Artemisia
Lomi Gentileschi (Roma, 1593 – Napoli, 1652-3), figlia di Orazio, un
discreto pittore che, dalla nativa Pisa, nel 1575, si trasferisce molto
giovane a Roma, alla ricerca di un ambiente vivace e stimolante [1],
è una donna sola, capace, combattente, è colei che ha saputo, a
dispetto, o forse per merito, dei tragici accadimenti biografici,
affrancarsi socialmente ed elevarsi a “pittora” [2] ricercata, affermata, libera ed indipendente.
Maggiore di sei fratelli maschi, rimane, nel 1605, a soli 12 anni,
orfana della madre, Prudenzia de Ottaviano Montoni, confortata dalle
cure amorevoli di Suor Graziella [3]
del Convento della Santissima Trinità, Artemisia deve accollarsi la
responsabilità di crescere i tre piccoli fratelli superstiti [4],
destinati, come il padre, alla carriera di pittori. Lei, invece, la più
talentuosa dei quattro, in quanto donna, è inizialmente indirizzata
alla monacazione [5]. Controllata e guardata a vista dal padre e dai fratelli, che non le consentono neanche di uscire da sola [6],
cresce rinchiusa in casa, dove impara a dipingere, senza permesso,
spinta dalla curiosità verso il lavoro del padre, dal desiderio di
imitarlo e dalle inclinazioni naturali [7].
Grazie al suo carattere curioso apprende in fretta e dimostra, fin da
subito, un'attitudine non comune, per cui, a dispetto dei progetti
iniziali, Orazio acconsente e le insegna l'arte della pittura [8]. Il suo apprendistato è, ovviamente, di tipo domestico, essendo una donna non può andare a bottega da alcun maestro [9],
impara, tra le mura casalinghe per inclinazione e grazie allo spirito
di osservazione che le è proprio. Inizialmente, studia e scruta il
lavoro del genitore, i suoi quadri, i dipinti e le incisioni usati come
modelli nell'atelier paterno, ma anche le numerose tele d'altare che
adornano le chiese dell'Urbe [10].
Al principio, quindi, la sua formazione è libera e da autodidatta,
fatta di attenta e meticolosa riflessione, un apprendimento autonomo,
ma “a distanza”, perché non le è ancora consentito lo studio
diretto. Mentre macina i pigmenti, impasta le miscele di colore e
prepara le tele per Orazio, impara i rudimenti del disegno e della
prospettiva, ha gli occhi puntati sul processo di maturazione
stilistica del padre [11]
ed assimila i fondamenti dell'anatomia del corpo maschile dai modelli
in posa nello studio, osservati di sfuggita in momenti in cui le è
consentito l'accesso [12], mentre quello femminile è esaminato attraverso se stessa riflessa allo specchio [13].
Quando il padre, in considerazione del talento della figlia, accetta di
indirizzare la giovane alla pittura, comprende che il ruolo di
assistente nella preparazione di tele e colori non può bastare ed
inizia per Artemisia il suo apprendistato stricto sensu:
le è consentito di prendere in mano i pennelli e di “imbrattare” le
tele, di mettere in pratica i fondamenti di disegno e prospettiva
precedentemente appresi.
Artemisia, dunque, diventa pittrice in casa propria, inizialmente
assorbe lo stile paterno (naturalismo, colori dolci ed eleganza), che
in quel periodo vive forse il suo momento migliore, poiché è già stato
in contatto con il Caravaggio [14].
Orazio è considerato un pittore capace, ma, nonostante la sua bravura,
annaspa, non riesce a sfondare, le commissioni che gli giungono non gli
consentono neanche di affittare un luogo per installarvi la propria
bottega [15], è ritenuto
uno dei tanti frescanti presenti a Roma in quel periodo. Non
guadagnando molto, non può permettersi una domestica, per cui, in sua
assenza, Artemisia è lasciata in compagnia della vicina Tuzia, che
diventa per lei un'amica e confidente, ma che ad un certo punto la
tradisce, forse per denaro, di cui ha costantemente bisogno.
La giovane è brava, talentuosa, impara in fretta, ad un certo punto il
padre si rende conto che la ragazza ha bisogno di un maestro e la
affida al suo socio, Agostino Tassi.
Nella primavera del 1610, il Gentileschi incrocia il Tassi, un
eccellente pittore paesaggista-quadraturista romano, di ritorno dalla
Toscana [16], con ottimi
contatti tra i committenti aristocratici, per il maestro è il momento
della svolta professionale, con Agostino, infatti, Orazio fa il salto
di qualità. Quest'incontro, però, è destinato ad avere un pesantissimo
influsso sulla vita di Artemisia [17].
Il Tassi, specializzato nella realizzazione di finte prospettive e
sfondati architettonici, è capace ed inserito; tra i due inizia una
collaborazione fruttuosa ed importante [18].
Non è una bella persona, si porta dietro la cattiva fama di essere
forse stato in galera, conosciuto da tutta Roma come “lo smargiasso” [19]
Agostino è un avventuriero, un vero farabutto, ma come artista è
apprezzato ed ha le conoscenze giuste per cui arrivano tanti incarichi [20], aumentano le commesse e finalmente Orazio può “contare i soldi”.
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Fig. 1
Artemisia Gentileschi, Madonna con Bambino, 1610,
olio su tela, cm. 116,5 x 86,5, Roma, Galleria Spada.
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Grazie al Tassi, c'è tanto lavoro ed Orazio è spesso
fuori, Artemisia è costretta in casa in compagnia di Tuzia che la deve
sorvegliare [21]. La donna diventa, per la giovane, un'amica, una confidente, qualcuno con cui parlare, e, talvolta, secondo un modus operandi mutuato direttamente dal Caravaggio, posa dal vivo per la pittrice. Da questa condizione scaturisce la dolcissima Madonna con Bambino (fig.
1); nella tela Artemisia ritrae con un'inedita immediatezza e
spontaneità la vicina con il figlio minore di tre anni, l'opera è
imperniata sull'intimo scambio di sguardi e di affetti tra la madre ed
il bambino che si allunga in una toccante e tenera carezza. Il soggetto
religioso non è trattato come exemplum
devozionale, come vorrebbe la Chiesa Controriformata che ha previsto
manuali di iconografia per i pittori al soldo della stessa, ma,
sull'esempio delle opere paterne e, soprattutto, del Merisi [22],
Artemisia rende la Madonna come una “volgare” madre intenta a giocare
con il figlioletto. Non c'è nulla di sacro, né di didascalico, ma la
religiosità insiste nella naturalezza del soggetto. Al di là delle
incertezze esecutive presenti [23],
visibili nella goffaggine della Madonna caratterizzata da un braccio
sinistro sproporzionato e da mani grassocce e poco eleganti, la calda e
chiara luce, di matrice paterna, che avvolge e dà rilievo alla felice
invenzione (due figure unite in un toccante colloquio tra madre e
figlio) consente alla “pittora” di delineare con cura [24]
una scena intensamente poetica dove già si intuiscono certi prodromi
che declineranno presto nelle interessanti e prepotenti figure
femminili future.
Nell'aprile del 1611, il cardinal nipote di papa Paolo V Borghese,
Scipione, che sta completando la sua residenza sul Quirinale, incarica
i due soci pittori di decorare il Casino delle Muse della Residenza di
Monte Cavallo (oggi Palazzo Rospigliosi). Nella loggetta i due
concepiscono un soffitto sfondato, a mo' di trompe d'œil,
animato da una scena a tema musicale (un allegro e appassionato
concerto di muse ridenti che si affacciano dalla volta e da balconate
illusorie). Orazio che, come abbiamo detto, ha consuetudine
nell'utilizzare la figlia come modella, decide di raffigurarla nelle
vesti di una suonatrice: bella, orgogliosa, altèra, esibisce uno
sguardo presuntuoso e deciso, senza concedere alcun sorriso a chi
osserva. L'artista la ritrae «nel suo stile luminoso, elegante,
drammatico, di matrice caravaggesca, tra le muse e i musicanti» [25]
e, mentre il padre la dipinge, in Agostino sboccia il desiderio per la
giovane che non solo è attraente, ma è anche brava. Il Tassi, se ne
invaghisce, la anela, ed Orazio, lo capisce, intuisce l'interesse per
la figlia, ma non fa nulla, forse addirittura lo tormenta parlandogli
in continuazione delle sue virtù. Agostino, che è spesso a casa
Gentileschi [26], quando
incontra Artemisia prova una sensazione di tormento, la scruta
ossessivamente, la segue, la perseguita, dove va lei, lui cerca di
recarsi. Nonostante questa circostanza delicata, Orazio, che si fida
del Tassi, decide di affidargli la formazione
prospettico-illusionistica della capace e promettente figlia [27],
e gli chiede di darle lezioni affinché apprenda le competenze
necessarie per creare illusioni prospettiche, attraverso lo studio
attento della profondità di campo e della prospettiva.
Il Tassi si accende di passione per la giovane, che diventa ogni giorno
più bella e attraente. Agostino la blandisce, cerca di ammaliarla, la
segue ovunque possa, e cerca di frequentarla in assenza del padre;
Artemisia, pur non mostrando totale indifferenza al fascino di
quell'artista ossessionato da lei, e dai trascorsi oscuri e
discutibili, lo allontana e respinge le continue richieste d'intimità.
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Fig. 2
Artemisia Gentileschi, Susanna tra i vecchioni, 1610,
olio su tela, cm. 170 x 119, Pommersfelden, Collezione Graf von Schönborn.
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Risale a poco dopo l'incontro con il quadraturista, la tela della Susanna tra i Vecchioni (fig. 2) [28],
raffigurante la bellissima eroina biblica mentre fa il bagno ed è
avvicinata dai due giudici anziani che, infiammati di lussuria per lei,
provano a ricattarla per potervi giacere assieme. Al rifiuto i due
uomini la accusano pubblicamente di adulterio ed è condotta di fronte
ad un tribunale che la riconosce colpevole. è solo per l'intervento di
Daniele che la donna si salva [29].
L'interpretazione della vicenda veterotestamentaria dataci da Artemisia
è quella di una donna psicologicamente provata che trasmette un senso
di impotenza di fronte all'insidia del ricatto perpetrato dai due
vecchioni. Stilisticamente la tela rimanda agli insegnamenti paterni
(il severo naturalismo, la particolare modulazione di luci ed ombre, il
rigore della linea del disegno e il suo gusto per la struttura del
quadro), ma l'eleganza e la dolcezza, tipici delle creazioni di Orazio,
qui mutano in una resa spietata sia formale (la decisa gestualità dei
personaggi o il nudo della protagonista che lascia drammaticamente
scoperti seno e addome [30]),
sia psicologica (il personalissimo vigore espressivo che trasmette, in
chi osserva, un senso di disagio profondo e di disturbata serenità).
Sebbene, all'epoca, il tema sia piuttosto diffuso, la stessa Artemisia
lo tratta ben tre volte (1610; 1622; 1649, fig. 11), l'artista
realizza un'opera inedita e sorprendente, la cui potente invenzione
iconografico-iconologica è decisamente una nota originale ed
innovativa. L'insidia dei giudici, infatti, mette duramente in
difficoltà la bellissima Susanna che palesa angoscia ed impotenza di
fronte alle loro richieste, mentre, solitamente, il soggetto è trattato
come una scena biblico-didascalica di natura moraleggiante, priva della
potenza e della violenza spirituale inserita dalla pittrice [31].
Già in quest'opera Artemisia introduce il suo modo di sentire l'arte,
non un mero strumento d'insegnamento o di celebrazione, ma il mezzo
attraverso cui compiere il riscatto della figura femminile. L'eroina
biblica, donna bellissima, è, probabilmente un'autorappresentazione,
non solo fisica (le fattezze della Susanna, si pensa, siano
riconducibili all'artista), ma anche spirituale (Artemisia potrebbe
essersi riconosciuta nella vicenda biblica, in particolare, lei
assillata dalle continue avances di Agostino, potrebbe essersi
identificata nella posizione di Susanna circuita dai vecchioni) [32]. L'episodio in questione diventa un racconto personale, il punto di vista non è neutro [33],
ma è quello di una donna, vistosamente e platealmente in difficoltà,
combattuta sia fisicamente che psicologicamente. Susanna, come
Artemisia, è impaurita e ferita.
Nel guardare la tela si percepisce il malessere psicologico vissuto
dalla pittrice; la concitazione e lo spavento espressi dalla Susanna,
che sembra non avere il controllo della situazione, sono gli stessi
provati dall'artista in quel momento particolare, precedente
l'imminente violenza [34].
A confermare l'intento autobiografico della scena raccontata c'è un
ulteriore elemento: i due vecchioni ripeterebbero le fattezze di Orazio
[35], il più anziano, e di Agostino, il giovane [36].
Alla luce di quanto espresso diventa difficile non associare la
pressione esercitata dai due giudici su Susanna al complesso rapporto
di Artemisia con il Tassi e con il padre [37], spettatore inerte delle insidie cui è sottoposta quotidianamente la ragazza.
Agostino, invaghito, impetuosamente attratto e rifiutato dalla ragazza,
decide di approfittarsi della giovane che, il giorno di Santa Croce del
1611 [38], nella
casa-bottega di Via Margutta viene violentata. Così racconta la giovane
l'aggressione subita rispondendo alle domande dei giudici:
«Et il medesimo
giorno doppo mangiare ch'era tempo piovoso, stando io dipingendo un
ritratto di un putto di Tutia per mio gusto, venne a capitar' Agostino
che bisognava ch'entrasse perché si faceva murar in casa e c'erano li
muratori ch'havevano lassato la porta aperta, e trovatami a depingere
mi disse : “Non tanto depingere non tanto depingere” e mi levò la
tavolozza e li pennelli di mano e li buttò chi là chi qua e disse a
Tutia: “Vattene via di qui”. E dicendo io a Tutia che non si partisse e
non mi lassasse ch'io l'havevo accennato innanzi lei disse: “Non voglio
stare a contendere qui me ne voglio andare con Dio” et avanti che
si dipartisse Agostino mi mise il capo in seno e partita che fu Tutia
mi pigliò per mano e mi disse: “ Passeggiamo un poco insieme che lo
star a sedere vien'in odio”, e così passeggiando doi o tre volte par la
sala li dissi che mi sentivo male e che credevo havere la febre e lui
rispose: “Io ho la febre più di voi” e doppo haver date doi o tre
passeggiate, perché nel passeggiare ci venivamo ad accostar alla porta
della camera, quando fummo alla porta della camera lui mi spinde
dentro e serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda
del letto dandomi con una mano sul petto mi mise un ginocchio fra le
coscie ch'io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece
grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto
alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi
teva con l'altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi
li ginocchi tra le mie gambe et appuntatomi il membro alla natura
cominciò [...] per l'impedimento che mi teneva alla bocca non
potevo gridare […] e doppo ch'ebbe fatto il fatto suo mi si levò da
dosso et io vedendomi libera andai alla volta del tiratoio della tavola
e presi un coltello et andai verso Agostino dicendo: “Tivoglio
ammazzare con questo cortello che tu m'hai vittuperata”. […] per
aqquietarmi mi disse: “Datemi la mano che vi prometto di sposarvi come
sono uscito dal laberinto che sono” et anco mi disse: “Avvertite che
pigliandovi non voglio vanità” et io gli risposi: “ Io credo che
vediate se ci sono vanità”» [39].
Dall'atto riportato si evince, dunque, che Tuzia, l'amica-confidente, sembra essere stata favoreggiatrice della violenza [40].
è interessante notare, in relazione a questa doppiezza, che spesso
Artemisia, come a voler mistificare il tradimento, introduce nelle sue
opere la figura di una compagna, che aiuta tangibilmente la
protagonista. L'inganno della donna, che avrebbe dovuto proteggerla,
dunque, la ferisce e, in seguito, «fa della solidarietà femminile uno
dei temi ricorrenti nella sua opera» [41], mi riferisco, per esempio, alle diverse versioni della Giuditta ed Oloferne (figg. 3, 6, 9), in cui Artemisia riserva un ruolo tutt'altro che secondario alla fantesca Abra [42].
