Nel
quinto centenario della sua morte Roma, la città che, nel XVI
secolo, consacra il maestro ad artista universale,
celebra il mito del “divin pittore”: Raffaello Sanzio
(1483-1520), “quel Raffaello da cui, fin che visse, la grande Madre
Natura temette di essere superata da lui e quando morì (temette) di
morire con lui”.
La
mostra, organizzata da Scuderie
del Quirinale
in collaborazione con il Museo
degli Uffizi
di Firenze,
inizia simbolicamente con una imponente replica 1:1 della tomba del
maestro nel Pantheon,
realizzata con tecnologie d’avanguardia, e destinata, a fine
rassegna, alla città natale del maestro, Urbino.
Caratterizzata
da un allestimento sobrio, attento che non interferisce con la
fruizione delle opere e allo stesso tempo predispone positivamente il
pubblico alla scoperta dell’artista,
la rassegna si struttura lungo un originalissimo, quanto singolare,
percorso à
rebus,
pensato dal curatore Lanfranconi, e ideato in collaborazione con la
Faietti. “Un viaggio all’inverso, che ottimizza le possibilità
espositive - afferma il curatore - perché arazzi e pale di una certa
dimensione non si sarebbero potuti esporre al piano superiore per una
questione di altezza”.
La
fine dell’esperienza umana del maestro, dunque, rappresenta
l’inizio del percorso esperienziale di conoscenza di Raffaello per
il pubblico dell’esposizione che si muove attraverso circa 200
opere, exibit
eccezionali ed unici,
dal periodo romano (tutto il primo piano) a quello fiorentino, a
quello umbro fino all’epoca della città nativa di Urbino, dove
avviene la sua prima formazione presso la bottega paterna (II piano).
Un’occasione per poter fruire di opere, forse meno note, del
pittore dei periodi iniziali, raramente visibili.
Questo
cammino di ritorno alle origini, a nostro parere, consente, dopo aver
visto e goduto dei massimi lavori della maturità del maestro, quelli
che lo hanno reso eterno, di meglio comprendere la prestigiosa
parabola artistica verso il suo stile adulto.
Raffaello
è colui che ha saputo portare a piena realizzazione gli ideali del
Rinascimento, i suoi dipinti esprimono compiutamente i principi di
ordine formale, che sono alla base del pensiero
umanistico-rinascimentale, arricchite di quella spontaneità
espressiva e di quella inedita naturalezza, del tutto personali. In
altre parole, l’Urbinate ha dimostrato capacità non comuni, quelle
di comprendere ed assimilare la lezione dei maestri antichi e a lui
contemporanei, e di rielaborarle in un linguaggio pienamente
autentico. Le sue pitture rivelano una realtà certamente idealizzata
(costante in Raffaello che è sempre alla ricerca di soggetti che
siano degni di essere riprodotti), costruita sapientemente ed
intellettualmente secondo enunciati armonici antichi, e dominata da
un senso di serenità in cui la natura e la sua riproduzione
diventano lo strumento d’unione del mondo umano e quello divino.
Saper recepire velocemente i linguaggi stilistici di artisti tra loro
molto diversi, componendo i differenti elementi in una sintesi
inedita e del tutto originale è forse la caratteristica principale
del Sanzio che nel rielaborare il tutto mostra un talento
straordinario che possiamo ravvisare nel nostro fin dagli inizi della
sua carriera.
Nelle
sue composizioni con Madonne
e nei Ritratti
aristocratici guarda, in
primis,
a Leonardo (1452-1519),
ma lo sfumato e l’espressione intima dei moti interiori che animano
i personaggi vinciani sono qui mediati da riflessioni proprie e
mature attraverso un linguaggio stilistico dolce e naturale su cui si
innesta un inedita nitidezza ed un’interpretazione aggraziata
dell’eroica anatomia di matrice michelangiolesca mutuata dai nudi
della Volta
sistina (1508-1512).
Si osservino a tal proposito gli esiti, di un incanto che lascia
senza fiato, raggiunti nella Madonna
del Divino amore
(1516, Museo
di Capodimonte,
Napoli) e nella Madonna
della Rosa (fig.
1,
1518-20,
Museo
del Prado,
Madrid). Le due tavole, di rara bellezza, seducono con i coloro
meravigliosi e con le forme aggraziate, dolci, tipiche della maturità
del pittore.
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Fig. 1 Raffaello, La Madonna della Rosa, 1518-20, Madrid, Museo del Prado
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra
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L’artista,
giunto nella capitale pontificia, condivide le ricerche bramantesche
sul recupero filologico dei modelli antichi, e ancora una volta non
considera gli studi archeologici un punto di arrivo, piuttosto
modelli di riferimento per una rielaborazione ed interpretazione
originale. In sostanza, ribadiamo, Raffaello non replica passivamente
le testimonianze con cui entra in contatto, ma ne comprende il
valore, lo attualizza e ne fa una restituzione moderna e cristiana.
Il rapporto con l’antico è certamente innovativo, ma la
testimonianza passata non è studiata limitatamente al potere
evocativo del pezzo, è indagata con metodo oggettivo di riproduzione
grafica in un’ottica di sistematica ricostruzione del mondo
classico con rigore metodologico. Probabilmente ha in mente di
scrivere un trattato, di cui la mappa (si veda oltre) sarebbe dovuta
forse essere un indicatore grafico.
