Il
Jüdisches Museum Berlin (figg. 1 e 2), altrimenti detto, con una formula più
lunga e frutto di continui ripensamenti: «Ampliamento del Dipartimento Giudaico
del Museo di Storia Civile di Berlino», è un capolavoro architettonico
realizzato da Daniel Libeskind. Tale struttura viene spesso annoverata tra le
costruzioni decostruttiviste, edifici che perdono la solidità statica
dell’architettura classica per dissolversi in forme fluide che conferiscono
grande dinamicità a quelle che non sono più delle scatole architettoniche. Il Jüdisches
Museum è una struttura anticlassica, o meglio, al fine di utilizzare
espressioni che siano al passo con i tempi, è un’architettura liquida, la cui
fluidità è data dal suo profilo zigzagante e scomposto che evade dal mondo
euclideo. Il concetto di fluidità architettonica è, probabilmente,
difficilmente comprensibile ed accettabile, proprio perché viene associato
all’arte del costruire che si è sempre occupata di erigere strutture durature,
solide e statiche. Ma nell’era contemporanea dominata dalla fluidità
virtuale del World Wide Web o del Cyberspace, è chiaro che il mondo della
solidità e della concretezza subisca l’influsso di nuovi concetti. Da questo
«labirinto senza fine»
qual è il ciberspazio, si mutua l’elemento del disorientamento, caratteristica
tipica della costruzione libeskindiana qui presa in esame, che ben risponde
all’idea di destabilizzazione architettonica proposta da Peter Eisenman,
maestro di Libeskind, nonché teorico del concetto di decostruzione in ambito
architettonico. Il carattere labirintico è onnipresente nel Jüdisches Museum,
dal sottolivello ai tre spazi espositivi superiori in cui si viene trasportati
fluidamente tra gli svariati oggetti e reperti lì custoditi e disposti
caoticamente, i quali, ostacolando insieme alle nere pareti dei vuoti interni il
percorso a rete, costringono ad aggirare tali ostruzioni che ripropongono
significativamente una storia “tortuosa”.
Caos, dinamismo (sia all’interno che all’esterno di questa scultura
architettonica) e complessità, sono alla base della geometria di riferimento:
non quella euclidea dell’ordine, della solidità e della stabilità, ma quella
frattale.
Non più figure geometriche, ma linee intersecantesi che non creano più angoli
retti, rigettando così la classica griglia dei nove quadrati detestata da
Daniel Libeskind sin dal periodo di formazione presso la Cooper Union School.
Le riflessioni di Marcos Novak su questa architettura virtuale sempre mutevole,
impalpabile, al limite della realizzabilità, ben si confanno all’attività
grafica e costruttiva di Daniel Libeskind, il quale ha realizzato molti disegni
e progetti di un’architettura immaginaria e utopica in cui le Carceri di Piranesi, o
l’eco dell’astrattismo di Kandinskij, solo per citare alcuni esempi, sono
particolarmente presenti. Questi artisti vengono indicati da Novak quali
precursori degli spazi astratti del Cyberspace, la cui architettura «tende a
diventare musica»,
una sinfonia continua e mutevole, sfuggente e dinamica, come del resto è il
Jüdisches Museum di Libeskind in cui l’arte dei suoni, inoltre, gioca un ruolo
non irrilevante.
L’edificio
berlinese costruito sulla Lindenstrasse, nel quartiere di Kreuzberg,
significativamente accanto alla sede che ha ospitato precedentemente un’esigua
collezione ebraica, è stato realizzato a partire dal 1989, anno particolarmente
importante per gli sviluppi storici a livello mondiale, nonché per il progresso
della cultura tedesca, soprattutto in rapporto con quella ebraica. Gli orrori e
i crimini commessi dai nazisti hanno impedito per molti
anni di dialogare con il popolo decimato dalle loro stesse mani; il peso della
vergogna costringeva a mettere tutto a tacere. Negli anni Cinquanta, ossia
nell’immediato dopoguerra, venne coniata una parola quasi impronunciabile, Vergangenheitsbewältigung (confronto con
il passato), parola che venne però utilizzata soltanto dopo circa trent’anni.
Nel mondo bipolare della Guerra Fredda l’ebreo poteva ancora far discutere,
tanto nella Germania dell’Est quanto nella Germania dell’Ovest, terre divise
politicamente e ideologicamente, ma unite da un triste e comune passato. La
caduta del muro e la conseguente riunificazione hanno permesso al popolo
tedesco di riconoscere gli errori e gli orrori commessi precedentemente e di
recuperare dall’oblio in cui erano stati repressi fino a quel momento i ricordi
di quella tragica parentesi della storia novecentesca. Ricordare era necessario
sia per affrontare che per cercare di superare un dramma collettivo che
accomunava - e talvolta ancora accomuna - in uno stato di angoscia o senso di
colpa, vinti e vincitori, sopravvissuti e discendenti di chi è venuto meno. La
memoria storica è il concetto chiave di questo progetto architettonico: non si
può e non si deve dimenticare l’Olocausto, l’evento storico più eclatante del
passato ebraico, che proprio per la sua tragicità deve spronare le nuove
generazioni che si confrontano con esso a costruire un futuro scevro di tanti
mali. Kelsey Bankert ha parlato di traumatic
architecture (architettura traumatica) al fine di sottolineare che questa
struttura non solo rievoca drammaticamente una tragedia storica, ma aiuta nel
contempo a superarla con l’allestimento di spazi terapeutici e catartici.