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Fig. 3
Artemisia Gentileschi, Giuditta e la sua ancella, 1616-18,
olio su tela, cm. 114 x 93,5, Firenze, Galleria Palatina.
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Nel racconto biblico [43],
infatti, l'ancella non entra nell'azione, ma aspetta al di fuori della
tenda che la giovane Giuditta compia il gesto estremo. L'iconografia
tradizionale, recepisce i versi veterotestamentari e raffigura la scena
rappresentando solo i due modelli di exemplum,
quello negativo (Oloferne) e quello positivo (Giuditta). Caravaggio,
per primo, e per motivi diversi da quelli di Artemisia, introduce nel
quadro la figura dell'anziana attendente [44],
che assiste, però, come mera osservatrice, alle spalle della giovane,
al compiersi della violenza, Artemisia va oltre e raffigura una
compartecipazione unanime, coinvolgente e ricca di pathos tra la
giovane ebrea e la fantesca, che la aiuta con energia e fermezza. Nella
tela della Gentileschi, dunque, entrambe le donne agiscono. La
pittrice, probabilmente tratteggia nel dipinto quell'aiuto vitale e
basilare che avrebbe voluto dall'amica, cui aspira e che non giunge
mai. L'innovazione, però, potrebbe anche rispondere ad una istanza di
tipo realistico, nel senso che la pittrice potrebbe aver pensato che la
forza di una sola donna non sia sufficiente contro il vigore di un uomo
in trappola, pertanto ha fatto agire anche l'ancella [45].
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Fig. 4
Artemisia Gentileschi, Danae, 1612,
olio su rame cm. 40,5 x 52,5, ST Louis (Missouri), Saint Louis Art Museum.
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Dello stesso periodo della prima Giuditta è il dipinto, a soggetto mitologico, Danae
(fig. 4). Nel quadro si celebra l'unione tra Giove e Danae, rinchiusa
dal padre nella torre per scongiurare la profezia secondo la quale la
giovane avrebbe dato alla luce colui che avrebbe ucciso il re [46].
Anche in questa tela Artemisia reinventa la quinta che,
tradizionalmente, vuole una Danae compiacente e grata delle monete
d'oro. Nella scena, invece, la protagonista, caratterizzata da occhi
chiusi, si volta, quasi sdegnosa, dall'altra parte, senza partecipare
all'azione, mostrando freddezza ed indifferenza. La domestica,
sullo sfondo, è, invece, intenta a raccogliere tutte le monete
destinate alla giovane. Questo particolare è letto ancora una volta
alla luce del tradimento di Tuzia che per cupidigia si rende complice
della violenza. Nel quadro, infatti, la domestica raccoglie avidamente
le monete d'oro.
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Fig. 5
Artemisia Gentileschi, Sansone e Dalila, 1630-38 ca,
olio su tela cm. 90,5 x 109,5, Napoli Palazzo Zevallos Stigliano, Galleria d'Italia.
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In questa stessa ottica di complicità femminile va letta la cornice modificata del Sansone e Dalila
(fig. 5), in cui Artemisia, a distanza di anni, introduce, ancora una
volta, a dispetto dell'iconografia tradizionale, che vuole raffigurati
solo i due personaggi esempio di vizio e di virtù, una seconda figura
femminile: l'ancella, appunto. Nell'invenzione rinnovata [47],
ancora una volta, la maestra mette in scena quella solidarietà tra
donne cui aspira e che le viene negata dal tradimento di Tuzia.
Nella sua opera, dunque, la pittrice sublima e celebra il sostegno di
una donna, con il quale, probabilmente, la sua vita avrebbe preso un
corso diverso, e sulla tela, infatti, le cose vanno altrimenti, e tutti
i personaggi femminili, fattivamente sostenuti da compagne, sono
trionfanti e vincenti.
Il 6 maggio del 1611, in assenza di Orazio, Agostino, come abbiamo
detto, decide di abusare della giovane che si trova in casa, intenta a
dipingere, in compagnia di Tuzia. Al suo arrivo la vicina è mandata via
malamente, la donna, indispettita e piccata, esce di casa asserendo di
non voler entrare nelle loro “beghe”, probabilmente, lei, che ha sempre
bisogno di denaro, è in combutta con il Tassi. Agostino, inizialmente,
tenta di sedurla, poi vista la resistenza le strappa di mano la
tavolozza e i pennelli, quindi, spinge Artemisia in camera e la
violenta. La ragazza è distrutta, furibonda, quando riesce a liberarsi,
afferra un coltellaccio e d'impulso cerca di colpire l'uomo che, però,
schiva il colpo e la spinge facendola cadere, poi, andandosene, le dice
che l'avrebbe sposata per rimediare al danno [48].
La giovane pensa che quello sia l'unico modo per non perdere l'onore,
per cui accetta, ma poi i mesi passano e Agostino sembra cogliere ogni
occasione per rinviare il matrimonio [49].
Nel frattempo gli incontri prematrimoniali continuano e si
intensificano per quasi un anno, fino a quando Gentileschi padre
denuncia il socio, con una supplica indirizzata al papa Paolo V
Borghese [50], in cui
domanda di istituire un processo presso il Tribunale Criminale dello
Stato Pontificio contro Agostino Tassi per aver approfittato della
figlia e per averla disonorata [51].
Si tratta di un processo celebre, durato otto mesi, da marzo a ottobre,
che ha suscitato parecchio scalpore, i cui atti sono stati pubblicati
già nel 1876 [52] e su cui è stato scritto molto.
Orazio, però, viene a sapere della violenza solo nel marzo del 1612;
molto più probabilmente il motivo che spinge il pittore a denunciare il
socio è un altro: si ipotizza di una sopraggiunta rivalità o lite tra i
due [53], o anche della
scoperta che il Tassi, coinvolto in una relazione incestuosa con la
cognata Costanza, sia già sposato e, dunque, non possa tenere fede alla
promessa. Certamente non è l'onore della figlia a stargli a cuore,
altrimenti non l'avrebbe esposta alla pubblica infamia, o, comunque,
non avrebbe atteso tanto. Non sono in gioco la moralità e l'onestà di
Artemisia [54], piuttosto
si tratterebbe di una disputa tra uomini (il padre avrebbe,
plausibilmente, deciso di invocare giustizia per vendicarsi della
sottrazione di un dipinto) [55],
il quadraturista disonesto lo ha ingannato e derubato il che avrebbe
spinto il Gentileschi a chiedere al papa di procedere contro il
pittore, che aveva «forzatamente sverginata e carnalmente conosciuta
più e più volte» la figlia [56].
Ad ogni modo, lo strano ritardo della denuncia è visto con sospetto anche dai giudici [57]. Ed Artemisia, già sotto pressione, deve misurarsi con l'ambivalenza del comportamento del padre.
La pittrice è interrogata dai magistrati prima a casa e poi in pubblica
udienza, durante il processo si confronta con il Tassi, che nega di
averla ingannata e violentata e cerca di farla passare per una “poco di
buono”, per una “donna di malaffare” [58].
Lei, la vittima, si ritrova sotto processo e sotto tortura, ma non
cambia mai versione e continua ad affermare la verità, ossia, che
l'uomo ha abusato di lei contro la sua volontà.
A deporre sono chiamati diversi testimoni, molti dei quali corrotti dal Tassi affinché sostengano le sue dichiarazioni [59]. Nel tentativo di salvarsi, Agostino mistifica le circostanze dell'accaduto [60]
chiamando in causa: un ambiente promiscuo poco adatto ad una giovane
donna; la mancanza di una figura femminile che la educhi nel giusto; il
fatto che la bella e provocante ragazza, cresciuta senza una guida, e
senza punti fermi in un via vai di uomini non possa aver conservato la
sua verginità; il sospetto di un rapporto incestuoso tra la giovane e
il padre [61] che, rimasto vedovo, la fa crescere segregata in casa e che la tratta morbosamente come una “moglie” [62].
Il processo, non va come dovrebbe, la situazione per la pittrice si
mette male, sfila un numero consistente di testimoni, che sembra
facciano a gara per mentire, la vicenda è intricata, i ruoli dei
protagonisti non sono ben chiari, il tribunale non è convinto della
violenza e si interroga sul perdurare dei rapporti intimi tra i due,
che mettono in discussione lo stupro, Artemisia, già guardata con
sospetto perché esercita l'arte della pittura, non è creduta.
Per stabilire l'effettiva buona reputazione, la mentalità
giurisprudenziale dell'epoca, prevede per la vittima una serie di
procedimenti umilianti [63], come mortificanti visite ginecologiche pubbliche [64] o la tortura [65],
episodi psicologicamente violenti e fortemente sminuenti per chiunque.
Nel confronto diretto tra la giovane e l'accusato entrambi ribadiscono
la propria posizione, ad Artemisia non rimane che sottoporsi al
tormento dei sibilli.
Per una pittrice sottoporsi a quel tipo di supplizio è doppiamente
pericoloso (una volta legati i polsi per evitare che la donna si
divincoli, vengono poste delle cordicelle tra le dita delle mani
congiunte e successivamente si aziona un randello che, girando, stringe
fino a stritolare le falangi) [66],
ma non può sottrarvisi, ad ogni nuovo giro di vite, le dita si gonfiano
e il sangue smette di circolare , ma lei non cede e fieramente rimane
fedele ai fatti accaduti.
Dagli atti del processo risulta una sola testimonianza a favore della
ragazza, quella di un notaio, amico del Tassi e di Orazio, Giovan
Battista Stiattesi [67]. Nonostante l'esiguità di deposizioni a favore della figlia, Orazio riesce a dimostrare che Agostino ha corrotto i testimoni [68]. Curiosamente, nonostante la sentenza pro Agostino Tassi del 27 novembre 1612 [69],
il quadraturista, per lo stupro presunto e subornazione di testimoni, è
incarcerato a Corte Savella e condannato all'esilio da Roma e da tutto
lo Stato Pontificio, anche se non sembra che si sia mai allontanato
dalla città.
Gli atti del processo, rinvenuti nell'Archivio di Stato di Roma [70],
costituiscono materiale documentario interessante, ma poco illuminante.
è una storia torbida, ricca di menzogne messe agli atti, la stessa
sentenza finale a favore del Tassi [71], condanna il quadraturista, ma è redatta a favore del condannato! Come ciò sia possibile non è chiaro.
Evidentemente, tutta la vicenda processuale la segna, la fa maturare e
contribuisce allo sviluppo successivo del suo stile: «Mi farò vendetta
con la pittura. Dipingerò quadri potenti come nemmeno ho visto fare a
Caravaggio quando frequentava mio padre», afferma in una lettera
successiva [72].
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Fig. 6
Artemisia Gentileschi, Giuditta e Oloferne, 1612,
olio su tela, cm. 158,8 x 125,5, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.
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Le vessazioni e le umiliazioni subite diventano elementi chiave nelle
sue rappresentazioni, sempre più vitali e cariche di energia. Da questo
momento in poi, in tutte le sue opere, è sempre la donna ad esercitare
un'azione violenta e a sottomettere l'uomo. La critica
storico-artistica ha voluto leggere, e in parte continua a farlo, la
sua opera lato sensu alla luce dell'aggressione subita: in particolare, la Giuditta ed Oloferne [73]
(fig. 6), realizzata durante il procedimento pubblico, nel 1612,
assurge ad emblema di riscatto della vicenda personale dell'artista,
che, con ruoli ribaltati, ritrae sulla tela il “fattaccio”,
simbolicamente rovesciato, come è raccontato dall'artista stessa nelle
sue deposizioni [74]. A
soccombere, sotto la ferocia di Giuditta, è Oloferne, il generale
assiro, nel cui volto si ravvisano i tratti del Tassi, mentre a
perpetrare la cruda violenza è l'eroina biblica che, aiutata
fisicamente dall'ancella, decapita il soldato nemico come se dovesse
“sgozzare un maiale”.
L'opera, come si è visto in precedenza, propone, nella figura attiva
della fantesca, una contingente necessità di alleanza femminile per
condurre a termine un tal proposito, dal sapore catartico. Così
facendo, asserisce Roland Barthes, critico letterario francese,
l'artista sopprime la violenza subita attraverso un rovesciamento di
prospettiva [75].
Artemisia realizza un quadro che riprende la composizione a tre e il
realismo crudo di Caravaggio e in cui propone un omicidio in diretta,
ripreso da un punto di vista molto ravvicinato. La pittrice, però,
presenta una composizione estremamente dissimile e dal sapore diverso.
La rappresentazione, particolarmente feroce e brutale, è messa
efficacemente in relazione allo stupro, a cui allude il sangue rosso
sulle lenzuola candide e la posizione di Oloferne che tenta di
difendersi afferrando, in una lotta rabbiosa, il collo
dell'ancella [76], ma non
deve ridursi a questo. Lo stupro è vendicato, ma ancor più
importante è che la Giuditta ne esce vincente e trionfante. Il quadro,
nella crudezza della decapitazione, nell'invenzione a tre personaggi
della scena, nella brutalità inedita della vicenda e nella postura
dell'eroina biblica, richiama certamente la tela del Merisi, ma se ne
discosta potentemente nel trattamento dei soggetti femminili che, in
Caravaggio, pur allontanandosi dalla consueta iconografia, continuano
ad essere mezzo per una comunicazione, senz'altro vivida ed immediata
rispetto alla tradizione, ma in linea con messaggio moralistico di vizi
e virtù (impersonati da una figura negativa, Oloferne, e da un
positiva, Giuditta) [77].
In Artemisia, invece, l'opera si carica e si attualizza di una
differente accezione di emancipazione femminile: la donna, relegata a
ruolo subalterno nella Roma del ‘600, diventa, nella sua creazione, la
potente interprete di una vicenda che la vede protagonista, e non mero
strumento sussidiario, per una comunicazione di natura didascalica! è
la donna la vera interprete della tela, una donna che “può fare” al
pari degli uomini del XVII secolo. A partire da questo momento le donne
di Artemisia sono esseri affrancati ed autonomi, intellettivamente non
inferiori, economicamente capaci di rendersi indipendenti. Così
operando l'artista traspone, nella sua opera, l'ideale di donna che
vive in lei e che lei, nella vita reale, interpreta, dopo la vicenda
del processo che la segna e la mette a dura prova.
In questo dipinto, dunque, oltre alla rivalsa rabbiosa di Artemisia nei confronti del Tassi [78],
si delinea la “poetica” della pittrice volta ad affermare
prepotentemente un ruolo diverso della figura femminile: i due
personaggi biblici non raccontano, dunque, una storia moraleggiante, ma
sono, per la prima volta nella storia dell'arte, le protagoniste attive
della vicenda testamentaria. Neanche il realismo di Caravaggio aveva
osato tanto, la sua rappresentazione del medesimo tema, infatti, pur
assolutamente rivoluzionaria, è ancora incentrato sull'episodio biblico
e sul suo significato morale, e relega le due donne, mosse da
sentimenti più di disgusto che di violenza, a figure necessarie, ma non
protagoniste; il lavoro di Artemisia, invece, gioca sulla potenza della
nuova dimensione della donna.
Pertanto, nell'analisi della sua opera, non si può certo prescindere o
ignorare le vicende personali (né quel giorno di maggio del 1611, né il
conseguente processo intentato, né tutta la sofferenza fisica e
psicologica patita negli otto mesi di processo) che minano,
indiscutibilmente, la psiche e il modo di essere e di porsi della
pittrice, ma non si può neanche limitare tutto alle medesime
vicissitudini. Artemisia abbandona da quel momento lo stile raffinato,
improntato al fare artistico elegante e prezioso del padre; trasfigura
le serene e limpide atmosfere della Madonna con bambino
(fig. 1) in una sintomatica attenzione alla resa dei soggetti
femminili, che diventano i veri, monumentali ed evidenti protagonisti
dei suoi quadri [79]. Da
questo momento le sue opere, anche con evidenti spunti autobiografici,
si configurano come un potente tentativo di superamento dei limiti
imposti dalla società del Seicento: limiti culturali (alle donne non
viene offerta generalmente una preparazione scolastica degna di nota),
limiti familiari (accudire figli e marito non lascia molto spazio alla
creatività), limiti sociali (una donna non può e non deve dilettarsi
con arti che non siano a lei destinate, come il ricamo).