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Fig. 2 Raffaello,Ritratto di Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, 1518, Firenze, Galleria degli Uffizi
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra
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Si guardi, per esempio, lo
splendido dettaglio della campanella del triplice Ritratto
di Leone X con due cardinali (fig.
2, Galleria
degli Uffizi,
Firenze), il particolare è la dimostrazione dell’amore del maestro
per la classicità e rivela magistralmente come il nostro riesca ad
assorbire i caratteri antichi attualizzandoli e trasmutandoli in un
percorso personalissimo: la baccellatura della calotta, il cordoncino
all’inizio dell’ampia svasatura della gonna del campanello e la
treccia, che orna la bocca, sono, in maniera inversa, esattamente gli
stessi motivi ornamentali di una delle basi delle colonne composite
del Tempio
di Marte Ultore
del Foro
di Augusto (I
sec. a.C.).
Questo speciale rapporto tra l’arte del maestro e le antichità
classiche è, in mostra, efficacemente reso con l’armonioso duetto
tra il San
Giovannino
(fig. 3, 1520, Galleria
degli Uffizi,
Firenze) e il Torso
di Efebo
del I secolo (fig. 4, Palazzo
Massimo alle Terme,
Roma) esposto accanto alla tela; questo abbinamento ci restituisce la
capacità del Sanzio di utilizzare il genius
loci
antico senza cadere nel banale né nell’imitazione sterile della
classicità.
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Fig. 3 Raffaello, San Giovannino, 1520, Firenze, Galleria degli Uffizi
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
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Fig. 4 Torso di Efebo del I secolo, età giulio-claudia (I sec. d. C.) Palazzo Massimo alle Terme, Roma
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
Superato
l’ emblematico debutto con il dramma della sua scomparsa,
ossia, con la fine del percorso biografico-creativo del maestro,
interrottosi bruscamente a Roma, a soli 37 anni, mentre sta lavorando
ancora alla Trasfigurazione
(1518-1520, Pinacoteca
Vaticana),
grande assente dell’evento, che secondo il racconto vasariano viene
posta accanto al suo capezzale di morte,
ci imbattiamo nelle eterne parole del biografo aretino sul sommo
pittore “(…) finì il corso della sua vita il giorno medesimo che
nacque, che fu il venerdì santo d’anni XXXVII, l’anima del quale
è da credere che come di sue virtù ha abbellito il mondo, così
abbia di sé medesima adorno il cielo.”.
Le cronache del tempo raccontano della fiaccolata-corteo di 100
pittori che accompagna la salma al Pantheon,
e della commozione per la sua scomparsa, tale che la città sembra
fermarsi in una condizione di totale incredulità e di rimpianto. Non
a caso con la sua dipartita finisce convenzionalmente anche
l’armoniosa ed apollinea visione dell’arte rinascimentale e
inizia il sofisticato, anticlassico ed intellettualistico linguaggio
del Manierismo.
La
sala esibisce tre bellissimi studi del maestro per il dipinto
vaticano della Trasfigurazione,
commissionato dal Cardinale Giovanni de’ Medici assieme alla
tavola, suo pendant,
della Resurrezione
di Sebastiano del Piombo (1516-1519, National
Gallery,
Londra). I tre disegni documentano la genesi dell’opera, su cui
lavora ben 4 anni, completata successivamente dal suo allievo
prediletto Giulio Romano (1499-1546), che consta di due parti: la
parte superiore vede Cristo, sul Monte Tabor, mentre, entro una luce
radiante e luminosa, si trasfigura nella sua natura divina, alla
presenza di due profeti (Mosè ed Elia) e di alcuni apostoli
sconvolti e persi nella visione dall’episodio biblico. In basso
una scena terrena, a cui rimanda la palette
scura, che sotto alcuni aspetti anticipa certe cupe atmosfere
caravaggesche, che vede la rappresentazione della vicenda della
guarigione
dell’ossesso;
gli astanti cercano di aiutare il giovane e di confortare la madre,
mentre altri indicano la parte superiore del quadro come a
sottolineare che solo l’intervento divino possa salvare. Uno dei
disegni autografi ripete l’intera invenzione raffaellesca, mentre
gli altri due, anch’essi di mano del Sanzio, sono studi per il
posizionamento delle figure nella composizione definitiva. È
interessante notare come l’impostazione prospettica, data da due
prospettive diverse, guardi ancora a Leonardo e alla sua incompiuta
Adorazione
dei Magi
(1481, Galleria
degli Uffizi,
Firenze), il più anziano maestro, tra 1513 e il 1516, è in città e
diventa ancora, dopo esserlo stato durante la permanenza a Firenze, un
punto di riferimento della attività matura del giovane.