Geniale
è Libeskind nel progettare questa metafora architettonica: ogni singolo
elemento strutturale e presumibilmente anche i numeri che indicano le
dimensioni degli spazi, nonché i colori e l’impianto architettonico nel suo
complesso, presentano un particolare significato. Oltre a far riferimento
ovviamente alle nozioni scientifiche necessarie per l’erezione di un edificio,
Libeskind costruisce sottili rimandi simbolici alle più svariate discipline del
settore umanistico, come quelle storico-filosofiche, artistiche, musicali e
letterarie. Con certezza sappiamo che alla base di questo progetto vi sono
quattro fonti principali di svariata natura: una cartina della città di
Berlino, il componimento Moses and Aronne
di Schönberg, i Gedenkbuch e l’Einbahnstrasse
(Strada a senso unico) di Walter Benjamin. Ci si chiede a cosa servisse la
cartina di Berlino quando nel bando di concorso era stato, ovviamente, già
stabilito il luogo di edificazione dove gli architetti si recarono anche per un
sopralluogo, lì dove sorgeva un parco giochi, accanto al Kollegienhaus, antico
tribunale costruito da Philipp Gerlach nel 1735 e adibito successivamente a
sede museale per l’esposizione di reperti storici. Libeskind ha ricercato
meticolosamente su quella cartina i civici presso cui risiedevano illustri
uomini di cultura, ebrei e tedeschi, dell’Ottocento e del primo Novecento,
uniti in una sorta di «connubio»
mediante una semplice linea. Ironia della sorte, o forse semplicemente
conseguenza di un accurato studio, le linee tracciate sulla cartina della città
per unire le coppie di intellettuali hanno dato vita ad una stella a sei punte,
la stella di David, l’emblema della religione ebraica divenuto però nel
Novecento simbolo discriminatorio. Le coppie da lui individuate sono: Rahel
Levin Varnaghen con il teologo luterano Friedrich Schleiermacher (tale linea di
congiunzione si sovrappone alla Lindenstrasse su cui è poi sorto il Museo),
Paul Celan e Mies van der Rohe, il poeta E.T.A. Hoffmann e Friedrich von
Kleist. Entro questa sorta di “cornice” tipicamente ebraica, Libeskind ha
collocato il suo museo che nelle forme riprodurrebbe di nuovo una stella a sei
punte, ma questa volta decomposta, resa mediante una forma zigzagante che non
rende immediatamente comprensibile il suo vero significato. È necessario
sottolineare che tale profilo è percepibile soltanto da una veduta aerea e
l’impressione che se ne ricava, più spontanea e naturale, è quella di riconoscervi un fulmine,
motivo per cui i berlinesi indicano questa struttura con il termine blitz (fig. 3).
La
seconda fonte è di natura musicale: Libeskind si concentra sul terzo atto non
musicato del Moses and Aronne di
Arnold Schönberg, musicista ebreo costretto a lasciare l’Europa negli anni
Trenta a causa dell’acceso odio antisemita. Questo è il motivo per cui il suo
celebre componimento che esalta personaggi veterotestamentari è rimasto
incompiuto, e proprio il concetto di incomunicabilità e il silenzio che
caratterizzano il terzo atto hanno ispirato Libeskind. Quest’ultimo ripropone
l’assenza di suoni con i voids, ossia
con vuoti, spazi non percorribili che scandiscono la struttura architettonica.
Il void è l’elemento strutturale
cardine di tale costruzione, particolarmente eloquente nel riproporre l’assenza
fisica di chi è venuto meno nei campi di sterminio, o il silenzio a cui fisici,
scrittori e artisti sono stati costretti. Lo stesso Schönberg, dunque, è
rimasto vittima dell’odio hitleriano e viene pertanto ricordato al pari dei
numerosissimi ebrei scomparsi o esiliati che hanno lasciato un vuoto, un
profondo silenzio, ma almeno il ricordo. In questo museo che si confonde con i
luoghi sacri in cui si entra mediante un «rito processionale»,
si rende omaggio alle vittime dell’Olocausto con una muta preghiera, o, come
avrebbe voluto Libeskind, con la lettura di numerosi nomi di persone scomparse
che avrebbero riempito i vuoti. La nostra voce, leggendo quell’elenco
interminabile di nomi poi non più incisi sulle pareti, avrebbe modulato in tal modo una
sorta di cupa litania, un lugubre lamento funebre che avrebbe fatto
rabbrividire. Quei nomi di identità spettrali, non frutto della strabiliante
fantasia dell’architetto, sono stati estrapolati dai Gedenkbuch (terza fonte), due
enormi volumi custoditi dalle autorità federali in cui compaiono i nomi dei
deportati (tra cui figurano molti Libeskind) con le rispettive date di nascita
e di deportazione, nonché il campo di concentramento in cui sono stati
internati.