Attraverso l'esercizio della sua arte, in qualche modo, Artemisia
riesce ad affrancarsi dal ruolo in cui le donne dell'epoca sono
relegate [80], e lo fa in maniera quasi assordante, parlando al mondo di donne libere, protagoniste e padrone del proprio destino [81].
L'artista, dunque, divenendo interprete assoluta del femmineo, celebra
sulla tela un diverso modo di vivere e di vedere la realtà, fino a quel
momento caratterizzata al maschile. Chiaramente il soggetto e la
vicinanza cronologica al processo aiuta nell'interpretazione secondo
cui la tela vendica lo stupro ed esprime il senso di rivalsa di
Artemisia nei confronti del Tassi [82],
ma non è solo questo, la sua arte affranca le donne del XVII secolo
dalla condizione secondaria in cui sono fatalmente proscritte.
Il fatto stesso che Artemisia ripeta, in modo quasi ossessivo, il
soggetto biblico conforta l'interpretazione secondo cui la pittrice,
offesa e violentata, in qualche modo consegue la sua rivincita
ribaltando i ruoli nella dimensione virtuale da lei raffigurata [83],
ma, comunque, sarebbe riduttivo pensare la sua opera solo nell'ottica
della violenza subita. Lo stupro è solo un momento di passaggio. Già in
Susanna (fig. 2),
infatti, si nota questo incedere verso la realizzazione di una
donna-protagonista, che le ha consentito di diventare più forte e
spigolosa nell'invenzione artistica, indipendente ed emancipata
nell'esistenza privata, forse più di quanto lo sarebbe stata se non
avesse subito la violenza del Tassi.
Ma se è vero che la sua pittura reca profondamente traccia
dall'esperienza negativa vissuta, è anche plausibile che il suo iter
artistico sarebbe, comunque, approdato a certi esiti stilistici [84]. La sua indole battagliera, capace e risoluta l'avrebbe comunque
condotta, e forse l'ha fatto, a questi risultati. Dalla lettura di
alcune sue lettere traspare un carattere pieno di rabbia per ciò che le
è accaduto, ma positivamente combattivo e consapevole del proprio
talento e, infatti, ne “la Gentil'Esca” scrive:
«Sulla tela
vendicherò il mio stupro. Datemi un esercito, che voglio combattere;
datemi un campo di battaglia e sentirete lo schianto della mia forza
contro la sua mitezza; il clangore della mia violenza contro il
bisbiglio della sua bontà da sacrestia. Datemi una guerra perché, a 21
anni, possiedo armi già ben forgiate, spade da affondare nella lussuria
di principi e cardinali in forma di Cleopatre, Lucrezie, Veneri e
Susanne; picche da infilzare nelle perversioni dei miei committenti a
guisa di Giuditte, Maddalene e Giaele. Tutti desiderabili nudi di donne
cui infliggere torture o da cui ricevere dolore: questo mi hanno fatto
gli uomini, questo io voglio restituire alla loro impudica bramosia...
Ero in mezzo a due fazioni di luride canaglie e ho pagato per tutti
quei miseri uomini che si sono affrontati sul mio corpo non avendo il
fegato di sfidarsi apertamente fra loro. Ora vi sfido. Mi farò vendetta
con la pittura, dipingerò quadri potenti come nemmeno ho visto fare a
Caravaggio quando frequentava mio padre. La conosco la sua Giuditta che
taglia la testa a Oloferne: l'ho rifatto uguale il movimento delle
braccia, ma la mia eroina non ha quell'espressione schifata nel momento
di far zampillare la vena giugulare né tira indietro il busto per paura
di sporcarsi l'abito. Io affonderò la mia spada con voluttà. Dove
siete, pittorucoli? Io posso uccidere e sgozzare il più grande dei
vostri campioni con le vostre stesse armi che considerate maschili.
Io, la figlia di un farabutto, la disonorata da un
delinquente, io non voglio che mi sia concesso dipingere, io lo farò e
basta, solo perché sono brava. E allora Lavinia, [Lavinia Fontana una
pittrice asservita] ora io voglio accompagnare la tua morte con questi
versi del Libro dei Giudici. Ne farò un quadro; è la storia di Giaele
che conficca con un colpo di martello un picchetto nella tempia di
Sisara, il capo dell'esercito cananita: “Sia benedetta fra le donne
Giaele, colpì Sisara, lo percosse alla testa, ne fracassò, ne trapassò
la tempia. Ai piedi di lei si contorse, cadde, giacque; cosi periscano
tutti i tuoi nemici, Signore!”» [85].
Parole incisive ed efficaci che ci indicano una personalità forte e
dominante. Difficilmente un temperamento tale, pur senza sollecitazioni
estreme, come lo shock di una violenza subita, potrebbe non perseguire
un'arte che non sia potente, come quella che ci ha lasciato in eredità.
Dalla vicenda dello stupro in poi emerge, dunque, l'esigenza di
un'autonomia artistica e personale, ed Artemisia attinge a quella forza
interiore che, fino a quel momento, è stata latente, per l'accettazione
di regole e condizionamenti sociali, che hanno limitato gli orizzonti
della sua espressività.
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Fig. 7
Artemisia Gentileschi, Giaele e Sisara, 1620,
olio su tela cm. 86 x 125, Budapest, Szépművészeti Múzeum.
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A partire da questa fase è la donna ad esercitare un'azione violenta e
a sottomettere l'uomo, quando non accade si rappresenta, comunque, il
personaggio femminile sotto una luce nuova autoreferenziale. Non si è
mai visto nulla del genere. E allora ecco la tela di Sisara e Giaele [86]
(fig. 7), cui si allude nella lettera citata, un'ulteriore
testimonianza della capacità della pittrice di mettere al centro del
suo operare la donna, in questo caso Giaele, una delle terribili eroine
veterotestamentarie. Ancora una volta l'episodio biblico è un mezzo per
raccontare un personaggio determinato, esemplare, unico, attorno al
quale ruota il messaggio e non il contrario. Non si racconta la vicenda
testamentaria, ma si rappresenta la donna Giaele, risoluta ed
affrancata senza la quale l'exemplum
non potrebbe essere narrato. Delle tradizionali e tragiche atmosfere
del racconto biblico non v'è più nulla, al contrario, la scena,
fortemente chiaroscurata [87],
è permeata di una serena atmosfera di tipo arcadico. In una
tranquillità assordante, si svolge la scena, ambientata in
un'impaginazione essenziale, quasi neoclassica, in cui si vede il
soldato, immerso in un sonno distensivo e ristoratore e appoggiato
dolcemente sul grembo di Giaele, abbigliata elegantemente di seta
gialla e pettinata alla moda. Nulla, se non il picchetto e il martello
impugnati dalla giovane, fa presagire le intenzioni dell'eroina, che
nasconde i propri propositi in un'espressione serena quasi trasognata [88],
eppure sta per compiere, con una precisione quasi chirurgica, un atto
brutale, di eccezionale violenza: martellare un picchetto di tenda
nella tempia del nemico assiro.
L'intento moralistico, tipico di queste rappresentazioni
veterotestamentarie, cede il posto al ruolo della coraggiosa, bella e
potente eroina biblica assoluta protagonista della tela.
Nelle mani di Artemisia, queste storie moralistiche diventano
prepotente e abile espediente per raccontare l'agire di potenti e
capaci donne, raffigurazioni efficaci, violente e profonde in cui le
dame agiscono.
La pittrice introduce, quindi, una tipologia di donna protagonista ed
eroica, mai vista in precedenza, che costituisce una novità assoluta,
il cui ruolo non è più meramente rappresentativo o simbolico [89].
Si abdica agli schemi tipologici tradizionali di figurazioni
strumentali, per introdurre, in maniera rivoluzionaria, protagoniste
femminili e scene significative solo alla luce della loro presenza.
Sono le donne che sconfiggono gli uomini, sono le donne che non
accettano il ruolo secondario che la cultura del ‘600 riserva loro,
interpreti vere ed universali, non semplici attrici simboliche, o
comparse partecipi dell'episodio. Al loro cospetto le scene raccontate
acquistano un significato diverso e vigoroso. Artemisia, come le sue
eroine, dopo la sordida vicenda personale, riesce ad affermarsi da
protagonista sulla scena artistica, dominata ancora dalla figura
maschile.
Dopo la vittoria in tribunale Orazio ritiene che sia opportuno che si sposi [90],
le voci che continuano a circolare vanno dissipate, la sua reputazione
riabilitata. Ma quel suo passato oscuro, difficile da gestire, non
l'abbandonerà mai [91].
Il prescelto è un pittore, più anziano di lei, Pier Antonio Stiattesi,
fratello dell'unico testimone a favore della ragazza. Poco dopo il
termine del processo, superata l'amara vicenda personale, Artemisia,
supportata dalla dignità che l'ha sempre contraddistinta, acconsente al
matrimonio riparatore, deciso dal padre, tra lei e Pietro Antonio,
celebrato il 29 novembre del 1612.
I due presto decidono di abbandonare l'Urbe per recarsi a Firenze,
città di origine degli Stiattesi. Lasciar Roma è una scelta difficile,
dolorosa, ma allo stesso tempo liberatoria; trasferirsi è di vitale
importanza, Artemisia si allontana da un passato violento e tormentato,
da un padre geloso, ed ingombrante, dalla città che ancora e
costantemente la identifica in uno scandalo, e da tutti coloro che
avrebbero dovuto proteggerla e che non l'hanno fatto: il padre Orazio,
che ha taciuto il fatto per dieci mesi e che poi, ambiguamente,
ha denunciato lo stupro solo per un interesse personale, Agostino che
l'ha disonorata e Tuzia che avrebbe potuto impedirlo, ma che se ne è
andata, lasciandola sola, forse per del vile denaro. In seguito
interrompe ogni rapporto con il genitore, padre geloso, e d'ostacolo,
di cui presto rinnega anche il cognome, nelle opere fiorentine
Artemisia sceglie, infatti, di firmarsi Lomi [92], dal nome dello zio paterno, Aurelio Lomi, anch'egli pittore, che, a Firenze, la introduce negli ambienti giusti.
La sua vita non può che migliorare, la Gentileschi e il marito,
entrambi pittori, frequentano la corte di Cosimo II, che li accoglie
favorevolmente [93], e i salotti fiorentini di coloro che contano [94];
la giovane si riscatta, impara a leggere e, grazie alla protezione del
granduca, Artemisia ottiene un prestigioso riconoscimento, prima ed
unica donna ammessa a frequentare, e dopo di lei poche altre, i corsi
dell'autorevole all'Accademia delle Arti e del Disegno fiorentina [95].
Nella città toscana Artemisia, subito, si distingue per il suo stile
improntato al naturalismo ed arrivano numerose commesse private; lavora
tanto, anche più del marito che non ha le doti della nostra, è
richiesta e celebrata, e guadagna molto, la sua vita e la sua pittura
si rasserenano, lei si emancipa. Da affermata pittrice è molto
ricercata, anche se non riceve incarichi pubblici [96],
sul fronte privato ottiene parecchie soddisfazioni. Il successo
conseguito solleva l'animo combattivo e travagliato della pittrice che
accoglie questo nuovo stato d'animo anche nelle sue opere fiorentine.
Libera da ricordi spiacevoli, lusingata dalle commissioni di nobili e
principi, e compiaciuta dai complimenti di stimati colleghi, Artemisia
acquisisce consapevolezza di sé e delle sue capacità. Firenze, non solo
l'ha accettata, ma la sta accogliendo e celebrando, qui si compie la
trasformazione della tanto chiacchierata ragazza, che diventa una donna
forte, libera, indipendente; ora di lei si parla positivamente, perché
ha dimostrato di non temere la vergogna, e di essere in grado di
affrontare il suo stupratore in un pubblico processo, che la mette alla
gogna, dal quale, però, ne esce vincitrice.
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Fig. 8
Artemisia Gentileschi, Allegoria dell'Inclinazione, 1615-16,
olio su tela cm. 152 x 61, Firenze, Casa Buonarroti.
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Incontra e frequenta Michelangelo Buonarroti il giovane [97],
erede del celebre artista aretino, suo prozio, che la ammira molto e la
incarica, assieme ad altri artisti, di decorare il piano nobile di Casa
Buonarroti [98]. Dietro indicazioni del committente, che si occupa in prima persona dell'ideazione del programma decorativo della residenza [99], Artemisia realizza la tela raffigurante l'Allegoria dell'Inclinazione (fig. 8) [100].
L'apprezzamento del dipinto è tale che Michelangelo le corrisponde ben
34 fiorini, una somma importante e considerevole, il doppio di quanto
venga pagato ogni altro pittore maschio all'opera nello stesso cantiere
[101]. L'olio
riproduce il “talento naturale”, la predisposizione per un'arte in
senso lato, e Artemisia sceglie di impersonare lei stessa tale
attitudine; ha, infatti, le sue sembianze [102] la una giovane donna, completamente nuda [103], riproducente lo schema teorizzato da Cesare Ripa [104], che reca sulla fronte una stella e ha tra le mani una bussola.
La figura replica, specularmente, la posizione della giovanile Susanna (fig. 2) [105], diverge, però da quest'ultima per l'atmosfera estremamente serena e solare, tipica delle opere fiorentine [106].
L'angoscia e la rabbia furibonda, espresse dall'eroina
veterotestamentaria nella tela di Casa Buonarroti, scompaiono
definitivamente lasciando il posto ad una rappresentazione di armonia e
tranquillità, metafora palpabile della situazione psicologica
migliorata che Artemisia trova in Toscana. Nella tela, dunque,
Artemisia, appena ventiduenne, artista compiuta ed ammirata, autonoma
ed indipendente, in pace con sé stessa e lontana dai demoni della sua
giovinezza, celebra serenamente ed assertivamente anche la propria
inclinazione artistica. Nel racconto, specchio di se stessa, traspaiono
efficacemente le proprie emozioni, il proprio sentire e il proprio
vivere la condizione femminile e vi realizza, ancora una volta, una
personificazione del ruolo femminile così come lo intende lei.
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Fig. 9
Artemisia Gentileschi, Giuditta e Oloferne, 1620,
olio su tela, cm. 199 x 162,5, Firenze, Galleria degli Uffizi.
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Allo stesso periodo fiorentino risale la versione degli Uffizi della Giuditta che decapita Oloferne
(fig. 9), in questa scena, d'impatto attenuato dall'allontanarsi del
punto di vista, permane la brutale violenza, della tela del 1612.
La pittrice in questa fase arricchisce le sue composizioni con un gusto
teatrale ispirato, probabilmente, al nuovo genere del dramma che, dalla
fine del Cinquecento, si sperimenta alla corte medicea [107]. La stessa introduzione del punto di vista distanziato della Giuditta
fiorentina (fig. 9), potrebbe derivare dal gusto teatrale del barocco
fiorentino, suggerito dagli intellettuali medicei. L'attenuazione della
violenza del messaggio veicolato dalla tela degli Uffizi, a mio avviso,
dovrebbe, in qualche modo, far riflettere sul tradizionale orientamento
che vede la pittrice desiderosa di sublimare nei quadri il torto subito
e portare ad un livello più profondo la lettura autobiografica della
sua opera: l'autobiografismo va esteso ad ogni fase della sua vita e
non limitato allo stupro. Negli stessi anni, infatti, Artemisia è
capace di riproporre una Giuditta (fig. 5), temibile e aggressiva che riconduce, anche se meno vividamente, all'oltraggio vissuto, e una Giaele
(fig. 7), altrettanto minacciosa, rappresentata in una tranquillità
assordante e caratterizzata da un tenore emotivo pacato ed equilibrato.
In questo caso l'interpretazione del dipinto non può, evidentemente,
rifarsi allo stereotipo della donna stuprata che traspone il suo dramma
nei suoi lavori, qui, infatti, Artemisia, non cadendo nella tentazione
di ricordare la vicenda personale per annichilirne la violenza, si
dimostra più interessata alla resa diversificata di “eroi femmina”,
sempre e comunque potentemente caratterizzati, affrancati da una
cultura che li relega in secondo piano. Il cliché
della donna violentata che trasferisce sulle tele la tragedia vissuta,
va, dunque, superato a favore di una lettura delle sue opere di tipo
autobiografico, che punti solo parzialmente alla vicenda che l'ha
fortificata e che le riconosca il valore di artista che si è
guadagnata, il riconoscimento della propria bravura e del proprio
talento, nonché il merito di aver introdotto una nuova visione,
impensabile per l'epoca, della figura femminile.