Le
sale espositive che seguono si caratterizzano per attenta e raffinata
ricostruzione della sofisticata cultura antiquaria dell’epoca
leonina che plasma l’artista, ma che egli stesso contribuisce a
creare:
reperti antichi (busti, erme, steli …), trattati di architettura
(mss e a stampa), codici d’antichità, taccuini, diari, disegni,
stampe e incisioni dall’antico e di rilievo testimoniano il clima
vivace e stimolante dell’Urbe. Roma rappresenta una fonte di
nutrimento essenziale per la sua crescita professionale e per la
maturazione dell’estro del pittore, l’antico è, cioè, la humus
su cui Raffaello innesta e sviluppa il suo personale linguaggio
artistico, derivante dall’armoniosa unione sincretica tra forme
antiche e pensiero cristiano. La mostra ricrea con dovizia ed
attenzione questa temperie antiquaria, da cui nasce il cosiddetto
stile classico, codice normativo che per i successivi quattro secoli
domina il fare artistico. Negli ultimi mesi di vita il maestro,
nominato, dal 1515, da Leone X,
Prefetto delle antichità di Roma (Praefectus
marmorum et lapidum omnium),
decide di cimentarsi in un’impresa archeologico-architettonica, mai
tentata prima: il progetto di ricostruzione grafica “per regioni”
della Roma imperiale.
L’operazione, il cui senso si coglie dalla lettura della famosa
lettera
a Leone X
(fig. 5, 1519, Archivio
di Stato,
Mantova), è ambiziosa, e nasce dall’idea di celebrare quella
città che tanto gli sta dando professionalmente, ma la prematura
scomparsa interrompe anche questo magno progetto di mappatura
topografica. Per i circoli di eruditi umanisti che, caldeggiando l'iniziativa, molto si attendono, si tratta di una perdita immensa quanto grave e non nascondono la loro delusione.
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Fig. 5 Raffaello e B. Castiglione, Lettera a Leone X, 1519, Mantova, Archivio di Stato
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
L’interesse
per il mondo passato culmina, abbiamo accennato, nella celeberrima
lettera a
Leone X,
scritta a due mani, da Raffaello e Baldassarre Castiglione
(1478-1529), amico ed intellettuale che dà le parole ai pensieri
dell’Urbinate; in essa si rileva lo stato di degrado delle vestigia
archeologico-architettoniche dell’Urbe e si lancia un appello volto
alla salvaguardia delle antichità in pericolo. In anticipo di quasi
quattro secoli Raffaello introduce i moderni concetti di
conservazione, restauro, tutela, rispetto dell’antico e
responsabilità dei contemporanei nell’assicurare alle future
generazioni le testimonianze del passato, che diventano patrimonio
nostro solo alla metà del secolo scorso. L’epistola, esposta nel
prezioso esemplare manoscritto di Mantova, è offerta al pubblico in
un contesto espositivo suggestivo e facilmente fruibile, grazie alla
trascrizione in caratteri leggibili e alla disposizione a cerchio che
ne consente una lettura e comprensione in movimento.
E
l’affezionato Baldassarre è celebrato dal “divin pittore”
nello stupefacente, per umanità,
ritratto del poeta (fig. 6, 1513, Museo
del Louvre,
Parigi),
in cui l’artista coglie la caratura intellettuale del
rappresentato, posto di ¾,
e raffigurato in abiti invernali, in un momento senza tempo, che
cristallizza la sua condizione di amico e letterato. Un’opera
semplice, naturale, quasi essenziale, di un’intensità fuori dal
comune che il maestro ha probabilmente potuto condurre poiché
conosce molto bene il Castiglione.
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Fig. 6 Raffaello, Ritratto di Baldassarre Castiglione, 1513, Parigi, Museo del Louvre
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
Nella
stessa sala, angolata rispetto al letterato, è posta la splendida
raffigurazione di Leone
X tra i cardinali suoi cugini Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi
(fig. 2), restaurata per l’occasione dall’Opificio
delle Pietre Dure.
La composizione, in una ambientazione monumentale di tipo classico,
immersa nella penombra, vede il pontefice, la cui personalità
volitiva, raffinata e pacifica, è colta sapientemente dal Sanzio.
È raffigurato seduto allo scrittoio da lavoro, sul quale sono
presenti diversi oggetti che riconducono alla disposizione
dell’effigiato e all’idea di corte sofisticata e culturalmente
elevata, nonchè denotano la perizia del maestro:
il campanello, di cui abbiamo già relazionato,
un prezioso codice miniato, identificato con la cosiddetta Bibbia
Hamilton,
riportante in calce l’arme dei Medici, sfogliato e letto per il tramite di una raffinata lente di
ingrandimento. Sempre al casato fiorentino allude il pomello della
seggiola papale (la foggia richiama le palle dello scudo gentilizio)
sul quale si riflette la schiena del papa e una finestra posta fuori
campo (dettaglio di matrice fiamminga, cultura conosciuta
probabilmente durante la sua infanzia e formazione iniziale ad
Urbino).
La
scena è dominata da un magnifico e caldo colore rosso, variato nelle
tonalità e nella qualità, particolarmente bella, efficace ed
espressiva è la sua resa nel camauro e nella mozzetta bordata di
ermellino, il cui velluto cangiante si contrappone con virtuosismo al
bellissimo damascato bianco-avorio della veste pontificia che secondo
la felice espressione vasariana “suona e lustra”.