Quarta
ed ultima principale fonte di ispirazione è il saggio sopracitato di Walter
Benjamin, una raccolta di aforismi dedicata agli amici in cui
surrealisticamente, seguendo pertanto un percorso non lineare e disorientante,
si può ricostruire il profilo topologico e spirituale della Berlino degli anni
Venti. Pensieri, sogni e ambienti descritti consequenzialmente suscitano nel
«lettore-visitatore la sensazione di una mancanza di un senso di orientamento,
il venir meno del senso sia spaziale che temporale» e
proprio il carattere surrealistico dello smarrimento accomuna questo testo
letterario con quello architettonico di Libeskind, perché l’architettura è un
testo, derridianamente parlando.
Facendo
l’analisi del contesto urbano in cui è stato inserito il Jüdisches Museum, si
può notare la notevole difformità di tale costruzione rispetto a quelle
costruite precedentemente (Kollegienhaus e
strutture abitative) sullo stesso lato della Lindenstrasse e con cui condivide
soltanto l’altezza, in rispetto della normativa alla base del piano regolatore
della città. Di fronte però al Kollegienhaus vi è l’Accademia del Jüdisches
Museum ultimata da Libeskind nel 2011.
Tale struttura dialoga con quelle preesistenti, richiamando in particolar modo
il Museo Ebraico mediante il rivestimento (in questo caso ligneo) solcato da
linee diagonali, nonché attraverso l’inclinazione del cubo di accesso che
ricorda il Giardino dell’Esilio. Il museo sorge in un’ampia area verde, verde
che è presente sia nel lotto di costruzione che nella zona retrostante al
cortile vetrato realizzato da Libeskind nel 2007 nello spazio quadrato
ricavato tra i tre corpi di fabbrica dell’antico tribunale settecentesco. I due
giardini sono stati progettati indipendentemente l’uno dall’altro: lo spazio
verde sul retro del Kollegienhaus è stato organizzato da Hans Kollhoff e Arthur
Ovaska in maniera conforme allo stile del palazzo settecentesco; quello intorno
alla struttura di Libeskind, da Cornelia Müller, Jan Wehberg ed Elmar
Knippschild, i quali, utilizzando lastre di pietra, creando viali di ghiaia e
piantando particolari e significativi arbusti, hanno allestito uno spazio che
permette alla struttura libeskindiana di essere integrata nell’ambiente
circostante. Interessante è il rimando a Paul Celan, poeta e premio della
letteratura commemorato esplicitamente da Libeskind: in uno spazio creato dalle
pareti zigzaganti dell’edificio vi è il “Cortile Celan”, accessibile
dall’esterno, che presenta un rilievo pavimentale disegnato da Gisèle
Celan-Lestrange, la vedova del poeta.
Mentre
le strutture adiacenti mostrano alla luce dell’analisi geometrica una
composizione basata su forme e volumi geometrici primi - basti pensare al Kollegienhaus inscritto in un quadrato o alle
abitazioni disposte ritmicamente l’una di fronte all’altra in maniera
proporzionale, riproponendo ancora una volta un volume primo qual è il cubo -
il museo di Libeskind tipologicamente si differenzia notevolmente, trattandosi
di una struttura con uno sviluppo frammentato su una spezzata aperta.
Tracciando i prolungamenti dei singoli segmenti che costituiscono la linea
zigzagante si otterranno centri di proiezione propri che non hanno particolare
importanza. La forma irregolare è frutto dello sviluppo di due linee
direttrici: una tortuosa e tendente ad infinito (quella blu) che funge da
modello per l’elevazione, l’altra «dritta ma spezzata»
(linea rossa) che determina il vuoto continuo interno (fig. 4).
La struttura è mista, ossia è il frutto dell’unione di struttura continua e
puntiforme, realizzata con pilastri di acciaio, visibili anche nei “tagli”
praticati sulla superficie che superano le dimensioni consentite in una
struttura in muratura piena (fig. 5), e con cemento armato, come si evince
dalle parti piene a setto continuo (i vuoti interni all’edificio) lasciate
volutamente grezze. Ciò permette in pianta di cogliere ulteriori differenze con
il preesistente Kollegienhaus dal momento che quest’ultimo, in conformità alle
regole architettoniche settecentesche, è una struttura in muratura continua
piena che ben trasmette l’idea di solidità e di staticità che viene meno nel
fluido museo libeskindiano. Interessante è il rapporto tra spazi pieni e vuoti
che sono soggetti ad una trasposizione dall’esterno all’interno e viceversa. Le
finestre sottili e lunghe che costituiscono i vuoti della superficie esterna
prendono corpo all’interno mediante dei pilastri in cemento armato (fig. 6)
disposti obliquamente che incombono come «minacce sempre presenti»
sul vano scala principale e che altro non sono che la prosecuzione all’interno
dell’edificio delle aperture all’esterno, così come, al contrario, quest’ultime
sono la continuazione delle travi interne. In aggiunta, la luce contribuisce a
creare un rapporto di continuità tra interno ed esterno, pieno e vuoto, poiché
i fasci di luce che entrano mediante le aperture (vuoti per l’appunto) si
riflettono sulle bianche e spoglie (ma piene) parenti interne. Seguendo il
“codice anticlassico”, le finestre qui sono l’una diversa dall’altra e disposte
non in maniera sequenziale e modulare; nell’edificio prospiciente, invece,
Gerlach ha scelto di dividere la facciata orizzontalmente con due ordini di
finestre e di scandirla ritmicamente anche con lesene che individuano
verticalmente cinque moduli rettangolari (fig. 7). Lo studio della facciata, in
questo caso, si basa sul concetto di simmetria: il modulo centrale in cui è
collocato l’ingresso del Kollegienhaus, ma anche del Jüdisches Museum di
Libeskind, è particolarmente enfatizzato mediante l’uso di aperture più ampie,
di una balconata al secondo livello, nonché di un coronamento templare, dal
momento che il modulo è delimitato in alto da un timpano su cui sono collocate
le statue allegoriche della Giustizia e della Prudenza. Altra caratteristica
che differenzia le due strutture è possibile scorgerla da una veduta a volo
d’uccello: osservando l’antico tribunale si vedrà un tetto rosso a spiovente,
mentre l’edificio di Libeskind ha una copertura piatta (e in questo vi è un
omaggio a Schinkel che con le sue coperture lisce rivoluzionò l’architettura
berlinese dell’Ottocento) su cui si scorgono le tubature e tutte le parti
costituenti degli impianti di varia natura (fig. 3): tutto viene messo in luce,
nulla è nascosto nella muratura.