Il tema autobiografico, pertanto, deve andare oltre il drammatico
stupro: Artemisia, operando in un'ottica di autoaffermazione,
affrancamento, per raggiungimento di una indipendenza tout court
che, in quei secoli, è monopolio maschile, una volta separata dal
padre, e poi dal marito, diventa promotrice ed imprenditrice di se
stessa [108].
L'artista ora è felice, ha superato la rabbia della giovinezza e guarda
al futuro, non è più la giovane adolescente impaurita e reclusa, ma è
un'artista affermata, ricercata, soddisfatta, autonoma, che primeggia
in un ambiente quasi esclusivamente maschile e che guadagna molto
(forse anche più del marito). Ma, se il periodo fiorentino rappresenta
un momento importante e ricco di soddisfazioni dal punto di vista
professionale, non altrettanto può dirsi sul piano personale. L'artista
ha bisogno di passioni e un amore adultero [109], durato buona parte della sua esistenza [110], con Francesco Maria Maringhi, ricco gentiluomo fiorentino e mecenate degli Stiattesi, rovina il matrimonio [111].
Mantenuto dalla pittrice, Pier Antonio è un compagno leale, si occupa
di lei con attenzione e la protegge, Artemisia sembra sinceramente
affezionata al padre dei suoi figli, ma questo non le può bastare [112]. I due si frequentano sotto gli occhi compiacenti del marito anziano [113].
Di questo intenso e appassionato rapporto amoroso, soprattutto fisico almeno inizialmente, rimangono cinque lettere autografe [114], scritte dalla pittrice nei primi mesi del ritorno a Roma.
«Mio carissimo core
[…] io vorrei che voi veniste qui quanto prima. […] Core, io o ricevuto
da Vostra Signoria una di quelle che son il refrigerio che mi fanno
ritornare da morte a vita, che se vi fusse noto la legreza che io
sento, io credo certo che se vero che mi volliate bene voi parareste di
alegreza […] sapete puro che so vostra sin'a che durarò avere fiato. Io
no mi strugo se non di non vedervi appresso»[115].
Le parole intense, immediate, esplicite e, talvolta, dolcissime utilizzate, anche in modo sgrammaticato [116]
dall'artista, ci parlano di una “passione fisica assai sensuale”,
altresì ci consentono di penetrare in profondità nel suo spirito
complicato di donna ambiziosa, laboriosa, intelligente, forte, avida,
capace di avvilenti meschinità e di slanci generosi. Le epistole sono,
infine, un documento fondamentale per ricostruire la vicenda di
affermazione professionale della nostra nella capitale pontificia [117].
Il matrimonio, combinato dal padre per restituire onore alla figlia, è comunque generativo [118]: Artemisia ha quattro figli [119],
sopravvive solo una bimba, Prudenzia, chiamata come la nonna, che viene
avviata alla pittura, ma che non ottiene i risultati della madre,
d'altra parte il confronto con l'opera potente e forte della maestra
non è facile.
Ma l'indole agguerrita, ostinata e appassionata della pittrice non le
consente di godere a lungo della situazione, Artemisia non riesce a
stare fuori dai guai: ama il lusso spende tutto ciò che guadagna in
perle, broccati e oggetti sfarzosi, vive al di sopra delle proprie
possibilità, si indebita e chiede prestiti in continuazione [120]. Per sfuggire alle azioni legali dei creditori, la pittrice ricorre alle sue conoscenze [121],
ma ad un certo punto la condizione debitoria della coppia precipita ed
Artemisia scrive una lettera, in data 10 febbraio 1620, al granduca
Cosimo II domandandogli il permesso di «trascorrere qualche mese a Roma
tra i miei», adducendo come motivazione la necessità di rimettersi da
«molte mie indisposizioni passate alle quali si sono giunti anche non
pochi travagli della mia casa e famiglia» [122].
Con la scusa di far visita ai parenti a Roma, Artemisia torna nell'Urbe [123].
Dal 1620 al 1626 la pittrice è nella città natale, registrata assieme alla figlia e alle domestiche senza marito [124].
La capitale è molto cambiata come, del resto, lo è lei stessa: ora è
una professionista affermata e stimata da molti, signori, mecenati, e
persino colleghi che lavorano nella presso la corte papale. Qui, però,
non si trova bene, dopo la fuga del Caravaggio, l'ambiente artistico si
è attestato su uno stile di stampo carraccesco-classicistico che non le
si confà, inoltre, non perde il vizio di contrarre debiti, per cui,
assillata nuovamente dai creditori, quando la questione diventa
insostenibili decide di abbandonare la città alla ricerca di commesse
per saldare i debiti. Inizialmente va a Genova poi a Venezia
(1627-1630), quindi, nuovamente a Roma e, infine, nel 1630, approda
Napoli, città dove rimane, salvo una breve parentesi londinese, fino
alla morte (1653).
Nella città partenopea si trova bene, è un luogo vivo in pieno fermento
culturale, fiorente di cantieri e appassionati d'arte, trova
possibilità lavorative insperate. Qui risiedono molti artisti orientati
al caravaggismo [125], in
linea, dunque, con il suo stile violento e chiaroscurato. Ha sempre
bisogno di denaro, ma entra in un giro giusto ed ottiene commesse anche
piuttosto importanti. Lavora per l'imperatrice Maria d'Austria e per le
altre teste coronate d'Europa, diventando una protagonista della scena
artistica europea. Le cose vanno bene, Artemisia ha la sua bottega che
diventa il punto di riferimento per il caravaggismo napoletano, i
giovani artisti si recano a conoscerla per imparare da lei, una donna,
figlia del Gentileschi, al servizio delle famiglie reali, che ha
conosciuto Caravaggio e che ha visitato le più importanti città
italiane (Firenze, Roma, Genova e Venezia).
Dove si reca eccelle, è camaleontica, senza mai scadere
nell'imitazione, assorbe e rielabora tutti gli stimoli culturali ed
artistici che le si parano di fronte.
La Gentileschi plasma il suo stile aggressivo agendo liberamente sui
principali orientamenti del momento, per adattarli alle sue personali
inclinazioni: passa dal caravaggismo romano alla fiorentinità più
esasperata poi dal caravaggismo al classicismo napoletano con un tale
virtuosismo che non ha eguali tra i suoi contemporanei. In ogni periodo
della sua arte trova ispirazione nelle opere dei colleghi eccellenti:
il padre Orazio, Caravaggio, Rubens senza mai rinunciare alla sua
personalissima reinterpretazione sia dei temi biblici che classici.
Intanto Orazio, all'apice della sua carriera, dopo essere stato a
Genova, va in Francia, alla corte di Maria dei Medici, poi, nel 1626,
in Inghilterra presso la corte di Carlo I Stuart, collezionista di
opere d'arte ed estimatore del Rinascimento italiano [126], ma il sovrano vuole anche la figlia [127],
Orazio le scrive, lei non vorrebbe, ma non può dire di no ad un re, nel
1638 arriva a Londra, dove rimane per quasi tre anni, lavorando,
inizialmente, con il padre al soffitto della Queen's House.
A Londra (1638-1640), forse incontra Orazio, che muore quasi subito dopo il suo arrivo (7 febbraio 1639) [128].
Artemisia si mette al lavoro, i ruoli si sono capovolti ora lei è
l'artista richiesta la “pittora” e lui, il vecchio maestro, lo
strumento per farla giungere in Inghilterra, la assiste. I due si
ritrovano legati da un rapporto di collaborazione artistica, Orazio,
però, inaspettatamente muore.
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Fig. 10
Artemisia Gentileschi, Allegoria della pittura, 1630,
olio su tela cm 96,5 x 73,7, Windsor Castle, Royal Collection.
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Dopo la morte del padre, Artemisia si trattiene ancora un po'; di questo periodo è l'Autoritratto nelle vesti dell'allegoria della pittura (fig. 10) [129].
L'ambiente, però, non le piace e non si sente a suo agio: l'Inghilterra
puritana non la accetta, lei è la figlia di Orazio papista e cattolico [130].
Alle prime avvisaglie di guerra civile, tra il 1640 e il 1641, torna a
Napoli, in quella realtà complessa e difficile, nella quale, però, si
sente viva, e dove rimane per il resto della sua esistenza.
A Napoli ha ancora molti legami, in particolare don Antonio Ruffo di
Sicilia, collezionista, mecenate, mentore e committente del secondo
periodo napoletano (1642-52). La ricca corrispondenza tra i due ci
consente di ricostruire gli ultimi anni di vita della pittrice. Il suo
successo a Napoli continua ed è, oltre che immediato, di altissimo
prestigio; riesce a costruire con abilità la propria carriera,
raggiungendo riconoscimenti senza precedenti nell'ambito della pittura
femminile. Eccezionale testimonianza di questa sua naturale aspirazione
ad affermarsi autonomamente sono le tredici lettere che la nostra invia
all'amico Ruffo, tra il gennaio del 1649 al gennaio del 1651, in cui la
pittrice questiona col committente circa i prezzi dei suoi quadri,
accusandolo di sottovalutare le sue opere perché creazioni di una
donna, «il nome di donna fa star in dubbio finché non si è vista
l'opera» [131] scrive nel 1649 a proposito della sua Galatea. In seguito, a proposito di una Caccia di Diana, promette che gli avrebbe mostrato «quello che sa fare una donna sperando di darli grandissimo gusto» [132], e che lei rappresenta «un animo di Cesare nell'anima di una donna» [133].
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Fig. 11
Artemisia Gentileschi, Susanna tra i vecchioni, 1649,
olio su tela, cm. 205 x 168, Brno, Moravska Galerie.
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Le tele di cui si parla oggi sono disperse, ma per comprendere lo
stile dell'ultima Artemisia, più orientato ai modi devozionali di tipo
classicista napoletano, possiamo rifarci al prezioso olio della Susanna tra i vecchioni (fig.
11), del 1649: da un confronto, inevitabile, con l'omonimo quadro del
1612 (fig. 2), l'esordio artistico della maestra, salta immediatamente
agli occhi la medesima posizione in torsione della protagonista (nuda,
coperta da un malfermo lenzuolo, con le braccia scenograficamente tese
a respingere l'immorale pressione dei due vecchi giudici, uno dei
quali, dai tratti somatici simili in entrambe le opere, intima la
giovane al silenzio), altresì è lampante la diversità stilistica e di
impaginazione. La scena si svolge in un ambiente aperto, un giardino
fiorito che si affaccia su un paesaggio di sapore arcadico, e non
all'interno di un hortus conclusus in cui la giovane protagonista si sente braccata [134].
Rispetto alla versione del 1612, il punto di vista si allontana, le tre
figure non incombono sullo spazio del pubblico, ma si lasciano ammirare
nella loro interezza, dando una sensazione di maggior respiro e
classicità. Il dipinto del '49 è certamente più in linea con il gusto
estetico della seconda metà del Seicento, più elegante e raffinato,
soprattutto nella ricerca dei dettagli; esprime la volontà della
pittrice di adeguarsi alle richieste di mercato con uno stile, dunque,
in cui i modi tragici del Caravaggio non trovano più spazio: il dramma
e la potenza dell'arte di Artemisia lascia il posto ad un linguaggio
più debole e stanco, ma che va incontro ai gusti dalla committenza di
quegli anni.
Le cagionevoli condizioni di salute e le continue spese per dipingere
la costringono a chiedere spesso aiuti economici «perché le spese sono
molte per tenere queste femine ignude» [135].
L'ultimo periodo è forse uno dei più difficili: la fatica di
un'esistenza vissuta tanto intensamente, l'esaurirsi della vena
artistica e il continuo bisogno di denaro rendono i suoi ultimi quadri,
dal punto di vista creativo, meno immediati e retorici [136].
Artemisia, che muore nel 1653, è seppellita nella Chiesa di San
Giovanni Battista dei Fiorentini di Napoli, sotto una lapide che recita
HEIC ARTEMISIA, in seguito alla risistemazione dell'edificio la lapide e il sepolcro risultano, purtroppo, dispersi [137].
Alla sua morte, nonostante il successo in vita, l'artista è dimenticata [138].
Celebre tra i suoi contemporanei, trascurata per secoli, Artemisia è
riscoperta agli inizi del Novecento dallo storico dell'arte Roberto
Longhi, nell'ambito delle sue più ampie ricerche sul caravaggismo;
durante i suoi studi sul Merisi, lo storico si imbatte in Orazio e sua
figlia e inizia il recupero dell'artista [139].
Anna Banti, moglie del Longhi, si sofferma sulla sua drammatica storia
personale. Negli anni Settanta del secolo scorso, Artemisia ha goduto
di una sorprendente notorietà internazionale diventando, per la sua
vicenda, la paladina del movimento femminista mondiale [140]
ed emblema della vittima ribelle. Per Germaine Greer, leader del
movimento femminista, Artemisia è «la grande pittrice della guerra tra
i sessi» [141]. Tale giudizio, di natura ideologica [142],
è estremamente riduttivo e si è cristallizzato sulla figura
dell'artista a tal punto da non consentire a lungo nuove
interpretazioni sul personaggio.
A lungo i due indirizzi di indagine dell'operato dell'artista
(l'inclusione della Gentileschi nella cerchia dei seguaci di Caravaggio
e la lettura in chiave femminista data alle sue opere) [143] hanno monopolizzato e bloccato le ricerche sulla pittrice.
Recenti interventi critici e riflessioni, però, hanno messo in
discussione ed in crisi la lettura della personalità in chiave
femminista, consentendo una rivisitazione della sua opera e
dell'artista: una donna del ‘600 che lavora, con successo e in maniera
rivoluzionaria, in un contesto ostile e quasi del tutto declinato al
maschile (quello della società del Seicento). Comunque,
l'interpretazione iconica femminista del Novecento ha avuto una sua
utilità: quella di rendere popolare un'artista altrimenti dimenticata.
Artemisia, donna talentuosa, forse la più brava in Italia, realizza
opere potenti che affermano autoritariamente un ruolo di donna diverso
da quello riservato al genere femminile nel Seicento, i suoi quadri, le
sue efficaci eroine dichiarano al mondo che non accetta la subalternità
cui è condannata e da cui, evidentemente, è stata capace di
affrancarsi. Nei suoi lavori la vicenda storico-biblica passa in
secondo piano ed emergono prepotentemente archetipi femminili sganciati
dagli stereotipi del tempo.
Le sue vigorose rappresentazioni riflettono, autobiograficamente, la
sua vita di donna che, da assistente del padre, passando per una
vicenda di violenza personale, si allontana da tutti coloro che, nella
cultura del XVII secolo, avrebbero dovuto proteggerla, e che forse, se
non avesse preso le distanze, non le avrebbero consentito
l'emancipazione, e diventa un'imprenditrice di se stessa ante litteram, in grado di amministrare la sua vita privata e lavorativa [144]. A dispetto dei problemi che il destino le ha riservato [145],
non si è mai arresa, combattivamente è andata avanti ed ha saputo
rielaborare positivamente le vicende vissute assurgendo, ad esempio, ad
artefice del proprio destino. Non è stato facile, non è stato semplice
ma ce l'ha fatta. Artemisia, una donna pioniera, coraggiosa e
battagliera, dimostra di essere predisposta, per propensione
caratteriale, ad affrontare le complicazioni riservatele dalla vita;
fiera e consapevole di sé e delle sue possibilità, è certamente dotata
di autostima, e anziché cedere agli aspetti traumatici della sua
esistenza, si libra in aria e conquista ciò cui solo un uomo può
ambire: diventa famosa, tracciando da sola, il suo successo come una
vera imprenditrice [146].
Conscia delle sue qualità Artemisia innova, a sua immagine e
somiglianza, la rappresentazione della donna, e lo fa sotto una luce
nuova, certamente autoreferenziale.