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Fig. 7 Raffaello, Santa Cecilia con i santi Paolo, Giovanni Evangelista, Agostino e Maria Maddalena, 1518, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
Proseguendo
attraverso la mostra è esibita la superba e monumentale Estasi
di Santa Cecilia
(fig. 7, ante 1518, Pinacoteca
Nazionale,
Bologna), un olio su tavola trasportato su tela per questioni
conservative, raffigurante la santa tra i santi Paolo, Giovanni
Evangelista, Agostino e Maria Maddalena disposti a semicerchio, come
entro un’esedra classica (ancora una volta una scena cristiana
innestata nella cultura antica, la statuarietà dei soggetti e
l’allusione ad un ambiente termale). Le maestose figure dei santi
creano uno spazio vero e profondo, definito anche dalla natura morta
di strumenti musicali ai piedi dei personaggi.
In particolare, l’elegante rappresentazione della Maddalena
ricorda, ancora una volta, il mondo passato e i rilievi di danzatrici
o vestali di età ellenistica. La veste gialla della Cecilia è,
però, qualificata da allusioni in un’ottica di captatio
benevolentiae,
i motivi del broccato intrecciati a tralci rovereschi (rimando a papa
Giulio II della Rovere) sono riconducibili a simboli medicei
(riferimento al regnante Leone X).
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Fig. 8 Manifattura di Peter van Aelst, Il Sacrificio di Lystra, 1517-19, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
Il
piano termina con una gradita sorpresa: l’imponente arazzo vaticano
raffigurante Il
Sacrificio
di Lystra
(fig. 8, 1517-1519, Manifattura di Peter van Aelst, Pinacoteca
Vaticana),
posto frontalmente alla rimaterializzazione a colori del cartone
raffaellesco di riferimento.
Le raffigurazioni pensate per la tessitura dal maestro, di forte
impatto sulle generazioni successive, dipinti a tempera su carta 1:1,
illustrano gli atti degli apostoli Pietro e Paolo. Il Sanzio,
stimolato dal fatto che finalmente può misurarsi con il grande
Michelangelo, concepisce, per una collocazione così prestigiosa, in
soli tre mesi, una serie di cartoni preparatori bellissimi, splendidi
e, soprattutto, non bidimensionali (come vuole la traduzione su
tessuto), ma vere e proprie finestre illusionistiche sul mondo. Per
narrare le storie dei due principi, elabora figure atletiche e
statuarie rivolgendo la sua attenzione alla composizione generale più
che ai dettagli, proprio perchè destinati ad essere tradotti su
lana.
Al
momento dell’esposizione dei cartoni in Cappella
Sistina
il maestro si sente soddisfatto perché le sue invenzioni ben si
inseriscono in un ambiente così nobile e non sfigurano con le
esibizioni anatomiche di Michelangelo, Vasari li dice opera
miracolosa “più che di artificio umano”.
I cartoni inviati a Bruxelles per la traduzione, rimangono presso il
tessitore, dimenticati in un angolo polveroso, fino al momento in cui
un collezionista di Genova li acquista per poi rivenderli a Carlo I
d’Inghilterra (oggi sono conservati al Victoria
ed Albert Museum).
Salendo
al piano superiore si entra nella sezione in cui si è proceduto ad
indagare l’ideale di bellezza femminile elaborato dal Sanzio, che
parte dall’eredità del primo Rinascimento sul mondo del femmineo e
la nutre con la rivitalizzazione della cultura petrarchesca in chiave
antiquaria avviata, a inizio ‘500, proprio nella cerchia di
Raffaello.
La figura della donna, epurata del marchio medievale di peccatrice, è
per il Rinascimento uno dei soggetti preferiti, quasi un’ossessione
(si veda, a tal proposito, l’interpretazione di bellezza muliebre
consegnataci da Sandro Botticelli (1445-1510)), l’Urbinate prende
la beltà della donna e ci restituisce forme che, sebbene vere,
soggiacciono alle regole della rappresentazione della natura, secondo
i principi di equilibrio, grazia, armonia e perfezione.
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Fig. 9 Raffaello, Ritratto di donna detta “La Velata”, 1512-13, Firenze, Galleria Palatina
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
È
la visione a confronto di alcuni dei quadri che lo hanno reso famoso
(Ritratto
di donna detta “La Velata”
(fig. 9, 1512-13, Firenze, Galleria
Palatina),
Ritratto
di donna detta “La Fornarina”
(fig. 10, 1519-20, Roma, Palazzo
Barberini))
a spiegarci la sua personale visione: un equilibrio perfetto, fatto
di forme carnose, seni pieni, sguardi intensi e vividi, capelli
lunghi, fluidi e lucidi. In una famosa e controversa lettera del
Sanzio al Castiglione, Raffaello scrive del suo cruccio nel poter
rendere la vera bellezza femminile, affermando che, per giungere alla
più genuina rappresentazione, abbia bisogno di vedere molte
bellissime donne.
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Fig. 10 Raffaello, Ritratto di donna detta “La Fornarina” , 1519-20, Roma, Palazzo Barberini
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
In effetti, l’unica vera debolezza del maestro
sembra sia stata il
“gentil sesso”, le cronache riportano che si sia fatto incantare
da molte donne, ed abbia vissuto come un vero Casanova.
Ma una sola è stata capace di rapire il suo cuore e la sua anima,
ossia, Margherita Luti, detta la Fornarina, perché figlia di un
fornaio trasteverino, incontrata, per caso, in occasione delle
passeggiate compiute per raggiungere la Villa di Agostino Chigi, uno
degli uomini più ricchi d’Europa e amico del nostro, per il quale
il Sanzio sta lavorando. Lei sola ha saputo soddisfare il desiderio
di bellezza del maestro, con lei Raffaello conosce il vero amore e lo
sublima nel quadro di Palazzo
Barberini.