Daniel
Libeskind, inoltre, come già accennato sopra, ricorre all’elemento labirintico,
in linea con i principi del Decostruttivismo di cui è un esponente (anche se
non ama essere definito tale), al fine di scardinare il classico senso
dell’orientamento dato dalle tradizionali scatole architettoniche, in modo tale
che il visitatore possa essere coinvolto sia emotivamente che fisicamente. Il
cuore, la mente e i sensi vengono sollecitati al fine di favorire
l’immedesimazione in un qualsiasi ebreo, cambiando anche la consueta pratica di
mettere il visitatore passivamente dinanzi o dentro una struttura
architettonica. Forte è il senso di disagio, incertezza e angoscia che si può
provare entrando nell’edificio o addirittura ancor prima di addentrarsi in
esso, poiché già sostando sulla Lindenstrasse si può riscontrare quella che i
più definirebbero un’anomalia: la struttura contemporanea che sembra essere
autonoma rispetto a quella prospiciente, tra l’altro così diversa nello stile,
nelle forme e nei colori, in realtà è strettamente dipendente da essa perché il
museo di Libeskind non ha un proprio ingresso. Questa scelta conforme al canone
anticlassico - dato che l’ingresso è spesso enfatizzato nella tradizione
classica per collocarlo in posizione centrale nell’apparato simmetrico alla
base della progettazione modulare della facciata, come testimonia del resto il Kollegienhaus - ha
una valenza simbolica. Nel bando di concorso era stato espresso chiaramente che
l’edificio sarebbe sorto significativamente nel lotto di forma triangolare
accanto al Kollegienhaus e che, presumibilmente, sarebbe stato autonomo.
Libeskind invece ha collegato le due costruzioni mediante una ripida scalinata
e un percorso sotterraneo che conduce, come lui stesso ha affermato, alle «radici» della storia berlinese in cui non è possibile separare quella
tedesca da quella ebraica. Per cui, chiunque voglia far visita al Museo Ebraico
di recente costruzione deve entrare nell’adiacente edificio settecentesco e
scendere numerosi gradini che suscitano un nuovo e profondo senso di incertezza
dovuto all’impossibilità di scorgere cosa ci sia al termine della scalinata.
L’insicurezza, soprattutto nella prima parte del percorso espositivo, vige
sovrana affinché il visitatore sia partecipe della drammatica esperienza
dell’esilio, dell’ultimo viaggio verso la morte e della ripresa della propria
vita, per chi si è salvato, dopo aver provato tanta sofferenza. Gli ebrei non
hanno avuto certezze e sicurezze nel momento della partenza per nuove,
sconosciute e lontane terre; non hanno avuto consapevolezza della meta di quel
viaggio, per i più senza ritorno, verso i campi di concentramento; i superstiti
non hanno avuto la serenità e la tranquillità nell’affrontare una nuova vita
che portava le indelebili tracce di un passato crudele. Come si può allora
ricreare quelle spiacevoli sensazioni facendo riferimento all’architettura
classica, alle sue forme e ai suoi principi rassicuranti che hanno invece ispirato
l’arte del nemico? Era quasi una scelta obbligata rigettare l’angolo retto per
quello più acuto, inclinare il pavimento per affaticare il visitatore durante
il percorso, rimpicciolire le finestre
al fine di far entrare poca luce ed evitare qualsiasi contatto con l’esterno
così da ricreare la grigia atmosfera dei campi di sterminio in cui si viveva
nella penombra, in completo estraniamento, avendo solo la certezza di essere
stati imprigionati, di essere maltrattati e, con molte probabilità, di essere
condotti verso la morte. Per un’architettura emotiva o sensibile in cui vengono
sollecitati tutti i sensi, anche quelli prima trascurati per favorire «la
percezione sensoriale nell’esperienza estetica e nella fruizione culturale»,
è obbligatorio rigettare la classica impostazione scatolare e la progettazione
stabilita del percorso espositivo che presuppone un comune stato dei
visitatori; al contrario, i turisti devono svolgere un ruolo attivo, devono
cercare da soli la giusta strada da percorrere e modificare, pertanto, il
proprio senso dell’orientamento.