La vera Artemisia, allora, non è la vittima ribelle, ma la donna
artista professionista, capace di promuovere se stessa e il proprio
lavoro improntato al realismo più moderno ed originale ed incline alla
sperimentazione [147].
Chiaramente l'indole energica della nostra, manifestatasi già prima del
“fattaccio”, si fortifica fino a prendere il sopravvento e a creare le
condizioni necessarie per un'affermazione professionale fino ad allora
sconosciuta per una donna. A partire dalla Susanna
(fig. 2), quindi, le sue opere si popolano di potenti, vivide, forti ed
intense figure femminili specchio intimo di sé e del suo modo di porsi
nella società del tempo [148].
La sua arte, nonostante i pregiudizi e le limitazioni cui deve
attenersi, libera la donna dal ruolo secondario, di figlia, moglie,
madre, riservatole dalla cultura contemporanea, e, nel perseguire il
suo desiderio di indipendenza, mette in scena donne capaci, artefici
del proprio destino, e simili a lei, che si è risollevata e che cammina
a testa alta reclamando un ruolo inedito per la sua epoca.
NOTE
[1] In seguito al
decesso del padre Giovan Battista Lomi, Orazio, appena dodicenne, con
il fratello maggiore Aurelio, anch'egli pittore, vengono a Roma.
Aurelio rientra a Pisa, mentre Orazio, preso sotto la tutela dello zio
materno Francesco Gentileschi, capitano delle guardie a Castel S.
Angelo, si trattiene in città. La Roma pontificia, all'inizio del
Seicento, è una capitale culturale estremamente vivace e stimolante, un
luogo in cui, chi si occupa di arte non può non recarvisi, paragonabile
all'Atene di V secolo a.C. o alla Parigi della Belle époque.
[2] Come si definisce lei nelle sue lettere.
[3] Il rapporto
con suor Graziella, una delle poche relazione significative avute dalla
giovane Artemisia, è segnalato nel lavoro di Agnese Signorelli che
parla di «un rapporto come tra madre e figlia», del sostegno ricevuto
dalla suora in giovane età e dell'appoggio, durante il processo, che
l'aiuta a sopportare l'onta del procedimento, il disprezzo pubblico e
le calunnie conseguenti, che, infine, invita la giovane a vivere una
vita coniugale tranquilla ed affettuosa, pur senza passione amorosa
(cfr. SIGNORELLI 2011, p. 23).
[4] Gli altri
fratellini sono già prematuramente scomparsi. Rimangono in vita
Francesco, con cui vive a Napoli assieme alla figlia Prudenzia, Giulio
e Marco.
[5] Nel Seicento
le donne hanno un ruolo di subalternità, sono sottoposte all'autorità
parentale del marito, del padre o dei fratelli, sono considerate una
proprietà di cui disporre, non hanno capacità giuridica, le uniche
alternative di vita rispettabili sono la monacazione o il matrimonio.
[6]
Impossibilitata ad uscire da sola dalla propria abitazione, le è
concesso di andare a messa, solo all'alba, in compagnia di Tuzia, la
vicina a cui è affidata da Orazio. Uno stralcio della deposizione di
Tuzia del processo per stupro, in cui è coinvolta la nostra, chiarisce
circa la situazione in cui vive Artemisia: «Cominciava ad albeggiare
quando l'ho portata a passeggiare a San Giovanni in Laterano. Era molto
presto, faceva ancora buio, perché il padre era geloso della figlia e
non volea che la vedessero» (cfr. Atti del processo, deposizione del
23/03/1612, ASR, TCG, PROCESSI, SEC. XVII, FF 84-189).
In diverse testimonianze scritte (lettere e documenti) Artemisia
racconta di essere «sgattaiolata fuore» per poter andare a studiare ed
osservare le opere di Caravaggio, amico e frequentatore della casa
Gentileschi. Artemisia, dunque, dovrebbe aver conosciuto direttamente
il Merisi e potrebbe addirittura averlo visto all'opera (cfr. LAPIERRE
2000, p. 413).
[7] Dai documenti
del processo intentato dal Gentileschi al Tassi per la violenza sulla
figlia emerge che, senza permesso, e inizialmente osteggiata, Artemisia
inizia prestissimo a cimentarsi nella pittura. Niccolò Bedino,
apprendista del padre Orazio, nella sua testimonianza, dichiara che
Artemisia a soli tre anni gioca con i colori e posa per il padre, e
che, già dal 1609, la giovane dipinge in maniera autonoma facendo
esercizi di pittura che ritraggono l'amica e vicina Tuzia assieme al
figlio (da quest'incontro scaturisce la tenera ed emozionante tela
della Madonna con Bambino
della Galleria Spada, fig. 1). Due anni dopo il Bedino stesso prepara i
colori e li miscela per la ragazza (cfr. AGNATI 2001, p. 7).
[8] Tra ‘500 e
‘600, in Italia le donne artiste sono rare; è permesso loro di ritrarre
oggetti, nature morte e di fare ritratti, si tratta di artiste
eccellenti, alcune delle quali giungono ad una certa fama, diventando
anche pittrici di corte (Lavina Fontana, Sofonisba Anguissola, Fede
Galizia, la Tintoretta Maria Robusti ed Elisabetta Sirani). Ma
Artemisia è diversa, ha un carattere forte, dominante, si vuole
emancipare. Non accetta il ruolo secondario, in cui è relegata la donna
nel XVII secolo, e lo dimostra ampiamente con la sua opera: in essa si
afferma la sua personale attitudine a innovare potentemente ed
assertivamente la figura femminile, che assume prepotentemente, in
contrasto con la tradizione grafica del tempo, che vede la donna figura
necessaria, ma di contorno, mai protagonista, ruoli dominanti di primo
piano. I soggetti tradizionali sono, dunque, trattati in maniera
diversa, sfrontata, le sue eroine non vivono la scena perché partecipi
del racconto, ma agiscono e predominano in maniera violenta ed
autoritaria. Con Artemisia, pertanto, si assiste all'innovazione
dell'iconografia di certi soggetti femminili, che vengono ineditamente
caratterizzati nei volti e nelle espressioni grazie alle capacità della
pittrice che lavora con una certa efficacia sui tratti dei visi e
sull'uso dei colori, particolarmente accesi, e capaci di toccare le
emozioni.
[9] Non è un caso che il Vasari, nelle sue Vite,
affermi che le pittrici/artiste donne sanno fare solo ritratti perché
«hanno una lunga consuetudine con lo specchio». Artemisia, però, si
distingue dalle sue valenti colleghe (Lavinia Fontana, Sofonisba
Aguissola, Galizia Fede) perché non realizza solo ritratti, ma lavora
su temi e soggetti veri (vicende bibliche neo o vetero testamentarie,
temi storici e mitologici).
Si confronti il giudizio di Longhi nel suo articolo del 1916 riportato in nota [139].
[10] Cfr. nota [6].
[11] Artemisia
si rivela fin da subito un'artista straordinaria; cresciuta nel clima
caravaggesco, matura uno stile orientato ad un certo naturalismo,
appreso dai modi paterni, ed impregnato di passione e sensualità, che
dà alle sue tele una spiccata audacia (cfr. MANN 2011).
[12] Poiché è solita preparare tele e colori fin da piccola (cfr. nota [7]),
il fatto di poter accedere, senza motivi particolari, allo studio del
padre mentre questi lavora è un'abitudine che le consente di studiare
lo stile paterno e di “rubare”, con la sua attenta osservazione,
immagini anatomiche, altrimenti ignote, per poi esercitarsi in privato.
[13] D'altronde
Artemisia è solita posare per il padre sin da bambina. La consuetudine,
di matrice caravaggesca, di ritrarre amici e popolani anziché modelli
di professione in pose innaturali, presto si afferma nella bottega
Gentileschi e comporta per la nostra la predisposizione ad analizzare,
senza alcun tipo di remora di stampo puritano e senza malizia il suo
corpo.
[14] Il padre
Orazio, pisano di nascita, si forma alla scuola del fratellastro
Aurelio Lomi seguendo, dunque, una solida formazione di tipo toscano,
tardo-manierista. Molto giovane si trasferisce a Roma, attratto dal
fascino della città pontificia. Alla decisa impostazione di tipo
toscano, dopo l'incontro con il Merisi, il Gentileschi matura un
naturalismo di tipo caravaggesco, mediato, però, dalla sua tipica ed
inconfondibile raffinatezza formale, giungendo alla sua vera ed
inconfondibile sigla stilistica basata su colori chiari e dolci.
L'incontro con Caravaggio, dunque, gli consente di elaborare quel “non
so ché” che fa la differenza: un naturalista di solida formazione
toscano-pisana. è bene sottolineare che il Gentileschi non è un
imitatore del Caravaggio, ma un naturalista elegante e straordinario,
dotato di tecnica e capacità in grado di miscelare le diverse
componenti stilistiche. Reinterpreta attraverso i colori, e con una
delicatezza tutta personale, la luce violenta introdotta in modo
rivoluzionario dal maestro lombardo. Le sue opere, tra il 1600 e il
1605, lo provano: mostrano, infatti, il passaggio dal tardo manierismo
al suo primo naturalismo di grande fascino e qualità artistica.
Artemisia si inserisce proprio in questo momento particolarmente vitale
e positivo. La giovane, pur avendo osservato il padre sin da piccola,
esordisce e si avvicina alla pittura proprio nella fase artisticamente
più significativa, innovativa e felice del padre, quella successiva
all'incontro con il Caravaggio, quella della maturazione e
dell'elaborazione della personale cifra stilistica.
[15] Orazio, che
non ha nemmeno una vera bottega, dipinge in casa; questa condizione,
durante il processo, viene strumentalizzata ed usata come mezzo per
mettere in cattiva luce la giovane: si parla di ambiente promiscuo ed
ambiguo, frequentato da artisti, amici, modelli, non adatto ad una
ragazza per bene.
[16] Agostino
Tassi, maestro di prospettiva, dopo un peregrinare burrascoso ed
oscuro, giunge a Roma, si dice, per evitare la prigione (cfr. AGNATI
2001, p. 7).
[17] L'incontro
che ha certamente segnato l'esistenza di Artemisia, violentata ed
umiliata in un pubblico scandalo, a mio avviso, ha innestato un
meccanismo virtuoso grazie al quale si è attivato quel processo di
maturazione artistico-stilistica che ha portato la giovane a certi
esiti.
[18] Agostino ed
Orazio sono una coppia perfetta: il primo costruisce architetture
vertiginose e paesaggi perfetti, mentre il secondo ne popola ed anima
le realizzazioni con le sue figure eleganti e naturali.
[19] Giovan Battista Passeri, il suo primo biografo, nelle Vite de' pittori, scultori, ed architetti che ànno lavorato in Roma, morti da 1641 al 1673 (PASSERI 1772, ad vocem),
ne fa un ritratto morale, molto poco edificante: afferma che il Tassi,
noto in tutta Roma come “lo smargiasso”, sia un patologico bugiardo e
si faccia chiamare “Cavaliere”, pur non avendone titolo.
[20] Agostino,
notevole paesaggista e pittore di marine, specializzato in prospettive
illusionistiche, non è solo uno dei più famosi frescanti presenti a
Roma all'inizio del Seicento, ma è un imprenditore ante litteram,
capace di tenere e coltivare i contatti giusti come un moderno PR e di
trovare subito un mecenate potente, il cardinale Scipione Borghese,
nipote del papa Paolo V.
[21] Tuzia era
diventata per la giovane un'amica, una confidente; nel processo,
accusata da Orazio di aver lasciato sola la figlia, replica di aver più
volte visto i due in atteggiamenti ambigui e lascivi. Pertanto Tuzia
passa dall'essere un'amica e protettrice a vestire i panni della
mezzana; è probabile, infatti, che aiuti il Tassi nel suo intento di
sedurre la giovane.
Gli atti del processo, intentato da Orazio contro Agostino, per la
violenza sulla figlia, riportano che Tuzia è spesso presente con i suoi
figli in casa Gentileschi e che abbia anche posato per Artemisia
assieme al figlio più piccolo. Tale circostanza è avvalorata da esiti
pittorici quali la Madonna con Bambino della
Galleria Spada (fig. 1); la tela è caratterizzata da una certa vivacità
espressiva e da un'inedita immediatezza riconducibili all'osservazione
diretta di un vero rapporto emotivo tra un bimbo e sua madre (cfr. nota
[7]).
[22] Artemisia aveva appreso questa pratica di dipingere da un
modello dal vivo, non in posa accademica, dal padre, che a sua volta
l'aveva mutuata dal modus operandi di Caravaggio (fuggito da Roma nel
1606, sarebbe poi morto nel 1610). Verosimilmente la giovane ha
conosciuto personalmente il maestro e, ragionevolmente, lo ha forse
osservato lavorare alle sue opere. Amico del padre (i due risultano
come testimoni nel processo per calunnia, intentato da Giovanni
Baglione contro il Merisi), Michelangelo frequenta la casa di Orazio,
come molti altri amici artisti, «amico anche di bisbocce, bazzicavano
insieme le taverne» (cfr. LAPIERRE 2000, p. 400). Si pensa, inoltre,
che il Caravaggio abbia ritratto l'amico pittore nella Vocazione di San Matteo in San Luigi dei Francesi.
[23] L'opera, databile al 1608-1609, è una delle prime realizzazioni documentate della Gentileschi.
[24] Si noti, per esempio, il felice particolare dei capelli biondi del bambino.
[25] GARRARD 1989, pp. 19-20.
[26] Cfr. nota [15].
[27] AGNATI 2001, p. 7.
[28]
L'opera, datata sul podio “1610”, risale a quando Artemisia ha solo
diciassette anni ed ha da poco incontrato Agostino Tassi. Per via della
giovane età della pittrice, la tela è stata a lungo attribuita al
padre, non sembrava, infatti, plausibile che una giovane quindicenne
potesse concepire un'opera tanto intensa e potente (ma la gamma di
colori utilizzata è diversa da quella paterna, e suggerisce già una
precoce autonomia stilistica della ragazza). La datazione dell'opera in
passato è risultata molto controversa anche a causa di fonti
discordanti sulla data di nascita di Artemisia: si è scoperto
recentemente che Orazio, per impietosire il giudice al processo, mente
sull'età di Artemisia al momento della violenza, attribuendole appena
quindici anni, collocandone la nascita, quindi, nel 1597 (cfr. CONTINI,
PAPI 1991, p. 34).
Attualmente la critica concorda sull'autografia della pittrice, ma la
maturità stilistica riscontrabile nella tela solleva qualche dubbio
sulla cronologia, per cui una parte della critica ha pensato di
postdatare il quadro al 1616; lo stile del periodo fiorentino, il
linearismo e il modo di costruire i corpi e i volumi concorderebbero,
mentre contrasta con questa ipotesi il messaggio negativo di cui il
dipinto è latore (il momento fiorentino, infatti, è particolarmente
sereno e felice). Altri ancora hanno ritenuto che l'opera potesse
risalire all'epoca del processo, in questo caso il messaggio veicolato
si conformerebbe al momento particolarmente difficile vissuto dalla
ragazza. Se così fosse, nelle intenzioni di chi ha apposto la data, si
potrebbe ravvedere la volontà di sottolineare l'incidenza negativa del
trauma che l'evento potrebbe aver avuto sulla carriera di un enfant
prodige. Infine, c'è chi reputa che Artemisia stessa abbia voluto
retrodatare il quadro al 1610 per alludere all'inizio dell'oppressione
subita da figure troppe ingombranti per la sua esistenza di donna e di
pittrice.
[29] Dal Libro di Daniele (13, 5-3).
[30] Il rigore
del disegno anatomico e la postura dei personaggi potrebbero risalire
agli insegnamenti di Michelangelo Buonarroti. Certamente Artemisia ha
l'occasione di visitare e studiare la Cappella Sistina (cfr. VALLINO,
MONTARULI 2015, p. 182).