Sebbene idealizzata, il dipinto raffigura una donna vera, in carne ed
ossa, dallo sguardo malizioso, audace ed intenso, il pubblico
comprende che si tratta di un personaggio dall’esistenza reale, che
vive di quelle emozioni, che mancano alle opere classiche. Il
pittore, dunque, parte dalla realtà, selezionata appositamente in un
aspetto bello, il brutto non lo interessa, e poi ne idealizza i
tratti, mantenendo, però, quel contatto con la vita in un circolo
virtuoso di venustas
e voluptas.
La Fornarina
si
mostra, infatti, audace e carnale (voluptas),
ma anche elegante e perfetta come le Veneri antiche (venustas).
Attraverso la sua rappresentazione l’Urbinate riesce ad comunicare
quel legame vero, nutrito di passione, che esiste tra la modella e
l’artista.
Margherita
presta probabilmente il volto anche alla Velata,
l’opera, completamente autografa, è una rappresentazione
certamente più casta e si contrappone per aspetto più “divino”
alla sensuale Venere precedente, allo stesso tempo, però, rileviamo
che il ritratto non pecca di concretezza o naturalezza, ancora una
volta l’artista raggiunge un equilibrio perfetto tra bellezza
ideale e esistenza fisica.
Segue
la sezione dedicata all’attività di architetto: quando, morto
Donato Bramante (1444-1514), amico e guida,
Raffaello gli succede nelle vesti di magister
operis
dalla Fabbrica
di San Pietro,
comincia per il nostro un percorso nuovo, non ancora esaurientemente
indagato e parzialmente offuscato dai lavori pittorici. Qui il
racconto espositivo non è chiarissimo, non si comprende bene la
scelta di non mostrare, accanto alla preziosissima pergamena
bramantesca a pianta centrale per la nuova San
Pietro,
il successivo progetto raffaellesco! Notevole è, invece, il modello
della facciata di Palazzo
Branconio,
a cura di Francesco Paolo Di Teodoro, e realizzato da Opera
Musei Fiorentini
in collaborazione con il Centro
Studi Vitruviani
e il Comune di Fano, presso cui tornerà alla chiusura dell’evento.
La ricostruzione esemplifica icasticamente l’ideale di bellezza
universale di tutte le arti al servizio della produzione artistica.
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Fig. 11 Raffaello, Ritratto di Giulio II, 1512, Londra, National Gallery
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
A
ritroso nel tempo si entra nel vivo degli anni spesi al servizio
Giulio II,
il cui Ritratto
(fig. 11, 1512, Londra, National
Gallery),
noto in diverse versioni,
ritrae il pontefice a 68 anni; di ¾,
avanti con l’età e lontano dalla terribilità che accompagna la
fama del personaggio, il soggetto non si mostra né sconfitto né
piegato, ma propagandisticamente impegnato nella quotidianità della
missione papale in modo da coinvolgere lo spettatore nella scena. Il
pubblico si relaziona al della Rovere che, accanto, condivide lo
spazio fino a far nascere una sensazione di interazione diretta. Il
Vasari lo dice talmente “vivo e verace” da indurre a pensare che
si tratti del papa in persona: “Et egli, che nome grandissimo aveva
acquistato, ritrasse in questo tempo papa Giulio in un quadro a olio,
tanto vivo e verace, che faceva temere il ritratto a vederlo, come se
proprio egli fosse il vivo (…)”.
La
tela è costruita da Raffaello unendo due componenti dialettiche
(quella cerimoniale e quella più intimista) con un risultato
eccezionale in termini di resa introspettiva e psicologica. Le mani,
per esempio, sono usate per esprimere sia il rango del pontefice
(attraverso i gioielli indossati), ma anche il suo carattere volitivo
(si noti l'atto risoluto di stringere il pomello della sedia). Lo
sguardo pensoso e malinconico comunica una stanchezza fisica, ma
anche spirituale, Raffaello lo rappresenta assorto nei suo pensieri,
e, dunque, impegnato “attivamente” nelle sue occupazioni mentali,
e, sebbene non ci sia idealizzazione nella rappresentazione del
pontefice, non viene meno neanche la bellezza, l’immagine si veste
di un’intima malinconia, che svela la psiche di Giulio senza cadere
nel crudo realismo. In questa sezione possiamo ammirare una serie di
disegni, studi, cartoni e cartoni ausiliari di mano l’artista
concepiti per le famose Stanze
Vaticane (1508-1524).
Si entra in confidenza con la pratica tutta raffaellesca, e poi
seguita dalla sua bottega, in particolare Giulio Romano, dell’uso
dei cartoni ausiliari, ossia, quegli studi di dettagli (teste e mani,
soprattutto), ottenuti tramite foratura da cartone definitivo,
utilizzati dal maestro per vagliare possibili varianti, che quando
applicate danno origine ai cosiddetti pentimenti.
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Fig. 12 Raffaello, Testa di Musa, 1509 ca, cartone ausiliario, New York, Collezione privata
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
La bellissima, elegante e sofisticata Testa
di Musa (fig.