Quest’ultimo
viene ulteriormente sconvolto nel sotterraneo in cemento armato a setto
continuo in cui vi sono tre corridoi che oltre ad essere spazi serventi o di
collegamento, possono essere considerati anche spazi serviti dal momento che
lungo i corridoi vi sono delle teche contenenti oggetti appartenuti ad alcuni
ebrei (fig. 8). Effettuata la discesa
mediante la scala di congiunzione delle due strutture, ci si ritrova sull’Asse
della Continuità, un corridoio terminante con una nuova rampa di scale che
riporta in superficie per permettere così di proseguire il cammino sulle tracce
della storia, anche se ciò può esser fatto soltanto dopo un processo di
purificazione reso possibile percorrendo gli altri assi. Come un “novello
Dante”, il visitatore deve scendere negli abissi infernali e sperimentare il
male assoluto messo in atto principalmente con la Shoah. Anche se in questo museo sono custoditi reperti di svariato
genere che raccontano tacitamente duemila anni di storia, Libeskind decide di
porre l’accento sulla parentesi storica più tragica, perché si intreccia
inevitabilmente con il passato e con il futuro non solo degli ebrei, ma della
popolazione mondiale. Dapprima si è invitati a percorrere l’Asse dell’Esilio
terminante con una parete trapezoidale di vetro accanto alla quale vi è una
porta che immette nel Giardino dell’Esilio, altrimenti detto Giardino E.T.A.
Hoffmann, uno spazio servito di quarantanove metri quadrati (fig. 9). Si tratta
di un luogo aperto, ma paradossalmente claustrofobico, perché i colori della
natura vengono sopraffatti dal grigio e l’erba viene sostituita da una colata
di calcestruzzo armato; perché il cielo lo si può solo intravedere; perché,
mediante un rovesciamento, ci si ritrova in una foresta di pilastri sopra i
quali però sono stati piantati degli ulivi. Non un classico giardino, dunque,
non un’oasi di ristoro, non un luogo verde in cui ammirare le classiche
bellezze naturali: entrando in questo giardino forte è il senso di estraniamento
che spinge a scappare via. Qui l’elemento labirintico è ben evidente e la
mancanza di equilibrio che costringe i più ad appoggiarsi ai ruvidi pilastri,
sollecitando in tal modo anche il tatto, è causata non solo dall’uso di
pilastri uguali ed equidistanti, ma è anche dovuta all’inclinazione di sei
gradi del piano di calpestio. Questo stesso espediente è stato utilizzato, qualche
anno dopo, da Peter Eisenman nella realizzazione del Memoriale per gli Ebrei
assassinati d’Europa a Berlino (fig. 10). Anche in questo spazio, che appare
come un grande cretto di Burri, il senso di disagio è molto forte camminando
tra gli oltre duemilasettecento parallelepipedi di altezza crescente. Fabio
Colonnese ha definito il Giardino E.T.A. Hoffmann «la più labirintica
interpretazione della sala ipostila»
il cui soffitto è il cielo che poggia sulle morbide chiome degli ulivi piantati
sulla sommità dei quarantanove pilastri a simboleggiare la rigenerazione dopo
il dramma, nonché, come afferma Zambelli, la capacità di adattamento del
“popolo senza terra”.
Il numero dei pilastri non è casuale ma simbolico: quarantotto riempiti con
terra berlinese rimandano al 1948, anno della nascita dello Stato di Palestina;
il quarantanovesimo, posto al centro della superficie quadrata cementificata, colmato con terra palestinese, rappresenta la
città di Berlino in cui la cospicua comunità ebraica ha sin dalle origini
svolto un ruolo molto importante non solo dal punto di vista economico, ma
anche e soprattutto culturale. Libeskind definisce tale giardino il «naufragio della
storia»,
il luogo in cui ogni certezza viene meno e in cui si scontrano sentimenti
contrastanti, come la disperazione e la speranza, simboleggiata quest’ultima,
ovviamente, dal verde delle chiome.
Dopo
questa esperienza drammatica, il visitatore deve affrontarne un’altra ancor più tragica: quella dell’Olocausto.
Fisicamente il percorso risulta “impegnativo” dal momento che l’Asse
dell’Esilio e quello dell’Olocausto presentano una certa inclinazione
pavimentale e il corpo del visitatore è sottoposto a forti sbalzi termici.
L’Asse dell’Olocausto presenta lateralmente delle teche di forma trapezoidale
contenenti oggetti appartenuti alle vittime della Shoah, ma per poterli vedere è necessario avvicinarsi ad esse poiché
sono chiuse da vetri opachi, come se fosse necessario un raccoglimento per
vedere quella sorta di reliquie. Mediante un gioco di contrasti, questo
corridoio, che interseca significativamente gli altri due, termina con una porta scura che immette in un altro corpo architettonico in cui il tepore viene meno, dal
momento che la torre trapezoidale, detta Voided
void, anch’essa uno spazio servito, non
è dotata volutamente di alcun sistema di riscaldamento o di raffreddamento. La
pesante porta infernale viene letteralmente sbattuta alle nostre spalle con un
tonfo che rimbomba nel buio della torre illuminata soltanto da una feritoia.