[31] Tradizionalmente le vicende bibliche sono un pretesto utilizzato, soprattutto dalla Chiesa, per docere
vizi e virtù, in questo caso impersonati rispettivamente dai vecchioni
e da Susanna, esempio di virtù che non cede al vizio. Non è la tipica
rappresentazione della seducente e bella Susanna che si incontra nella
storia dell'arte: questa donna è spaventata non ha il controllo della
situazione (come Artemisia). Nell'opera si assiste già al ribaltamento,
che l'artista perfeziona successivamente, del ruolo dell'opera d'arte:
non più strumento d'insegnamento, ma mezzo di affermazione e di
affrancamento del femmineo.
[32] Si noti che
quando si parla di opere autobiografiche in Artemisia il senso è da
ricondurre non solo al suo passato travagliato, ma anche al fatto che
spesso si autorappresenta letteralmente nelle vesti dei personaggi da
lei creati. L'autobiografia delle sue opere, dunque, non è solo
spirituale e metaforica, ma anche fisico-letterale.
[33] L'episodio
non è visto in prospettiva, dal di fuori, ma si tratta di una vicenda
intima, vissuta in prima persona dalla protagonista Susanna.
[34] Artemisia
evidentemente sta passando un momento difficile, elemento che traspare
dalla concitazione del dipinto che mette a disagio il pubblico. Si
rammenti che nel maggio dell'anno successivo la giovane sarebbe stata
stuprata da Agostino Tassi.
[35] I tratti
somatici del Gentileschi sono noti attraverso un'incisione realizzata
dal ritrattista Anthon Van Dyck, che Orazio conosce personalmente.
[36] L'insolito
particolare di un vecchione giovane, per di più con i tratti somatici
del Tassi, confermerebbe l'intento dell'artista di riprodurre sulla
tela la situazione di malessere in cui Artemisia vive. Il soggetto del
quadro è caratterizzato da una barba nera come quella che, secondo
alcune fonti, sembra aver avuto il quadraturista. Contro questa ipotesi
c'è la deposizione della sua sorellastra, Donna Olimpia, che testimonia
nel processo intentatogli contro descrivendolo «piccolotto, grassotto
et di poca barba» (Archivio di Stato di Roma (ASR), Tribunale criminale
del governatore (TCG), Processi, sec. XVII, b. 62, f. 111). In
quest'ottica il dipinto diventerebbe uno strumento di confessione e
riflessione privata, come una sorta di “diario segreto”.
[37] Dagli atti
del processo pubblico si apprende che il Tassi, durante una
deposizione, afferma che spesso Artemisia si lamenta del comportamento
geloso del padre che la tratta come una moglie (cfr. CONTINI, PAPI
1991, p. 21).
[38] 9 maggio 1611.
[39] ASR, TCG, Processi, sec. XVII, b. 104, ff. 17-22.
[40] A seguito
della denuncia di Orazio, infatti, Tuzia è arrestata per lenocinio e
rimane in prigione per 15 giorni, lasciando i tre figli nella casa del
Gentileschi (cfr. LAPIERRE 2000, p. 411).
[41] AGNATI 2001, p. 8.
[42] La
complicità tra donne, tema ricorrente nell'opera della pittrice, serve
forse a compensare il dolore di un'amicizia tradita, quella di Tuzia,
vicina di casa, amica e modella, che durante il processo è accusata di
favoreggiamento.
[43] Libro di Giuditta.
[44] Artemisia
ha certamente visto l'opera di Caravaggio (1598-1599), e ne viene
probabilmente influenzata, ma recepisce il modello e ne dà
un'interpretazione assolutamente originale e personale..
[45] JULLION, BULFONI, SICA 2012, p. 110.
[46] Gli amori
di Giove prevedono che il dio, per attuare i suoi propositi carnali, si
trasformi in qualcosa che non costituisca pericolo per le amanti, che
altrimenti morirebbero. Nel caso di Danae, Giove si trasforma in monete
d'oro.
[47] In maniera ribaltata, poiché si delinea una donna forte e un uomo mite, addormentato, che soccombe.
[48] Si vedano note [39] e [40].
[49] Il motivo è
che è già maritato con una certa Maria Cannodoli sposata a Livorno,
dopo averla disonorata. La donna, dopo maltrattamenti, violenze ed
infedeltà, decide di lasciarlo e scappa con un mercante di Lucca. Il
Tassi ha, infatti, intrattenuto rapporti equivoci con la sorella minore
di Maria, Costanza, rimasta incinta appena quattordicenne e fatta
sposare, per coprire la gravidanza, dal suo allievo Filippo Franchini,
dietro ricompensa di 25 fiorini. Il legame tra i due non finisce, tanto
che, trasferiti a Roma, il Tassi vive in casa Franchini un menage à trois.
Accusato dalla sorella Olimpia di adulterio (giacere con la sorella
della moglie nella Roma dell'epoca è l'equivalente di un incesto),
Agostino rischia l'impiccagione, ma l'uomo è ben introdotto e può
vantare le conoscenze giuste che gli consentono di uscir di prigione
dopo un breve e sommario processo (per approfondimenti sul processo
cfr. ASR, TCG, Processi, sec. XVII, b. 62). Nel frattempo la moglie è
uccisa da sicari e i sospetti cadono sul Tassi (cfr. FERRARETTO 2015,
p. 16, n. 31).
[50] Con la
consulenza del notaio Giovan Battista Stiattesi, Orazio denuncia il
Tassi con una supplica, scritta dallo Stiattesi, al papa Paolo V, per
istituire il processo contro il violentatore della figlia. Il ruolo del
notaio è stato a lungo considerato secondario, recentemente, però, la
Lapierre ha avanzato l'ipotesi secondo la quale il processo per stupro
e lenocinio ai danni del Tassi non sia un regolamento di conti tra il
Gentileschi ed Agostino, piuttosto tra Cosimo Quorli e lo Stiattesi.
Dalle sue ricerche, infatti, la presenza del notaio, apparentemente
marginale, si rivela piuttosto ingombrante e risolutrice (cfr. LAPIERRE
2000, pp. 423-425).
Nella supplica il Gentileschi accusa della deflorazione di Artemisia il
Tassi, la pigionante Tuzia complice della vicenda, nonché il suo amico
Cosimo Quorli per essersi reso complice e di aver trafugato alcuni
quadri, firmando una falsa cessione a nome di Artemisia (cfr. MENZIO
2004, p. 11).
[51] «Beatissimo
Padre Horatio Gentileschi Pittore, humilissimo servo della Santità
Vostra, con ogni reverentia Le narra come per mezzo et a persuasione di
Donna Tutia sua pigionante; una figliola del'oratore è stata
forzatamente sverginata et carnalmente conosciuta più volte da Agostino
Tassi pittore et intrinseco amico et compagno del'oratore, escendosi
anche intromesso in questo negotio osceno Cosimo Quorli suo furiere;
Intendendo oltre allo sverginamento, che il medesimo Cosimo furiere con
sua chimera habbia cavato dalle mane della medesima zittella alcuni
quadri di pittura di suo padre et inspecie una Iuditta di capace
grandezza; Et perché, Beatissimo Padre, questo è un fatto così brutto
et commesso in così grave et enorme lesione e danno del povero oratore
et massime sotto fede di amicitia che del tutto si rende assassinamento
et anco commesso da una persona solita commettere peggio delitti di
questo, essendoci stato fautore il detto Cosimo Quorli. Però genuflesso
alli sua Santi piedi la supplica in visceribus Christi a provedere a
così brutto escesso con li debiti termini di giustizia contro a chi si
spetta, perché oltre al farne gratia segnalatissima, ella sarà causa
che il povero supplicante non metterà in rovina li altri suoi figliuoli
et gliene pregherà sempre da Dio giustissima ricompensa» (cfr. ASR,
TCG, Processi, sec. XVII, b. 104, f. 4).
[52] JULLION, BULFONI, SICA 2012, p. 106.
[53] Gli atti
processuali raccontano di dissapori sopraggiunti tra i due a causa del
furto di alcuni quadri, in particolare, nella supplica (cfr. nota [51]), si parla di una Giuditta
di grande formato e di un certo valore, sottratta, al Gentileschi, con
la collaborazione dell'amico Cosimo Quorli, contabile papale e
pretendente alla paternità di Artemisia, che nel mentre intrattiene i
figli di Orazio assente (cfr. LAPIERRE 2000, p. 409).
[54] Tanto più
che la denuncia e il processo mettono Artemisia sulla bocca di tutti
(donna violata e sospettata –ingiustamente- di immoralità). Infine, si
consideri che, scontata la condanna, Agostino e Orazio tornano amici e
colleghi.
[55] Cfr. nota [51].
[56] Cfr. nota [52].
[57] C'è anche chi ritiene che Orazio abbia aspettato di concludere il lavoro per Scipione Borghese sul Quirinale.
[58] Il reato di stupro, o stuprum,
nella normativa del Seicento, è inteso come deflorazione di donna
vergine o come rapporto sessuale dietro promessa di matrimonio non
mantenuta. Nella società della Roma del Seicento dunque, viene valutato
e punito secondo criteri pertinenti l'integrità socio-morale e non la
dignità della persona, ciò comporta che la giovane violata possa
ricevere giustizia solo se, attraverso procedure “discutibili”, si
dimostri la deflorazione, segno tangibile della perdita dell'onore.
All'epoca, dunque, per aver giustizia le vittime devono dimostrare di
essere sempre state donne oneste, pure ed attendibili. Ancora
nell'Ottocento i fascicoli dei procedimenti per tale reato recano la
dicitura «processo per violenza carnale commessa con la signorina…»,
come a implicare una correità della vittima. Fino al 1981, poi, il
reato di violenza carnale è considerato estinto, se seguito dal
matrimonio con lo stupratore. Inoltre, risale soltanto al 1996 la legge
che colloca il reato di violenza sessuale tra i delitti contro la
persona, anziché contro la morale.
La società del Seicento e la cultura giurisprudenziale del tempo
prevedono che nei processi per stupro ad essere inquisite, mediante
interrogatorio e tortura, siano le vittime, le donne violentate. A loro
l'onere di dimostrare una pregressa situazione di virginità al momento
del fatto. Nel caso in cui si accerti che la vittima, ancorché
stuprata, non sia pura, non si configurerebbe il reato. A questo mira
il Tassi che, per salvarsi, tenta in ogni modo di diffamare ed
infangare la reputazione della ragazza. Artemisia è analizzata,
interrogata e torturata, ma non modifica mai la sua versione che
reitera sempre con fierezza e nonostante il dolore e l'umiliazione
subiti.
[59] A tal
proposito, nel medesimo fascicolo, in cui è stata rinvenuta la sentenza
di condanna del Tassi, si conserva amche la denuncia di Orazio contro
Niccolò Bedini, il suo apprendista, per falsa testimonianza (cfr. ASR,
TCG, Registrazioni degli Atti, ff. 9v, 26v e 57r).
[60] La tattica
difensivo-offensiva del Tassi è chiara: se riesce a dimostrare di non
essere stato il primo uomo a giacere con Artemisia allora, secondo la
legge papale del Seicento, non può essere giudicato colpevole.La
tattica difensivo-offensiva del Tassi è chiara: se riesce a dimostrare
di non essere stato il primo uomo a giacere con Artemisia allora,
secondo la legge papale del Seicento, non può essere giudicato
colpevole.
[61] Orazio,
infatti, gelosissimo non la fa mai uscire di casa, non gli consente
neanche di andare a messa da sola, e la fa sconvenientemente posare,
anche nuda, per lui. Il loro rapporto è oggetto di voci e malizie.
[62] L'ambiguità che comporta tale espressione fa supporre che vi sia anche un rapporto di tipo incestuoso.
[63] Vero e proprio accanimento tale da configurarsi oggigiorno come vessazione.
[64] Due
ostetriche, cioè, devono testimoniare, in separate dichiarazioni, sullo
stato intimo della giovane: si prevede che le visite avvengano in aula
alla presenza della corte e del pubblico, unico elemento di privacy un lenzuolo appeso tra il lettino e il pubblico/corte.
[65] Al culmine
dell'iter probatorio, è chiesto ad Artemisia, se sia disposta, per
acclarare la verità, a confermare la propria versione anche sotto
tortura. Si tratta del tormento “dei sibilli” (così detta perché
rievoca il mito della Sibilla, la voce della verità, presso l'oracolo
di Delfi), una tortura, in realtà, finalizzata a purificare, tramite il
dolore, la donna! Negli atti del processo viene, infatti, indicata come
«tortura disposta per emendare la colpa».
[66] Tale tipo di tortura è noto che abbia causato anche invalidità permanenti.
[67]
Casualmente, alla fine del processo, Artemisia si unisce in un
matrimonio riparatore proprio con il fratello maggiore di Stiattesi,
Pier Antonio pittore anch'egli, con cui va a vivere a Firenze. A
proposito del notaio si veda nota [50].
[68] Cfr. nota [59].
[69] ASR, TCG, Registrazione di Atti, b. 166, f.101r riformulazione in f. 103r.
[70] ASR, TCG, sec. XVII, b. 104.
[71] La
sentenza, della quale “romanzescamente” si racconta che non esiste, è
stata, invece, rintracciata dalla Lapierre in un fascicolo
dell'Archivio di Stato di Roma, non riguardante il processo, assieme ad
altri documenti relativi al procedimento (la denuncia di Orazio contro
Niccolò Bedino per falsa testimonianza, cfr. nota [61]).
L'atto, datato 27/11/1612, conclude il processo per stupro con una
dicitura ambigua: “sentenza pro” Agostino Tassi, in genere la
dicitura è “sentenza contro” il condannato (cfr. ASR, TCG,
Registrazioni di atti, b. 166, f. 101r). Questa circostanza getta
ulteriore ombra sulla vicenda, tradisce l'ambivalenza dei giudici che,
pur proclamando l'innocenza della giovane, non si esprimono contro il
Tassi, che, comunque, è condannato a cinque anni di esilio, anche se
non risulta si sia mai allontanato da Roma (cfr. LAPIERRE 2000,
pp. 201-202, 438).
[72] MENZIO 2004.
[73] Storia
biblica della giovane e bella vedova Giuditta che si vendica del
generale assiro Oloferne che sta terrorizzando il suo popolo. Oloferne
è attratto da Giuditta e la invita nel suo alloggio, durante il rituale
di corteggiamento e seduzione il vino scorre e il generale si ubriaca,
Giuditta coglie l'occasione per ucciderlo e liberare il suo popolo
(cfr. Libro di Giuditta, 13, 7-8).
[74] Si veda nota [39].
[75] BARTHES 2004, p. 150.
[76] Situazione
che ripropone, in maniera speculare, la vicenda dello stupro perpetrato
dal Tassi ai danni della giovane: «Serrò la camera a chiave e dopo
serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto,
mi mise un ginocchio fra le cosce ch'io non potessi serrarle et
alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi
mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non
gridassi e le mani quali prima mi teneva con l'altra mano mi le lasciò,
havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et
appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise
dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che
lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne
levai anco un pezzo di carne» (cfr. ASR, TCG, Processi, sec. XVII, b.
104, ff. 17-22).
[77] In Caravaggio, dunque, il significato rimane legato al contesto veterotestamentario.
[78] Metaforicamente sgozzato con un gesto catartico di rivalsa, col quale Giuditta si fa giustizia uscendone vincitrice.
[79] Dal punto
di vista stilistico, dunque, si assiste al superamento dell'eleganza di
Orazio, di quel caravaggismo appreso dal padre, e si mette in scena un
episodio caratterizzato da una tragicità inedita, di stampo
autobiografico.
[80] Le donne
nel Seicento hanno un ruolo di subalternità, sono sottoposte
all'autorità parentale del marito, del padre o dei fratelli, sono
considerate una proprietà di cui disporre, non hanno capacità
giuridica, le uniche alternative di vita, per una donna rispettabile,
sono la monacazione o il matrimonio. Artemisia riesce, grazie al suo
talento e al suo temperamento, a sfuggire alle maglie di questo rigido
sistema sociale. La critica, però, interpretando la sua opera alla luce
della sofferta vicenda privata, per molto tempo non ha prestato
attenzione al talento e al temperamento della pittrice, riducendo il
suo lavoro a mera espressione di rivalsa nei confronti di quanto
accadutole.