12, 1509 ca, New York, Collezione
privata),
realizzata in fase avanzata per una delle muse del Parnaso,
di
dimensioni pari alla raffigurazione definitiva, è servita al maestro
per meglio studiare e posizionare, durante l’attuazione finale
dell’affresco, la figura femminile.
Il cartone reca tracce di spolvero, lasciate dal carboncino passato
sui contorni forati per il trasferimento del disegno. Sebbene
impegnatissimo nell’esecuzione degli appartamenti
papali,
Raffaello riesce, comunque, a soddisfare una clientela di mecenati
privati, la Madonna
Alba (fig.
13, Washington, D.C., National
Gallery of Art)
e il relativo disegno a penna e matita rossa (1510-11, Studio
per la Madonna Alba,
Lille, Palais
de Beaux-Arts)
ne sono una testimonianza. Si tratta del tipico tondo per la
devozione domestica che ripete i tipi toscani, in cui, però, non
rimane nulla della severità iniziale.
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Fig. 13 Raffaello, Madonna con il Bambino e san Giovannino (Madonna d'Alba), 1510 ca, Washington, D.C., National Gallery of Art
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
Si
entra, quindi, nel periodo fiorentino documentato largamente dai
raffinati ed intensi Ritratti
(Dama
con
liocorno
(1504-05, Roma, Galleria
Borghese);
Ritratto
di giovane con pomo
(1504 ca, Firenze, Galleria
degli Uffizi);
Autoritratto
(fig.
14, 1506-08, Firenze, Galleria
degli Uffizi)),
dalle dolcissime Madonne
di matrice leonardesca (Madonna
Tempi
(1507-08, Monaco, Staatsgemäldesammlungen,
Alte
Pinakothek);
Madonna
del Granduca
(1506-07, Firenze, Galleria
degli Uffizi)),
e dai disegni, studi e cartoni per alcune opere del tempo (studio
per la Deposizione
(1507, Londra, British
Museum);
studio
per
Madonna
del Granduca
(1505, Firenze, Galleria
degli Uffizi); studio per
Madonna
con bambino e San Giovannino (1505-06,
New York, Metropolitan
Museum); Studio per la Santa Caterina d’Alessandria (fig.
15, 1507 ca, Parigi,
Musée du Louvre);
Cartone preparatorio della Madonna Tempi (fig.
16, 1507-08, Montpellier, Musée
Fabere)).
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Fig. 14 Raffaello, Autoritratto, 1506-08, Firenze, Galleria degli Uffizi
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
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Fig. 15 Raffaello, Studio per la Santa Caterina d’Alessandria, 1507 ca, Parigi, Musée du Louvre
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
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Fig. 16 Raffaello, Cartone preparatorio della Madonna Tempi, frammento, 1507-08, Montpellier, Musée Fabere
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
È
un momento, quello fiorentino estremamente vitale, importante e ricco
di sfide, Firenze è il cuore pulsante del Rinascimento e, dunque, è
li che sceglie di andare e dove si affranca definitivamente dagli
stilemi della pittura umbra appresi presso la bottega del Perugino
(1446-1523).
Il giovane si aggira per le strade della Repubblica di Pier Soderini
assetato di conoscenza, e percorre gli stessi vicoli frequentati dai
più anziani ed affermati Leonardo (1452-1519) e Michelangelo
(1475-1564), il cui debito, nei confronti di entrambi, è chiaro
nella produzione del periodo, ma anche in quella successiva. Nella
città toscana entra in contatto con la recuperata ed imperante
cultura figurativa classico-rinascimentale e con i modi,
assolutamente diversi, dei due artista. Leonardo, afferma l’Urbinate
nei suoi scritti, lo accoglie come un amico nella sua bottega,
Michelangelo, invece, lo tiene a distanza con sospetto e diffidenza.
Suggestionato dalla ritrattistica leonardiana, in particolare dalla
Monna
Lisa (1503-04,
Museo
del Louvre,
Parigi), il giovane Raffaello concepisce le sue prime Madonne
fiorentine, databili al 1506-07, contro un paesaggio che, pur
adottando la luminosità prospettica vinciana, partecipano ancora
della dolcezza di quelli umbri-perugineschi e non mostrano la forza
evocatrice e primordiale degli sfondi montuosi del più anziano
maestro. Il soggetto è per lui un modo per sperimentare un diverso
rapporto tra figure e spazio nonché per esprimere attitudini e moti
interiori alla ricerca varianti espressive. La Madonna
Tempi
(1507-08, Alte
Pinakothek,
Monaco), per esempio, esposta evocativamente accanto al cartone
preparatorio (fig. 16), è immersa in una chiara e serena luce, tiene
in braccio un Gesù riottoso e cerca di trattenerlo a se in un’ottica
di protezione, non è una semplice immagine divina di devozione
privata, ma raffigura una donna vera, dallo sguardo tristemente
consapevole del destino del bambino, al quale il piccolo cerca
simbolicamente di sfuggire mediante l’evidente tentativo di
divincolarsi. La tavola indica anche che il giovane ha subito e già
rielaborato, in una parvenza di reale, e di movenze spontanee, il
fascino del linguaggio di gesti e affetti ideato dal da Vinci. Molte
delle Madonne
di questo periodo, infatti, sono composizioni piramidali, immerse nel
verde calmo di un prato, in posa contrapposta, caratterizzate da un
delicato intimismo nei volti e da un fluido dinamismo della
composizione, come lo studio
per la Madonna del prato
(1505-06, The
Metropolitan Museum,
New York), il cui impianto compositivo ricorda la Vergine
delle
Rocce
(1483-85, Museo
del Louvre,
Parigi) sia nella centralità della disposizione del gruppo che nello
sviluppo piramidale: Maria volge la testa, lievemente inclinata, a
sinistra e, mentre distende la gamba destra lungo la diagonale e
porta la sinistra indietro (come nel quadro del Louvre),
sorregge realisticamente il bambino che, considerata l’età, ancora
non ha un proprio equilibrio e si protende con curiosità verso il
San Giovannino inginocchiato di fronte a lui, nel gesto di porgergli
qualcosa (che nella tavola definitiva del Belvedere
è una croce astile). Un gioco di sguardi, che parte con la Madonna
che posa serenamente lo sguardo sul Battista, tiene emotivamente
insieme i tre personaggi, che sono comunque fisicamente uniti da una
concatenazione di mani.