Non vi è nulla in questo luogo claustrofobico, solo una scala (forse un rimando
alla Scala di Giacobbe che unisce il mondo terreno con quello celeste) non
raggiungibile. Non c’è via di scampo. In questo spazio della morte si odono il
rimbombo della porta metallica da cui entrano nuovi “deportati” e, attutite, le
voci dei bambini dell’asilo che sorge nelle vicinanze; si ascolta il suono
della vita che pullula fuori da questo spazio opprimente che rievoca i camini
dei forni crematori,
o le camere a gas,
oppure i vagoni dei treni merci in cui venivano costipati gli ebrei nel loro
ultimo viaggio. In effetti quella lama di luce bianca che rischiara leggermente
l’oscurità del luogo rievoca un racconto contenuto nel libro di Yaffa Eliach Non ricordare…non dimenticare: l’Olocausto
raccontato con la speranza chassidica nell’umanità. Libeskind aveva
inizialmente pensato di creare un grande vano completamente buio al fine di
riproporre una camera a gas, ma il racconto di questa donna sopravvissuta ha
fatto mutare idea all’Archistar dal momento che alcuni sono riusciti a
sopravvivere. La donna citata ricorda il suo viaggio in treno da cui vide,
attraverso una fessura, una linea bianca, presumibilmente una nuvola, o la scia
di un aereo, che infuse in lei la sicurezza che avrebbe prima o poi rivisto
il cielo, e così effettivamente è stato.
Dalla
sommaria descrizione si può evincere che Daniel Libeskind è stato
particolarmente coinvolto emotivamente nella progettazione di tale
architettura, come se i suoi genitori, entrambi internati nei campi di lavoro e
costretti anche dopo la liberazione a continue e rocambolesche fughe, gli
avessero trasmesso geneticamente la sofferenza patita. I racconti, i documenti
consultati, nonché la discriminazione da lui stesso subita in tenera età, gli
hanno permesso di vincere un concorso e di materializzare per la prima volta un
suo progetto. Sì, il Jüdisches Museum Berlin è il primo edificio da lui
costruito, parallelamente al Felix Nussbaum Museum a Osnabrück
(figg. 12, 13), all’età di cinquant’anni. Precedentemente ha dedicato la sua vita
alla carriera didattica e all’attività grafica in cui l’eco dechirichiano,
surrealista e cubista (ma non solo), è particolarmente presente. Perché, allora,
proprio in quel momento, proprio con questo progetto, riuscì a superare una
lunghissima fase di pura ideazione? Questo quesito gli venne posto nel 1991 da
Vittorio Magnago Lampugnani al quale Libeskind rispose dicendo che «idea,
metodo e desiderio» si fusero in un rapporto di evoluzione e continuità
rispetto a quanto fatto precedentemente.
Sulla sua scrivania di bandi ve ne sono molti, ma ne sceglie pochi, solo quelli
attraverso i quali può davvero trasmettere un messaggio, e l’ampliamento per il
Dipartimento Giudaico è uno di questi. Del resto nella sua autobiografia
asserisce che le sue architetture devono essere “lette” come dei testi,
«testi architettonici destabilizzanti»,
afferma d’altro canto Eisenman, che sono soggetti a diverse interpretazioni e
che presentano continui rimandi ad altri scritti, di qualsiasi natura. Questa
metafora rafforza ulteriormente il collegamento con il mondo
filosofico-letterario da cui scaturisce il Decostruttivismo con cui si designa
un gruppo di opere architettoniche in cui riemergono «impurità represse» e
con cui si riscattano tutti coloro che hanno tentato nel passato, anche quello
più remoto, di parlare una nuova lingua architettonica, talvolta senza essere compresi.
Il
progetto del Museo Ebraico è noto con il nome Between the lines (Tra le
righe) rievocando, presumibilmente, anche il between eisenmaniano. Peter Eisenman, che a partire dagli anni
Ottanta si avvicina alle teorie decostruzioniste al fine di favorire la
destabilizzazione dell’architettura, definisce il between «una giustapposizione di strutture», al fine di non far
prevalere l’una sull’ altra; parla di «forme interstiziali intermedie che
ammettono l’irrazionale nel razionale, così come il presunto brutto nel
presunto bello i cui rispettivi confini non sono più ormai così distinti e
universalmente riconoscibili».
Questa mescolanza di elementi eterogenei è possibile riscontrarla anche
nell’operato di Libeskind, il quale, ad esempio, crea “armonici contrasti”
mediante l’accostamento di strutture stilisticamente diverse, come accade per
il Jüdisches Museum, una struttura contemporanea e liquida unita ad una
settecentesca e dal tradizionale impianto scatolare.
Quel che banalmente può essere definito un contrasto, Libeskind lo definisce
armonia, esplicitando questo concetto con un’immagine musicale: nell’insieme
della musica classica vengono posti disparati brani che presentano molteplici
differenze l’uno dall’altro, eppure convivono sotto lo stesso nome e la loro
esecuzione in successione non produce nessun contrasto stridente. Il
riferimento al mondo musicale è frequente nelle disquisizioni sull’operato di
Libeskind, poiché lui non ha mai abbandonato questa grande passione coltivata
sin da bambino e poi solo apparentemente accantonata per quella grafica e
quindi architettonica. Lo stesso titolo scelto per il progetto ha letteralmente
uno sfondo musicale: le linee non sono solo quelle di pensiero, nonché quelle
tracciate e intersecantesi per creare i vuoti
interni alla struttura museale, ma sono anche e soprattutto le linee del
pentagramma sui cui presentò in maniera grafica e descrittiva il suo progetto
per sottoporlo alla commissione. Il rapporto con la musica è stato anche molto
sofferto, dal momento che non ha avuto modo di suonare il pianoforte perché
questo strumento musicale poteva destare sospetti. Fu costretto ad
accontentarsi di una fisarmonica, strumento suonato per la musica folk e quindi non oggetto di rivalse
antisemite, con cui, tuttavia, riuscì a vincere anche un prestigioso premio.
