae un certo commercio di
stupefacenti sulla prospiciente Revalerstrasse.
Anche BVG, la società che gestisce la U-Bahn e i trasporti urbani di
superficie, utilizza una comunicazione ‘architettonica’ dei propri
lavori in corso, come dimostra l’installazione in Friedrichstrasse
(fig. 10), che
si scusa con il pubblico per la temporanea soppressione di una stazione
a causa dei lavori per la nuova linea 5.
Tale of two cities
La conclusione dell’esame di Roma e Berlino, se pure impressionistico,
non può sfuggire a un confronto. Sapendo di avventurarmi in uno spazio
che ho già definito scivoloso, non posso fare a meno di interrogarmi:
Roma è liquida? e Berlino lo è? E quale di più, e perché?
Penso che Berlino possa definirsi liquida, mentre Roma no.
Berlino è stata a suo tempo una città di pietra, veloce a trasformarsi
ma statica. Il trauma delle distruzioni belliche e i seguenti 45 anni
di cortina di ferro l'avevano congelata, l’Est in modo particolare.
La riunificazione ne ha letteralmente scongelato le potenzialità in
primo luogo umane, favorite dall’ondata di immigrazione europea (già
presente nel vecchio Ovest quale ‘vetrina ‘del mondo occidentale) e
dalla politica dei prezzi bassi.
Berlino è liquida nella sua sostanza sociale ed economica. La sua
architettura rispecchia questa realtà con la varietà estrema delle
realizzazioni che hanno disarticolato la struttura monocentrica della
vecchia città di pietra. Ne emerge, così, un aggregato urbano
policentrico e caleidoscopico che tocca sia le ‘grandi opere’ sia gli
interventi di dimensione minuta e che ha permeato persino il decoro
cittadino, dalle installazioni artistiche ai parchi giochi per
l’infanzia.
Un safari architettonico a Berlino può fare a meno di guide, che
invecchiano in breve tempo. L’innovazione architettonica offre continue
scoperte. La visione architettonica pervade il decoro cittadino e
conquista anche le aree dismesse e degradate, integrandole nella città
viva ed operante.
Roma è stata nel suo passato una grande città ‘liquida’. Durante il
Rinascimento e la stagione barocca, ha riformato radicalmente la
propria struttura spinta dalla corte papale e, non poco, anche dalla
riattivazione degli acquedotti che con la capillare distribuzione delle
acque ha stimolato il decoro cittadino delle vie lastricate, delle
magnifiche fontane pubbliche, degli abbeveratoi e dei lavatoi pubblici [10].
Il trauma dell’insediamento della Capitale ha mutato la direzione di
questo sviluppo per incanalarlo nella via più tradizionale delle
capitali europee, pur senza lo stravolgimento dei valori presenti.
Roma ha infossato il suo fiume e chiuso i porti che vi si affacciavano,
ha separato i monumenti dalla città viva ed operante segregandoli nelle
aree archeologiche, dilapidando il desueto ‘pittoresco’.
Trasformazioni ineludibili per la modernizzazione della bella città che
oggi tutti possono godere.
Ma non può definirsi liquida.
Roma è, in definitiva, prigioniera del suo mito e del capitale fisso
costituito dall’immenso patrimonio pietrificato nei monumenti. La sua
fissità si manifesta anche nell’incapacità di riformare con
l’architettura i numerosi non-luoghi lasciati incompiuti dalle
demolizioni del ventennio fascista interrotte dalla Guerra Mondiale.
NOTE
[1]
Non è una novità. In un dattiloscritto del 1930 conservato a
Kaiserslautern, Peter Behrens commenta il proprio tempo con
un icastico: «Una fretta si è impossessata di noi e ci impedisce di
approfondire le particolarità».
[2] Cfr. Prologo in MANN 1933.
[3] DI MAURO
1987.
[4] Così scriveva
Francesco Algarotti ricordando gli insegnamenti lodoliani (ALGAROTTI
1764).
[5] PASQUALI 1996.
[6] EADEM
1985.
[7] GIOVANETTI
1984.
[8] RACHELI 1985.
[9] WEGEMANN 1930.
[10] WENTWORTH
RINNE 2011.
BIBLIOGRAFIA
ALGAROTTI 1764
Francesco
Algarotti, Saggio sopra
l'architettura, Venezia, 1764.
DI MAURO 1987
Leonardo
Di Mauro, Il cantiere di Palazzo
Farnese a Roma in un disegno inedito, in “Architettura Storia e
documenti”, 1987, 1-2, pp. 113-122.
GIOVANETTI 1984
Francesco
Giovanetti, La sistemazione di
piazza Colonna, in Roma
capitale 1870-1911. Architettura e urbanistica. Uso e trasformazione
della città storica, AA.VV.,
Venezia, Marsilio, 1984, pp. 379-405.
MANN 1933
Thomas
Mann, Die Geschichten Jaakobs,
Berlin, 1933.
PASQUALI 1985
Susanna
Pasquali, Tradizione romana e
modello europeo, in Roma
capitale 1870-1911. I ministeri di Roma capitale, AA.VV.,
Venezia, Marsilio, 1985, pp. 93-101.
PASQUALI 1996
Eadem, Il Pantheon. Architettura e antiquaria nel
Settecento a Roma, Modena, Panini, 1996.
RACHELI 1985
Alberto
M. Racheli, Corso Vittorio Emanuele
II. Urbanistica e architettura a Roma dopo il 1870, Quaderni n.7
- Ministero per i Beni Culturali e Ambientali - Ufficio Studi, Roma,
1985.
WEGEMANN 1930
Werner
Hegemann, Das Steinerne Berlin,
Geschichte der größten Mietkasernenstadt der Welt, Vieweg,
Braunschweig, 1930.
WENTWORTH RINNE 2011
Katherine
Wentworth Rinne, The waters of Rome:
Aqueducts, Fountains, and the Birth of the Baroque City, Yale
University Press, 2011.
Vedi anche nel BTA:
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