Per
quanto sappiamo, non ottiene commissioni pubbliche, quelle arrivano
dopo, nel periodo romano, ma lavora moltissimo per privati, notabili
del posto, i Pitti, i Doni, i Canigiani per i quali realizza ritratti
e Madonne di un tenore poeti e lirico eccezionale.
La
pittura del periodo, dunque, si dimostra influenzata dalla tecnica
sfumata di Leonardo
e dall’eroica anatomia michelangiolesca, ma queste suggestioni sono
fuse e rielaborate in un nitore tutto toscano (o fiammingo, o ancora
pierfrancescano)
in modo da creare uno stile personale fatto di grazia, poesia,
eleganza, dolcezza, colore … immagini poetiche ed inedite, in cui
l’indeterminatezza velata di Leonardo e la tragica anatomia di
Michelangelo sono superati in chiare, pulite e limpide
raffigurazioni. È, dunque, il nitore smaltato, la chiara luminosità
che dona concretezza ai corpi e li fa emergere dal paesaggio, che si
perde in una lucente atmosfera in lontananza, e il perfetto
equilibrio tra serenità ed armonia la vera cifra stilistica del
nostro. Non copia, ma incorpora nel suo stile, non imita, fa propri,
in un’arte assolutamente personale, una serie di influssi che capta
lungo il suo percorso e lo traghettano verso la maturità.
L’ultima
sala presenta la fase iniziale del pittore tra Urbino, Città di
Castello e Perugia.
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Fig. 17 Raffaello, Il sogno del cavaliere, 1504, Londra, National Gallery
Foto cortesia Ufficio Stampa della Mostra |
Le
opere esibite sono caratterizzate dai tipici modi assunti in seguito
all’alunnato presso Pietro Perugino.
Si osservi, per esempio, la tavoletta Il
sogno del cavaliere
(fig. 17, 1504, Londra, National
Gallery),
sono evidenti gli insegnamenti dell’anziano umbro (nel fare dolce,
lezioso, prezioso, perfezionista e stereotipato), ma presto
l’ambizioso Raffaello supera il maestro misurandosi, e vincendo,
nell’interessantissima sfida Consegna
delle Chiavi
vs Sposalizio
della Vergine.
Nello Sposalizio
(1504, Pinacoteca
di Brera,
Milano) lo stile peruginesco è “migliorato” in una solennità
spaziale che manca alla Consegna
(1481-82,
Cappella
Sistina,
Città del Vaticano), l’aneddotica scena liturgica del Perugino
diventa in Raffaello una scena reale, interpretata da soggetti veri
in un contesto religioso che può sembrare un matrimonio qualsiasi e
non l’evento evangelico.
Un
percorso ragionato, fatto di causa ed effetto all’inverso,
un’accurata restituzione del personaggio universale, attraverso
tutti i campi in cui si è impegnato, dalle arti all’urbanistica,
dalla tutela all’architettura, al collezionismo e alla letteratura,
un’approfondita indagine sul clima culturale in cui si forma il
maestro e non una mera presentazione di capolavori indiscussi è la
mostra dedicata al “divin pittore”: Raffaello. 1520-1483, colui
che nelle parole di Pablo Picasso ci ha dato il cielo.
IL CATALOGO
A
cura di Marzia Faietti e Matteo Lafranconi con Francesco P. Di
Teodoro e Vincenzo Farinella, il poderoso volume in brossura,
pubblicato da Skira, si presenta con una veste editoriale pregiata e
curata.
La
leggera e snella parte introduttiva tradizionale di ringraziamenti,
di coloro che hanno reso possibile questa impresa espositiva
(istituzioni, partner ed organizzatori), è seguita da un’importante
e scientificamente notevole unità saggistica, intercalata,
curiosamente, dal catalogo delle opere in mostra sticto
sensu. L’originalità
costruttiva del
catalogo, forse un po’ farraginosa nell’accesso, non essendoci un
indice delle opere non resta che procedere sfogliando il testo, si
spiega con la volontà di legare i lavori presentati al saggio di
catalogo esplicativo della sezione. L’intero scritto si pone nel
panorama editoriale sul maestro non come un mero catalogo, ma come un
aggiornamento scientifico, importante ed approfondito delle ricerche
sulla figura dell’Urbinate.