Anche quando decise di dedicare il suo tempo al disegno, la musica continuò a
svolgere un ruolo importante e ciò è confermato dal frequente riferimento alla
pittura di Kandinskij (influenzato, a sua volta da Arnold Schönberg),
il cui astrattismo è ispirato all’arte dei suoni, genere artistico non regolato
dal principio di mimesis a cui la
cultura accademica, invece, costringe a far riferimento nell’ambito figurativo.
Libeskind è sempre stato un antiaccademico, rigettando, sin dal periodo di
formazione, il confronto con l’angolo retto, con il «problema dei nove
quadrati» e con la geometria euclidea.
«(Libeskind) non utilizza il mondo reazionario dei morfemi classici,
quanto le immagini appartenenti alle esperienze avanguardiste del Novecento»,
afferma Antonello Marotta, e il Museo Ebraico ne è la dimostrazione. Motivo per
cui è stato necessario attendere dieci anni prima di vedere ultimata la
struttura, correndo continuamente il rischio di dover abbandonare il progetto,
dovendo spesso rettificarlo, come accadde con le pareti esterne progettate
inizialmente inclinate. Pochi confidavano nella sua opera così eccentrica e
quasi utopica, tanto da suscitare scetticismo anche nei più grandi architetti
del Novecento, come Philip Johnson che rimase sbalordito quando Libeskind gli
mostrò il progetto. Eppure Daniel Libeskind ce l’ha fatta, resistendo
tenacemente alle critiche, come quella pubblicata dalla redazione della celebre
rivista Casabella, nel cui numero del
novembre 1989 si può leggere un articolo in cui si annuncia il vincitore del
concorso, ma si esalta il secondo classificato, Walter Nobel, di cui viene
presentato il progetto.
Ricordo inoltre che il museo venne aperto al pubblico nel 1999 (anno in cui
Libeskind vinse il Premio di Architettura Tedesca), registrando un numero
cospicuo di visite ancor prima che al suo interno venisse allestita la
collezione. Questo evento suscitò altre polemiche, poiché dopo l’inaugurazione
ufficiale nel settembre 2001 (data alquanto significativa per Libeskind a causa
del crollo delle Torri Gemelle),
si diffuse l’opinione che il museo, opera d’arte tridimensionale, dovesse
rimanere vuoto, poiché l’impatto emotivo sarebbe stato maggiore. Il senso di vuoto,
nichilismo e assenza sarebbe stato ancor più forte; la visita sarebbe stata ancor più emozionante.
Del resto, come afferma non a torto Bruno Zevi, questa struttura è «Espressionismo a scala metropolitana, non
più pago di urlare, deciso a rievocare l’orrore in modo gelido, tagliente,
spietato».
Il riferimento all’Espressionismo ben sintetizza l’operato di Libeskind e degli
artisti ebrei in genere, poiché tale corrente artistica, mediante figure spesso
inquietanti e mostruose – immagini deformate e dunque non riscontrabili nella
realtà perché non realizzate con il principio classico della mimesi - è volta
ad esternare i sentimenti dell’artista. Libeskind, del resto, non progetta
architetture che scardinano i principi classici al fine di esprimere al meglio
il suo pensiero o, come in questo caso, il suo dolore? Il collegamento con
l’Espressionismo diventa ancor più calzante anche dal punto di vista
linguistico e terminologico poiché il gruppo tedesco espressionista, ispirandosi alla filosofia di
Nietzsche, scelse il nome Die Brücke, ossia Il Ponte, mentre Kelsey Bankert nel descrivere «l’architettura del trauma»,
utilizza l’immagine del ponte per indicare la funzione di tale edificio: « a bridge between the memory of tragedy and
the future of traumatized people».
Con
tale riferimento si ribadisce l’anticlassicismo liquido alla base della propria
architettura, e soprattutto di questa architettura, o «anarchitettura»,
che può essere inserita nell’insieme degli anti-monumenti realizzati nella
Berlino post-riunificazione. La scelta di rigettare la monumentalità e i
principi classici che la sottendono è simbolica, poiché la monumentalità è
stata portata all’esasperazione dal nazismo e ciò ha sollecitato gli artisti
chiamati a commemorare le vittime dell’Olocausto a scegliere uno stile
antitetico rispetto a quello utilizzato per esaltare l’ideologia nazista. A
Kassel, ad esempio, con “l’anti-fontana” costruita nella piazza antistante al
municipio si è letteralmente rovesciato il monumento, dal momento che l’antica
fontana in stile neogotico fatta erigere da un ebreo e distrutta alla fine
degli anni Trenta è stata sì ricostruita, ma al contrario, non facendo
zampillare l’acqua verso l’alto, ma facendola convergere nel terreno. È proprio
con il riproporre la sua assenza, piuttosto che nel restituirle la sua
originaria forma, che talvolta si può rendere più vivo il ricordo. Il concetto
di assenza e vuoto è riproposto, tornando a Berlino, anche da Micha Ullman a
Bebelplatz (fig. 14) dove nel 1933 furono bruciati ventimila libri dai nazisti,
il cui ricordo è stato materializzato da una finestra aperta sul manto stradale
che fa scorgere nel sottosuolo una biblioteca vuota. Non si può allora non fare
un collegamento con i voids di
Libeskind progettati per il Dipartimento Ebraico del Museo di Berlino
poiché il messaggio che i due architetti
in questione vogliono comunicare è identico: ricordare anche se materialmente
non è rimasto nulla.