[81] E allora
ecco che gli episodi biblici diventano un pretesto per creare eroine
emancipate, ossia, i personaggi femminili, solo pretestuosamente
partecipi delle scene biblioco-testamentarie e storiche, diventano,
nell'opera di Artemisia, le vere autentiche protagoniste ed affermano
una sorta di emancipazione femminile ante litteram, che la pittrice vive in prima persona.
[82] Nel quadro
si allude certamente all'aggressione subita: il sangue sul candido
lenzuolo bianco; la violenza impetuosa e brutale dell'azione di
Giuditta; la posizione di Oloferne che, con ruolo ribaltato, ricorda la
modalità dello stupro subito da Artemisia; la violenza fisica e
psicologica vissuta è riflessa nella disumana decapitazione di
Oloferne. Certamente nelle intenzioni dell'artista c'è il tentativo di
mistificare l'evento in segno di vendetta, ma, contestualmente, c'è
anche quell'assordante affermazione del ruolo prioritario rivestito
delle due donne, assolute protagoniste della vicenda.
[83] MAGHERINI 2002, pp. 42-49.
[84] Sul
rapporto tra il processo, lo stupro e i quadri di Artemisia, però, è
stato costruito il suo mito femminista moderno e pertanto è difficile
da prescindervi in una moderna lettura della sua opera.
[85] MENZIO 2004.
[86] La
profetessa Debora ordina a Barak di sconfiggere l'assiro Sisara,
dicendogli che non sarà sua la gloria, ma il Signore lo metterà nelle
mani di una donna (cfr. Libro dei Giudici,
4, 20-21). Sisara sconfitto da Barak in fuga cerca rifugio nella tenda
di Giaele, moglie di Eber il Kenita, trovandovi la morte. Giaele,
infatti, dopo aver attratto nella tenda il generale Sisara, lo trucida
nel sonno, conficcando, violentemente e con una precisione chirurgica,
un chiodo nel cranio, che lo trapassa completamente Si tratta di un
episodio biblico meno conosciuto rispetto a quello di Giuditta, ma
ugualmente rappresentativo di un certo modo di essere donna.
[87]
Dall'oscurità dello sfondo emerge chiaramente solo un plinto, sul quale
si trova la firma dell'autrice e la data del quadro: ARTEMITIA. LOMI /
FACIBAT/ M.D.CXX. La lezione caravaggesca accompagna Artemisia in quasi
tutte le fasi della sua vita.
[88] Contrariamente alla descrizione che ne fa il Manzoni in Marzo 1821: «Quel che in pugno alla maschia Giaele / Pose il maglio ed il colpo guidò».
[89] Solitamente le donne sono raffigurate perchè se ne parla negli episodi, ma non hanno mai svolto una ruolo da protagoniste.
[90] Per tacitare le disdicevoli e calunniose dicerie sulla figlia, e per status
di sufficiente "onorabilità", Orazio, al termine del processo, le trova
un marito e la allontana da Roma: Pietro Antonio Stiattesi, mediocre
pittore, fratello dell'unico testimone a favore di Artemisia (si veda
anche nota [50]).
[91] Ad
Artemisia riscattarsi costa fatica: accetta un matrimonio senza amore,
persegue pervicacemente una carriera che antepone a tutto, vive in
maniera lussuriosa e dissipata, in mezzo ad un lusso che non può
permettersi. In molti non la comprendono e il ricordo dello stupro la
perseguita fino alla morte. I commentatori dell'epoca non chiudono gli
occhi di fronte alla reputazione di una donna che, pur avendo saputo
rendersi libera ed autonoma, porta con sé il ricordo della vicenda
giudiziaria: feroce, sagace ed emblematico, in tal senso, suona
l'epitaffio, che gioca col suo nome («Arte / mi / sia / Gentil /
esca»), dedicatole dai veneziani Giovan Francesco Loredano e Pietro
Michiele: «Co'l dipinger la faccia a questo e a quello / Nel mondo
m'acquistai merito infinito / Nel l'intagliar le corna a mio marito /
Lasciai il pennello, e presi lo scalpello / Gentil'esca de cori a chi
vedermi / Poteva sempre fui nel cieco Mondo; / Hor, che tra questi
marmi mi nascondo, / Sono fatta Gentil'esca de vermi» (LOREDAN,
MICHIELE 1653, ad vocem).
[92] Utilizza il
cognome dello zio paterno che la accoglie e la introduce nei salotti
fiorentini. Nell'ottica di affrancamento perseguita dall'artista, è
interessante notare che non adotta il cognome del marito, ma decida di
firmarsi “Artemisia Lomi pittora”, affermando così il suo diritto a non
essere soggetta, come pittrice, ad altro tribunale che all'Accademia
del Disegno, privilegio che Cosimo I aveva concesso agli artisti.
Quando poi, in seguito a vicissitudini personali, la nostra deve
presentarsi di fronte ad un tribunale mediceo sceglie orgogliosamente
di presentarsi come “Madonna Artemisia Lomi pittora in suo nome
proprio” (cfr. AGNATI, TORRES 1998, p. 28).
[93] Accolta
sotto l'ala protettrice del Granduca Cosimo II, della moglie Maria
Maddalena d'Asburgo, e, soprattutto, della granduchessa madre, Cristina
di Lorena, si inserisce bene nella ristretta cerchia di coloro che
contano, le più alte sfere dell'intellighenzia medicea, partecipa ad
eventi mondani e frequenta i salotti fiorentini dove incontra e
frequenta esponenti importanti dell'aristocrazia, instaura relazioni
con persone di certi ambienti (letterati, intellettuali ed artisti) con
cui intrattiene rapporti di amicizia. Questa circostanza, in futuro, in
momenti di guai, gioca a suo favore, a loro, i suoi committenti ed
amici, infatti, la navigata artista si appella per fruire della loro
benevolenza e cercare di evitare che i guai le si ritorcano contro.
[94] La vita a
corte si rivela un'esperienza positiva, stimolante e fondamentale per
il suo futuro: conosce esponenti importanti dell'aristocrazia ed
instaura relazioni con persone culturalmente elevate, letterati,
illustri nobili, frequenta i salotti intellettuali, incontra e conosce
personaggi come Cristofano Allori, Michelangelo Buonarroti il giovane,
Jacopo Cigognini (scrittore di corte e futuro padrino di Lisabella) e
Galileo Galilei. Con quest'ultimo intrattiene a lungo un rapporto
epistolare di stretta amicizia.
Lo scienziato, giunto a Firenze, nel 1610, dopo essere stato nominato
“filosofo e matematico del Granduca di Toscana”, nutre per la pittrice
una grande stima. La disponibilità dello scienziato nei confronti della
talentuosa pittrice si evince dalla lettera, datata 9 ottobre 1635,
indirizzata al matematico, in cui Artemisia ricorda il suo aiuto speso
presso il granduca Cosimo II, poco prima che morisse, per l'ottenimento
dell'ottimo compenso per la Giuditta
inviata; nella medesima la pittrice si lamenta del granduca Ferdinando
II, succeduto a Cosimo II, per non essere stata omaggiata «dai favori
del suo principe naturale» come lo è stata da altri; chiede, quindi, la
sua intercessione presso il granduca affinché la aiuti ad ottenere la
giusta gratifica per i quadri di grande formato inviati. Riportiamo uno
stralcio della lettera: «già che vedo non parlarsi più di dui quadri
grandi ch'ho mandato ultimamente a S. A. S. per via d'un mio fratello,
quali non so se habbino gradito: solo so, per terza persona, haverli il
Gran Duca ricevuti, et non altro; che ciò mi rende non poca
mortificatione, vistomi honorata da tutti li re et potentati
dell'Europa alli quali ho mandato l'opere mie, non solo di regali
grandissimi, ma etiandio di lettere favoritissime, che tengo appresso
di me; et ultimamente il S.r Duca di Ghisa in ricompensa d'un quadro
mio, che gli presentò l'istesso mio fratello, gli diede per me 200
piastre, le quali non ho havute per essersi incamminato in altra parte;
et da S. A. S., mio prencipe naturale, non ho ricevuto gratia nessuna:
assicurando V. S. che più haverei stimato un minimo delli suoi favori,
che quanti ne ho havuti dal Re di Francia, il Re di Spagna, dal Re
d'Inghilterra et da tutti li altri prencipi dell'Europa, stante il
desiderio che ho di servirlo et di rimpatriarmi, et a consideratione
della servitù ch'ho fatta al Ser.mo suo Padre tant'anni» (cfr. Galilei,
1966, pp. 258/9, lettera n. 3189).
Sul trasferimento in Toscana e sul rapporto tra la maestra e Galileo,
cfr. AGNATI, TORRES 1998, pp. 28 e 32 e CROPPER 1992 p. 211.
[95] Il 19
luglio del 1616 l'Accademia delle Arti e del Disegno fiorentina,
fondata da Giorgio Vasari nel 1562, ammette per la prima volta nella
sua storia una donna ai corsi accademici. Artemisia, dunque, ottiene un
prestigioso riconoscimento, è ormai una pittrice professionista
affermata molto richiesta negli ambienti aristocratici, che esercita a
Firenze, e, grazie all'appoggio di Cosimo II de' Medici, è accolta,
assieme al marito, anch'egli pittore, agli insegnamenti
dell'istituzione, presso cui rimane fino al 1620 (cfr. AGNATI, TORRES
1998, p. 24).
[96] Quei lavori sono ancora appannaggio di artisti maschi.
[97] Alla sua
morte, avvenuta il 18 febbraio del 1564, Michelangelo Buonarroti lascia
un'eredità cospicua, consentendo a più generazioni di eredi di vivere
agiatamente del lascito. Nella mesta abitazione del maestro, a Marcel
de' Corvi, infatti, in un armadio viene rinvenuto un forziere entro cui
sono stati trovati più di otto mila ducati d'oro; Rab Hatfield, docente
di storia dell'arte all'Università di Syracuse (USA), quantifica in 10
milioni di euro il patrimonio accumulato (cfr. HATFIELD 2002).
[98] Nel 1599,
Michelangelo Buonarroti il Giovane entra in possesso della storica
abitazione di famiglia, acquistata dal prozio, lentamente ingrandita.
Michelangelo vuole ridare lustro alla casata e nel 1612, avvia
l'edificazione del palazzo odierno, occupandosi direttamente
dell'ideazione del programma decorativo delle quattro sale del piano
nobile. Concepisce quattro sale monumentali dedicate rispettivamente
all'illustre avo (la Galleria), alla sua casata (Sala della Notte il
Dì), alla Firenze ecclesiastica coi suoi santi e beati (Cappella) e
alla Firenze del pensiero e dell'azione con gli uomini illustri
(Biblioteca-studio). Cfr. PROCACCI 1965, pp. 9-10.
[99] Il
programma decorativo della sala in cui lavorano Artemisia ed altri
artisti (tra i quali l'Empoli, il Passignano, Giovanni da San Giovanni,
Matteo Rosselli e Francesco Furini) e quello delle altre tre del piano
è elaborato direttamente da Michelangelo Buonarroti il giovane.
Argomento dell'ambiente, allestito tra il 1613 e il 1635, è l'elogio di
Michelangelo artista, tramite una singolare biografia per immagini,
realizzata attraverso dieci tele poste sulle pareti che rappresentano i
momenti più significativi della vita del maestro. Le tele del soffitto
raffigurano scene della morte ed dell'apoteosi dell'artista, circondato
dalle allegorie delle sue qualità, tra le quali l'Allegoria dell'Inclinazione (fig. 8).
[100] L'opera
oggi rappresenta nell'ambito degli studi storico-artistici sulla
maestra un punto di riferimento, sotto il punto di vista sia
cronologico sia stilistico-documentario del felice periodo fiorentino.
L'elegante e luminosa allegoria risulta essere stata consegnata e
saldata il 20 agosto del 1616, con il generoso compenso di 34 fiorini
(cfr. BALDINUCCI 1975, pp. 708-716).
[101] I
quindici riquadri del soffitto della Galleria di Casa Buonarroti vanno
letti dalla fila centrale, da Nord verso Sud. Al centro le storie
michelangiolesche, ai lati le virtù dell'artista e i putti. I riquadri
delle file laterali sono realizzati da giovani promesse, scelte nelle
botteghe dei maestri incaricati delle storie maggiori. Fanno eccezione
Giovanni da San Giovanni e la Gentileschi, artisti già affermati.
Michelangelo ha una particolare predilezione per Artemisia, avendo
presenziato alla sua nascita durante uno dei suoi frequenti viaggi a
Roma. A lei paga il quadro ben 34 fiorini, contro i dieci dati agli
altri giovani, compreso Giovanni da San Giovanni (cfr. PROCACCI 1965,
p. 12).
[102] Si veda nota [32].
[103] Filippo Baldinucci, amico di Baldassarre Franceschini, detto il Volterrano, riporta che la nudità dell'Allegoria
di Casa Buonarroti, al tempo abitata «d'un bello stuolo di piccoli
giovinetti» (cfr. BALDINUCCI 1847, pp. 141-198), nel 1684, poiché mette
in imbarazzo il proprietario, Lionardo Buonarroti, nipote del
committente dei lavori, è da questi «per maggior decoro» integrata con
un panneggio grigio-azzurro. Ironia della sorte, l'erede Buonarroti,
nipote di Michelangelo il cui Giudizio Universale
viene deturpato con la realizzazione delle cosiddette “braghe”, fa
coprire di drappeggi moraleggianti le opere più sensuali presenti in
casa propria. Artemisia patisce lo stesso destino dei nudi della
Sistina.
[104] RIPA 1992, p. 513.
[105] Anche per la Susanna (fig. 2) la critica pensa ad un autoritratto.
[106] è
interessante sottolineare che anche in questa considerazione si rivela
la tendenza dell'artista a creare opere autobiografiche, che prendano,
cioè, spunto dal proprio vissuto. L'autobiografismo, dunque, è una
costante nel percorso artistico della nostra, che prescinde dall'unico
momento eclatante della sua vita: se prima al centro dei suoi lavori
c'era un'animosità inquieta e combattuta, memore dello stupro, adesso
vi si afferma uno stato mentale felice e soddisfatto, coerente con lo
stato d'animo di donna appagata.
[107] JULLION, BULFONI, SICA 2012, p. 109.
[108] Le sue
capacità imprenditoriali la portano a comperare case e arredi, a «farsi
e disfarsi di debiti» (viene accusata anche di appropriazioni
indebite), a cercare committenze, ad accettare amicizie e aiuti di
personaggi influenti e significativi nell'alveo culturale del suo
momento (cfr. CONTINI, SOLINAS 2011, p. 9).
[109] Del loro
rapporto rimane un intenso ed intrigante scambio di lettere
appassionate, un ricco carteggio di trentasei missive scritto tra
Prato, Firenze e Roma, il carteggio è univoco e non include le risposte
del nobile (cfr. CONTINI, SOLINAS 2011, p. 144).
[110] Si
tratta di un amore travolgente per il ricco gentiluomo suo coetaneo,
brillante erede di un'antica famiglia dell'aristocrazia fiorentina
alleata da generazioni ai Frescobaldi; di questo giovane si è
perdutamente innamorata, corrisposta, e a fasi alterne tra passioni
furibonde e serena amicizia, la accompagna praticamente per tutta
la vita. I due, (Artemisia e Maringhi) si frequentano sino alla fine
delle loro vite; a Napoli, nel 1635, la quarantunenne Artemisia è
vicina al suo uomo, e forse addirittura sposata a lui in segreto cfr.
CONTINI, SOLINAS 2011, pp. 79-95).
[111]
L'anziano marito, non all'altezza della passione di Artemisia che si
concede ad un amore adultero, accetta la strana “situazione a tre”.
Amico del patrizio fiorentino, Pier Antonio e Francesco Maria istaurano
un rapporto di reciproca amicizia, dovuto, forse anche, al ruolo di
“mecenate” assunto da quest'ultimo per la coppia di pittori. Prodigo
estimatore, garante dei ritardi nel consegnare le tele al committente e
persino capace di appoggiare economicamente gli sposi, Francesco Maria
rappresenta un punto fermo nel ménage
familiare Stiattesi. A sostegno di questa insolita relazione, basata
sul sostegno economico, rimane, in particolare, una lettera di Pier
Antonio al Maringhi, scritta nei primi mesi del rientro a Roma, in cui
il marito di Artemisia, informando il fiorentino dell'eccezionale
successo professionale conseguito dalla moglie, domanda «aiuto e
appoggio, a proposito di certi affari» (cfr. CONTINI, SOLINAS 2011, pp.