Ben
15 saggi di tenore scientifico, scritti da studiosi, storici ed
esperti di Raffaello, che restituiscono il
personaggio
assoluto, l’“ottimo
universale” come lo definisce Vasari, alludendo alla pratica di
dedicarsi a tutte le discipline artistiche ed intellettuali (pittura,
architettura, topografia, disegno, urbanistica, collezionismo,
letteratura, tutela … ).
Schede tradizionali
completano il racconto saggistico: autore, titolo, datazione,
supporto/tecnica, dimensioni, provenienza e data di acquisizione,
numero di riferimento, l’analisi storico-critica del quadro e
specifica bibliografia.
Di
notevole rilievo sono le magnifiche e molteplici immagini a tutta
pagina a colori, corredate da ingrandimenti significativi di
dettagli, e accompagnate da didascalie complete e riferimenti di
scheda di catalogo.
Rileviamo,
purtroppo, l’assenza dei tradizionali e fondamentali strumenti di
studio a completamento del volume: fatto salvo l’aggiornatissima
bibliografia, mancano le appendici documentarie molto utili agli
studiosi e studenti,
In
chiusura i sempre presenti crediti fotografici.
Il
catalogo nelle parole di Lafranconi che auspica di offrire al
pubblico di addetti ai lavori nuove prospettive di lettura del
maestro e al vasto pubblico di amanti Raffaello vie di accesso meno
note e non banali: “Inevitabilmente, l’ampiezza dei saggi e la
notevole quantità di opere schedate consentiranno di fare il punto
sugli studi raffaelleschi, mentre la presenza in catalogo di
specialisti di vari settori, che hanno consolidate esperienze di
studi sull’Urbinate, consentirà approcci differenziati ma tra loro
comunicanti. Un artista universale come Raffaello meritava quella
polisemia di linguaggi e di metodi di ricerca che abbiamo fin
dall’inizio ricercato intenzionalmente per non limitare la nostra
indagine al solo pittore, per quanto «divino». Noi non studiamo
solo il pittore, ma l’artista universale. Lo stesso Vasari, quando
scrisse la Vita di Raffaello lo definì pittore e architetto (lo fu
infatti della Fabbrica di San Pietro), ma sappiamo che egli era molto
di più. Era un collezionista, un antiquario, il «praefectus
marmorum et lapidum omnium» (vale a dire il soprintendente alle
antichità di Roma) e intraprese la ricostruzione grafica di Roma
antica affidatagli dal papa Medici, cui va collegata appunto la
«Lettera a Leone X» sull’architettura classica scritta con il
supporto letterario di Castiglione. Marginalmente si occupò di
scenografie teatrali e scrisse qualche sonetto. La mostra vuole
restituire lo spessore della sua complessa figura di artista,
sperimentale e poliedrica, e stupire per l’apparente naturalezza
dei risultati conseguiti in ognuna delle sue creazioni artistiche,
attraverso la ragionata selezione delle opere esposte.
DOVE
Scuderie
del Quirinale,
Roma
Quando:
05 marzo - 02 giugno 2020
NOTE
BIBLIOGRAFIA
Raffaello.
1520-1483, (a cura
di) M. Faietti e M. Lafranconi, catalogo della mostra Roma (Scuderie del Quirinale 05 marzo- 2 giugno 2020), Roma 2020.
M. C. Viljoen, Between the sheets: Raffaello, il nudo e
l’erotizzazione delle incisioni,
in Giulio Romano:
Arte e Desiderio, (a
cura di) B. Furlotti, G. Rebecchini e L. Wolk-Simon, catatogo della
mostra Mantova (Palazzo
Te, 06 ottobre 2019
– 06 gennaio 2020), pp. 68-77.
G. Cricco – F. P. Di
Teodoro, Itineriario
nell’arte, Roma
2018, IV edizione, Vol III, pp. 374-397.
La Grazia e la
Luce. La pala di Senigallia del Perugino. Armonia e discordanze nella
pittura marchigiana
di fine Quattrocento,
(a cura di) C. Caldari, catalogo della mostra Senigallia (Palazzo del Duca-Pinacoteca Diocesana), Ancona 2014.
AA VV, I Papi della Memoria: La storia di alcuni
grandi Pontefici che hanno segnato il cammino della Chiesa e
dell’Umanità, Roma
2012.
B. Foglia, Michelangelo nel teatro, Napoli 2009.
G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori,
scultori e architetti,
edizione integrale a cura di M. Marino, Roma 1991, parte III, pp.
618-647.
R. Sanzio, Tutti gli scritti, a cura di E. Camesasca, Milano 1956.
J. A. de Gobineau, La Renaissance, Monaco 1947.
G. G. Bottari – S. Ticozzi, Raccolta di
Lettere sulla Pittura, Scultura ed Architettura scritte da’ più celebri
personaggi dei secoli XV, XVI e XVII, Milano 1822.
O. Boni, Riflessioni sopra Michelangelo
Buonarroti del cav. Onofrio Boni in risposta a quanto ne scrisse
Rolando Freart sig. De Chambray nell'opera Idée de la perfection de la
peinture etc, 1809.
G. Vasari,
Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze 1568, ed. consultata Newton, collana “I
Mammut”, Roma, 1991.
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