«Only the spirit of the books and the people remains; they meet each
other in the heavens».
Dopo
la costruzione del Museo Ebraico, Libeskind ha avuto grande notorietà, divenendo
subito un’Archistar, e oggi molti paesi nel mondo gli chiedono di lasciare la
sua firma sul proprio territorio mediante una delle sue meravigliose
costruzioni, costringendolo così a fare continui spostamenti. Da buon ebreo,
Libeskind è un “architetto nomade”, costretto più volte, sin da quando era
bambino, ad emigrare in cerca di un luogo in cui non fosse costretto
quotidianamente a confrontarsi con il “diverso”. Gli Stati Uniti, e nello
specifico il quartiere del Bronx, gli hanno concesso la serenità e soprattutto
la libertà, simboleggiata dalla statua più nota al mondo, nonché la prima
immagine apparsa dinanzi ai suoi occhi nel momento dello sbarco. Dopo la
parentesi americana però Libeskind ha ripreso a viaggiare per specializzazioni,
per la carriera didattica e ora per la
costruzione di edifici: è ancora, e forse ancor più di prima, un apolide, ma
adesso, almeno, conduce la sua vita all’insegna del nomadismo con uno spirito
diverso.
CRONOLOGIA
Pubblicazione
del concorso:
|
1988
|
Presentazione
progetto per il concorso:
|
giugno
1989
|
Posa
della prima pietra:
|
9
novembre 1992
|
Periodo
di costruzione:
|
1993-1999
|
Data
di completamento:
|
22
gennaio 1999
|
Apertura
al pubblico:
|
1999
(Il Museo era privo della collezione)
|
Riconoscimenti:
|
nel
1999 Daniel Libeskind riceve il Premio Tedesco per l'Architettura
|
Allestimento
della collezione:
|
1999-2001
|
Inaugurazione
ufficiale:
|
13
settembre 2001
|
NOTE
W.
BENJAMIN, Strada a senso unico, a
cura di Giulio SCHIAVONI , Torino,
Einaudi, 2006, p. IX. L’Arianna che permette di uscire dal labirinto
benjaminiano è Asja Lacis, donna di cui si invaghì l’autore del testo, e a cui
è intitolata una strada, quella aperta nel cuore di Benjamin. La donna viene
definita a grandi lettere «ingegnere», utilizzando un termine che, come ricorda
Schiavoni, era molto caro ai Costruttivisti, esponenti di un movimento
artistico d’avanguardia russo che, ispirandosi al Futurismo e al Cubismo
(movimenti che possono essere ricollegati al Decostruttivismo sia per il
carattere antiaccademico, che per il concetto di scomposizione), vengono
richiamati in vita dai Decostruttivisti, come afferma Mark Wigley, curatore,
insieme a Philip Johnson, della mostra sul Decostruttivismo organizzata al MoMA
nel 1988.
D. LIBESKIND, Tra metodo, idea e desiderio, in Domus 731, 1991, pp. 17-28
M.
BIRAGHI, A. FARLENGA 2012, p. 283. Questa
espressione è stata pronunciata da Mark Wigley in occasione della presentazione
della mostra Deconstructivist
Architecture, al fine di evidenziare il collegamento con il movimento
Costruttivista che è stato cancellato dal Realismo storico di Stalin, il quale, al pari degli altri dittatori, ha
voluto ripristinare il classicismo per dare di
sé e del proprio operato un’immagine aurea. Come se fossero degli psicanalisti,
gli architetti degli anni Ottanta del Novecento hanno rimosso i numerosissimi
tabù imposti alle discipline artistiche da lunga data.
Libeskind
nei suoi progetti fa riferimento non (o comunque non esclusivamente) alla
geometria euclidea, ma a quella frattale, una geometria che si occupa dello
studio delle forme presenti in natura. In essa vige la casualità, il disordine,
la complessità, tutto ciò che invece viene represso nelle strutture classiche
che sono realizzate all’insegna dello studio, dell’ordine e di una semplicità
strutturale modulare. L’arte, che sin dalle origini si è spesso ispirata alla
natura, di conseguenza riprende le forme studiate dalla geometria frattale,
come dimostrano le incisioni rupestri o i capitelli egizi e, facendo un grande
salto cronologico, anche alcuni progetti, in cui vige il principio
dell’autosomiglianza, realizzati da Michelangelo e dal Palladio. Gli architetti
della contemporaneità, grazie anche all’uso di calcolatori elettronici
sofisticati, si cimentano nella progettazione di edifici complessi che nella
loro inverosimiglianza si ispirano alle forme della natura, basti pensare al
fiore architettonico progettato da Frank O. Gehry, quale è il Guggenheim Museum
a Bilbao. Si veda N.SALA, G. CAPPELLATO 2004.
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Vedi anche nel BTA: USCITE DI ARCHITETTURA LIQUIDA
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