79-95, 144).
[112] CONTINI, SOLINAS 2011, pp. 79-95.
[113] Il
marito della pittrice, testimone dall'amore di sua moglie per il
patrizio fiorentino, è autore di quattordici lettere indirizzate allo
stesso gentiluomo con le quali, da Roma, lo informa minuziosamente
della vita coniugale e dei successi di Artemisia. Leale, parassita,
difensore dell'onore della moglie, e suo compagno affettuoso, Pier
Antonio non ostacola il sentimento del gentiluomo, anzi lo alimenta
magnificando le prodezze della madre dei suoi figli. Deferente verso
Francesco Maria, dal quale è stato evidentemente molto aiutato,
Stiattesi è compiacente e racconta, in una prosa corretta e ben
articolata, ricca di proverbi e massime, le loro avventurose vicende:
le liti con il padre e i fratelli, l'attentato al Tassi, la morte del
piccolo Cristofano, le visite eccellenti di principi e cardinali che
onorano la pittrice, sempre al lavoro per sbarcare il lunario. Ricche
di notizie, le carte di Pier Antonio ci restituiscono dettagli
fondamentali per la comprensione delle tecniche e della creazione di
Artemisia: l'uso abituale dei cartoni, la presenza di aiuti e
collaboratori nella bottega (cfr. JULLION, BULFONI, SICA 2012, pp.
107-108).
[114] CONTINI, SOLINAS 2011, pp. 144-149.
[115] Le
parole sono della lettera IV, definita dal Solinas «uno straordinario
canto d'amore sensuale, sconvolgente ed esplicita dichiarazione del
desiderio, inaudita per quell'epoca» (cfr. CONTINI, SOLINAS 2011, p.
144).
[116]
L'artista, «colta autodidatta» di grandi letture, come le Sacre
Scritture, Ovidio , Petrarca, Ariosto, Tasso… (molte, infatti, le
citazioni colte), «non era stata educata alla scrittura, come molte
donne del tempo, anche di rango elevato» (cfr. CONTINI, SOLINAS 2011,
p. 144).
[117] In una
delle lettere, infatti, l'artista scrive «io sto benne, so camminata
per una bonna via ho lavori per il duca di Baviera per uno gran pezzo e
sina adesso ce ho fatto due quadri con gran soddisfazione di detto duca
e si tratta che io abbia andare la co' mille scudi di provvisione. Ma
ho da lavorare più di uno anno qui in Roma e mi paga a misura di
carbone» (cfr. CONTINI, SOLINAS 2011, p. 144).
[118] Forse anche grazie alla passione tra Francesco ed Artemisia.
[119] Gli atti
di battesimo dei figli di Artemisia sono stati individuati da Elisabeth
Cropper nell'Archivio di Stato della città di Firenze (cfr.
Cittadinario Santa Maria Novella, filza 3 e 4): nel 1613 battezzano il
primo figlio, Giovan Battista; nel novembre del 1615 il secondo,
Cristofano; nell'agosto del 1617, Prudenzia; nell'ottobre del 1618
Lisabella, morta nel 1619 (cfr. LAPIERRE 2000, p. 444). Prudenzia,
dunque, è la sola figlia che vive sufficientemente a lungo da seguire
la madre nel ritorno a Roma poi a Napoli.
[120] Si
adegua subito al lusso della corte di Cosimo II de' Medici e alle
eccitanti atmosfere della Firenze della prima metà del Seicento con le
sontuose feste a Palazzo Pitti, e ne adotta il modello di vita, pur non
potendo sostenerlo economicamente.
[121] Chiede
più volte aiuto al suo amante, che si prodiga per lei, ma anche a
Cosimo II, al quale ricorre per non subire un processo per debiti o per
sottrarsi ad una sentenza di mancato pagamento, o ancora per sospendere
il pignoramento dei suoi beni.
[122] Archivio di Stato di Firenze, Mediceo 998, f. 204.
[123] Il 10
febbraio del 1620 la pittrice scrive a Cosimo II domandando il permesso
di trascorrere qualche mese a Roma per incontrare i propri parenti
(cfr. AGNATI, TORRES 1998, p. 28).
[124] Vive in
una casa a Via Ripetta con la figlia ed alcuni servitori, che non
vengono pagati, una domestica la cita in giudizio per il mancato
pagamento (cfr. AGNATI 2001, p. 8).
[125] Non si
dimentichi che Caravaggio nel suo vagabondare approda nella città
partenopea ben due volte, ma altri artisti, come Annibale Caracci,
Simon Vouet, José de Ribera e Massimo Stanzione, vi lavorano o vi
passano. Di lì a poco arrivano anche il Domenichino, Giovanni
Lanfranco. Sul periodo napoletano di Artemisia cfr. LATTUADA 2001).
[126] Il re è
un collezionista d'arte che ha già raccolto una sorprendente quantità
di opere d'arte tra cui alcuni capolavori di Tiziano, Raffaello,
Mantegna, Correggio e Caravaggio.
[127] Ha il
compito di affrescare il soffitto della Queen's House a Greenwich (oggi
Marlborough House), con un programma decorativo-allegorico sulla corona
inglese: Allegoria del Trionfo della Pace e delle Arti sotto la Monarchia Inglese.
[128] Non v'è certezza della tempistica; c'è chi ritiene che Orazio muoia addirittura prima dell'arrivo della figlia.
[129] L'opera,
oggi nella Royal Collection del Castello di Winsor, è realizzata per il
sovrano inglese. La pittrice, in uno slancio di orgoglio, si autoritrae
nelle vesti dell'allegoria della pittura. La suggestiva tela testimonia
come, nonostante la dipartita del padre, Artemisia a Londra abbia avuto
un'attività autonoma. L'artista abdica alle tradizionali visioni del
genere (normalmente risolte in un soggetto, ben vestito, ritratto
frontalmente, seduto davanti alla tela con in mano pennelli e
tavolozza) e in maniera molto audace si ritrae in una prospettiva quasi
acrobatica (per la quale, probabilmente la pittrice ha dovuto fruire di
due specchi accuratamente angolati). Artemisia ubbidisce ai dettami
espressi dal Ripa nella sua Iconologia:
la Pittura è personificata da una donna che porta al collo una lunga
catena d'oro con un medaglione in forma di maschera (trattasi della
catena che identifica il pittore professionista), ha i capelli
neri-ramati, indossa una veste di color cangiante e tiene in una mano
il pennello e nell'altra la tavolozza. Eppure Artemisia inventa
un'ambientazione assolutamente inedita, caratterizzata da una
impaginazione ardita, che cattura e sorprende il pubblico. La maestra,
autorappresentandosi, ancora una volta, in una donna posta di tre
quarti, raffigurata sul margine destro della tela, in abiti da lavoro,
con ampie maniche rimboccate e con i capelli raccolti frettolosamente,
rivoluziona il soggetto.
[130] La
simpatia del re Carlo I per Orazio e Artemisia, si racconta, costa al
sovrano la testa: la moglie, Herietta Maria di Francia, aveva promesso
di convertirlo, ma Carlo non l'ascolta e viene decapitato.
[131] Lettera
di Artemisia a Don Ruffo, del 30 gennaio 1649: «ma spero che al Sign.re
Idio che al aparir de quello giudicherà che non avessi del tutto torto
[…] perché il nome di donna fa star in dubbio sinchè non si è visto
l'opra» (cfr. MENZIO 2004, passim).
[132] Lettera del 5 giugno 1649 (cfr. MENZIO 2004, passim).
[133] Lettera del 13 novembre 1649 (cfr. MENZIO 2004, passim).
[134] Entrambe
le cornici sono funzionali alla resa del messaggio ricercato: nel primo
caso, una Susanna, psicologicamente impaurita, è inserita in un
contesto sinistro, caratterizzato da incombenti nuvoloni grigi (fig.
2). Nella tela più tarda il clima si distende la minaccia si fa
provocazione, e la protagonista mostra un volto fiducioso in un
intervento superiore (fig. 11).
[135] Si veda
la lettera del 12 giugno 1648, scritta al Rufo, in cui si lamenta delle
spese per le modelle, che, evidentemente, il committente dell'opera non
copre (cfr. MENZIO 2004, passim).
[136] AGNATI 2001, p. 9.
[137] LEVATI 1822, p. 109.
[138] Alla sua
morte, l'Artemisia artista cade in un pesante oblio; la pittrice è
trascurata persino dagli storici suoi contemporanei che, per primi, si
interessano più all'altisonante vicenda dello stupro e ai relativi
risvolti sensazionalistici che non alla sua eccezionale opera pittorica
(cfr. AGNATI 2001, p. 6). Il Baglione, per esempio, nelle sue Vite del 1642, la menziona solo brevemente in calce alla biografia del padre (cfr. BAGLIONE 1642, ad vocem). Similmente Joachim Sandrart, pur avendola conosciuta direttamente, nel suo Teutsche Academie der Edlen Bau-, Bild- und Mahlerey-Kunste (Norimberga, 1675), le dedica solo un breve paragrafo. Solo Filippo Baldinucci, nel suo Vocabolario toscano dell'arte del disegno
(Firenze, 1681), riserva alla «valente pittrice» più pagine di quante
ne dedichi ad Orazio, pur limitando la sua analisi al periodo
fiorentino. Gli altri biografi secenteschi, Mancini, Scannelli, Bellori
e Passeri, non la menzionano neanche. Nel secolo successivo Bernardo de
Dominici nelle sue Vite de' pittori, scultori ed architetti napoletani
(Napoli, 1742), seppur brevemente e in calce alla vita dello Stanzione,
parla della Gentileschi con ammirazione. La restante storiografia
sette-ottocentesca è piuttosto avara di notizie, spesso riprese di
seconda mano, come nel trattato del De Morrone che, nel 1812, riporta
il Baldinucci. Artemisia è ignorata, riconosciuta raramente, ricordata
solo per alcuni ritratti e non per le potenti tele di eroine.
[139] «Una donna ha dipinto tutto questo?», si domanda incredulo Roberto Longhi a proposito della Giuditta che decapita Oloferne
di Capodimonte (cfr. LONGHI 1916, p. 258). Si deve a lui e al suo
pionieristico articolo del 1916, in cui lo storico tenta un'accurata
distinzione delle opere della figlia da quelle del padre, il recupero
della pittrice, di cui emette un giudizio lusinghiero: «Artemisia
Gentileschi, dal nome favoloso e serico come le pitture del padre, ci
pare l'unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura, e
colore, e impasto, e simili essenzialità; da non confondere adunque con
la serie sbiadita delle celebri pittrici italiane; e ai suoi tempi non
si potrebbe trovarle paragone che in Giuditta Leyster. Nulla in lei,
almeno di primo acchito, della peinture de femme ch'è così evidente nel
collegio delle sorelle Anguissola, in Lavinia Fontana, in Madonna Fede
Galizia, in Caterina Ginnasi, in Giovanna Garzoni, o nelle pittrici di
Donna o di Foemina. Si travede anzi un temperamento che, fosse vissuta
a Parigi dopo la metà del secolo passato, avrebbe figurato un poco come
Mary Cassatt». In questo saggio Longhi, attraverso la lettura di uno
dei suoi dipinti migliori Giuditta
con la sua ancella, oggi a Palazzo Pitti, cerca di spostare
l'attenzione della critica dalle vicende personali dell'artista alle
sue straordinarie ed individuali doti artistiche. Il giudizio dello
storico riguardo alla pittrice romana è chiaramente positivo: a lui il
merito di aver riacceso i riflettori su questa donna che rappresenta,
per lo studioso, una voce fuori dal coro.
A un secolo di distanza dalla riscoperta longhiana, Roma ha reso omaggio alla pittora con la mostra Artemisia Gentileschi e il suo tempo, tenutasi a Palazzo Braschi dal 30 novembre 2016 al 7 maggio 2017 (cfr. BALDASSARI 2016).
[140]
Celebrata ed osannata dal movimento, lei, appena diciassettenne che
affronta un uomo in un pubblico processo, e ne esce vincitrice, assurge
a simbolo del femminismo internazionale: associazioni e cooperative
sono intitolate a lei (a Berlino, per esempio, l'Albergo Artemisia
accoglie esclusivamente una clientela femminile), in lei si riconosce
una figura di culto, paradigma della sofferenza, dell'affermazione e
dell'indipendenza della donna.
[141] AGNATI 2001, pp. 5-6.
[142] Ancora oggi, quando si parla di Artemisia, vengono subito in mente la violenza subita e il suo ruolo di femminista ante litteram, mentre bisognerebbe concentrarsi sul suo valore di artista come ha indicato Roberto Longhi nel saggio del 1916.
[143] Le
tendenze interpretative dell'opera della Gentileschi qui delineate
hanno, come punto di partenza, l'articolo scritto dal Longhi (cfr.
LONGHI 1916, p. 253); lo studioso, infatti, per la prima volta, allude
al legittimo legame tra Artemisia ed il mondo di Caravaggio,
ascrivendole l'avviamento del “primitivismo caravaggesco” nella città
partenopea. Lo storico, inoltre, valutando l'artista come una
professionista donna, autonoma ed indipendente, pari a tanti pittori
maschi suoi coevi, cerca di individuare e delimitare il corpus
delle sue opere da quelle del padre. «Quando – si domanda
significativamente lo storico – una donna ha dipinto tutto questo?»:
indirettamente afferma di trovarsi di fronte ad un'artista di valore,
ad una voce fuori dal coro, ad una persona che, a dispetto dell'epoca
che considera la donna proprietà degli uomini, ha saputo affermarsi
professionalmente e nella vita. L'artista di cui parla il Longhi, non è
semplicemente la figlia di Orazio, ma è una professionista che infrange
gli stereotipi del tempo e si inserisce in una condizione di parità con
gli uomini artisti.
[144] é lei
che guadagna e fa quadrare i conti a fine mese, è lei che si indebita,
è lei che si rivolge ai suoi protettori per evitare la bancarotta, ed è
sempre lei che compare di fronte ai giudici per un indebitamento non
pagato.
[145]
Artemisia rimane precocemente orfana di madre, con fratellini morti
anch'essi, è stuprata da ragazzina, umiliata pubblicamente, amareggiata
dal rapporto di incomprensione con il padre, seppur estimatore del
talento della figlia, si aggancia ad un matrimonio riparatore fatto di
solidarietà ma privo di amore, madre affranta per la perdita di ben tre
figli su quattro, è costretta a nascondere socialmente il rapporto
appassionato con l'uomo della sua vita, ed è continuamente alle prese
con problemi di soldi.
[146] Con
mentalità da moderna PR capisce come far fruttare le situazioni
favorevoli, accetta tutti gli aiuti che le vengono offerti nel corso
della vita, e ricerca sostegno ed assistenza nella rete di “amicizie”
che ha saputo sapientemente creare.
[147]
L'autobiografismo acclamato dalla critica per spiegare le sue opere
certamente esiste in tutti i suoi dipinti, ma non si limita alla
negativa esperienza giovanile: permea costantemente tutte le fasi della
sua vita, per cui le opere giovanili esprimono angoscia e livore nei
confronti degli uomini, quelle del periodo fiorentino serenità per la
pace e la tranquillità conquistate, i lavori della maturità sono più
“conformi” allo stile classicista della cultura del tempo (nell'ultimo
periodo, infatti, stanca e rassegnata Artemisia realizza opere più
retoriche che innovative). Il fil rouge
che accompagna il percorso dell'artista, dunque, è senz'altro di
tipo autobiografico, esteso però all'intera esistenza della maestra che
sa creare sulla tela protagoniste femminili, vere donne, autonome ed
indipendenti.
[148]
Particolarmente
rivelatrice ed emblematica la lettera in cui le parole forti, assertive
ed efficaci ci danno indicazioni fondamentali sul carattere e la
personalità di Artemisia (cfr. nota [85]).
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